ANTONIE-FRANÇOIS PRÉVOST

MANON LESCAUT

TESTO INTEGRALE IN ITALIANO




Cedetti alle sue insistenze, malgrado il tumulto segreto del cuore che sembrava presagirmi una sciagurata catastrofe.
Uscii di casa con l'intenzione di chiedere a due o tre guardie del corpo che Lescaut mi aveva fatto conoscere, di incaricarsi del sequestro di G... M... Ne trovai uno solo in casa, ma era un uomo intraprendente che appena seppe di cosa si trattava, mi assicurò del buon esito dell'impresa. Mi chiese solamente dieci doppie per ricompensare tre soldati della Guardia, di cui si sarebbe servito mettendosi loro a capo. Lo pregai di non perdere tempo. In meno di un quarto d'ora li radunò. Io lo aspettavo a casa e quando fu di ritorno con i suoi compagni, lo accompagnai io stesso all'angolo di una strada da cui G... M... doveva per forza passare per tornare da Manon. Gli raccomandai di non maltrattarlo, ma di sorvegliarlo strettamente fino alle sette del mattino in modo che potessi essere sicuro che non sarebbe fuggito. Mi disse che si proponeva di portarlo in camera sua, di obbligarlo a spogliarsi e a mettersi nel suo letto; lui intanto avrebbe passato la notte a bere e a giocare coi suoi tre bravi. Restai con loro fino al momento in cui vidi comparire G... M... e allora mi allontanai di qualche passo verso un angolo buio per essere testimone di quella scena fuori del comune. La guardia del corpo lo affrontò pistola in pugno e gli spiegò con garbo che non voleva né la sua vita, né la sua borsa, ma che, se avesse opposto resistenza o se avesse lanciato il minimo grido, gli avrebbe fatto saltare le cervella.
Vedendolo spalleggiato da tre soldati, e intimorito probabilmente dalla pistola carica (sì: ma di stoppa!), G... M... non oppose resistenza. Lo vidi portar via come un agnello.
Tornai subito da Manon e, affinché i domestici non sospettassero di niente, le dissi entrando che non doveva aspettare il signor di G...
M... per cena. Era stato trattenuto fuori da affari imprevisti e mi aveva pregato di venire a presentarle le sue scuse e a cenare con lei, il che era per me un grandissimo favore, trattandosi di una così bella signora. Manon assecondò perfettamente il mio piano. Ci mettemmo a tavola, assumendo un'aria molto seria finché i domestici rimasero a servirci, ma dopo averli congedati passammo una delle serate più piacevoli della nostra vita. Diedi segretamente ordine a Marcel di cercare una carrozza e di fare in modo che si trovasse alla porta l'indomani mattina prima delle sei. Finsi di lasciare Manon verso mezzanotte, ma rientrato silenziosamente in casa con l'aiuto di Marcel, mi accinsi a occupare il letto di G... M... come avevo occupato il suo posto a tavola.
Nel frattempo il nostro cattivo genio lavorava alla nostra rovina.
Eravamo immersi nell'ebbrezza del piacere e avevamo una spada sospesa sul capo. Il filo che la reggeva stava per rompersi. Ma per capire meglio tutte le circostanze della nostra rovina, bisogna spiegarne la causa.
Quando era stato fermato dalla guardia del corpo, G... M... era seguito da un domestico. Atterrito dall'avventura del padrone, quel ragazzo tornò correndo sui suoi passi e la prima cosa che fece fu di avvertire il vecchio G... M... di quanto era successo. Una notizia così spiacevole doveva necessariamente allarmarlo. Si trattava del suo unico figlio ed egli era particolarmente volitivo per la sua età.
Volle sapere prima di tutto dal domestico ciò che suo figlio aveva fatto nel pomeriggio, se aveva avuto a che dire con qualcuno, se si era immischiato in qualche lite altrui, se si era recato in qualche casa sospetta. Questi, che credeva il padrone in estremo pericolo e che pensava di non dover risparmiare nulla per salvarlo, spiattellò tutto quello che sapeva del suo amore per Manon e delle spese sostenute per lei. Raccontò che aveva passato il pomeriggio in casa fin verso le nove, riferì la sua uscita e l'incidente sulla via del ritorno. Quanto bastò per far sospettare al vecchio che la disavventura di suo figlio fosse dovuta a una rivalità amorosa.
Sebbene fossero almeno le dieci e mezzo di sera, non esitò a recarsi subito dal luogotenente di polizia. Lo pregò di dare ordini speciali a tutte le pattuglie di ronda e, chiestane una per farsi accompagnare, corse di persona alla via dove suo figlio era stato fermato; ispezionò tutti i luoghi della città dove sperava di poterlo trovare, si fece infine condurre a casa della sua amante, dove supponeva che potesse essere tornato.
Stavo per andare a letto, quando arrivò. La porta della camera era chiusa e non sentii bussare a quella di strada. Entrò seguito dalle guardie e, dopo aver chiesto inutilmente che cosa ne fosse stato del figlio, gli venne voglia di vedere la sua amante per farsi dare qualche lume. Salì con l'intento di entrare nella stanza da letto, sempre accompagnato dalle due guardie. Noi ci accingevamo ad andare a letto. Aprì la porta. La sua vista ci gelò il sangue nelle vene.
"Mio Dio! E' il vecchio G... M...", dico a Manon, e balzo sulla mia spada. Sfortunatamente è impigliata nel cinturone. Le guardie, vedendo il mio gesto, si avvicinarono per strapparmela. Un uomo in camicia è senza resistenza. Mi levarono ogni mezzo di difesa.
Anche se turbato dallo spettacolo, G... M... non tardò a riconoscermi e ancora più facilmente ravvisò Manon.
"E' forse un'illusione?" ci disse con serietà, "o non vedo qui il cavaliere des Grieux e Manon Lescaut?".
Ero così furente di vergogna e di dolore che non gli risposi.
Per qualche momento parve rimuginare vari pensieri nella mente, poi, come se all'improvviso avessero fatto divampare la sua collera, esclamò rivolgendosi a me:
"Ah, sciagurato! Sono certo che hai ucciso mio figlio".
L'insulto mi punse sul vivo.
"Vecchio scellerato", gli risposi fieramente, "se avessi dovuto uccidere qualcuno della tua famiglia, avrei cominciato da te".
"Tenetelo forte", disse allora alle guardie, "deve dirmi che ne è di mio figlio; se non mi dice all'istante che cosa ne ha fatto, domani lo farò impiccare".
"Mi farai impiccare? Infame. I tuoi pari bisogna mandare alla forca.
Sappi che io sono di sangue più nobile e più puro del tuo. Sì", soggiunsi, "so che cos'è successo a tuo figlio, e, se mi esasperi ancor di più, lo farò strangolare prima di domani, e ti prometto la stessa sorte dopo di lui".
Fu imprudente confessargli che sapevo dove fosse il figlio, ma l'eccesso della collera mi fece commettere quell'errore. Chiamò immediatamente cinque o sei altre guardie che l'aspettavano alla porta e gli ordinò di arrestare tutti i domestici della casa.
"Ah, signor cavaliere!" riprese in tono beffardo, "sapete dov'è mio figlio e lo farete strangolare, dite voi? State tranquillo che non staremo con le mani in mano".
Mi resi subito conto dell'errore che avevo commesso. Si avvicinò a Manon che era seduta in lacrime sul letto e le fece qualche complimento sull'ascendente che aveva sul padre e sul figlio, e sul buon uso che ne sapeva fare. Quel vecchio mostro di incontinenza volle anche prendersi qualche libertà con lei.
"Guardati dal toccarla!" esclamai. "Nulla al mondo potrebbe salvarti dalle mie mani!" Uscì lasciando tre guardie nella camera, alle quali ordinò di farci rivestire alla svelta.
Non so quali fossero in quel momento le sue intenzioni nei nostri confronti. Forse avremmo ottenuto la libertà dicendogli dov'era il figlio. Mentre mi vestivo, meditavo se non fosse il miglior partito da prendere, ma, se questa era la sua disposizione d'animo quando era uscito dalla camera, quando vi tornò era ben cambiata. Era andato a interrogare i domestici di Manon che le guardie avevano arrestato. Non poté sapere niente da quelli che le aveva dato il figlio, ma quando seppe che Marcel era al nostro servizio già da prima, decise di farlo parlare spaventandolo con le minacce.
Marcel era un ragazzo fedele, ma semplice e rozzo. Il ricordo di quello che aveva fatto all'Hôpital per liberare Manon, unito al terrore che gli incuteva G... M..., fece tanta impressione sul suo animo sempliciotto, che immaginò che lo avrebbero condotto alla forca o sulla ruota. Promise di svelare tutto ciò di cui era venuto a conoscenza, se gli risparmiavano la vita. Con tutto ciò G... M... si convinse che nella nostra storia ci fosse qualcosa di più serio e di più criminale di quanto non avesse avuto motivo di sospettare fino a quel momento. Per la sua confessione, offrì a Marcel non soltanto la vita, ma anche delle ricompense.
Quello sventurato gli raccontò una parte del nostro piano, del quale non ci eravamo fatti scrupolo di parlare in sua presenza, dato che doveva entrarci per qualcosa. E' vero che ignorava completamente i cambiamenti che vi avevamo apportato a Parigi, ma, partendo da Chaillot, era stato messo al corrente dei nostri disegni e della parte che lui avrebbe dovuto sostenervi.
Dichiarò dunque che la nostra intenzione era di imbrogliare suo figlio, e che Manon doveva ricevere o aveva già ricevuto diecimila franchi, i quali, secondo il nostro progetto, non sarebbero mai ritornati nel patrimonio della famiglia di G... M...
Dopo tale scoperta, il vecchio furente risalì bruscamente in camera nostra. Passò senza dir parola nel salottino dove non gli fu difficile trovare il denaro e i gioielli. Tornò verso di noi col viso in fiamme e, additandoci ciò che gli piacque chiamare la nostra refurtiva, ci subissò di rimproveri oltraggiosi. Mise sotto gli occhi di Manon la collana di perle e il braccialetto:
"Li riconoscete?" disse con un sorriso ironico. "Non era la prima volta che li avevate visti. In fede mia, sono gli stessi. Erano di vostro gradimento, vero? Ne sono convinto. Poveri ragazzi!" soggiunse, "sono davvero carini tutti e due, ma sono un po' furfanti".
Il mio cuore scoppiava di rabbia a quelle parole insultanti. Per essere libero un momento avrei dato... mio Dio! Che cosa non avrei dato! Alla fine mi feci violenza per dirgli con una moderazione che era l'estrema raffinatezza della collera:
"Finiamola, signore, con questi motteggi insolenti; di che si tratta?
Che cosa intendete fare di noi?" "Si tratta, signor cavaliere, di andare diritti al Châtelet. E domani farà giorno: vedremo più chiaro nei nostri affari, e spero che alla fine mi farete la grazia di dirmi dov'è mio figlio".Non ebbi bisogno di riflettere a lungo per capire che essere rinchiusi al Châtelet era una cosa estremamente grave. Ne previdi tremando tutti i pericoli. Malgrado tutta la mia fierezza, riconobbi che bisognava cedere sotto il peso del destino e blandire il mio nemico più crudele per ottenerne qualcosa con la sottomissione. Lo pregai cortesemente di ascoltarmi un momento.
"Mi giudico da solo, signore, confesso che la giovinezza mi ha fatto commettere gravi errori e voi ne siete stato troppo offeso perché non dobbiate lamentarvi. Ma se conoscete la forza dell'amore, se potete giudicare ciò che soffre un infelice giovane al quale si strappa tutto quello che ama, forse vi sembrerà perdonabile se ha cercato il piacere di una piccola vendetta o per lo meno mi crederete abbastanza punito dall'affronto che ora ho ricevuto. Non c'è bisogno di prigione, né di tortura, per costringermi a rivelarvi dov'è il vostro signor figlio.
E' al sicuro. Non avevo intenzione di fargli del male, né di offendere voi; sono pronto a indicarvi il luogo dove passa tranquillamente la notte, se mi fate la grazia di concedermi la libertà".
Quella vecchia tigre, lungi dall'essere commosso dalla mia preghiera, mi volse le spalle ridendo. Si lasciò soltanto sfuggire qualche parola per dirmi che conosceva il nostro piano da cima a fondo. Per quel che riguardava suo figlio, soggiunse brutalmente che si sarebbe ritrovato presto, dal momento che non l'avevo assassinato.
"Conducetelo al Petit Châtelet", disse alle guardie, "e state bene attenti che il cavaliere non vi scappi. E' un furbo che è già evaso da Saint-Lazare".
Uscì e mi lasciò in uno stato che vi lascio immaginare.
"Oh Cielo!" esclamai, "accetterò con sottomissione tutti i castighi che vengono da te, ma che uno sciagurato briccone abbia il potere di trattarmi con tale tirannia mi riduce alla più nera disperazione".
Le guardie ci pregarono di non farli aspettare più a lungo. Avevano una carrozza pronta alla porta. Tesi la mano a Manon per scendere.
"Venite, regina del mio cuore", le dissi, "venite e piegatevi alla crudeltà del vostro destino. Piacerà forse al Cielo renderci un giorno più felici".
Ce ne andammo nella stessa carrozza. Manon si rifugiò tra le mie braccia; da quando era arrivato G... M... non l'avevo sentita pronunciare parola, ma trovandosi sola con me, mi disse mille cose tenere rimproverandosi di essere la causa della mia sventura. Le assicurai che non mi sarei mai lamentato della mia sorte, finché lei mi avesse amato.
"Non sono io da compiangere", seguitai, "qualche mese di prigione non mi spaventa e preferirò sempre il Châtelet a Saint-Lazare. Ma per te si preoccupa il mio cuore: quale destino per una creatura così incantevole! Cielo! con quale rigore tratti la più perfetta delle tue opere! Perché nonsiamo nati entrambi con le qualità che si addicono alla nostra miseria? Abbiamo avuto in dono intelligenza, gusto, sensibilità. Ahimè! Che triste uso ne facciamo? Tante anime basse invece, ben meritevoli della nostra sorte, godono di tutti i favori della fortuna!".
Queste considerazioni mi trafiggevano di dolore, ma non erano niente in confronto a quelle che suscitava il pensiero dell'avvenire. Mi struggevo di paura per Manon. Era già stata all'Hôpital e, quand'anche ne fosse uscita dalla porta buona, sapevo che le ricadute in materia potevano avere conseguenze estremamente pericolose. Avrei voluto esprimerle le mie paure, ma temevo di causargliene troppe. Tremavo per lei senza osare avvertirla del pericolo e l'abbracciavo sospirando per assicurarla almeno del mio amore, che era quasi l'unico sentimento che osassi esprimere.
"Manon", le dissi, "parlate sinceramente. Mi amerete sempre?".
Mi rispose che i miei dubbi la rendevano davvero infelice.
"Ebbene, non ne dubito, e voglio sfidare tutti i vostri nemici con questa certezza. Ricorrerò alla mia famiglia per farmi uscire dal Châtelet e tutto il mio sangue sarà inutile se appena libero non vi tirerò fuori di lì".
Arrivammo alla prigione dove ci rinchiusero in luoghi separati. Questo colpo fu meno duro, perché l'avevo previsto. Raccomandai Manon al guardiano, dicendogli che ero una persona di un certo riguardo e promettendogli una cospicua ricompensa. Prima di lasciarla, baciai la mia povera amante. La scongiurai di non affliggersi troppo e di non temere niente finché ero vivo. Non mi mancava il denaro e gliene diedi una parte; con quello che mi restava pagai al guardiano anticipatamente un mese di lauta pensione per lei e per me. Il mio denaro fece un effetto eccellente: mi misero in una stanza decentemente ammobiliata e mi assicurarono che Manon ne aveva una simile.
Cercai subito il modo per affrettare la mia libertà. Era chiaro che nel mio caso non c'era niente di realmente criminoso e, anche supponendo che il piano del nostro furto fosse provato dalla deposizione di Marcel, sapevo benissimo che non si possono punire le semplici intenzioni. Decisi di scrivere senza indugio a mio padre, pregandolo di venire a Parigi di persona. Come ho già detto, mi vergognavo molto meno di essere al Châtelet che a Saint-Lazare.
D'altra parte, benché conservassi tutto il rispetto per l'autorità paterna, l'età e l'esperienza mi avevano reso molto meno timido. Così scrissi e non fecero difficoltà a lasciar uscire la mia lettera. Mi sarei potuto risparmiare quella fatica se avessi saputo che mio padre doveva arrivare a Parigi l'indomani.
Egli aveva ricevuto la lettera che gli avevo scritto otto giorni prima; se ne era rallegrato moltissimo, ma nonostante le speranze di conversione che avevo fatto nascere in lui, aveva creduto di non doversi limitare alle mie promesse. Aveva perciò deciso di venire a constatare con i suoi occhi il mio cambiamento e di regolarsi in base alla sincerità del mio pentimento. Arrivò il giorno dopo il mio arresto. Fece prima di tutto una visita a Tiberge al quale lo avevo pregato di indirizzare la sua risposta. Da lui non poté sapere né dove abitassi, né che cosa facessi. Seppe soltanto le mie avventure più salienti da quando ero fuggito da Saint-Lazare. Tiberge gli parlò con molto favore delle buone disposizioni che avevo dimostrato quando c'eravamo incontrati per l'ultima volta. Aggiunse che mi credeva completamente liberato da Manon, ma che lo stupiva non aver avuto mie notizie da otto giorni. Mio padre non era un ingenuo. Capì che nel silenzio di cui si lamentava c'era qualcosa che sfuggiva alla penetrazione di Tiberge e tanto fece per ritrovare le mie tracce, che due giorni dopo il suo arrivo venne a sapere che ero al Châtelet.
Prima della sua visita che ero ben lungi dall'aspettarmi, ricevetti quella del luogotenente di polizia o, per chiamare le cose col loro nome, subii un interrogatorio. Mi fece qualche rimprovero, ma senza asprezza, né scortesia. Con dolcezza mi disse che deplorava la mia cattiva condotta; non ero stato molto avveduto nel farmi un nemico come il signor di G... M...; in verità saltava agli occhi che nel mio caso c'era stata più imprudenza e leggerezza che malizia, nondimeno era la seconda volta che comparivo davanti al suo tribunale, mentre aveva sperato che due o tre mesi di lezione a Saint-Lazare mi avrebbero fatto rinsavire. Lieto di avere a che fare con un giudice ragionevole, gli parlai in modo così rispettoso e moderato che sembrò soddisfattissimo delle mie risposte. Mi disse che non dovevo lasciarmi troppo abbattere dal dolore e che era pronto ad aiutarmi, in nome della mia nascita e della mia giovinezza. Mi arrischiai a raccomandargli Manon e a fargli l'elogio della sua dolcezza, della sua indole. Mi rispose ridendo che non l'aveva ancora vista, ma che veniva descritta come una persona pericolosa. Questa parola eccitò talmente la mia tenerezza che gli dissi mille cose appassionate in difesa della mia povera amante e non potei fare a meno di versare qualche lacrima.
Ordinò che mi riconducessero nella mia stanza.
"Amore, amore!" esclamò quel serio magistrato vedendomi uscire, "non ti riconcilierai dunque mai con la saggezza?".
Stavo rimuginando tristi pensieri e riflettendo sulla conversazione che avevo avuto con il luogotenente di polizia, quando sentii aprire la porta della mia camera: era mio padre. Sebbene dovessi essere in parte preparato alla sua vista, dato che me l'aspettavo qualche giorno dopo, pure ne fui talmente scosso che se la terra mi si fosse aperta sotto i piedi, sarei sprofondato. Lo andai ad abbracciare con tutti i segni di una grande confusione. Si sedette senza che né lui, né io, avessimo aperto bocca.
Poiché rimanevo in piedi con gli occhi bassi e a capo scoperto:
"Sedetevi, signore", mi disse gravemente, "sedetevi. Grazie allo scandalo del vostro libertinaggio e delle vostre bricconerie, ho scoperto la vostra dimora. E' il vantaggio di un merito come il vostro quello di non poter rimanere nascosto. Vi siete avviato verso la fama per una via infallibile. Spero che la Grève ne sia ben presto la meta; avrete così la gloria di essere esposto all'ammirazione di tutti".
Non risposi. Ed egli proseguì: "E' ben sventurato quel padre che, dopo aver amato teneramente un figlio e non aver tralasciato nulla per farne un galantuomo, si ritrova alla fine con un furfante che lo disonora! Ci si consola di un rovescio della fortuna: il tempo lo cancella e il dolore si attenua. Ma dov'è il rimedio contro un male che cresce ogni giorno di più, come i disordini di un figlio degenere che ha perso ogni senso dell'onore! Tu non dici niente, disgraziato!" soggiunse. "Guardate quella finta umiltà, quell'aria di dolcezza ipocrita: chi non lo prenderebbe per l'uomo più onesto della sua stirpe?" Anche se costretto ad ammettere che meritavo una parte di quegli aspri rimbrotti, mi sembrarono tuttavia eccessivi. Pensai che mi fosse lecito spiegare sinceramente i miei pensieri. "Vi assicuro, signore, che l'umiltà con cui sto in vostra presenza non è affatto simulata; è il comportamento naturale di un figlio bennato che rispetta infinitamente suo padre, e soprattutto un padre in collera. Non pretendo di passare per l'uomo più morigerato della nostra stirpe; so di essere degno dei vostri rimproveri; ma vi scongiuro di mitigarli con un po' più di bontà e di non trattarmi come il più infame degli uomini. Non merito titoli così duri. E' stato l'amore, voi lo sapete, la causa di tutti i miei errori. Fatale passione! Ahimè! non ne conoscete voi la forza e può essere che il vostro sangue, che è la sorgente del mio, non abbia mai provato gli stessi ardori? L'amore mi ha reso troppo tenero, troppo appassionato, troppo fedele, e forse troppo condiscendente con i desideri diun'amante così incantevole: ecco i miei delitti. Ne vedete forse uno che vi disonori? Vi prego, mio caro padre", soggiunsi teneramente, "un po' di pietà per un figlio che è sempre stato pieno di rispetto e d'affetto per voi, che non ha rinunciato, come voi pensate, all'onore e al dovere, e che è da compiangere mille volte più di quanto non possiate immaginare".
Piansi nel pronunciare queste parole.
Il cuore di un padre è il capolavoro della natura; essa vi regna, per così dire, con compiacenza, regolandone ogni meccanismo. Mio padre, che era anche un uomo intelligente e sensibile, fu commosso dal modo in cui avevo presentato le mie scuse e non fu padrone di nascondermi le sue mutate disposizioni d'animo.
"Vieni, mio povero cavaliere", mi disse, "vieni ad abbracciarmi. Mi fai pietà".
Lo abbracciai. Da come mi strinse mi resi conto di quello che avveniva nel suo cuore.
"Ma che faremo", riprese, "per tirarti fuori di qui? Spiegami, senza nascondermi niente, tutto quello che ti riguarda".
Siccome, dopotutto, nell'insieme della mia condotta non c'era niente che mi potesse disonorare senza rimedio, per lo meno confrontandola a quella dei giovani di una certa classe sociale, e mantenere un'amante nel nostro secolo non è ritenuta un'infamia, come non lo è quel po' di destrezza con cui ci si attira la fortuna al gioco, raccontai con tutta sincerità a mio padre i minimi particolari della vita che avevo condotto. A ogni colpa che confessavo avevo cura di aggiungere esempi celebri per minimizzare la vergogna.
"Vivo con un'amante", gli dicevo, "senza essere vincolato dai legami del matrimonio; il duca di... ne mantiene due agli occhi di tutta Parigi, il signor di F... ne ha una da dieci anni che ama con una fedeltà che non ha mai avuto per sua moglie. I due terzi delle persone in vista nel nostro paese si fanno un vanto di averne una. Qualche volta ho barato al gioco: il marchese di... e il conte di... non hanno altre fonti di guadagno; il principe di... e il duca di... sono i capi di una banda di cavalieri d'industria".
Quanto alle mie mire sulla borsa dei due G... M..., avrei potuto dimostrare altrettanto facilmente che non mi mancavano i modelli, ma mi restava ancora troppo senso dell'onore per non condannare me stesso insieme a tutti quelli che mi sarei potuto citare ad esempio; perciò pregai mio padre di perdonare questa debolezza alle due violente passioni che mi avevano sconvolto: la vendetta e l'amore. Mi domandò se gli potevo suggerire qualche mezzo rapido per ottenere la mia libertà, soprattutto in modo da poter evitare lo scandalo. Gli parlai della benevolenza che il luogotenente di polizia mi aveva dimostrato.
"Se troverete qualche difficoltà", gli dissi, "non potranno venire che da parte dei G... M...; perciò credo che sarebbe opportuno cercar di vederli".
Me lo promise. Non osai pregarlo di intercedere anche per Manon. Non fu mancanza di coraggio, ma il timore di suscitare il suo sdegno con la mia proposta, e di suggerirgli qualche idea funesta per Manon e per me. Mi sto ancora chiedendo se quel timore non sia stato la causa delle mie più grandi disgrazie, impedendomi di saggiare le intenzioni di mio padre e di fare ogni sforzo per ispirargli benevolenza nei confronti della mia infelice amica. Forse avrei suscitato ancora una volta la sua pietà. Lo avrei messo in guardia contro le impressioni che facilmente avrebbero prodotto su di lui le parole del vecchio G...
M... Come faccio a saperlo? Forse il mio avverso destino avrebbe reso vani tutti i miei sforzi, ma almeno della mia sventura non avrei oggi da accusare che quella e la crudeltà dei miei nemici.
Quando mi ebbe lasciato, mio padre andò a trovare il signor di G...
M... Lo trovò con il figlio, al quale la guardia del corpo aveva restituito la libertà promessa. Non ho mai saputo i particolari della loro conversazione, ma dai suoi tremendi effetti mi è stato fin troppo facile intuirli. Andarono insieme, intendo dire i due padri, dal luogotenente di polizia, al quale chiesero due grazie: la prima, di farmi uscire immediatamente dal Châtelet; l'altra, di tenere Manon in carcere per il resto dei suoi giorni, oppure di mandarla in America.
Proprio in quel tempo si cominciava a imbarcare una quantità di gentaglia per deportarla nella regione del Mississippi. Il luogotenente generale promise di far partire Manon col primo bastimento. Il signor di G... M... e mio padre vennero subito a portarmi insieme la notizia della mia libertà. Il signor di G... M... ebbe qualche espressione diplomatica sui fatti trascorsi e, dopo essersi rallegrato con me per la fortuna di avere un padre simile, mi esortò a profittare per l'avvenire dei suoi insegnamenti e dei suoi esempi. Mio padre mi ingiunse di presentargli le sue scuse per la pretesa offesa fatta alla sua famiglia e di ringraziarlo per essersi adoperato insieme a lui per la mia libertà. Uscimmo insieme senza far menzione della mia amante. In loro presenza non osai nemmeno parlare di lei ai carcerieri.
Ahimè! Le mie tristi raccomandazioni sarebbero state del tutto inutili! L'ordine crudele era arrivato insieme a quello della mia liberazione. Un'ora dopo la sventurata ragazza fu trasferita all'Hôpital e messa insieme ad altre sciagurate condannate a subire la stessa sorte.
Mio padre mi aveva costretto a seguirlo nella casa dove aveva preso alloggio ed erano quasi le sei di sera quando trovai il momento buono per sottrarmi ai suoi occhi e tornare al Châtelet. Avevo soltanto l'intenzione di far ottenere a Manon qualche ristoro e di raccomandarla al custode, dato che non speravo mi fosse concesso di vederla. Fino a quel momento non avevo neanche avuto il tempo di riflettere sul modo di liberarla.
Chiesi di parlare al guardiano. Era stato soddisfatto della mia generosità e della mia gentilezza e i suoi sentimenti per me erano pieni di benevolenza. Mi parlò perciò della sorte di Manon come di una disgrazia di cui si rammaricava molto, per il dolore che poteva recarmi. Io non capii che cosa volesse dire e per qualche momento parlammo senza intenderci. Alla fine, accorgendosi che mi occorreva una spiegazione, mi riferì quello che vi ho già detto con orrore, lo stesso orrore che provo a ripetervela.
Non credo che nemmeno un'apoplessia violenta possa produrre un effetto più subitaneo e terribile. Caddi con una palpitazione di cuore così dolorosa che, nel momento in cui persi i sensi, mi credetti liberato dalla vita per sempre. Quando mi riebbi, mi era rimasto ancora qualcosa di quell'impressione. Volsi i miei sguardi su tutta la stanza e su di me, per convincermi che sventuratamente ero ancora un uomo vivo. Certo è che se mi fossi abbandonato all'istinto naturale che spinge l'uomo a liberarsi dal dolore, niente mi sarebbe sembrato più dolce della morte in quel momento di disperazione e di costernazione.
La stessa religione non poteva farmi prospettare niente di più insopportabile dopo la vita dei crudeli tormenti che mi straziavano.
Ciò nonostante, per un miracolo proprio dell'amore, recuperai ben presto quanto bastava di forze per ringraziare il Cielo di avermi fatto ritrovare i sensi e la ragione. La mia morte non sarebbe stata utile che a me; Manon aveva bisogno della mia vita per essere liberata, soccorsa, vendicata; giurai che a questa causa avrei dato tutto me stesso.
Il guardiano mi prestò tutta l'assistenza che mi sarei potuto aspettare dal mio migliore amico. Accolsi le sue premure con viva riconoscenza.
"Ahimè!" gli dissi, "i miei affanni dunque vi commuovono? Tutti mi abbandonano. Mio padre stesso è, non c'è dubbio, uno dei miei più crudeli persecutori, nessuno ha pietà di me. Voi solo, in questo ricettacolo di crudeltà e di barbarie, manifestate compassione per il più infelice di tutti gli uomini".
Mi consigliò di non farmi vedere per strada prima di essermi un po' ripreso dal mio turbamento.
"Non importa, non importa!" gli dissi uscendo. "Vi rivedrò prima di quanto pensiate. Preparatemi la più buia delle vostre celle; farò di tutto per meritarla".
In effetti le mie prime intenzioni arrivavano nientemeno che a disfarmi dei due G... M... e del luogotenente di polizia, per poi irrompere a mano armata all'Hôpital con tutti quelli che avrei potuto reclutare a sostegno della mia impresa. Perfino mio padre sarebbe stato a stento rispettato in una vendetta che mi sembrava così giusta; dato che il guardiano non m'aveva nascosto che lui e G... M... erano gli autori della mia rovina.
Ma quando ebbi fatto pochi passi per strada e l'aria mi ebbe un po' rinfrescato il sangue e gli umori, il mio furore lasciò il posto a sentimenti più ragionevoli. La morte dei nostri nemici sarebbe stata scarsamente utile a Manon, e sicuramente avrei rischiato di vedermi togliere ogni mezzo per aiutarla. E per di più avrei fatto ricorso a un vile assassinio! Che altra via si apriva alla mia vendetta?
Raccolsi tutte le forze e tutto il coraggio per dedicarmi in primo luogo alla liberazione di Manon; tutto il resto lo avrei fatto dopo che l'impresa fosse andata in porto. Mi restava poco denaro, eppure era la condizione necessaria per poter cominciare. Solo da tre persone avrei potuto aspettarne: il signor di T..., mio padre e Tiberge. Non c'erano molte probabilità di ottenere qualcosa dagli ultimi due, e mi vergognavo di stancare il primo con le mie richieste importune. Ma, in circostanze così disperate, non si guarda per il sottile.
Andai immediatamente al seminario di Saint-Sulpice, senza preoccuparmi d'essere riconosciuto. Feci chiamare Tiberge. Le sue prime parole mi fecero capire che non sapeva ancora niente delle mie ultime disavventure. Il che mi fece abbandonare la mia prima idea di intenerirlo con la compassione. Gli parlai genericamente del piacere che avevo provato nel rivedere mio padre e poi lo pregai di prestarmi un po' di denaro, col pretesto di pagare prima della mia partenza da Parigi alcuni debiti dei quali preferivo non si sapesse niente. Mi offrì subito la sua borsa e io presi cinquecento franchi dei seicento che ci trovai. Gli offrii una cambiale, ma era troppo generoso per accettare.
Da lì andai a casa del signor di T... e con lui non ebbi ritegno. Gli raccontai tutte le mie disgrazie e i miei affanni. Egli li conosceva già nei minimi particolari, essendosi preso la briga di seguire l'avventura del giovane G... M... Tuttavia mi ascoltò e mi compianse molto. Quando gli chiesi consiglio sul modo di liberare Manon, mi rispose tristemente che non intravedeva nessuna possibilità e che, a meno di un aiuto straordinario del Cielo, bisognava rinunciare alla speranza. Era passato apposta dall'Hôpital dopo che vi era stata rinchiusa e neppure lui aveva ottenuto il permesso di vederla. Gli ordini del luogotenente erano estremamente severi e, per colmo di sventura, il disgraziato gruppo al quale doveva unirsi era destinato a partire di lì a due giorni.
Alle sue parole fu tale la mia costernazione che avrebbe potuto parlare per un'ora senza che io pensassi a interromperlo. Continuò a dirmi che non era venuto al Châtelet perché gli fosse più facile aiutarmi facendo credere che non aveva nessun rapporto con me. Dal momento che ne ero uscito si era molto rammaricato di non sapere dove mi fossi rifugiato, e aveva desiderato vedermi quanto prima per darmi il solo consiglio che forse poteva farmi sperare un cambiamento nella sorte di Manon; ma era un consiglio pericoloso e mi pregava di non rivelare mai che ne era stato l'ispiratore.
Si trattava di scegliere alcuni bravi che avessero il coraggio di attaccare le guardie di Manon, quando fossero uscite da Parigi con lei. Non aspettò che gli parlassi delle mie ristrettezze:
"Ecco cento pistole", mi disse porgendomi una borsa, "che potranno servirvi. Me le renderete quando la fortuna avrà riassestato i vostri affari".
Aggiunse che se la cautela che doveva alla sua reputazione gli avesse permesso di partecipare personalmente alla liberazione della mia amante, mi avrebbe offerto il suo braccio e la sua spada.
Quell'immensa generosità mi commosse fino alle lacrime. Gli manifestai la mia riconoscenza con tutto il calore che la mia afflizione mi consentiva. Gli domandai se non c'era niente da sperare intercedendo presso il luogotenente di polizia. Mi disse che ci aveva pensato anche lui, ma che, a suo parere, c'erano poche probabilità, perché una grazia di quel genere non poteva essere chiesta senza motivo, e non vedeva bene quale motivo si potesse invocare per ottenere l'intercessione di una persona importante e autorevole; da quel lato c'era solo l'esile speranza di far cambiar parere al signor di G...
M... e a mio padre, convincendoli a pregare essi stessi il luogotenente di polizia di revocare la sentenza. Mi offrì di fare ogni sforzo per guadagnare il giovane G... M... alla mia causa, sebbene gli sembrasse più freddo con lui, per qualche sospetto che gli era nato sul suo conto a proposito di quella nostra storia; mi esortò a non tralasciare niente da parte mia per smuovere l'animo di mio padre.
Non era per me impresa di poco conto; non soltanto, intendo, per la naturale difficoltà che avrei trovato a convincerlo, ma per un'altra ragione che mi faceva perfino temere di avvicinarlo: me l'ero svignata da casa sua contro i suoi ordini, ed ero fermamente deciso a non tornarci da quando avevo saputo della triste sorte di Manon. A giusto titolo avevo paura che mi trattenesse con la forza e mi riportasse in provincia. Il mio fratello maggiore era già ricorso a questo metodo.
E' vero che ero più adulto, ma l'età è una debole ragione contro la forza. Trovai ad ogni modo una via che mi salvaguardava dal pericolo: farlo chiamare in un luogo pubblico e annunciarmi a lui sotto un altro nome.
Mi decisi subito in questo senso. Il signor di T... andò da G... M... e io al Luxembourg, da dove mandai ad avvertire mio padre che un gentiluomo a lui devoto lo stava aspettando. Temevo che facesse qualche difficoltà a venire, perché cominciava a essere buio. Invece comparve poco dopo, seguito dal suo domestico. Lo pregai di incamminarsi per un vialetto, dove potessimo essere soli. Facemmo almeno cento passi senza parlare. Doveva ben immaginarsi che tutti quei preamboli nascondevano un progetto importante. Aspettava la mia arringa e io la stavo meditando. Alla fine mi decisi a parlare:
"Signore", gli dissi tremando, "voi siete un buon padre. Mi avete colmato di favori e mi avete perdonato un numero infinito di colpe. Il Cielo mi è testimone che ho per voi tutti i sentimenti del figlio più tenero e più rispettoso. Ma mi sembra che... la vostra severità...".
"Ebbene, la mia severità..." interruppe mio padre che certo trovava il mio discorso troppo lento per la sua impazienza.
"Ah, signore!" ripresi, "mi pare che la vostra severità sia stata eccessiva nel trattamento che avete inflitto all'infelice Manon. Voi vi siete fidato del signor di G... M... Il suo odio ve l'ha dipinta sotto le più fosche tinte. Vi siete fatto di lei un'idea orribile e invece è la più dolce e la più amabile creatura che sia mai esistita.
Fosse piaciuto al Cielo ispirarvi il desiderio di vederla per un istante! Sono sicuro che è incantevole, come sono sicuro che vi sarebbe parsa tale. Avreste preso le sue difese. Avreste avuto orrore dei biechi inganni di G... M... Avreste avuto compassione di lei e di me. Ahimè! Ne sono sicuro. Il vostro cuore non è insensibile, vi sareste lasciato intenerire".
Mi interruppe di nuovo, vedendo che parlavo con una tale foga che non mi sarei fermato tanto presto. Voleva sapere a che cosa mirassi con le mie parole così appassionate.
"Manon parte per sempre per l'America".
"No, no", mi disse in tono severo, "preferisco vederti senza vita piuttosto che senza giudizio e senza onore".
"Basta così", esclamai afferrandolo per un braccio, "toglietemela questa vita odiosa e insopportabile, perché nella disperazione in cui mi gettate, la morte sarà un favore per me. E' un dono degno della mano di un padre".
"Ti darei soltanto quello che meriti. Conosco molti padri che non avrebbero aspettato tanto per essere loro stessi i tuoi carnefici; ma la mia eccessiva bontà ti ha rovinato".
Mi buttai alle sue ginocchia, abbracciandole:
"Ah, se ve ne resta ancora, non siate insensibile alle mie lacrime.
Pensate che sono vostro figlio... Ahimè! Ricordatevi di mia madre.
L'amavate tanto! Avreste sopportato che qualcuno ve la strappasse dalle braccia? L'avreste difesa fino alla morte. Gli altri non hanno un cuore come voi? Come si può essere crudeli quando per una volta si è provato che cos'è la tenerezza e il dolore?".
"Non parlarmi più di tua madre", riprese con voce irritata, "questo ricordo riaccende la mia indignazione. I tuoi disordini la farebbero morire di dolore, se avesse vissuto abbastanza per vederli. Finiamola con questo colloquio", soggiunse, "mi infastidisce e non mi farà cambiar parere. Ti ordino di seguirmi".
Il tono secco e duro col quale mi intimò quest'ordine, mi fece capire fin troppo che il suo cuore era inflessibile. Mi allontanai di qualche passo, nel timore che gli venisse voglia di trattenermi con le sue proprie mani.
"Non accrescete la mia disperazione", gli dissi, "obbligandomi a disubbidirvi. Seguirvi è impossibile e non lo è di meno vivere dopo la durezza con cui mi trattate. Perciò addio in eterno. La mia morte, di cui avrete presto notizia", soggiunsi tristemente, "vi farà forse ritrovare per me sentimenti di padre".
E mentre mi voltavo per lasciarlo:
"Rifiuti dunque di seguirmi?" esclamò incollerito. "Va, corri alla tua perdita. Addio, figlio ingrato e ribelle".
"Addio", gli dissi nel mio furore, "addio, padre crudele e snaturato".
Uscii subito dal Luxembourg. Camminai per le strade come un pazzo fino alla casa del signor di T... E mentre camminavo alzavo gli occhi e le mani per invocare tutte le potenze celesti.
"Cielo!" dicevo, "saresti tu spietato come gli uomini? Solo da te posso aspettarmi un aiuto".
Il signor di T... non era ancora rincasato, ma lo aspettai solo pochi minuti. Le sue trattative non erano andate meglio delle mie. Me lo disse con aria abbattuta.
Il giovane G... M... anche se meno irritato di suo padre contro Manon e contro di me, non aveva voluto impegnarsi a intervenire in nostro favore. Rifiutava perché anche lui aveva paura di quel vecchio vendicativo, che si era già molto sdegnato con lui, rimproverandogli l'intenzione di avere rapporti con Manon.
Non mi restava più che il ricorso alla violenza, secondo i piani del signor di T... Tutte le mie speranze si ridussero a questo.
"Speranze molto incerte", gli dissi, "ma la più solida e la più consolante per me è di morire almeno nell'impresa".
Lo lasciai, pregandolo di sostenermi con i suoi voti, e non pensai ad altro che a procurarmi dei compagni ai quali potessi trasmettere una scintilla del mio coraggio e della mia risolutezza.
Il primo che mi venne in mente fu la stessa guardia del corpo di cui mi ero servito per sequestrare G... M... Avevo pure in mente di andare a passare la notte nella sua stanza, avendo avuto quel pomeriggio ben altri pensieri che quello di cercarmi un alloggio. Lo trovai solo e fu lieto di vedermi fuori dal Châtelet. Mi offrì affettuosamente i suoi servigi; gli spiegai che cosa poteva fare per me. Non gli mancava il buon senso per non rendersi conto di tutte le difficoltà, ma fu abbastanza generoso per tentare di sormontarle. Spendemmo una parte della notte a discutere del mio piano. Mi parlò dei tre soldati della guardia di cui si era servito l'ultima volta, come di tre coraggiosi pronti a ogni rischio; il signor di T... mi aveva informato del numero esatto delle guardie che dovevano scortare Manon: erano soltanto sei.
Cinque uomini arditi e risoluti dovevano bastare per spaventare quei miserabili, gente incapace di battersi con onore quando possono evitare il pericolo con un atto di viltà. Visto che non ero a corto di denaro, la guardia del corpo mi consigliò di non risparmiare nulla per il successo del nostro attacco.
"Ci occorrono dei cavalli", mi disse, "pistole, e un moschetto per ognuno di noi. Domani mi incaricherò io di questi preparativi. Ci vorranno anche tre abiti civili per i nostri soldati che non oserebbero comparire in un affare di questa natura con l'uniforme del reggimento".
Gli consegnai le cento pistole che avevo avuto dal signor di T... e l'indomani furono spese fino all'ultimo centesimo. I tre soldati passarono in rivista davanti a me. Li incoraggiai con grandi promesse e, per togliere loro diffidenza, regalai a ognuno di loro dieci doppie.
Venuto il giorno di passare all'azione ne mandai uno di buon mattino all'Hôpital per controllare con i propri occhi in che momento le guardie sarebbero partite con la loro preda. Sebbene avessi preso quella precauzione per un eccesso di inquietudine e di previdenza, si diede il caso che si rivelasse assolutamente necessaria. Io avevo fatto affidamento su alcune false informazioni che mi avevano dato sul loro itinerario e, persuaso che quello sciagurato convoglio dovesse essere imbarcato alla Rochelle, avrei aspettato invano sulla via di Orléans. Invece, dal rapporto del soldato della guardia seppi che prendeva la strada della Normandia, e che doveva partire per l'America da Le Havre-de-Grâce.
Ci recammo immediatamente alla porta Saint-Honoré, con l'avvertenza di camminare per vie diverse. Ci riunimmo presso le ultime case del sobborgo; i nostri cavalli erano freschi. Non tardammo a scoprire le sei guardie e le due miserande carrette che vedeste a Pacy, circa due anni fa.
Per poco quello spettacolo non mi tolse i sensi e le forze.
"O sorte", esclamai, "o sorte crudele, concedimi almeno qui la morte o la vittoria!".
Tenemmo consiglio un momento sul modo in cui avremmo attaccato. Le guardie erano a non più di quattrocento passi davanti a noi e potevamo tagliar loro la strada passando attraverso un campicello, intorno al quale girava la via maestra. La guardia del corpo fu del parere di adottare quella soluzione per prenderli di sorpresa piombando all'improvviso su di loro. Io approvai la sua idea e fui il primo a spronare il cavallo, ma la sorte aveva respinto inesorabilmente le mie preghiere.
Le guardie, vedendo cinque cavalieri correre verso di loro, non ebbero nessun dubbio che si trattasse di un attacco. Si misero in posizione di difesa, preparando le baionette e i fucili con aria molto risoluta.
Quella vista che animò ancor di più la guardia del corpo e me stesso, tolse invece di colpo ogni coraggio ai nostri tre vili compagni. Si fermarono come per intesa e, dopo essersi detti fra loro qualche parola che non sentii, voltarono i cavalli e a briglia sciolta ripresero il cammino di Parigi.
"Dio!" mi disse la guardia del corpo che sembrava sconvolta come me da quella infame diserzione, "che faremo adesso? Siamo rimasti in due".
Io avevo perso la voce per la rabbia e lo stupore. Mi fermai, incerto se la mia prima vendetta non dovesse rivolgersi all'inseguimento e al castigo di quei vili che mi abbandonavano. Li guardavo fuggire, poi lanciavo lo sguardo dalla parte opposta sulle guardie; se fosse stato possibile dividermi in due, mi sarei scagliato nello stesso momento sui due oggetti del mio furore. Li divoravo insieme. La guardia del corpo che dal movimento smarrito dei miei occhi, intuiva la mia incertezza, mi pregò di dar ascolto al suo consiglio.
"In due soltanto", mi disse, "sarebbe una follia attaccare sei uomini armati come noi e che hanno l'aria di aspettarci a pié fermo. Bisogna tornare a Parigi e cercar di scegliere meglio i nostri bravi. Le guardie non potranno fare grandi tappe con due pesanti carrette, le raggiungeremo domani senza fatica".
Riflettei un istante su quell'idea, ma poiché vedevo da ogni parte solo motivi di disperazione, presi una decisione veramente disperata: ringraziare il mio compagno dei suoi servigi e invece di attaccare le guardie, andare umilmente a pregarle di accogliermi nel loro gruppo per accompagnare Manon fino a Le Havre-de-Grâce e poi passare con lei di là dal mare.
"Tutti mi perseguitano o mi tradiscono", dissi alla guardia del corpo, "non posso più fare assegnamento su nessuno. Non mi aspetto più niente dal destino, né dal soccorso degli uomini. Le mie sventure sono al colmo, non mi resta più che rassegnarmi. Chiudo così gli occhi a ogni speranza. Che il Cielo possa ricompensare la vostra generosità. Addio, voglio assecondare la mia cattiva sorte a compiere la mia rovina, gettandomi volontariamente fra le sue braccia".
Inutilmente si sforzò di indurmi a tornare a Parigi.
Lo pregai di lasciarmi seguire la mia risoluzione e di andarsene subito, affinché le guardie non continuassero a credere che intendevamo attaccarli.
Andai da solo verso di loro, con passo così lento e con espressione così desolata che il mio avvicinarsi non dovette sembrargli per nulla temibile. E tuttavia continuavano a stare in guardia.
"Rassicuratevi signori", dissi accostandoli, "non vi porto la guerra, vengo a chiedervi una grazia".
Li pregai di continuare la loro strada senza diffidenza e cammin facendo dissi quali favori mi aspettavo da loro. Si consultarono insieme sul modo in cui dovevano accogliere quella mia proposta. Il capo della banda prese la parola per gli altri. Mi rispose che gli ordini ricevuti per la vigilanza delle prigioniere erano estremamente rigorosi, ma che, tuttavia, poiché sembravo un uomo così per bene, li avrebbero osservati in maniera un po' più blanda. Io però dovevo ben capire che mi sarebbe costato qualcosa. Mi rimanevano circa quindici doppie e dissi sinceramente a quanto ammontavano le mie sostanze.
"Ebbene", disse la guardia, "ci comporteremo generosamente. Vi costerà soltanto uno scudo all'ora intrattenervi con quella delle nostre ragazze che vi piacerà di più: è il prezzo corrente a Parigi".
Io non avevo parlato di Manon in particolare, perché non intendevo che venissero a sapere della mia passione. Dapprima immaginarono che fosse un capriccio da ragazzo che mi spingeva a cercare un po' di passatempo con quelle creature, ma, quando credettero di capire che ero innamorato, aumentarono talmente la tariffa, che la mia borsa si trovava esaurita alla partenza da Nantes dove avevamo dormito la notte prima del giorno che arrivammo a Pacy.
Starò a dirvi quale fu il triste argomento delle mie conversazioni con Manon durante il viaggio o quale impressione mi fece la sua vista quando ebbi ottenuto dalle guardie la libertà di avvicinarmi alla sua carretta? Ah, le parole non rendono mai del tutto ciò che sente il cuore, ma immaginatevi la mia povera amica incatenata a mezza vita, seduta su poche manciate di paglia, la testa stancamente appoggiata su un bordo della carretta, il viso pallido e bagnato da un fiume di lacrime che si facevano strada attraverso le palpebre, anche se teneva sempre gli occhi chiusi. Non aveva avuto la curiosità di aprirli neppure quando aveva sentito il rumore che avevano fatto le guardie allorché temevano di essere attaccate. I suoi abiti erano sporchi e disordinati, le sue mani delicate esposte all'ingiuria dell'aria.
Insomma tutta la sua incantevole persona, quel viso capace di riportare l'universo all'idolatria, mostravano un disordine e un abbattimento indicibili.
Stetti un po' a contemplarla, cavalcando accanto alla carretta. Ero così poco presente a me stesso, che più volte fui sul punto di cadere rovinosamente. I miei sospiri, le mie frequenti esclamazioni richiamarono su di me il suo sguardo. Mi riconobbe e notai che il suo primo impulso fu di precipitarsi fuori dalla carretta per venire da me, ma trattenuta dalla catena ricadde nella posizione di prima.
Pregai le guardie di fermare un momento per compassione ed essi acconsentirono per avidità. Scesi da cavallo per sedermi accanto a lei.
Era così indebolita e languente che per un pezzo non riuscì a pronunciar parola né a muovere le mani. E intanto le bagnavo con le mie lacrime e, non potendo nemmeno io spiccicar parola, eravamo l'una e l'altro in una delle condizioni più strazianti di cui si sia mai avuto esempio. Non meno lo furono le nostre frasi, quando ritrovammo la capacità di parlare. Manon parlò poco; sembrava che la vergogna e il dolore le avessero alterato gli organi della voce: il suono era flebile e tremante. Mi ringraziò di non averla dimenticata e della gioia che le davo - disse sospirando - di vedermi almeno ancora una volta, e di darmi l' ultimo addio.
Ma quando le ebbi assicurato che niente era in grado di separarmi da lei e che ero disposto a seguirla in capo al mondo, per prendermi cura di lei, per servirla, per amarla e per legare indissolubilmente il mio miserando destino al suo, quella povera figliola si abbandonò a sentimenti così teneri e dolorosi, che la sua violenta emozione mi fece temere per la sua vita. Tutti i moti della sua anima sembravano concentrarsi negli occhi, che teneva fissi su di me. A volte apriva la bocca senza aver la forza di terminare le parole che cominciava.
Gliene sfuggiva tuttavia qualcuna. Erano segni di ammirazione per il mio amore, teneri lamenti per il suo eccesso, dubbi sulla possibilità di essere felice per avermi ispirato una passione così assoluta. Mi pregava perché rinunciassi all'idea di seguirla, e cercassi altrove una felicità degna di me. Con lei, diceva, non potevo più sperarla.
A dispetto del più crudele di tutti i destini, io trovavo la mia felicità nei suoi sguardi e nella certezza del suo affetto. Avevo, è vero, perso tutto ciò che il resto degli uomini apprezza, ma ero padrone del cuore di Manon, il solo bene che contasse per me. Vivere in Europa, vivere in America, che m'importava in che posto vivere se ero sicuro di esservi felice, vivendo con la mia amante? L'universo intero non è forse una patria per due amanti fedeli? Non trovano l'uno nell'altro padre, madre, famiglia, amici, ricchezza e felicità? Se c'era qualcosa che mi preoccupava era il timore di vedere Manon esposta alle ristrettezze dell'indigenza. Già mi immaginavo con lei in una regione incolta e abitata dai selvaggi.
"Sono sicurissimo", dicevo, "che non ce ne potrebbero essere di tanto crudeli come G... M... e mio padre. Almeno ci lasceranno vivere in pace. Se quello che se ne dice è vero, essi seguono le leggi di natura. Non conoscono i furori dell'avidità da cui è dominato G...
M..., né le fantasiose idee sull'onore che hanno fatto di mio padre un nemico. Non molesteranno due amanti che vedranno vivere con la loro stessa semplicità".
Da questo lato ero perciò tranquillo. Ma non mi facevo idee romanzesche per quello che riguardava i comuni bisogni della vita.
Troppo spesso avevo sperimentato che ci sono necessità insopportabili, specialmente per una fanciulla delicata, che è abituata a una vita comoda e agiata. Ero disperato di aver vuotato la mia borsa inutilmente e di sapere che il poco denaro che mi restava mi sarebbe stato sottratto da quei furfanti di guardie. Pensavo che, con una piccola somma, avrei potuto non solo sperare di difendermi per un po' di tempo dalla miseria in America, dove il denaro era raro, ma anche di mettere in piedi qualche attività in vista di una sistemazione duratura.
Queste considerazioni mi fecero venire l'idea di scrivere a Tiberge che avevo sempre trovato così pronto a offrirmi il sostegno dell'amicizia. Gli scrissi subito dalla prima città in cui passammo, senza dargli altro motivo che l'urgente bisogno in cui prevedevo di trovarmi a Le Havre dove gli confessavo di andare per accompagnare Manon. Gli chiedevo cento doppie.
"Fatemele avere a Le Havre", gli dicevo, "per mezzo del mastro di posta. Questa, credete pure, è l'ultima volta che abuso del vostro affetto. La mia infelice amante mi è tolta per sempre, non posso lasciarla partire senza offrirle qualche conforto che addolcisca la sua sorte e i miei mortali rimpianti".
Le guardie diventarono così intrattabili quando scoprirono la violenza della mia passione, che, a forza di raddoppiare il prezzo di ogni più piccolo favore, mi ridussero quasi senza un soldo. D'altro canto l'amore non mi permetteva di stare a lesinare. Dimentico di tutto, stavo da mattina a sera accanto a Manon e il tempo non mi veniva più misurato a ore, ma a giornate intere. Alla fine la mia borsa fu completamente vuota e mi trovai alla mercé dei capricci e della brutalità di quei sei miserabili che mi trattavano con un'alterigia insopportabile. Ne foste testimone a Pacy. Incontrarvi, fu un felice momento di respiro concessomi dal destino. La vostra pietà per i miei affanni bastò a suscitare una totale fiducia nel vostro cuore generoso. Il vostro aiuto generoso servì a farmi raggiungere Le Havre e le guardie rispettarono la loro promessa più di quanto non avessi sperato.
Arrivammo a Le Havre e andai subito alla posta. Tiberge non aveva ancora avuto il tempo di rispondermi. M'informai di preciso in che giorno potevo aspettare la lettera. C'era da attendere due giorni e, per uno strano caso del mio avverso destino, si diede il caso che la nostra nave dovesse partire proprio la mattina del giorno in cui aspettavo il corriere. Non so dirvi la mia disperazione.
"Come!" dicevo. "Perfino nella disgrazia io dovrò sempre distinguermi?".
Manon rispose: "Ahimè! Vale proprio la pena tenere tanto a una vita così disgraziata?
Moriamo a Le Havre, mio caro cavaliere, finiamola una buona volta con le nostre miserie! Perché trascinarle in un paese sconosciuto, dove dovremo aspettarci chissà quali mali orribili, dal momento che ne hanno fatto per me un luogo di condanna? Moriamo", mi ripeté, "o almeno dammi la morte e vai a cercare un altro destino tra le braccia di un'amante più fortunata".
"No, no", le dissi, "per me, essere infelice con voi è un destino degno d'invidia".
Le sue parole mi fecero tremare. Pensai che i suoi mali l'avessero affranta e mi sforzai d'assumere un'aria più tranquilla per distoglierla da quei funesti pensieri di morte e di disperazione.
Decisi di comportarmi così anche in futuro, e in seguito ho sperimentato che nulla infonde più coraggio in una donna dell'intrepidezza dell'uomo che essa ama...
Non potendo aspettarmi nessun aiuto da Tiberge, vendetti il mio cavallo.
Il denaro che ne ricavai, con quello che ancora mi restava del vostro generoso regalo, mi fece raggiungere la modesta somma di diciassette doppie. Sette le destinai all'acquisto di alcune piccole cose necessarie a Manon, le altre dieci le serbai con cura, come base della nostra fortuna e delle nostre speranze in America.
Non mi fu difficile farmi accogliere sulla nave. Si cercavano ovunque giovani disposti a partire volontariamente per la colonia. Vitto e traversata erano gratis.
La posta per Parigi doveva partire l'indomani, lasciai dunque una lettera per Tiberge. Era commovente e certamente tale da intenerirlo fin nel profondo dell'anima, perché gli fece prendere una decisione che poteva nascere soltanto da un'immensa generosità e da un'infinita tenerezza per un amico sventurato.
Spiegammo le vele. Il vento ci fu sempre favorevole. Ottenni dal capitano un posto separato per Manon e per me. Egli ebbe la bontà di considerarci diversamente dal resto dei nostri miseri compagni di sventura. Fin dal primo giorno l'avevo preso da parte e, per ottenere da lui qualche riguardo, gli avevo raccontato una parte delle mie disgrazie.
Non credetti di rendermi colpevole di una menzogna vergognosa dicendogli che ero sposato a Manon. Fece finta di crederci e mi concesse la sua protezione: ne ricevemmo i segni per tutto il tempo della navigazione. Ebbe cura di farci mangiare decentemente e i riguardi che ebbe per noi servirono a farci rispettare dai nostri compagni di sventura. Io stavo continuamente attento a far sì che Manon non patisse il minimo disagio. Manon lo notava e questo, unito alla viva riconoscenza per tutto quello che io avevo affrontato per lei, la rendeva così tenera e appassionata, così attenta anch'essa ai miei più piccoli bisogni, che era, fra lei e me, una perpetua gara di affettuose attenzioni e d'amore. Io non rimpiangevo certo l'Europa.
Anzi, più ci avvicinavamo all'America, più mi sentivo leggero e tranquillo. Se avessi avuto la sicurezza di non mancare del minimo indispensabile per vivere, avrei ringraziato la fortuna di avere concluso in modo così favorevole le nostre disgrazie.
Dopo due mesi di navigazione ci accostammo infine alla desiderata riva. Il paese non ci offrì nulla di gradevole al primo sguardo: campagne sterili e inabitate, dove si vedevano appena qualche canneto e pochi alberi disseccati dal vento. Nessuna traccia né di uomini né d'animali. Ma, presto, dopo che il capitano ebbe fatto sparare qualche colpo di cannone, cominciammo a scorgere una truppa di cittadini della Nouvelle Orléans, che si avvicinavano a noi con vivi segni di gioia.
Non avevamo visto la città, che resta nascosta, da quella parte, da una piccola altura. Fummo ricevuti come uomini arrivati dal Cielo: quei poveri coloni si affollavano intorno a noi facendoci mille domande sulla Francia e sulle province in cui erano nati; ci abbracciavano come fratelli, come cari compagni che venivano a condividere la loro miseria e la loro solitudine. Ci incamminammo verso la città con loro; ma fummo sorpresi di scoprire, avvicinandoci, che quella che ci avevano vantato fino ad allora come una vera città non era che un gruppo di misere capanne, abitate da forse cinque o seicento persone. La casa del governatore ci parve un po' distinguersi per l'altezza e la posizione. Era difesa da terrapieni intorno ai quali correva un largo fossato.
Fummo subito presentati al governatore, che ebbe un lungo colloquio privato col capitano. Tornò poi verso di noi ed esaminò l'una dopo l'altra tutte le ragazze che erano arrivate col bastimento. Erano una trentina, poiché a Le Havre avevano trovato un altro gruppo che stava aspettando il nostro. Dopo averle scrutate a lungo, fece chiamare diversi giovanotti della città che intristivano in attesa di una moglie. Diede le più belle ai più importanti e il resto fu tirato a sorte. Non aveva ancora parlato a Manon, ma quando ebbe ordinato agli altri di ritirarsi, disse a lei e a me di restare.
"So dal capitano che siete sposati e che durante la traversata avete dimostrato di essere due persone intelligenti e di merito. Non voglio indagare sulle ragioni che sono state la causa della vostra disgrazia, ma se il vostro comportamento sarà buono come promette il vostro aspetto, farò di tutto per alleviare la vostra sorte e voi stessi contribuirete a rendermi meno tedioso questo luogo selvaggio e deserto".
Gli risposi nel modo che mi parve più atto a confermarlo nell'idea che aveva di noi. Diede alcuni ordini per farci avere un'abitazione in città e ci trattenne a cena con lui. Trovai che era molto garbato per essere un capo di sventurati esiliati. In pubblico non ci fece nessuna domanda sulle nostre vicissitudini. La conversazione fu generale e, nonostante la nostra tristezza, Manon e io ci sforzammo di contribuire a renderla piacevole.
La sera ci fece condurre all'abitazione che era stata preparata per noi. Ci trovammo in una capanna miserabile fatta di assi e di fango, che consisteva di due o tre stanze e di una soffitta al piano di sopra. Il governatore aveva fatto mettere due o tre sedie e alcuni mobili indispensabili. Manon parve spaventata alla vista di una dimora così squallida. Molto più che per sé, era per me che si affliggeva.
Quando fummo soli, si sedette e si mise a piangere amaramente. Cercai dapprima di consolarla, ma quando capii che commiserava solo me e che nelle nostre comuni sventure pensava soltanto a quello che io dovevo soffrire, simulai coraggio e allegria quel tanto che bastava per infonderne anche a lei.
"Di che cosa mi dovrei lamentare? Possiedo tutto ciò che desidero. Voi mi amate, vero? Quale altra felicità mi sono mai proposto? Affidiamo la nostra sorte al Cielo. Io non la trovo poi tanto disperata. Il governatore è un uomo civile, ci ha trattati con riguardo, non permetterà che ci manchi il necessario. La nostra capanna è povera e i nostri mobili grossolani, ma avrete notato che poche persone hanno l'aria d'avere case e mobili migliori dei nostri. E poi tu sei un'alchimista meravigliosa", aggiunsi abbracciandola, "trasformi tutto in oro".
"Sarete dunque l'uomo più ricco dell'universo", mi rispose, "perché se non vi fu mai amore come il vostro, è anche impossibile essere amato più teneramente di quanto lo siate da me. So quello che valgo," proseguì. "So bene di non avere mai meritato il sentimento straordinario che vi lega a me. Vi ho dato dolori che solo la vostra immensa bontà ha potuto perdonarmi. Sono stata leggera e volubile e, pur amandovi perdutamente come ho sempre fatto, non ero che un'ingrata. Ma voi non potete immaginare quanto sono cambiata. Le lacrime che mi avete visto così spesso versare da quando abbiamo lasciato la Francia, non le piangevo mai sulle mie sventure. Ho smesso di sentirle da quando voi avete cominciato a condividerle. Ho pianto solo di tenerezza e di compassione per voi. Non riesco a consolarmi di avervi addolorato anche un solo momento nella vita. Continuo a rimproverarmi le mie infedeltà e a commuovermi, stupita da tutto quello di cui l'amore vi ha reso capace per una disgraziata che non ne era degna, una disgraziata che con tutto il suo sangue", soggiunse piangendo a dirotto, "non vi ripagherebbe della metà delle pene che vi ha causato".
Le sue lacrime, le sue parole, e il tono con cui le pronunciò, fecero su di me un'impressione così straordinaria che mi sentii l'anima straziata.
"Bada! Bada, mia cara Manon, non sono abbastanza forte per sopportare così grandi dimostrazioni d'amore: non sono abituato a troppa gioia.
Dio!" esclamai, "non vi chiedo più niente. Sono sicuro del cuore di Manon; è proprio come l'ho desiderato per essere felice. Adesso non potrò più non esserlo. Ecco la mia felicità ben salda".
"Lo è", rispose, "se la fate dipendere da me, e anch'io so bene dove troverò sempre la mia".
Andai a dormire con questi bei pensieri, che mutarono la mia capanna in un palazzo degno del più gran re dell'universo. Dopo di che l'America mi parve un luogo di delizie.
"Bisogna venire alla Nouvelle Orléans", dicevo spesso a Manon, "quando si vogliono assaporare le vere dolcezze dell'amore. Qui ci si ama senza interesse, senza gelosia, senza incostanza. I nostri compatrioti vengono a cercarci l'oro e non si immaginano che noi ci abbiamo trovato tesori ben più preziosi".
Coltivammo con cura l'amicizia del governatore, il quale ebbe la bontà, qualche settimana dopo il nostro arrivo, di affidarmi un piccolo ufficio che si era reso vacante al forte.
Non era un posto di gran rilievo, ma lo accettai come un favore del Cielo. Mi metteva in grado di vivere senza essere a carico di nessuno.
Assunsi un domestico per me e una cameriera per Manon. Il nostro modesto stato migliorò. La morigeratezza di Manon non era da meno della mia.
Non ci lasciammo sfuggire l'occasione di renderci utili e di fare del bene ai nostri vicini. I nostri modi servizievoli e dolci ci attirarono la fiducia e l'affetto di tutta la colonia. La stima di cui in breve tempo godemmo, ci fece considerare come le persone più importanti della città dopo il governatore.
L'innocenza delle nostre occupazioni e la costante tranquillità della nostra vita, risvegliarono nel nostro animo sentimenti religiosi.
Manon non era mai stata una ragazza empia e nemmeno io ero uno di quei libertini incalliti che si vantano di unire l'incredulità alla depravazione dei costumi. L'amore e la giovinezza erano stati la causa di tutti i nostri disordini. L'esperienza cominciava a fare le veci dell'età e agì su di noi come agiscono gli anni.
Le nostre conversazioni,sempre riflessive, insensibilmente insinuarono in noi il desiderio di un amore onesto. Fui io il primo a proporre a Manon questo cambiamento, conoscendo i principi del suo animo. I suoi sentimenti erano schietti e spontanei, e questa qualità predispone sempre alla virtù. Le feci capire che alla nostra felicità mancava una cosa: che il Cielo l'approvasse.
"La nostra anima è troppo bella e il nostro cuore troppo retto per vivere di deliberato proposito nella colpa. Pazienza se ci siamo vissuti in Francia, dove non era possibile né cessare di amarci, né unirci in maniera legittima; ma in America, dove dipendiamo soltanto da noi stessi, dove non c'è più da tener conto delle arbitrarie leggi della classe sociale e della convenienza, dove ci credono già sposati, chi ci impedisce di esserlo veramente al più presto? Di santificare il nostro amore con le promesse benedette dalla religione? Per quel che mi riguarda", soggiungevo, "non vi offro niente di nuovo offrendovi il mio cuore e la mia mano, ma sono pronto a rinnovarvene il dono ai piedi dell'altare".
Mi parve che questo discorso la riempisse di gioia.
"Mi credereste", rispose, "se vi dico che ci ho pensato mille volte da quando siamo in America? Il timore di dispiacervi mi ha fatto tenere questo desiderio nel cuore. Non ho la presunzione di chiedervi che mi facciate vostra sposa".
"Ah, Manon!" replicai, "lo saresti ben presto di un re, se il Cielo mi avesse fatto nascere con una corona. Non perdiamo tempo. Non abbiamo più nessun ostacolo da temere. Già da oggi voglio parlarne al governatore e confessargli che finora l'abbiamo ingannato. Lasciamo che gli amanti volgari temano le catene indissolubili del matrimonio.
Non ne avrebbero tanta paura se, come lo siamo noi, fossero sicuri di portare sempre le catene dell'amore".
Dopo questa decisione, lasciai Manon al colmo della gioia.
Sono convinto che non c'è al mondo nessun uomo onesto che non avrebbe approvato le mie intenzioni nella situazione in cui mi trovavo, schiavo cioè di una passione fatale che non potevo vincere e combattuto da rimorsi che non dovevo soffocare. Ma ci sarà qualcuno che taccerà i miei lamenti di essere ingiusti se piango per la crudeltà del Cielo che rifiutò ciò che avevo concepito soltanto per compiacerlo? Ahimè, che dico, rifiutarlo? L'ha punito come un delitto.
Mi aveva sopportato con pazienza quando camminavo ciecamente sulla strada del vizio; i castighi più crudeli li aveva riservati per il giorno in cui avrei ripreso il cammino della virtù.
Ho paura che mi manchino le forze per terminare il racconto del più funesto avvenimento che sia mai accaduto.
Come avevo convenuto con Manon, andai dal governatore, per pregarlo di acconsentire alla cerimonia del nostro matrimonio. Mi sarei ben guardato dal parlarne a lui o a chiunque altro, se avessi avuto la certezza che il suo cappellano, che era allora il solo prete della città, mi avrebbe reso quel servizio senza metterne al corrente il governatore, ma poiché non osavo sperare che si impegnasse al silenzio, avevo preso la decisione di agire alla luce del sole.
Il governatore aveva un nipote, di nome Synnelet, che gli era profondamente caro. Era un uomo di trent'anni, coraggioso, ma impulsivo e violento. Non aveva moglie e fin dal nostro arrivo, era stato sensibile alla bellezza di Manon. Le innumerevoli occasioni di vederla che aveva avuto durante nove o dieci mesi, avevano talmente acceso la sua passione che si consumava in segreto per lei. Tuttavia, poiché come suo zio e tutta la città era persuaso che fossi realmente sposato, aveva dominato il suo amore fino al punto di non lasciarlo trasparire. Anzi, la sua premura verso di me si era manifestata in parecchie occasioni di rendermi qualche servizio.
Quando arrivai al forte, lo trovai con suo zio. Non c'era nessuna ragione che mi obbligasse a nascondergli le mie intenzioni e non ebbi perciò nessuna difficoltà a parlare in sua presenza.
Il governatore mi ascoltò con la sua solita bontà. Gli raccontai una parte della mia storia che ascoltò con piacere e quando lo pregai di assistere alla cerimonia che progettavo, fu tanto generoso da volersi assumere tutte le spese della festa. Me ne andai contentissimo.
Circa un'ora dopo vidi entrare il cappellano in casa mia. Immaginai che venisse a darmi qualche istruzione sulla cerimonia, ma dopo avermi salutato freddamente mi dichiarò in due parole che il signor governatore mi proibiva di pensarci perché aveva altre mire su Manon.
"Altre mire su Manon?" gli dissi con una stretta al cuore. "E quali mire, signor cappellano?".
Non ignoravo, mi rispose, che il signor governatore era il padrone e, poiché Manon era stata mandata dalla Francia per la colonia, egli poteva quindi disporne a piacimento. Non l'aveva fatto fino a quel momento perché la credeva sposata, ma avendo saputo proprio da me che non lo era, giudicava opportuno concederla al signor Synnelet che ne era innamorato.
Il mio risentimento fu più forte della prudenza. Intimai al cappellano di uscire da casa mia, giurando che il governatore, Synnelet e tutta la città non avrebbero osato toccare mia moglie, o la mia amante, comunque la volessero chiamare.
Misi subito Manon al corrente del funesto messaggio che avevo ricevuto. Ritenemmo che Synnelet avesse istigato suo zio dopo che io me ne ero andato e che questo fosse il risultato di un progetto meditato da tempo. Erano i più forti. Ci trovavamo alla Nouvelle Orléans come in mezzo al mare, vale a dire separati dal resto del mondo da spazi immensi. Dove fuggire? In un paese sconosciuto, deserto o abitato da bestie feroci, e da selvaggi altrettanto crudeli? Godevo della stima della città, ma non potevo sperare di commuovere la popolazione in mio favore fino al punto di aspettarmi un aiuto proporzionato al male. Ci sarebbe voluto del denaro. Io ero povero.
D'altronde il successo di un sollevamento popolare era incerto e se la fortuna ci fosse venuta meno, la nostra disgrazia si sarebbe fatta irrimediabile. Rimuginavo tutti questi pensieri in testa e ne comunicai una parte a Manon; poi ne formulavo altri senza stare a sentire la sua risposta. Prendevo una decisione, poi la lasciavo cadere per prenderne un'altra. Parlavo da solo e rispondevo ad alta voce ai miei pensieri. Alla fine ero in uno stato d'agitazione che non saprei a che cosa paragonare, perché non ce ne sono di eguali.
Manon mi guardava e dal mio turbamento misurava l'entità del pericolo.
Tremando più per me che per se stessa, quella tenera creatura non osava nemmeno aprire bocca per esprimermi la sua paura.
Dopo un'infinità di riflessioni, decisi di andare a trovare il governatore per tentare di commuoverlo parlandogli dell'onore, ricordandogli il mio rispetto e il suo affetto. Manon non voleva che uscissi.
"Ahimè, vi uccideranno!" mi diceva piangendo. "Non vi rivedrò che morto. Voglio morire prima di voi".
Riuscii con gran fatica a convincerla che dovevo a ogni costo uscire, mentre lei doveva restare a casa. Le promisi che mi avrebbe rivisto moltopresto. Ignorava, e io con lei, che proprio su di lei stava per ricadere tutta la collera del Cielo e il furore dei nostri nemici.
Mi recai al forte. Il governatore era col suo cappellano. Per commuoverlo mi abbassai a umiliazioni che mi avrebbero fatto morire di vergogna per qualunque altra causa. Ricorsi a tutti gli argomenti che dovevano per forza impressionare un cuore che non sia quello di una tigre feroce e crudele.
Quell'uomo spietato oppose ai miei lamenti due sole risposte cento volte ripetute: Manon dipendeva da lui, aveva dato la parola a suo nipote. Deciso a controllarmi fino in fondo, mi limitai a dirgli che lo credevo troppo mio amico per volere la mia morte, che avrei preferito morire piuttosto che perdere Manon.
Uscendo, ero assolutamente convinto che non avevo niente da sperare da quel vecchio testardo, il quale si sarebbe dannato mille volte per il nipote. Ciò nonostante, rimasi dell'idea di non eccedere fino alla fine, deciso, se si fosse giunti agli estremi, a dare alla Nouvelle- Orléans uno degli spettacoli più cruenti e orribili che l'amore abbia mai offerto.
Tornai a casa rimuginando su questo progetto, quando la sorte che voleva affrettare la mia rovina mi fece incontrare Synnelet. Mi lesse negli occhi una parte dei miei pensieri. Ho detto che era coraggioso.
Venne verso di me e mi disse:
"Non mi cercavate? So che le mie intenzioni vi offendono, e ho già previsto che con voi si sarebbe arrivati alle armi. Andiamo a vedere chi sarà il più fortunato".
Gli risposi che aveva ragione e che solo la morte avrebbe potuto mettere fine alla nostra contesa. Ci allontanammo di un centinaio di passi dalla città. Le nostre spade si incrociarono, io lo ferii e lo disarmai quasi insieme. La rabbia lo rese così furioso che rifiutò di chiedermi la vita e di rinunciare a Manon. Io avevo forse il diritto di togliergli in una sola volta l'una e l'altra, ma sangue generoso non mente. Gli gettai la sua spada.
"Ricominciamo", gli dissi, "e ricordati che è senza quartiere".
Mi assalì con una furia indescrivibile. Devo confessare che non ero un grande spadaccino, dato che a Parigi avevo avuto solo tre mesi di scuola. L'amore guidava la mia spada. Synnelet mi trafisse il braccio da parte a parte, ma io colsi il momento e gli infersi un colpo così violento, che cadde immoto ai miei piedi.
Nonostante la gioia che dà la vittoria dopo una lotta all'ultimo sangue, riflettei immediatamente sulle conseguenze di quella morte.
Per me non c'erano né grazia, né rinvio del supplizio. Conoscendo bene la passione del governatore per il nipote, ero certo che la mia morte non sarebbe stata differita di un'ora, quando si fosse saputa la sua.
Per quanto incalzante, questo timore non era la fonte maggiore della mia inquietudine. Manon, l'interesse di Manon, il pericolo in cui incorreva, il rischio di perderla, mi turbavano fino a oscurarmi la vista e a impedirmi di riconoscere il luogo in cui mi trovavo.
Invidiai la sorte di Synnelet: una morte immediata mi sembrava il solo rimedio ai miei affanni. Tuttavia fu proprio quel pensiero a far sì che ritornassi in me e a rendermi capace di prendere una decisione.
"Come?" esclamai. "Io voglio morire per finirla con le mie pene? C'è qualcosa dunque che io tema più che perdere la mia diletta amica? Ah!
Soffriamo tutto quel che c'è da soffrire per soccorrerla e rimandiamo la morte a quando avremo patito inutilmente".
Mi rimisi in cammino verso la città. Entrai in casa dove trovai Manon mezza morta di spavento e di inquietudine. La mia presenza la rianimò.
Non potevo nasconderle e nemmeno minimizzare il terribile incidente che m'era accaduto. Cadde priva di sensi fra le mie braccia al racconto della morte di Synnelet e della mia ferita. Mi ci volle più di un quarto d'ora per farla riavere.
Io stesso ero mezzo morto. Non vedevo vie d'uscita né per la sua salvezza, né per la mia.
"Che faremo, Manon?" le dissi quando ebbe ripreso un po' di forza.
"Ahimè! Che faremo? Dovrò per forza allontanarmi. Volete rimanere in città? Sì, rimanete: potete ancora esservi felice; io me ne andrò lontano da voi a cercare la morte fra i selvaggi, fra gli artigli delle belve".
Pur così debole si alzò e mi prese per mano conducendomi verso la porta.
"Fuggiamo insieme", mi disse, "non perdiamo un istante. Possono aver trovato per caso il corpo di Synnelet, non avremmo il tempo per allontanarci dalla città".
"Mia cara Manon", risposi smarrito, "ditemi dunque dove possiamo andare. Vedete una qualche soluzione? Non sarebbe meglio che voi cercaste di vivere qui senza di me e che io consegnassi spontaneamente la mia testa al governatore?".
La mia proposta non fece che rinfocolare la sua smania di partire. Mi toccò seguirla. Ebbi ancora abbastanza presenza di spirito da prendere, prima di uscire, alcuni liquori che avevo in camera e tutte le provviste che potei far entrare nelle mie tasche. Dicemmo ai domestici che erano nella stanza accanto, che uscivamo per la nostra passeggiata serale come di consueto e ci allontanammo dalla città più in fretta di quanto non sembrasse consentirlo la fragilità di Manon.
Anche se ero stato così irrisoluto sul luogo dove ci saremmo rifugiati, nutrivo nondimeno due speranze senza le quali avrei preferito la morte all'incertezza di quello che poteva capitare a Manon. Nei dieci mesi trascorsi in America, mi ero fatto una sufficiente conoscenza del paese per non ignorare in che modo si ammansivano i selvaggi. Ci si poteva mettere nelle loro mani senza andare incontro a morte certa. Nelle diverse occasioni in cui li avevo visti, avevo perfino imparato qualche parola della loro lingua, e alcune delle loro usanze.
A parte questa triste risorsa, ne avevo un'altra: si trattava degli inglesi che come noi hanno un insediamento in quella parte del nuovo mondo. Ma ero terrorizzato dalla distanza: per arrivare fino a loro avevamo da attraversare sterili campagne che richiedevano, tanto erano vaste, diverse giornate di cammino, e qualche montagna così alta e scoscesa, che valicarla sembrava difficile agli uomini più rudi e più vigorosi. Tuttavia mi lusingavo di poter trarre partito da queste due possibilità: i selvaggi, che ci servissero da guida, e gli inglesi che ci accogliessero nelle loro abitazioni.
Camminammo fintanto che il coraggio di Manon poté sostenerla, vale a dire circa due leghe, giacché quella donna incomparabile rifiutò di fermarsi prima.
Alla fine, affranta dalla stanchezza, mi confessò che le era impossibile proseguire. Era già notte.
Ci sedemmo in mezzo a una vasta pianura, senza aver potuto trovare un albero sotto cui metterci al riparo.
Il suo primo pensiero fu di cambiare la fascia della mia ferita, che lei stessa aveva medicato prima della nostra fuga. Invano mi opposi ai suoi desideri. Avrei dato un altro terribile colpo al suo morale se le avessi rifiutato la soddisfazione di assicurarsi che stessi discretamente e fossi fuori pericolo prima di pensare a se stessa. Per un po' mi assoggettai ai suoi desideri. Accettai in silenzio, e quasi vergognandomi, le sue cure. Ma quando ebbe appagato la sua tenerezza, con quale ardore le dedicai la mia! Mi spogliai di tutti i miei abiti e li stesi tutti sotto di lei per farle trovare la terra meno dura.
Suo malgrado le feci accettare tutto quello che immaginavo potesse recarle qualche sollievo.
Scaldai le sue mani con i miei baci ardenti e col calore dei miei sospiri. Passai tutta la notte a vegliare accanto a lei e a pregare il Cielo di concederle un sonno dolce e tranquillo. Oh, mio Dio! Come erano ardenti e sincere le mie preghiere! E con quale inesorabile decreto avevate deciso di non esaudirle!
Perdonatemi se concludo con poche parole un racconto che mi uccide. Vi racconto una sventura che non ebbe mai eguali. Tutta la mia vita è destinata a piangerla, ma, per quanto mi sia impressa continuamente nella memoria, la mia anima se ne ritrae con orrore ogni volta che tento di parlarne.
Avevamo trascorso tranquillamente una parte della notte. Credevo che la mia dolce amica fosse addormentata e osavo appena respirare per timore di turbarne il sonno. Allo spuntar del giorno, toccandole le mani, mi accorsi che erano fredde e tremanti. Me le accostai al petto per riscaldarle. Nel sentire quel movimento, fece uno sforzo per afferrare le mie e mi disse con voce flebile che credeva giunta la sua ultima ora.
Dapprima pensai che fossero le solite parole che si dicono nei momenti dolorosi e risposi con le tenere espressioni di conforto che ispira l'amore. Ma i suoi sospiri frequenti il suo silenzio alle mie domande, la pressione delle sue mani che continuavano a stringere le mie, mi fecero capire che si avvicinava la fine dei suoi affanni.
Non chiedetemi di descrivervi i miei sentimenti, né di riferirvi le sue ultime parole. La persi. Nel momento stesso in cui spirava ricevetti ancora da lei dimostrazioni d'amore. Di quel fatale e drammatico istante non ho la forza di dirvi altro.
La mia anima non seguì la sua. Evidentemente il Cielo non ritenne che fossi punito abbastanza severamente. Ha voluto che trascinassi, da allora, una vita misera e spenta. E io spontaneamente rinuncio per sempre a condurne una più felice.
Due giorni e due notti restai con la bocca incollata al viso e alle mani della mia cara Manon. Volevo morire, ma all'inizio del terzo giorno pensai che quando fossi morto il suo corpo sarebbe rimasto preda delle fiere. Presi la decisione di sotterrarla e di aspettare la morte sulla sua fossa. Ero già così vicino alla fine per l'indebolimento provocato dal digiuno e dal dolore, che dovetti fare grandi sforzi per reggermi in piedi. Fui costretto a ricorrere ai liquori che avevo portato. Recuperai quel tanto di forze che bastavano per il triste compito che mi aspettava.
Non era difficile scavare la terra nel posto in cui ero. Era una pianura coperta di sabbia. Spezzai la spada perché mi servisse a scavare, ma più ancora mi furono utili le mani. Scavai una larga fossa e vi deposi l'idolo del mio cuore dopo averla avvolta accuratamente con tutti i miei abiti perché la sabbia non la toccasse. Ma prima la baciai mille volte con tutto l'ardore del più assoluto amore. Mi sedetti ancora accanto a lei. La contemplai a lungo. Non potevo risolvermi a colmare la fossa. Ma già le mie forze ricominciavano a declinare e temetti che mi venissero a mancare completamente prima di aver ultimato il mio compito. Seppellii allora per sempre nel seno della terra tutto ciò che la terra aveva portato di più perfetto e di più adorabile. Poi mi sdraiai sulla fossa col viso sulla sabbia e, chiudendo gli occhi con la volontà di non aprirli mai più, invocai l'aiuto del Cielo e attesi con impazienza la morte.
Difficilmente lo crederete, ma per tutto il tempo in cui svolsi quella lugubre incombenza, non una lacrima mi uscì dagli occhi, non un sospiro dalla bocca. La profonda costernazione in cui mi trovavo e la deliberata intenzione di morire avevano come raggelato ogni espressione di disperazione e di dolore. Ma non restai a lungo in quella posizione sulla fossa senza perdere quel che mi restava di conoscenza e di sentimento.
Dopo quello che avete sentito, la conclusione della mia storia ha così poca importanza che non vale la pena continuare ad annoiarvi. Il corpo di Synnelet era stato riportato in città e le sue ferite erano state esaminate con cura. Si vide così che, non solo non era morto, ma che non era stato neppure ferito gravemente. Raccontò a suo zio come si erano svolte le cose fra noi due e la sua generosità fece sì che lealmente rendesse noto qual era stato il mio comportamento. Mandarono subito a cercarmi e la mia assenza con quella di Manon fece nascere il sospetto che avessimo scelto di fuggire. Era troppo tardi per mandare qualcuno sulle nostre tracce, ma l'indomani e i giorni successivi passarono nella mia ricerca. Mi trovarono senza segni di vita sulla fossa di Manon e quelli che mi scoprirono in quello stato, vedendomi seminudo, con la ferita ancora sanguinante, credettero senza ombra di dubbio che fossi stato derubato e assassinato. Mi portarono in città e lescosse del tragitto mi fecero riprendere conoscenza. I miei sospiri e i gemiti quando aprii gli occhi e mi ritrovai fra i vivi, fecero capire che potevo ancora essere soccorso. Lo fui troppo bene. Con tutto questo, al mio arrivo, venni rinchiuso in un'angusta prigione; imbastirono il mio processo e, dato che Manon non compariva, mi accusarono di essermi sbarazzato di lei in un moto di rabbia e di gelosia. Raccontai sinceramente la mia straziante avventura e Synnelet, malgrado fosse sconvolto dal dolore, ebbe la generosità di implorare la mia grazia. La ottenne.
Io ero così debole che furono costretti a trasportarmi dalla prigione nel mio letto, dove rimasi per tre mesi gravemente malato. Il mio odio per la vita non scemava. Invocavo continuamente la morte e a lungo mi ostinai a rifiutare ogni medicina. Ma dopo avermi perseguitato con tanta severità, il Cielo aveva decretato che sciagure e castighi si risolvessero a mio favore. Mi illuminò con la sua grazia e mi ispirò il desiderio di tornare a lui per le vie della penitenza. La tranquillità cominciava a rifarsi strada a poco a poco nella mia anima. Questo cambiamento fu seguito poco dopo dalla guarigione. Mi dedicai completamente alle pratiche religiose e continuai a compiere il mio modesto lavoro in attesa delle navi di Francia che una volta all'anno arrivano in quella parte d'America.
Ero deciso a tornare in patria per riparare lo scandalo della mia condotta passata con una vita saggia e morigerata. Ebbi cura di far trasportare il corpo della mia diletta in un luogo decoroso. Fu poco dopo questa cerimonia che, passeggiando un giorno da solo sulla riva del mare, vidi approdare una nave che per ragioni commerciali giungeva alla Nouvelle Orléans. Mentre osservavo l'equipaggio che sbarcava, grande fu il mio stupore nel riconoscere fra quelli che si avviavano verso la città il mio amico Tiberge.
Quell'amico fedele mi riconobbe da lontano nonostante il cambiamento impresso dal dolore sul mio viso. Mi disse che l'unica ragione del suo viaggio era quella di vedermi e di indurmi a tornare in Francia. Aveva ricevuto la lettera che gli avevo scritto da Le Havre e ci era venuto di persona per farmi il favore che gli chiedevo. Vivissimo era stato il suo dolore nel sapere che ero partito e, se avesse trovato una nave pronta ad alzare le vele, si sarebbe imbarcato immediatamente. Per mesi l'aveva cercata in vari porti; infine ne aveva trovata una a Saint-Malo che andava alla Martinica; si era imbarcato nella speranza di trovare poi un facile passaggio per la Nouvelle Orléans. Ma la nave bretone era stata catturata durante la traversata da corsari spagnoli e portata in una delle loro isole. Era riuscito con un'astuzia a fuggire e dopo svariate peripezie aveva trovato l'occasione di quella nave che era appena arrivata, per giungere sano e salvo fino a me.
Non sapevo come manifestare la mia riconoscenza per un'amicizia così generosa e così fedele. Lo condussi nella mia casa; gli dissi di considerare tutto quello che possedevo come suo. Gli raccontai quello che mi era accaduto da quando avevo lasciato la Francia e, per dargli una gioia che non si aspettava, gli dichiarai che quei semi di virtù che un tempo aveva gettato nel mio cuore, cominciavano a produrre frutti di cui sarebbe stato contento. Mi assicurò che una così buona notizia lo ripagava pienamente di tutte le traversie del viaggio.
Abbiamo trascorso insieme qualche mese alla Nouvelle Orléans aspettando l'arrivo delle navi francesi. Infine ci siamo imbarcati e siamo approdati quindici giorni fa a Le Havre. All'arrivo, ho scritto alla mia famiglia. Dalla risposta di mio fratello maggiore, ho saputo la triste notizia della morte di mio padre, alla quale ho troppi motivi di temere d'aver contribuito. Poiché il vento per Calais era favorevole, mi sono subito imbarcato con l'intenzione di recarmi nei dintorni di questa città, presso un gentiluomo mio parente, dove mio fratello, a quanto scrive, mi aspetta.