ANTONIO PIROMALLI

CARLO MICHELSTAEDTER


FINZIONE RETTORICA E VERITÀ ASSOLUTA: LA CADUTA DEI MITI
NELL'IDENTITÀ DI RIFLESSIONE E VITA

I. 1. La vita e l'uomo nell'Epistolario scelto. - 2. Personalità e assoluto in Michelstaedter. 3. La persuasione e la rettorica. - 4. Le Poesie e gli Scritti vari. - II. Pensiero e stile di Michelstaedter. - III. La riflessione di Michelstaedter. - Bibliografia.

I. 1. Carlo Michelstaedter appartiene alla generazione che Camillo Pellizzi nel 1929 diceva in gran parte scomparsa, "inghiottita dalla guerra, dalla miseria, dalla malattia, dal dolore, la quale ha fatto a sue spese l'esperienza di tutti i tentativi vani e illusori". Michelstaedter nacque a Gorizia il 3 giugno 1887, da famiglia italiana ebrea appartenente al gruppo intellettuale e patriottico della città: la madre Emma Luzzatto, donna di elevato carattere, imprigionata nel 1943 per le persecuzioni razziali, sarà eliminata, con la figlia maggiore Elda Morpurgo, in un campo di concentramento germanico. Carlo si iscrisse nel 1905 a Vienna alla facoltà di matematica: era molto versato per la matematica e nel disegno, e i suoi schizzi e le sue caricature sono anche da studiare per comprendere alcuni aspetti della sua personalità. Ma nello stesso anno, recatosi a Firenze, si iscrisse alla facoltà di lettere di quell'Istituto di Studi Superiori e studiò soprattutto filosofia antica e moderna, storia dell'arte e letteratura. A Firenze lavorò, fino al giugno del 1909, intorno alla tesi di laurea, sui concetti di persuasione e di rettorica in Platone e in Aristotele; qui ebbe come amici Vladimiro Arangio Ruiz, Gaetano Chiavacci, Giannotto Bastianelli. Nel giugno del 1909 tornò a Gorizia per completare il tormentoso lavoro per la tesi; suoi amici intimi furono a Gorizia Enrico Mreule, Nino Paternolli e il cugino Emilio Michelstaedter. Il 17 ottobre 1910 Carlo Michelstaedter si suicidava con un colpo di pistola.
Michelstaedter visse la crisi della persona e del pensiero con una intransigenza che non ha l'eguale nel nostro secolo. Negli anni di "Leonardo" e "La Voce" compì la propria formazione culturale rigorosa, staccandosi nettamente da tutti gli altri distruttori di idoli, i quali erano sollecitati, del resto, a mistificare la loro ansia di nuovo in atteggiamenti che spesso erano comode e facili rispolverature di abiti logori.
Il giovane goriziano veniva a Firenze, come altri giuliani, all'Istituto di Studi Superiori, per seguire il nuovo corso della cultura fiorentina, che allora si muoveva "dialetticamente fra scienze della natura e scienze storiche, per cogliere la sintesi storicizzando la natura e scientificizzando la storia". Ma prima che a Firenze era stato a Vienna, e proveniva dalla cultura mitteleuropea che, da Nietzsche a Kafka, ha come centro spirituale il sentimento tragico della vita. A Vienna la società europea si manifestava nei suoi valori umani e drammatici con qualche decennio di anticipo in confronto dell'Italia, e in quasi tutti gli scrittori giuliani del primo ventennio di questo secolo c'era una comune fisionomia di impegno spirituale e morale, di idee e di vita oltre che di sentimento serio e profondo.
Anche per Michelstaedter, per il quale la tragedia consisteva nella contraddizione tra la persuasione, che è conoscenza della verità, e la rettorica che è impedimento, l'interesse verso i documenti essenziali, quelli del pensiero e della coscienza, era prevalente su quello letterario. La sua vita interiore fu, come ha scritto Garin, appressamento alla morte, e poiché negli atti esterni è evidente il carattere di rilievo che lo ha accompagnato nella breve stazione terrena, la drammatica ubbidienza alla persuasione e la lotta intransigente contro la rettorica, è utile seguirlo in qualche momento epistolare, perché si possa notare la coerenza delle idee e delle opere nella fuga dalla temporalizzazione, dal cedimento alla schiavitù delle cose. Già Chiavacci, che fu uno degli amici prediletti del periodo fiorentino e che ha curato la pubblicazione delle opere del goriziano, ricordava il "forte ascendente su chiunque lo avvicinasse", la delicatissima sensibilità, la "tempra di artista e mente di eccezionale potenza dialettica, entusiasmo giovanile per i più alti valori [...]. Corpo agile, forte, bello: era uno dei più intrepidi nuotatori dell'Isonzo". Pellizzi lo assume come simbolo di una rinnovazione umana che non ha precedenti: "Pollone nuovissimo e fresco di una razza eterna, la ebraica, egli sembrò unire agli impulsi geniali dell'adolescenza tutta la ereditaria tristezza, ferma e disperata, di una esperienza senza fondo, di una antichità senza principio. Ebbe la malattia dell'assoluto [...] Egli piombò sulla vita come un aquilotto a rapina; in pochi anni la succhiò, la svuotò, la gettò lontano. Conobbe l'amore e il dolore; conobbe le fatiche e le audacie del corpo, fra le sizze del Carso e le bore dell'Adriatico; conobbe, di sui testi, i massimi pensatori antichi e moderni [...]. Se noi dovessimo raffigurarci l'Anticristo, che viene al mondo sotto il segno dell'Uomo, ce lo raffiguriamo nella bellissima figura giovine di Michelstaedter; specie di Cristo a rovescio, nata dalla stessa razza messianica di Gesù [...]. La figura di Michelstaedter, che si uccide perché ha paura di aver paura della morte, è solamente grandiosa, poiché suscita una grande stupefazione e pietà". Dopo avere, dal punto di vista storico affermato che l'esigenza di persuasione e di fermezza morale di Michelstaedter è certamente un idolo, un fine immediato e astratto piuttosto che un problema quotidiano, Pellizzi conclude che, però, se si pensa come gli uomini siano facilmente adescati a lasciarsi vivere, e spesso per motivi pratici e utilitari, si deve riconoscere la grandezza di Michelstaedter, il quale impartiva una lezione ai professionisti della filosofia che rifuggono dal pensiero che pensa e si adagiano in un sibaritico intellettualismo.
Dalle prime pagine dell'espistolario l'adolescente appare ricco di vita morale, di sentimenti antiborghesi, di amore verso la natura e l'arte. Lo incantano le bellezze artistiche di Venezia, di Padova, di Firenze, "la città tanto desiderata". Davanti al complesso del Duomo fiorentino, egli scrive, "un brivido mi corse per la schiena e non potevo staccarmi da lì [...]. Li rividi nella luce del tramonto e non mi parvero opera di uomini ma cose messe lì per un incanto diafano immateriale". Nei musei fiorentini ciò che veramente lo soggioga sono le statue dei greci: "Là c'è la più fedele riproduzione della più perfetta realtà circonfusa di un nimbo di luce ideale, che ti avvicina, che ti fa fremere [...]. Mi dovetti strappare a forza dalla sala delle sculture greche, dove per un momento, per caso lasciato solo, mi parve che tutto un mondo antico si ravvivasse". Pure fra intermittenze di perdita del proprio essere determinata dall'impossibilità di abbracciare il reale ("Mi sembra d'essere un altro, ad ogni istante scrive in un notes nell'ottobre del 1905 - ho perduto il sentimento della continuità del mio io. Solo il dolore tenace, profondo, mi congiunge al passato. È il dolore l'ultimo anello che mi lega alla vita. Io credo che impazzirò"), si immerge nella vita studentesca, fa schizzi, ritratti, si diverte "a osservare l'invido, vanitoso, presuntuoso, affettato popolo degli artisti", compie gite "da Signa a piedi a Firenze sempre cantando", conosce qualcuno ("tutta la famiglia gode di un grado di intelligenza allegramente basso"), frequenta amici, si reca a ballare ("per me il ballo è un piacere fisico, una voluttà insuperabile"). Il sentimento mitteleuropeo affiora di quando in quando come smarrimento di fronte alle impressioni forti ("... con questa luna che dava a tutto un'aria misteriosa. Io mi sentivo una certa commozione romantica stranissima, mi pareva di vivere in altri tempi"), come desiderio di perdersi nella natura (da un notes del 1906: "Oh se potessi comunicare con la natura, annientarmi, identificarmi in lei, sentire la voluttà di una espansione infinita sovrumana di tutto ciò che s'agita in me e mi fa soffrire"), come amore della tragedia che sia tale per necessità e non per fuga dal reale, per viltà ("Non è tragica la morte (il suicidio) che avviene per viltà, cioè per l'impossibilità di sopportare un dolore troppo forte. Ma ben ci commuove il suicidio prodotto da ragioni morali interne per il cozzo fatale delle passioni, per le azioni nate da queste, per l'inesorabile effettuarsi della sentenza del tribunale che risiede nella nostra coscienza").
Michelstaedter sdegnava la vita dei tranquilli borghesi con cui era costretto ad avere rapporti: "Non voglio aver niente a che fare col loro modo ristretto e piccino di considerare la vita [...]. M'infischio dei loro gretti concetti, dei loro riguardi, delle loro convenienze, sono stanco del loro ordine, delle loro cure, del loro ridicolo prodotto che mi opprime con la sua stupida e presuntuosa trivialità." In una lettera alla sorella Paula del 9 dicembre 1906 parla della propria sofferenza individuale, del suo non riuscire a dominare le cose e le persone, dell'assenza di "quell'impulso poderoso che fa andar avanti qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita", e afferma, con motivi che sono anche di Kafka, che gli pare di vivere quasi in un sogno dove tutto è oscuro e incompleto ("e quando voglio rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto sfugge dalle mani, e provo la pena come quando nei sogni si prova il senso dell'impotenza di tutti gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo fra me e la realtà"). Ma insieme afferma il carattere storico della crisi e ne delinea acutamente i caratteri. "Un po' è individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto riguarda l'equilibrio mentale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di transizione della società quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l'ingranaggio degli interessi si disperde e le vie dell'esistenza non sono più nettamente tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si confondono e scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il caos universale la via luminosa. Così nell'arte come nella vita pratica". Erano indicati i segni del decadentismo come astrazione dalla realtà e come frantumazione dell'unità ideale che è dello spirito.
Nel tentativo di operare con coerenza legando la vita pratica alla vita interiore, il giovane si angustia per le cadute e si esalta per le conquiste: "Se non lottassi, se non sentissi il bisogno di lottare, sarei sublimemente indifferente e fino a un certo punto felice". Lo troviamo a Bologna, nel 1907, con gli studenti fiorentini a vegliare la salma di Carducci alla Certosa: "Nelle due ore di veglia ho avuto campo di veder bene la faccia di Carducci attraverso un vetro del coperchio. Era terrea, un po' infossata alle tempie, un po' torta dal cedimento della mascella inferiore, ma sempre ancora formidabile, sempre bellissima d'espressione e di grandiosità". Ma a Bologna lo riprende, per contrasto, il desiderio di vita e di ammirazione per la bellezza dell'arte e delle donne: "Mi piace la cordialità larga e sincera del popolo, mi piacciono i luoghi pubblici brulicanti, pieni di luce e di calore, e mi piacciono infine e più di tutto mi piacciono le sue donne opulente, raggianti di vita, che sorridono al sorriso, che pare si diano tutte nello sguardo". Pure dopo il dolore per la morte di una donna amata, Nadia, dolore velato e sommesso ("sento più forte ora un vuoto materiale intorno a me, e qualunque cosa faccia o dica mi sembra senza il suo scopo immediato"), si riafferma nel giovane la necessità di conoscere le proprie ragioni di vivere, non quelle esterne ma quelle intime, di rifiutare la vita comune e borghese ("sento che onestamente non posso promettere di me nel futuro un marito, un babbo tranquillo, sento che forse farò soffrire quanti mi amano, sento che è dubbia la lotta che combatto, che incerto, pericoloso è l'esito"), la necessità di "dominare le idee e le cose". Nelle varie e minute vicende della vita quotidiana, quella che impone rinunce e compromessi, Michelstaedter sente di non potere vivere mancando alla coscienza profonda del bene e del male. I "Corradi Brandi e i Gabrieli D'Annunzi", per la loro esteriorità e ubbidienza a un codice gli sembrano "ben meschini", "dei buffoni e dei ciarlatani".
I motivi della personalità si vengono sempre più precisando, ora come flussi sentimentali di "noia pesante che grava e scende giù di continuo in forma liquida confondendo cielo e terra in un grigio amalgama sudicio e puzzolente, pesante e insieme fina sì che penetra per tutti i pori", come fastidio per le azioni meccaniche delle altre persone che non sono scosse da alcuna grande manifestazione di vita, sicché danno "l'impressione di un formicaio", ora come assidua attenzione agli studi sotto la guida di Gerolamo Vitelli, Guido Mazzoni, Pasquale Villari, letture varie e ricche, ma soprattutto profonde di "Platone e Kant, Omero ed Eschilo e Vico e De Sanctis e Rohde". Anche le impressioni fanno parte della mobilità degli elementi della personalità, e così vediamo in alcune argute lettere alla famiglia che Michelstaedter teme di imborghesirsi, e descrive un suo soggiorno vicentino in una "stanza da letto, grande, piena di mobili antichi, di specchi, di tele di ragno, di piccole ‘tatere’ d'ogni specie, statuette, cuscinetti, bestie di stoffa con occhi di vetro, lavori a traforo mezzi rotti, bicchieri, bottiglie, vasetti. Un odore di cose vecchie abbandonate, fredde; dalle porte a vetro indovino in nero delle altre stanze tutte piene, tutte fredde, tutte polverose, abbandonate e pure preparate". Ma Michelstaedter non amava la letteratura estetizzante e compiaciuta, la predilezione di Gozzano per "le buone cose di pessimo gusto", per la "fuga delle stanze morte",

l’odore d'ombra. Odore di passato.
Odore d'abbandono desolato;

né aveva l'amore di Corazzini per le cose nell'ombra. Ben in evidenza gli risalta la mollezza vicentina nella vita e nell'arte: "Capisco come qui le carni s'inteneriscano e rotondeggino, come lo spirito acquisti quel calmo e grosso andare pieno di buon senso, e che si possa gridare contro ogni espressione d'idealità, siano sociali o nazionali, con la stessa naturalezza come si grida contro il maltempo [...]. Come desidero la mia stanza fredda e simpatica di Firenze e la vita ‘sobria’ e attiva".
E tornato a Firenze, l'entrare in Orsammichele in contatto con il pubblico mondano e pettegolo delle letture dantesche lo avvilisce, come lo deprime la pedestre esposizione di ipotesi storiche compiuta da Olindo Guerrini. Sono due esempi, questi, della sua necessità, di scuotere gli animi e di non cedere ai gusti indiscriminati, alle tendenze facili. Per mollezza Vicenza è "vile città di confettieri", per compiacenze e vanità Guerrini tenta la critica elevata per cui non è nato: "L'avrei ammazzato [...]. M'ha fatto proprio pena", commenta Michelstaedter, che organizza una sorta di gazzara contro il cantore di Lorenzo Stecchetti. "Pensavo - aggiunge - che avrei sentito volentieri soltanto De Sanctis, nessun altro". Portato a leggere i grandi autori per estrarne il significato più intimo, lo spirito filosofico e morale, si sente sempre allontanato dagli studi pedanteschi, oziosi e inutili, che sono vano sfoggio di accademia. Le piccole questioni non lo interessano quanto lo interessa la manifestazione dell'intelligenza, ed egli stesso confessa che gli studi di vasta erudizione o di critica testuale gli sono estranei: "Mi fa pena sentir parlare di lavori e di bibliografie e di studi, ecc.". La sanità fisica e la larghezza di orizzonti spirituali gli fanno disdegnare le aule fredde, la predilezione esclusiva per i libri, la "gente pallida e semi-incretinita" che si consuma sulla carta: "Io mi sento rigenerato, e mi domando - al solito perché non vivo sempre fuori, perché vengo qui a intristirmi tra i libri e queste mezze creature incartapecorite che mi sembrano tanti aberrati a correr il pericolo d'impolverarmi come loro. Invece il sole e l'aria e tutto quel verde fa tanto bene". In biblioteca, scrive al padre, ha fatto lo "studioso"' avendo dovuto occuparsi della storia dei manoscritti di Cicerone ma, conclude: "Non sono lavori fatti per me [...]. L'unica cosa che m'interessò sono le osservazioni che ho potuto fare sull'eloquenza e sulla persuasione in genere". Preferiva leggere Ibsen: "Quello è un uomo, perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo Sofocle, è l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito".
Si vengono enucleando a poco a poco, ma con insistenza dettata dalla forza di temperamento e pure con inevitabili e necessarie contraddizioni, i motivi romantici di Michelstaedter: della vita come tragedia, quello della psicologia come slancio vitale, quello dell'arte come intuizione e pensiero, quello della moralità come assoluto. Insieme con i motivi della tradizione nordica, di quella giuliana e triestina affiora, intanto, la consapevolezza della crisi, il sentimento dello scacco, della disillusione, della sconfitta. "Il mio cervello - scrive, infatti, a Chiavacci il 4 agosto 1908 - è come un mare ondeggiante, che riflette tutte le luci, che rispecchia tutte le coste e tutti i cieli; ma nel punto che li rispecchia li infrange, ma il fondo resta torpido e oscuro e non sa il vigore e la forma della sua vita. Così sono ora lieto ora triste, ora calmo e ora burrascoso e sento il soffio di tutti i venti. Certo quello che non ha il mare io ho: il tormento ininterrotto delle azioni passate e del lavoro futuro, delle aspirazioni diverse e insoddisfatte; la coscienza della mia nullità in questo mondo che vive sia d'azioni che di pensiero, che d'arte; della mia vita che si dissolve in una aspettativa di che? nell'illusione di un formarsi progressivo che non esiste, di un accumulare che non avviene, o avviene come quello della sabbia che l'onda porta e poi disperde". Sono sensazioni e pensieri molto importanti per la definizione della crisi dell'esistenza e della persona umana, perché valgono a fornire taluni aspetti caratteristici della fisionomia del decadentismo italiano. Michelstaedter ha coscienza, come Pirandello, della caduta dei miti; la sfiducia e la consapevolezza della crisi dell'eroismo e della grandezza vera inducono nel giovane il titanismo dell'opposizione alla mediocrità morale, alla sensualità, all'estetismo, al sadismo, alla fatalità dell'amore e inducono anche, però, più precisi motivi esistenzialistici quali l'angoscia di fronte al nulla, la disperazione, il naufragio, la volontà di distruzione, temi che accentuano esistenzialisticamente la storicità del decadentismo. Michelstaedter anticipa la documentazione filosofica e culturale dei legami, fino ad ora scarsi, del decadentismo italiano con quello europeo, e del suo carattere non unicamente indigeno e nostrano. I limiti nostrani, tuttavia, sono maggiormente verificabili nei letterati e nei poeti, nei quali il pensiero è maggiormente vincolato dalle forme della tradizione.
L'epistolario di Michelstaedter è una fonte della letteratura decadentistica (nel significato più vasto di cultura, idee, psicologia, vita pratica, morale ecc.), poiché si leva dal vario agitarsi di una vita che tende, coerentemente, alla soluzione consapevole e irrefrenabile. La nostra lettura non è in chiave drammatico-romantica, come potrebbe essere per qualche altro epistolario del tempo, ma l'alternanza di catarsi e di cadute, in questo caso, è storicamente consentanea alla precisazione decadentistica. Quando Michelstaedter, non finto morituro o bel morente come altri personaggi del tempo, confessa la propria vitalità ("Corro, salto, tiro di scherma, comincio a rinascere; ogni banco che trovo per via devo attraversarlo con un salto, le scale le faccio di nuovo a tre a tre, e i tram li piglio in corsa, ho ricominciato a bastonare tutti i miei amici e a far disperare quelli del primo piano") e afferma che non gli resterebbe altro "che la vita fisica violenta" ("errare a cavallo per la prateria e riposar la notte sotto la tenda a contar le stelle e fissar la linea chiara all'orizzonte"), indica la fase estrema dell'intellettualismo ottocentesco che non è più capace di credere in una individuale "vita grande intensa passionale". Gli stessi rari momenti di vita serena sono quelli di chi sopporta una "felicità timorosa" e si sente "precipitato in qualche fosso" e, ancora vivo, "si tasta il corpo per assicurarsi d'esser sano e salvo", o di chi "si risveglia da un brutto sogno e non è ancora ben sicuro d'aver sognato". A mano a mano che i temi della persuasione e della rettorica si vengono precisando nello spirito del giovane, gli elementi della crisi si consolidano e si vengono scoprendo le analogie con il pirandelliano sentimento della falsità delle apparenze, con il "sentimento del contrario" che per Pirandello è la fonte di ogni arte.
Michelstaedter non è certamente il comune intellettuale che cerca di colmare le differenze che separano il pensiero dalla vita, ricucendole con l'intervento di un sistema già smagliato e decomposto prima dell'applicazione; ma coraggiosamente distrugge le forme e la cultura dell'Ottocento per creare consapevolmente la nuova visione dell'uomo e del mondo che sostituisca quella esaurita e tenuta in piedi dalla fiacca cattiva volontà degli esseri comuni. Il suo è uno sguardo fermo sulla impraticabilità delle vecchie formule, uno sguardo "eroico" come quello di Machiavelli, il quale amaramente concludeva che "al mondo non è se non vulgo". Come Machiavelli, egli demoliva i vecchi principi per fare in modo che l'uomo non si esaurisse tutto negli atti che aveva imparato a fare, in nome di una tradizione che aveva mistificato la vera natura umana. Era contro l'ottimismo accademico, sapeva con Tucidide che gli uomini non si intendono fra di loro perché cambiano artificiosamente il significato delle parole e adulterano con l'intelletto i motivi essenziali dell'eroismo e della magnanimità; sapeva che la rettorica uccide la sostanza e le sostituisce dei nomi, delle parvenze inutili. La consapevolezza storica della finzione, della necessità di distruggere non a parole la rettorica, di edificare un nuovo mondo umano, illumina la tragedia della sua vita, e colloca il suo pensiero fra i più elevati documenti spirituali della crisi del decadentismo. La prefazione (poi omessa nell'opera definitiva) preparata per il lavoro di laurea, iniziava pessimisticamente: "Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su quattro sistemi..." Dai primi mesi del 1909, contemporaneamente al lavoro per la tesi di laurea, la sua visione della vita diventa sempre più pessimistica: "Per quello spiraglio della rettorica ho contemplato cose tanto più interessanti - amaramente interessanti - che ora mi secca maledettamente limitarmi a quella meschinità."
Dopo la morte del fratello Gino avvenuta a New York, la realtà si apre a Carlo nella sua durezza ("in contatto più immediato col mondo, con le bucce di tutti i mandarini guasti che ho aperti e che puzzano ancora"), l'ambiente della cultura universitaria lo deprime (intende lottare "per la vita e per il sole contro quell'aridità e quell'oscurità della filosofia universitaria...", come un falco che manda via le cornacchie dalla cima del monte, le cornacchie che "continueranno sempre a chiamar cima quella pianura sudicia dove stanno, che continueranno sempre a mangiar cadaveri..."); e la cultura accademica, priva di veri interessi, perduta in distinzioni "dotte, storiche, filosofiche", gli pare miserabile (anche "Aristotele è un miserabile", "coi suoi giochetti empirici e dogmatici"). Del resto, nei riguardi del suo lavoro di laurea il criterio dei professori è, secondo il giovane, inesistente: "per loro è come arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male". Solo la musica, eseguita per lui dall'amico Giannotto Bastianelli, la musica di Beethoven gli dà il sentimento eroico della vita: in quella musica sente l'uomo arrivato alla vita universale e che ha perduto ogni coscienza individuale, sente la richiesta e il dolore infinito per la vanità di ogni speranza. La gioia in Beethoven è una "gioia tragica, che spaventa; è qualche cosa di macabro, come una danza sui sepolcri. Pare che la vita di tutti i tempi che devono venire si consumi vertiginosamente in quell'orgia, e si sente che il limite è l'annientamento". In quella musica sentiva l'assoluto, e non la parodia di calvario che è nell'angustia di quanti attendono la pace dopo il dolore, o fingono drammaturgie avendo la mentalità e lo spirito di farsaiuoli. Anche nell'arte ciò può avvenire e il giovane demistificatore fischia "come una locomotiva" ‘La cena delle beffe’ di Sem Benelli, solo contro il pubblico che "bestione fatto di mille persone, turbato nella sua dolce illusione, nella sua sufficienza, mi voltava incontro la sua faccia stupida e feroce".
Dal 1909 si acuiscono in Michelstaedter gli accenti pessimistici, i quali corrispondono a un sentimento della vita come illusione di cui rimane soltanto un "riso maligno", un "dolore bruto" per la brutalità della forza che tiene in vita, un dolore infinitamente cosciente. Così scrive nel settembre del 1909 all'amico Enrico Mreule: "Peggiore questo dolore che tutto il dolore provato quando vedevo per la prima volta". La consapevolezza eroica dell'oscurità della vita ("che passa stilla a stilla interminabile"), lo spegnersi dell'entusiasmo nel "riso amaro" dello scetticismo, il sentimento "della propria umiliazione, della nausea"' ha qualcosa del virile pessimismo di Leopardi negli ultimi canti, che ha lasciato una lunga eco della propria forza morale fino a Montale in ‘La bufera’. La "necessità di stare con dignità attiva al mio posto - o di non stare in nessun posto più", è riaffermazione della mediocrità della vita, della facilità con cui gli uomini si adattano a qualsiasi evento, della volontà di consistere in un punto per vincere le posizioni facili e sostenibili. La stessa idea della morte volontaria è, in qualche lettera, criticata in quanto deriva da desiderio di fuggire una pena; più giusta sarebbe la morte volontaria "per non piegare". La vita come gemito, come accomodamento genera la nausea, il nutrirsi di parole genera vergogna, a chi ama piegarsi è data "inerte e ottusa vita".
Le ultime lettere al cugino Emilio, suo allievo, e alla madre elevano per il tono eroico e virile il motivo della posizione umana che supera la paura del destino incerto. La rinuncia alle "cose dolci, l'approvazione, la lode, i premi", egli scrive, non deve preoccupare la madre. La sua intransigenza, difficile ("quante volte in questa via indiretta e dolorosa ho rasentato gli abissi"), aliena dalle finzioni e dal culto delle apparenze, lo rende dissimile dagli altri giovani che hanno vuota vita, mentre egli sa "come si può avere qualche cosa nella vita, come si può essere uomini", senza chiedere agli altri né alle situazioni preparate: "Io so che non ho da attendermi niente da nessuno; perciò non ho niente da temere nella vita, niente si può cambiare, niente si può fermare". Michelstaedter appare ormai lontano dal bene e dal male, in una atmosfera superiore, lontana dalle necessità contingenti, dai piaceri insipidi e vani. Gli altri giovani, quelli ai quali non vuole somigliare, "hanno vuota la vita, e l'avranno sempre vuota - e la riempiono delle preoccupazioni per la carriera data dagli altri, e la riempiono di vani piaceri che lasciano loro la bocca amara; stirano la loro noia attraverso tutti gli anni e tutti i giorni della loro vita, attraverso i loro lavori oscuri e insensati, i loro piaceri insipidi, le loro relazioni familiari, e di amicizia, o di patria, ottuse e vuote". Al di là dell'intento di consolazione per la madre, queste parole del giovane, che un mese dopo poneva termine volontariamente alla propria vita, si iscrivono con la loro tensione eroica della nuova e originale problematica storica dell'esistenza che ripropone, dopo la crisi del positivismo, dell'accademismo, dell'ottimismo idealistico, del dannunzianesimo estetizzante, il problema del senso del conoscere intellettivo, dei valori umani, della rivolta contro la mistificazione e la rettorica.

2. - Con La persuasione e la rettorica Michelstaedter distrugge gli assolutismi filosofici, precostituiti perché nutriti di parole, mentre il mondo "non è cosa da dirsi, ma da viversi". Nelle nebbie della noia gli uomini inventano parole, e di parole "si fanno un empiastro al dolore, con parole significano quanto non sanno e di cui hanno bisogno per lenire il dolore". Alla denuncia della relatività consegue quella della vanità del sapere. Il sapere è uno degli "abbellimenti dell'oscurità", gli uomini lo costituiscono, lo istituzionalizzano, lo barattano, lo comprano, lo presuppongono, lo fabbricano, ne fanno un succedaneo, un impiastro, lo nominalizzano, lo rendono sistematico, lo insegnano, creano la rettorica del nominalismo per tramandarlo, per fissarlo. Quando l'uomo cerca la vita, quando in lui prorompe "il grido della vita", gli viene dato in parole finite il sapere, il nome, la definizione, la convenzione. Ma il segno convenzionale nasconde l'oscurità, la parola è un accordo su ciò che non si sa; per giunta "piccoli brandelli di sapere", congiunti e subordinati alla curiosità filosofica, ad altri brandelli, vengono a formare un sistema che è affermato come assoluta conoscenza. E si interpretano le piccole curiosità del sistema come cose vere e serie, si fruga nelle pieghe per scoprirvi nuove connessioni, si fanno ipotesi che superano il sistema, si fingono raggi di luce: "Il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale". Se il dolore continua muto e inafferrabile nella vita, se l'oscurità sempre più si stringe, chi possiede il sapere costituito crede di essere nella libertà del pensiero quando applica alle cose le forme del pensiero, quando gioca: egli crede che "nel sistema della conoscenza vive la libertà assoluta dello spirito [...]. Oh vanità, cinta di querce!" I problemi, i sistemi, i metodi di classificazione, le definizioni, i superamenti sono i pilastri, i ganci dell'inutile lavoro del sapere organizzato che continuamente segue le vie battute dagli altri. Ma "non c'è cosa fatta, non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere alla vita, non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via; la lingua non c'è ma devi crearla, devi crear il mondo, devi crear ogni cosa, per aver tua la tua vita".
Accontentarsi dei segni convenzionali del sapere tracciati da altri significa restare pago della propria insufficienza. Infatti la cultura, la scienza che sa di essere l'assoluto, si pone aprioristicamente su un piedistallo che la mistifica, si organizza in un sistema che è il suo piedistallo. E quale ben tetragono sistema può coincidere con la libertà della coscienza, col valore? La coscienza non può essere cristallizzata. La presunzione positivistica prima, quella idealistica poi - prima in nome della natura, in nome dello spirito poi - hanno dovuto soggiacere agli "artigli" della verità, perché male segue la libertà e la coscienza chi le diparte dal valore. Dello stesso Michelstaedter si può dire, pertanto, che non appartiene ad alcun indirizzo o corrente, neppure all'indirizzo idealistico, anche se per il nostro pensatore il mondo era una proiezione del nostro spirito. In realtà per lui il mondo tanto vale quanto interessa la volontà. Michelstaedter è contro i sistemi ricchi di implicazioni pratiche, consolatrici, mistificatrici ecc., destinati ad accartocciarsi come le corruttibili cose: egli prescinde da categorie e terminologie comuni, usuali tra i filosofi del sapere costituito. Secondo lui, è molto comodo nobilitarsi con il richiamo alla tradizione del passato e costruire su fatiscenti macerie, per mascherare la mancanza di valore individuale. Chi non sarebbe capace di catalogare ciò che già fu di alchimizzarlo, di colorarlo per mezzo di polverine, di cromografarlo, con abilità tecnica e con aria di sufficienza?
La mistificazione del sapere è quindi, per Michelstaedter un risultato dell'insufficienza, della paura, della disperazione, soprattutto è una limitazione operata dagli uomini, i quali si vogliono rifugiare e consolare nel comodo letto della tranquilla conoscenza, nei caldi panni del piacere e dei reciproco compiacimento. Ma, "il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il, fiore dell'acerbo, l'acutezza è il fiore della profondità, la pace è il fiore dell'attività, l'affermazione è il fiore della negazione, il sapere è il fiore della fame, la prudenza è il fiore del coraggio"; e la virtù vera, il valore, non cerca l'acutezza, la pace, l'affermazione, il sapore, la prudenza ma la vita. La consapevolezza dell'insufficienza, invece, porta l'uomo a ricercare tutto ciò da cui il senso attuale della sua persona era stato blandito con la voce del piacere, lo porta ad amare il sapore per il sapore, il colore per il colore ecc., a cercare di godere due volte con l’autocontemplazione, con la contemplazione del proprio godimento, il narcisismo, l'estetismo. Si costituisce così la rettorica del piacere nella ricerca degli innumerevoli piaceri. Se dal piano teorico volessimo passare alle esemplificazioni letterarie e artistiche, avremmo una infinita varietà di dilettazioni estetizzanti, di "sensazioni raffinate". Ma uno degli esempi di maggiore impotenza artistica e critica è offerto dalla finzione di vita assoluta nell'elaborazione del sapere, della falsa fiducia che "dolce è il conoscere": per costoro la volontà di sapere si traduce in impotenza, in oscurità, in "aggregato inorganico di nomi legato coll'organismo fittizio del sistema". La cultura, il sapere dei numerosi, più o meno piccoli, più o meno resistenti "kalkenteroi" della storia si riduce all'inorganico sapere: "Ben felici le bestie che non hanno "anima immortale" che le getti nel caos dell'impotenza rettorica, ma si mantengono nel giro sano della loro qualunque potenza". Su un piano pratico, comune l'uomo per costituirsi una persona parla di sé in modo inarrestabile e senza criterio, ogni cosa riferisce a se stesso; allo stesso modo la rettorica filosofico letteraria coi lavoro oscuro del sistema, del metodo crede di partecipare all'assoluto, si costituisce anch'essa una "persona della conoscenza assoluta".
Il pensiero di Michelstaedter, dicevamo, non si può legare a correnti di idee o a sistemi. Il suo stesso idealismo, nel senso prima accennato, assegna alla natura una volontà impersonale e obiettiva che è la causa della vita degli esseri. L'universo è nato da formazioni naturali, volontà di vita, non vita attuata, come un groviglio embrionale di esistenza che, desiderando esistere, si slancia, fugge, si temporalizza e dilata nello spazio, in relazione con le altre volontà di cui ha bisogno e di cui si rende, avendone bisogno, schiava. L'uomo è la formazione più elevata che pure vive nello spazio, nel tempo, nella relatività (come la ragione sufficiente di Schopenhauer), per l'uomo è male essere nato ma nell'uomo, a differenza degli altri esseri della natura che si moltiplicano, si pluralizzano coinvorticando di continuo, c'è la possibilità di trovare il valore nel consistere, nell'attuare se stesso. Conoscere vuol dire conoscere se stesso, le teorie sulle formazioni, sul mondo sono inutili, l'apposizione di un sistema, di nomi, di falsi valori, di intenzionalità, di finalità, di nobilitazioni, di spiritualità è dei tutto inutile e consegue all'impossibilità di consistere, all'insufficienza, alla schiavitù dell'uomo alle relazioni. Socrate cercò di superare il peso della dipendenza, almeno denunciò la dipendenza. Platone invece creò un macrocosmo e lo riempì di Assoluto, si esaltò di esso, credette di avere l'anima, l'incorporeo, la leggerezza: era il vuoto. Aristotele dettò le regole, le categorie della leggerezza e della metafisica, fece commercio di queste regole che si vennero col tempo tramutando in teorie, sistemi, elaborazioni.
Con tali elaborazioni la rettorica era costituita e non avrebbe mai più abbandonato gli uomini, nonostante che Parmenide avesse consigliato di non farsi spingere per quella via dalla consuetudine dai molteplici inganni. La scienza moderna ha creduto di avere rimesso sul terreno positivo la filosofia vaneggiante per le esaltazioni metafisiche; ha creduto di costruire parte per parte, giorno per giorno quantitativamente con l'osservazione, l'esperienza, il corpo della scienza umana. Ma anche questa è un'illusione di conoscenza: vedere oggettivamente senza un soggetto quale vedere è? Solo il persuaso, il dio, potrebbe vedere l'oggettivo uno e indivisibile. Gli scienziati che "vivono floridi" dell'oggettività del loro lavoro scientifico guardano ma non vedono, sperimentano l'ottusità dei sensi, inventano ingegnosi apparati, ma il risultato è quello di rendere più intensa l'ottusa vita dei sensi: "Degli scienziati moderni direbbe Isaia: Hanno microscopi e non vedono, hanno microfoni e non sentono". L'illusione di nuove vie tracciate, di nuove tecniche scoperte, di presunzioni di causalità, dileggi svelate nasce dal timore della vita, dall'insufficienza, e gli uomini soggiacciono a qualunque fatica bruta per cercare di avere l'idea della continuità della vita: "In ogni uomo si nasconde un'anima di fakiro". La scienza si chiude nelle piccole cose, crea piccoli conforti con la tecnica, esalta il tecnicismo, la virtuosità, la specialità, sollecita in tale modo la debolezza dell'uomo. Lo scienziato vive in un cunicolo, si crea vita sufficiente con l'attività dell'esperimento, vive la vita diminuita, la comune vita, per timore di vedere in faccia la morte. Nell'oscuro del cunicolo, nella falsa valorizzazione del lavoro finito e determinato, egli è venuto creando la rettorica scientifica. La scienza, per maggiore comodità degli uomini che vogliono comunque continuare ad esistere, offrono loro medicine per i mali e previsioni per il futuro - per il futuro della vita di relazione -: a questo scopo violentano la natura, inventano macchine, inventano nuove parole, "sulle quali gli uomini senza conoscerle si appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute le danno". Tali termini sono, anch'essi, "ornamenti dell'oscurità" e per la loro ignoranza gli uomini chiamano gli scienziati "pionieri della civiltà". Negli scienziati, invece, si esprime la voce degli elementari bisogni, gli scienziati sono lo strumento inconscio della "comunella dei malvagi", della sostituzione, della mistificazione delle parole, "per la quale gli uomini se non riusciranno ad intendersi certo giungeranno ad intendersela".
Le acri riflessioni di Michelstaedter sono incentrate sui concetto della società organizzata quale "comunella di malvagi"' e sotto l'intitolazione del capitolo intorno alla rettorica nella vita ci sono le seguenti parole di Leopardi:

... di molti
tristi e miseri tutti un popolo fanno
lieto e felice...

In un bellissimo dialogo ideale tra lo scrittore e un uomo del suo tempo Michelstaedter ci presenta un ineffabile prodotto dei grasso compiacimento del callopismatismo, quello cioè di un felice ignorante il quale è contento di restare al buio e ama gli ornamenti della cecità e dell'ignoranza. È un uomo che dice di sapersi adattare alla vita, di avere buon cuore, pieno di sentimenti gentili, equilibrato, che concede al corpo e allo spirito, innamorato della "varia ed eletta cultura umana", delle scienze esatte che consentono di essere "i veri signori del creato", delle "sante istituzioni", dello stipendio, sicuro che la pensione, l'assistenza in caso di malattia non verranno meno, assicurato contro il furto, il fuoco, la morte: "Sono in una botte di ferro, come si suoi dire", conclude trionfante l'uomo. Quest'uomo rappresenta l'individuo sognato da Hegel all'ultimo stadio della libera evoluzione del sistema della libertà, rappresenta la libertà morale, medio concreto, che unifica le idee e le passioni umane. Quest'uomo per Michelstaedter ha la libertà di essere schiavo, essendo ormai ridotto a meccanismo e disgregato come individuo, nondimeno sicuro e sufficiente come una divinità. La sicurezza di quest'uomo si fonda sulla reciproca convenzione degli uomini raccolti in società, perché ognuno possa badare alla propria vita in modo giovevole all'interesse comune, possa pensare alla propria piccola vita, ma in un modo prestabilito e preordinato dalla saggia società, "ognuno girando sul suo pernio, e sapendo via via nei suoi denti i denti delle ruote connesse".
Gli uomini che vivono sicuri, nella società così organizzata, chiamano educazione la loro degenerazione, "la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico la spada della giustizia". La società largisce, diremmo senza alcuna preoccupazione dell'interessato, ciò che gli è necessario, in cambio del determinato lavoro che l'uomo compie per la società, "come purché uno metta in un organo meccanico una data moneta e giri l'apposita leva, la macchina pronta gli suona la melodia desiderata". In cambio della servitù l'uomo riceve sicurezza, con la sicurezza egli esercita a sua volta la violenta sulla natura e verso l'uomo. Il momento della violenza, o della rettorica, è quello della strumentalizzazione, dell'appropriazione, e i legami con il consueto hegeliano dell'alienazione è evidente. Chi maggiormente violenta la natura col lavoro, adoperando anche i cumuli del lavoro passato, afferma in modo violento la sua individualità relativa e soggioga un altro, dandogli il mezzo di vivere, "purché egli lavori per lui". Estende così la sua violenza anche al suo simile, rendendolo schiavo come le cose, purché rimanga in vita, perché solo da vivo lo schiavo gli può essere utile. Il padrone allora fa sentire allo schiavo che il suo diritto di esistere coincide, con i doveri verso il padrone, "che la sua sicurezza è condizionata dal suo aderire ininterrotto ai bisogni del padrone [...]. Uniti, sono entrambi sicuri; staccati muoiono entrambi: ché l'uno ha il diritto ma non la potenza del lavoro, l'altro la potenza ma non il diritto".
Le pagine sulla rettorica si chiudono con tale sconfortante visione della realtà, in cui l'autore guarda spietatamente, crudamente svelando la falsa umanità e le mistificazioni della vita associata, la mediocrità del "vulgo" che crede di cooperare "all'immortale edificio della futura armonia delle scienze". Ma al di là dello sguardo che spoglia la società degli ipocriti veli, Michelstaedter intende che in primo luogo vi sia l'azione, l'attività per attingere il calore individuale, la vera conquista dell'uomo. Tale conquista, la persuasione come conoscenza della verità, è il fine che egli si propone, facendo "con le parole guerra alle parole"' "perché pur il sol risplenda". Queste espressioni, si trovano in capo alle ‘Appendici critiche’ in cui sono illustrati, spesso con ampiezza, luoghi di ‘La persuasione e la rettorica’. Nella prima appendice, ad esempio, troviamo una breve discussione intorno ai modi della significazione sufficiente, e l’osservazione che l'imperativo non è un modo, non è una realtà convenzionale "ma vita: è l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge una attualità in ogni modo finita e sufficiente", corsie gli altri modi che affermano l'individualità illusoria come assoluta. Esso è reale quanto è reale il Soggetto, è il soggetto che "non fa parole, ma vive. Evviva l'imperativo!".
Nell'appendice seconda è spiegata la degenerazione del concetto di valore razionale da Socrate ad Aristotele. Socrate liberava il concetto dai contenuti utilitari degli uomini, dall'irrazionale, mentre Platone, quando ammette determinazioni, rinuncia al postulato della vita, accetta il "bisogna vivere", il "bisogna continuare con la qualunque vita". Platone accetta a poco a poco che base della città della giustizia sia la convenzione dei violenti, come in qualunque città, accetta come vita libera quella fatta dei bisogni elementari e fonda, così, la libertà di essere schiavi. La città isola le singole necessità, le chiama giuste, con quella giustizia finge una persona sufficiente e pertanto costituisce la produzione della vita elementare: agricoltura, arti, mestieri, commercio, guerra, l'adattarsi a essere parte materiale dell'organismo è giustificato, la compromissione nel gran corpo (altrove dice "corpaccio") della vita dello stato, è indispensabile per far procedere l'irrazionale macchina, in cui anche l'educazione è strumento che giovi per determinati usi. Platone non deve creare uomini autarchici, ma individui che compiono quanto è necessario per date funzioni, a loro volta necessarie allo stato a cui è attribuita la persona della giustizia. Con Platone è aperta la porta all'infinita rettorica filosofica e ogni idea ha cittadinanza nel mondo dell'assoluto. Egli ha distinto anima e corpo, ragione e passioni, ha dato un mondo dell'assoluto bene, dell'assoluta giustizia, per cui l'uomo può essere inefficiente e vile, ma parteciperà egualmente dell'assoluto e del divino: "Questo empiastro che i secoli della rettorica filosofica hanno applicato al dolore umano nessuna forza può più levano: il pensiero, l'intelletto, il sapere, le idee, i concetti, le categorie, i principi, le ragioni, i sillogismi e il pensare, l'intelligere, il ricercare, il riconoscere, il classificare, il subordinare, il ragionare, il dimostrare, chi li può più toglier agli uomini che non se ne facciano vita sufficiente, senza insieme strappar loro la pelle?".
Ciascuno si crea, illudendosi di raggiungere l'assoluto, le "mercanzie", gli empiastri che lo salvino, poiché a ciascuno la paura della morte è vita; dopo Platone ciascuno ha voluto fingersi paradisi artificiali di bene, di virtù, di valore ed ha cosparso il miele sul dolore per non conoscersi veramente, per non compiere lo sforzo di giungere alla persuasione, per non venire ai ferri corti con la vita, per non entrare nell'oscurità. Criterio fondamentale non è più l'essere ma il dimostrare, il sistema dei nomi, le opinioni - che sono tutte valide in quanto partecipano del tutto -: non c'è più dialettica ma accademia di lotta, rettorica, se da una parte si pone il sapere e dall'altra la vita, se l'irrazionale diventa convenzionalmente assoluto, se si ammette il coessere, se si può fingere la sostanzialità di qualsiasi cosa si dica, se l'attività filosofica giunge alla trama del relativo, di ciò che è vicino al bisogno, alla "vista vicina". La massima responsabilità di Platone per Michelstaedter consiste nell'avere legittimato "i compromessi dell'umana debolezza", nell'avere tolto all'uomo la possibilità di avvertire il dolore, l'insufficienza ma anche il bisogno di affrancarsi dall'uno e dall'altra. Platone negli ultimi dialoghi si aggira in una nebbia di problemi, il mondo e la vita diventano per lui solo teorie, dal sistema la vita è fuggita e le parole sono soltanto termini tecnici.
Tale avviamento trionfa con Aristotele, il quale costituisce il criterio della "vista vicina": col guardare si forma il tesoro dell'esperienza e, per esso, nella realtà si riconoscono determinazioni (cause, scopi, proprietà, analogie) e queste si localizzano. L'essere ormai è detto molteplicemente, secondo l'accidente, secondo la qualità, la verità, l'errore, i modi della predicazione, ma sempre in riguardo a una natura. Il vero ormai è detto secondo l'attualità fenomenica, secondo le relazioni vicine e determinate, familiari alla loro materialità - ché altrimenti, secondo Aristotele, si parlerebbe per generalità. Per Michelstaedter Aristotele è il teorizzatore della via fatta, della rettorica attuata nella vita, il creatore di un bene accetto codice della sapienza della vita, è il primo motore "a tutte le altre codificazioni nei secoli che seguirono, anche a quelle così termina l'ultima appendice - che ora con sempre maggiore acribìa "gli studi statistici compiono a maggior gloria della sufficienza inerte e timorosa". Con Aristotele la persuasione si è sciolta - perché è uscita dalla vita - nelle classificazioni, nelle generalizzazioni; si sente che il filosofo non ha "sanguinato" per darla, si sente che la sua è un'accademia di lotta, una teoria della pragmatica comunque, intesa ad apparire trionfante più che a cercare il valore pieno dei concetti. In questo, come altri docenti di filosofia, fu imitato - scrive Michelstaedter - da Croce, creatore di premesse errate e di errate soluzioni: "Così ad esempio possiede ai nostri tempi in Italia Benedetto Croce la sciagurata abilità di eliminare sempre da ogni questione quello appunto che è la questione e che rimane sempre lo stesso in ogni altra, di limitare le possibilità così, e di disporre cosi a proposito di queste le aporie delle soluzioni altrui, che appaia necessariamente risultante quella qualunque soluzione che egli dà... per aver dato una soluzione. E gli altri che nemmeno questa possiedono io temono più che non io rispettino".
Da Aristotele a Benedetto Croce si continuava, per il giovane filosofo, la trama della rettorica e del sapere costituito, delle infinite mistificazioni in cui il dio della viltà suole nascondersi. La filosofia greca non era un rifugio intellettuale, un comodo ritiro, un ritaglio dello spirito, ma era io stampo in cui la cultura dell'occidente aveva elaborato la propria umanità con Parmenide e Socrate, e l'aveva sofisticata con Platone e Aristotele. L'avventura ingannatrice della parola staccata dalla verità e dall'individuo si venne perpetuando nella nostra civiltà, nelle mitizzazioni di essa compiute a scopo di utilità, di edificazione, di prevaricazione; in tale modo si affermava l'umanità della rettorica e della violenza, dell'inganno e delle sofisticazioni. Tutte le riflessioni di Michelstaedter sono così una denuncia del sapere "sufficiente" e disumano, perché - queste parole dette all'inizio dei nostro secolo sono molto importanti - "non è una cosa da dirsi il mondo ma da viversi".

3. - Tutta l'opera di Michelstaedter rispecchia il suo stile personalissimo e non è riconducibile, se non per elementi puramente occasionali ed esterni, ad altre opere precedenti o contemporanee. In essa si esprime la ricca personalità dell'uomo coraggioso, animato da una forza indomabile di volontà e passione. Abbiamo detto che egli appartiene alla razza dei profeti, che vogliono la consumazione di ciò che è disumano e l'avvento di una umanità eroica. Nelle sue pagine la dialettica ferrea è animata da un calore di persuasione che avvince, sicché qualcuno come Gerace ha scritto che la sua filosofia è poesia. Ma Gerace era vincolato, ci pare, dal concetto di poesia come lirismo, mentre a noi pare che questa poesia, oltre che sentimento sincero, sia storicità sentita e persuasione, amore di verità che tutto circonfonde. La lotta contro la rettorica nasce dall'amore della persuasione e dalla volontà di affermare un mondo migliore, una diversa società umana.
Perciò Michelstaedter si oppone alle mistificazioni con sdegno, con ironia finissima e spesso contenuta, apodittica, solenne, dissolvitrice. Le dimostrazioni scientifiche più rigorose sono limpide, chiare, intercalate con apologhi, favole, racconti che fanno apparire lo scrittore come un moderno predicatore devoto della verità e dell'essere, nel cui nome viene fustigando gli errori del pensiero e dello spirito fondati su una mediocre misura umana. Meglio, egli appare nella sua più intima forza come grande moralista, come uno spirito religioso che parla in nome di Socrate, della Bibbia, di Cristo. Se si guarda alla prosa letteraria o filosofica del suo tempo, si può affermare che Michelstaedter non aveva fratelli: gli stessi scrittori giuliani viventi a Firenze, e che saranno artefici del movimento intorno a "La Voce", non hanno con lui altra parentela se non una generica ascendenza culturale germanica e mitteleuropea, in cui si agitano ribollimenti di tragedia. Ma nessuno giunse a una visione organica di natura speculativa, nessuno giunse, nella ricerca, a guardare tanto profondamente nella natura umana. Michelstaedter non appartenne a gruppi, a ragioni culturali contingenti, storiche, geografiche: egli è stato, come ha scritto Tilgher, "filosofo come pochi al mondo". Ma nel momento storico in cui visse, ci pare che solamente la personalità di Pirandello si possa avvicinare alla sua, in quanto l'uno e l'altro avvertono che l'uomo vero è diverso da quello convenzionale e rettorico.
La persuasione e la rettorica, preparata in vari appunti e note, completata dalle appendici critiche, non destinata alla pubblicazione e originata come lavoro di laurea, è una operetta morale nelle cui prime pagine troviamo lo stile lucido di enunciazioni apodittiche rimaste memorabili, come la prima ("So che voglio e non ho cosa voglia"), a cui segue l'esempio del peso che pende a un gancio per dimostrare che la vita, la volontà, è mancanza di propria vita. Il soggetto comincia a essere spesso "gli uomini", perché l'accento fondamentale del moralista tocca l'uomo, intorno a cui si affollano le citazioni di testi greci e pagani, più avanti latini e tedeschi, in un incrocio di linguaggi solenni e apoftegmatici. Ma soprattutto la mescolanza di greco e italiano (egli scriveva direttamente in lingua greca, componeva apologhi, esprimeva concetti, chiariva in termini greci ecc.) diventa costitutiva dell'atteggiamento mentale di Michelstaedter, esercitatosi sui testi fondamentali dei presocratici e portato alla verifica continua dei termini non ancora, in quei testi antichi, mistificati. Gli ideali collocutori sono Empedocle, Parmenide, Eradito, sicché dalle limpide premesse si svolge la prosa italiana dinamica e appassionata nella sua lucidità. Dopo l'esempio del cloro e dell'idrogeno che si cercano e si fondono e sono simbolo della morte come vita, giungono le pagine bellissime sul dio della viltà, quello che fa amare la vita adulando l'uomo e continuamente ingannandolo e deludendolo. Lo scrittore crea atmosfere kafkiane nel descrivere gli uomini al buio, i loro timori di bambini, il barlume dell'essere che turba le loro tranquille immagini familiari per qualche istante:

Si destano dal sonno, sbarrano gli occhi nell'oscurità… e il soccorrevole fiammifero ridona loro la pace. Allato è la dolce consorte, qui i vestiti con l'impronta del corpo, qui nei ritratti le note facce dei parenti tutte le care, care cose conosciute.

Nelle pagine sulla via alla persuasione, le domande rivolte all'ideale interlocutore ravvivano l'operetta con l'ipotesi della morte fisica, la quale consente di saggiare la labilità delle idee e delle fedi umane; i periodi spezzati, interrotti, punteggiati esprimono la paura della morte e si chiudono con l'affermazione solenne: "Chi teme la morte è già morto". Subentra un tono di imperativo morale quando si parla del permanere, del resistere alle correnti delle illusioni ("No, egli deve permanere, non andar dietro a quelle fingendosele ferme..."). L'autore interviene di continuo proponendo le obiezioni e superandole con slancio, rampognando chi si lamenta, rivelando quale vera schiavitù sia il "bisogna vivere" di chi non sa superare l'individualità illusoria: canzonette venete, grafici psicologici, dimostrazioni matematiche, parenesi logiche e morali costituiscono come una grande colata fusa dalla forza della volontà, l'elemento che deve spingere alla persuasione:

Fare non è per aver fatto [...]. Già, l'impossibile! poiché il possibile è ciò che è dato [...]. Non ci sono soste sulla via della persuasione. La vita è tutta una dura cosa. Egli deve aver il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore [...]. Egli non deve accontentarsi [...]. Non deve abbandonarsi al piacere dell'apparente simpatia [...]. Deve essere un uomo che dice sempre di no.

Il verbo centrale dello spirito dialettico è deve, il soggetto è sempre l'uomo che fa tacere le voci delle relazioni, ed è paragonato al falco che si alza sicuro verso l'alto. Una folta determinazione di immagini ritrattistiche, invece, contrassegna l'uomo vinto dalla rettorica e incapace di andare verso la persuasione. Così vediamo l'uomo filopsichico invocare dal dottore la continuazione della vita sulla terra, dal prete la continuazione oltre tomba, o cercare la mano del compagno per fingersi la persona che non ha ("io sono, tu sei, noi siamo" per sentirsi rispondere la stessa cosa). L'esempio storico della vanificazione del concetto da Socrate ad Aristotele è illustrato narrativamente attraverso la strana macchina, un grande globo di acciaio, che Platone riempie di Assoluto, la cui mercanzia sarà poi venduta da Aristotele. Il filopsichico è caratterizzato nelle sue determinazioni quale gaudente, esteta, scienziato del sapere costituito e ora l'Ecclesiaste che lo deride, ora la derisione nasce dalla stessa rettorica che si vendica. L'apparenza di persona, invece della persona vera, è ironizzata: "In ogni uomo - l'autore scrive, per mostrare quali fatiche e dolori si sopportino per crearsi illusioni e prorogare il dolore - si nasconde un'anima di fakiro". L'assunzione di persona sapiente, di scienziato, e derisa come una sorta di truffa reciproca, per cui "gli uomini se non riusciranno ad intendersi certo giungeranno ad intendersela". Dialoghi brillanti, apologhi saporiti (l'eschimese e l'etiope che si incontrano nella zona temperata), ironie profonde (sull'aspetto conveniente delle facciate delle case, sui viaggiatori in transatlantico, sui cacciatori che ormai non fanno fatica, sugli impiegati sommersi dalle carte, sui giudici, sui medici, sui maestri di sapienza, su tutti gli alienati della moderna società, su Platone che finge di lottare, su Aristotele fondatore delle scienze statistiche, ecc.), colori allegorici, immagini scarne e disseccate creano un'atmosfera che agita di continuo soffi di poesia. Eppure siamo lontani da qualsiasi idea di prosa poetica, di prosa lirica, i temi sono schiettamente filosofici, ma gli elementi fantastici e inventivi, che di frequente nell'operetta si incontrano, trasportano il lettore in un mondo ideale ricco di vitalità, coinvolto con l'autore profeta nella strenua solitudine dell'amore alla persuasione.
Anche ‘Il dialogo della salute’ (1910) è un'operetta morale, dedicata al cugino Emilio e "a quanti giovani ancora non abbiano messo il loro Dio nella loro carriera". In essa, in un serrato dialogo tra Nino e Rico (Enrico Mreule), si discute del dio del piacere e della viltà, quello che suggerisce agli uomini la continuità della fame, della volontà determinata, delle cose care e dolci, per illuderli accendendo e spegnendo luci:

E il piacere l'iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa:
se lo cerchi se’ già mendico,
t'ha già vinto l'oscurità.

Il dio mette a prova la "fiacca umanità", che lieta e obliosa canta storditamente "Quanto è bella giovinezza / che si fugge tuttavia". Per opera del dio gli uomini vogliono "apparire", cercano di farsi un "nome", recitano una lunga commedia che dura quanto la vita, affannandosi a parlare anziché ascoltare. Le comunelle "intellettuali" nascono dalla cura che gli uomini hanno di parlare e di farsi ascoltare, dal desiderio di compiacenza altrui che integra l'illusione dell'individualità. La funzione parallela al mutuo incensamento è la maldicenza, con cui ci si afferma implicitamente liberi dai mali di cui si accusano gli altri: "Ma nella sua solitudine ognuno si ringhiotte nel suo stomaco vuoto il marcio e l'amaro di quelle conversazioni micidiali". In queste pagine Rico intaglia profondamente il tessuto dell'uomo e della società organizzata. Gli uomini sono "gretti", la "comunella" sociale ispira loro invidia ambizione e umiltà, prepotenza e timore, ipocrisia, rabbia: "Le grida delle persone arrabbiate sono il cigolio di tutte le commessure della macchina sociale che non ha trovato ancora il suo punto giusto". Michelstaedter vede le contraddizioni e le angosce dell'immensa macchina degli uomini organizzati, una sorta di inferno di follia, in cui ci si aggira a vuoto e irosamente, in un tumulto irrazionale in cui i desideri propri sembrano essere la verità assoluta, e in cui ognuno "si gira avidamente nel guscio delle cose che gli son dilettose, e presume d'esser sufficiente alla loro sicurezza". La voce della società "è come un ronzio colossale" formato da voci di impazienza, di eccitamento, voci di gaudenti senza gioia, di comando senza forza, di bestemmia senza scopo:

E se li guardi negli occhi, vedrai in tutti, nel lieto e nel triste, nel ricco e nel povero, lo spavento e l'ansia della bestia perseguitata. Guarda tutti come s'affrettano, s'incontrano, s'urtano, commerciano. Sembra davvero che ognuno vada a qualche cosa. Ma dove vanno e che vogliono, e perché si difendono così l'uno dall'altro e si combattono?

Rico afferma che per ognuno è male l'essere nato e che la sola salute è nel vincere l'eterno fluire e urtarsi delle cose, nel "vivere la bella morte", che non è un invito al suicidio - il quale sarebbe un'evasione, un conforto, un mezzo contingente - ma un invito ad essere se stesso, distruggendo la persona illusoria:

Niente da aspettare
niente da temere
niente da chiedere - e tutto dare
non andare
ma permanere.
Non c'è premio - non c'è posa.
La vita è tutta una dura cosa.

In tale coraggio consiste la persuasione, la via verso l'autenticità, verso l'essere totale.

4. - Le Poesie (quasi tutte del 1910) appartengono al mondo del suo personalismo eroico e nascono sotto il segno distintivo del pensiero, del contenuto, della non letterarietà. Il poeta in
Nostalgia dice di essere rimasto disdegnoso "ai giochi d'amore ed alle imprese giovanili", al lieto commercio, al giocondo convito del piacere, per seguire la sua "ferma fede": adesso non gli rimane che attendere senza speranza e senza mutamento "al passar dell'ore lente". Nei suoi versi si stende spesso un paesaggio piovoso e nebbioso: in Dicembre, "gocce senza fin", "grigio in grigio", "pozze putride", "affannosa umidità". In Marzo troviamo: il pavido borghese che nell'ossa porta il gelo dell'inverno trapassato e nel corpo imbarazzato gerne il reuma ed il torpore.
E in
Aprile, pure nel rinascere della primavera, il poeta in ogni istante soffre la propria morte, e invoca che giunga il sonno senza risveglio, "sì che l'oscurità per me sia spenta". Anche in Alla sorella Paula la vita è oscurità minacciosa, deserta, da cui occorre uscire per trovare la luce, perché ogni cosa è illusoria ("il mar che non è mare s'anche è mare"):

tutta la vita arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di se stessa in un punto faccia fiamma

Michelstaedter non fa, nell'esprimersi, concessioni accademiche ma bada, nella nudità del suo stile, al concetto. Il lettore di Parmenide, Eradlito, Empedocle, Eschilo, Lucrezio, Leopardi, Schopenhauer, Kant esprime nel verso concetti e pensieri, e il suo messaggio di poeta è quello stesso deI filosofo; di ciascuno, egli scrive, tale è la sorte:

col suo filo sperar vita tramare,
e con la speme giungere alla morte.

Nella lirica
I figli del mare Itti e Senia sentono il peso della vita (la

cura che pensa il domani,
che all'ieri aggrappa le mani,
che ognor paventa il presente più forte

e sognano un'altra vita, un mare senza confini, senza sponde affaticate a cui, nonostante i richiami della vita consueta:

Adattatevi, ritornate, - siate utili a chi vi ama, - e spegnete l'infausta brama - che vi torce dal retto sentier,

si volgono coraggiosamente:

Senia, il porto non è la terra [...]
Senia, il porto è la furia del mare,
la furia del nembo piü forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò.

Nei versi a Senia, scritti pochi giorni prima della morte, Michelstaedter sogna

la giovane morte che sorride
a chi per la sua cura non la teme,
la morte che congiunge e non divide.

In quei versi è affermato l'ardimentoso umanesimo di chi rifugge dal commercio con gli uomini, come relazione superficiale, e si volge non alla vita ma all'essere:

Non chieder più nulla,
sappi goder del tuo stesso dolore,
non adattarti per fuggir la morte;
anzi da te la vita nel deserto fatti.

I sentimenti che la vita consuma solo nella morte, nella vita dell'essere, hanno vita:

nell'oscuro giro
della diuturna noia il nostro sogno
parmi tradito e per ignote voci
con parole di scherno messo a nudo,
pesato, misurato, confrontato.

A noi sembra che in Michelstaedter non sia alcun aspetto di evasione letteraria ma, come scrive Garin, "serissimo richiamo alla meditazione sulla vita", e se il clima dell'accento michelstaedteriano è quello di Boine, Jahier, Slataper, la compagine della poesia del goriziano, protesa verso un infinito inteso come essere assoluto e come coscienza, non trova confronto con alcuno degli spiriti del suo tempo.

Michelstaedter nelle sue profonde esplorazioni e letture di testi greci e moderni lasciò anche molti appunti sparsi, note, critiche letterarie, dialoghi, bozzetti che si trovano sempre raccolti nell'edizione delle Opere curate da Chiavacci. Pagine di poesia si alternano a pagine di sarcasmo, contro le illusioni consapevoli che l'uomo si crea cedendo alla necessità delle cose, a prezzo dell'"imbestialimento": ancora Michelstaedter reagisce contro il borghesismo, contro l'egoismo artistico, morale, sociale. Nessuna concessione al gusto compiaciuto e ottuso degli uomini che non pensano è in quelle pagine, sia che egli scriva contro la volgare "virtuosità nell'imitazione dell'uomo fisicamente degenerato che fa tremare e ingrassare le platee" (a proposito di una interpretazione di
Gli spettri) sia che tratti della mancanza di profondità, della "retorica individualistica" di D'Annunzio in Pia che l'amore. La società è scettica e incline alla caricatura ("noi viviamo in un mondo di cadaveri; cadaveri che mangiano, bevono, dormono, parlano"): Michelstaedter vede trasferita l'insufficienza anche nella letteratura dei popoli latini (i quali conoscono solo "le anime che vanno in marsina e in abito scollato"). Erede del romanticismo, egli scorge la decadenza dell'arte che scende alla ricerca del dettaglio, e a proposito di Ibsen e Tolstoj scrive che, invece, i due scrittori cercarono la loro nota più alta prendendo "pel petto questa società soffocata dalle menzogne", gridandole in faccia la verità. Monti, poeta occasionale, che prende la sua importanza dall'attualità delle cose ornandola di pompa convenzionale, è il prototipo dell'artista superficiale in tempi in cui anche ai migliori (Alfieri, Parini, Pindemonte) "basta un po' di sangue versato per far mutar principi".
La polemica contro la "letteratura", la dolcissima riscoperta del tempo nostro, nasce in Michelstaedter dalla sua ricerca di assoluto, dalla polemica fondamentale contro la rettoriica, che dà il nome di "dovere" e di "verità" a qualunque debolezza ("Si adagiano gli uomini nella facile "sufficienza" delle vie date e si giudicano e sono giudicati maturi"). L'artista forte è come l'uomo forte, che ha rotto i ponti per la ritirata, mentre l'artista debole si adagia nelle sue impressioni ricercando le contingenze che possono produrle. La rettorica (che è immoralità) di chi parla senza persuasione, si manifesta allora in ogni parola che gli esce dalla penna, per il contenuto arbitrario, vago, limitato per il nesso "volgarmente sconnesso": questa è la nemesi della persuasione. Ogni logica, ogni topica, ogni rettorica insegna, infatti, l'arte di riuscire trionfanti, non si cura dell'arte di persuadere gli altri: insegna l'arte di "inscenare sillogismi su ogni questione, non l'arte di sillogizzare la vita altrui con necessità". I professionisti della filosofia e della cultura ripetono classificazioni e parole e, pensando di detenere l'assoluto, creano il presunto dato assoluto, l'oggettività, l'interesse scientifico: del cercare parole si fanno una "persona" per chiedere i premi agli uomini, e obbediscono così alla loro filopsichia, mentre l'assoluto non è che la persona assoluta, coscienza assoluta. La virtuosità prende, invece, il posto dell'arte: gli uomini "dànno il nome di musica all'acrobatismo più inverosimile delle mani", e nasce cosí il commercio delle cose sacre (arte, filosofia, scienza) fondato sull'individualità illusoria. Tale illusione è una delle varie forme di illusione, che gli uomini (per viltà o rettonica) si creano adulandosi a vicenda; poiché la parola, la comunicazione servono a illudersi di esistere, ad affermare se stessi, "schiavi d'ogni capriccio, legati ad ogni istante, vittime d'ogni padrone, bisognosi di tutto, sitibondi nel fluire dell'acqua, affamati nella sovrabbondanza" (dalla prima forma di
Il dialogo della salute).

Anche negli appunti per trattazioni sistematiche l’ "eunuca umanità" è veduta attaccata al bisogno di vivere a ogni costo e illudersi di vivere, con continui giochi di ottimismo ("La qualità essenziale dell'uomo è la vigliaccheria"). Sui contenuti delle illusioni, quando il tempo è passato e li ha sconciati, cala la malinconia, come melanconica è la pioggia uguale e lenta che dice l'immutabilità, la mancanza di scopo delle cose; basta guardare gli stessi inutili gesti con cui è compiuta un'azione, i libri intonsi, vani, per "pianger di melanconia [...]. Tutti provano quest'impressione, grandi e piccoli, felici e infelici [...]. E un piccolo strappo al velo di Maia".

Colui che distruggeva i sistemi filosofici, le categorie e i generi non ha organizzato le sue idee con la pretesa del sistema. Ma pochissimi spiriti assetati di verità, rivelatori degli inganni, cercatori di un assoluto non confortevole e non a portata di mano, sono stati fraterni alle tormentate generazioni del nostro secolo come Michelstaedter, che con il suo crudele e tragico coraggio, con la sua coerenza, ha insegnato che la vita non è vicenda accidentale ed è impietosa e dura.