GIACOMO DEBENEDETTI

CARLO MICHELSTAEDTER


GIACOMO DEBENEDETTI

PENSIERO E STILE DI MICHELSTAEDTER

È bene, per un primo e provvisorio incontro, riconoscere Michelstaedter alle metafore filosofiche di cui egli amò circondare le disposizioni del suo sentire. Le quali, come è noto, si dipartono da questo antico motivo di sbigottimento e di doglia: che la vita ha, per sua legge, l'illuso e contraddittorio protendersi verso la dissoluzione di sé medesima, l'irrevocabile impossibilità di possedersi, trattenuta da desolate speranze.
Michelstaedter risale nel principio a una naturante volontà di vita che, prendendo corpo negli individui, li inclina verso un fine; e peraltro li fa inabili a riconoscerlo giacché, nell'attuarlo, verrebbe meno ad essi la ragione di esistere. Solo li riempie di un cieco anelito: di una deserta brama che li incatena a una ricerca senza oggetto e li sospinge sempre ancora verso un futuro dove, per la natura medesima della vita, pare si proiettino gli anelati riposi. Questo maledetto ritmo, intrinseco a una creazione da cui il Demiurgo volle esiliare la luce, si traduce, nel pregnante vocabolo di Michelstaedter, come impossibilità della "persuasione". È già tutto intero e fatale, questo ritmo, nella vita elementare, poniamo, del peso che cade, del corpo chimico che aspetta il suo affine: atomico precipitare e travolgersi degli individui in un'oscurità piena di avventurosi incontri. Per ciascuno dei quali si costituisce, nelle cose che ne sono protagoniste, un certo stato di coscienza; ma limitato all'attribuzione di un valore alla cosa incontrata. Tra questi puntuali contatti discende l'ombra dell'inconscio: "nell'infinito infinitesimale fluttuare di variazioni non v'è cosa che di questo fluttuare possa aver coscienza".
Per tale modo ogni passaggio dalla potenza all'atto è in grembo al caso, che produca l'avvicinamento dell'individuo con il suo correlativo; e così la vita degli elementi si protrae in un'attesa noiosa: quindi incompatibile con l'essenza della volontà creatrice, che ha impresso inizialmente il moto come avidità di riconoscersi e di esistere. Il momento contraddittorio della noia viene superato per via di transazioni e di autolimitazioni. Gli individui sono riuniti in organismi intelligenti. Questi, con la più vasta coscienza a loro risultante dall'addizione delle coscienze individuali, possono procacciare il soddisfacimento a ciascun organo. Ma hanno poi come fine, raccomandato all'intelletto, la continuazione del complesso; perciò misurano con sagacia la quantità del soddisfacimento, in modo che l'organo, anche dopo di essersi attuato, sopravviva. Scompare l'ansia del caso e si perpetua la maledizione dell'insufficienza; ma il gioco adulatore dell'intelletto, che si configura come un dio dell'amore di vivere, vieta di intuirla. Soccorrevole, il dio porta a coincidere la coscienza coi singoli bisogni e le impedisce di affacciarsi agli strati da cui il bisogno trae l'origine. Ritaglia nel mondo piccoli sfondi e agevoli scenari, in cui è contenuto volta per volta tutto ciò che occorre per seguitare ad esistere, e identifica col pieno della realtà queste ingannevoli prospettive. Ne consegue che "ciò che vive si persuade esser vita la qualunque vita che vive"... "finché un inciampo non faccia cessare il triste gioco".
E poiché, affinandosi l'artificio, alle inadeguate affermazioni della persona si giunge a conferire un valore assoluto, la "rettorica" è costituita. Rettorica dei nomi: e con essi l'uomo finge a sé medesimo il possesso delle cose; delle previsioni statistiche: e ciascuno, scegliendo l'azione subordinatamente al proprio particolare fine, si proclama libero. Rettorica della scienza che, per vantarsi oggettiva, separa il fenomeno dell'affermazione individuale che lo crea; poi lo innesta in una fittizia serie di cause e di effetti; poi lo sfrutta e costruisce le macchine: l'uomo allora disimpara la fatica e ingigantisce l' "anima di fakiro" che in lui si nasconde; mentre "degli scienziati moderni direbbe Isaia: hanno microscopi e non vedono, hanno microfoni e non sentono". Rettorica della società che infine giunge a garantire la sicurezza, cioè la "forza di imporre per il futuro la propria forma alla materia": chi ha più vasta coscienza e volizioni più ricche può, senza contrasti, assoggettare il debole per cui l'orizzonte si arresta alla gretta e accomodante volontà di tirare avanti; intanto, con l'abitudine sociale, ogni rapporto esaurisce la propria genialità di passionate sorprese; le parole si stancano; ciascuno è ridotto al gesto brevettato dell'ufficio suo.
A momenti, però, la storia operosa che il dio dell'amore di vivere ha tramato, si smaglia; e, distolto d'improvviso dalla sua adesione al rincorrersi dei bisogni, l'uomo si trova, di fronte all'assurdo trascorrere di quel flutto, a pesare i partiti che ve lo inserivano. Allora, crollando la rettorica, non sopravvive se non la dolorosa tensione dell'essere, che genera la vita per gettarsi, illuso e disperato, in traccia di sé medesimo. Questo dolore è l'assoluto: e chi voglia realizzarlo deve "prenderne la persona". Negato "l'irrazionale del bisogno", dispaiono i lontani e favolosi miraggi del futuro: nel presente è tutta la creazione, "l'eternità raccolta e intera". Ai dialettici Michelstaedter direbbe che il positivo della vita può fissarsi da chi ardisca di irrigidire il negativo della morte. Egli non promette l'estasi e nemmeno l'eternità; ma l'istantanea e perfetta comunione con l'assoluto.

Dunque, nell'esteriore, una cosmologia che si conchiude con una dottrina della pratica. E se quest'ultima, massimo quando venga approfondita in taluni sviluppi, può ricordare Nietzsche; la prima, per il tipo delle macchine e per qualche colore, riporta a Schopenhauer. Ma molte ispirazioni che avevamo imparato a conoscere cristallizzate in un sistema assai callido, qui sono riprese in maniera irrelativa e precipitosa. A Schopenhauer metafisico, la sua mitologia balena tempestiva e opportuna quando, dalle pazienti note marginali a Platone, Kant ed altri maestri, il problema che essa è chiamata a risolvere è stato ben misurato in quanto ha di nuovo, di logicamente necessario, di insidioso. Quello che a lui importa è soprattutto la fecondità esplicativa del postulato: scopertolo, lo esaurisce in un ragionato e rigoroso inventano dell'universo. Eccolo palpitare domestico a un tempo e sconosciuto, sotto lo storico succedersi delle rappresentazioni: interpreta tutte le fissità e gli stupori di natura e i vari atteggiamenti umani; scopre le magie della bellezza: però con cautela, che l'incanto non ne sia smontato. Lascia sempre il dato com'era: pago di decifrarlo. Non a caso la morale dell'abnegazione trasporta il proprio dramma in un terreno tutto metafisico, senza toccare il fenomeno della vita.
Si pensi invece alla rapidità incauta con cui Michelstaedter introduce il mito della Volontà creatrice; e come subito l'abbandona e si getta sulla vita; a scoprirne il debole. Di appoggiare le esistenze a quei motivi metafisici che ha premessi, non si preoccupa più che tanto; gli sta a cuore il giudizio pratico: che è, come si è veduto, di ripugnanza. Così la mitologia pare quasi che venga a posteriori per confortare una disposizione d'animo già preconcetta: non è frutto di scoperta, ma di calcolo tendenzioso. Accogliendola, Michelstaedter sa già come e quanto gli può servire. Si capisce perché l'avere rinunciato a crearsela tutta da sé non abbia importanza per lui: anzi gli può sembrare più utile assumere uno strumento già preparato, apportandovi i ritocchi del caso. Non sente neppure il bisogno di ricontrollarselo per conto proprio: e infatti in tutto Michelstaedter non si trova una sola di quelle pagine superbamente giocose come ne ha, poniamo ancora, Schopenhauer che, dalla conquistata familiarità con i segreti del cosmo, si compiace dì cavare nuovi e sorprendenti effetti. Michelstaedter invece non si sforza nemmeno di affinare la sua formula; ma tende a renderla il più possibile sommaria e generale; che io liberi, una volta per tutte, dagli scrupoli e dai perché metafisici. Poi neanche più un moto di autentica passione speculativa; ma dovunque un tetro fanatismo che predica e sentenzia. E bandita l'agevole ironia che lampeggia nel motto di chi non vede, nell'ampiezza della propria comprensione, altra uscita che quella di ripiegarsi sorridendo su di un male riconosciuto necessario. Il commento di Michelstaedter è sempre acre e intollerante, sostenuto da una burbera solidarietà con le cose sulle quali egli vuole reagire; e pertanto, come l'ironia si ridurrebbe ad una passiva constatazione, si volge allo stimolante sarcasmo. Per ogni cosa che cada sotto la sua considerazione, Michelstaedter vuole serbarsi fedele a un partito già scelto e all'angolo visuale che esso gli impone.
Questa rinunzia all'universale intelligenza non appartiene manifestamente a una posizione di filosofo. Serietà filosofica è, all'opposto, sapersi scostare dalla gretta coerenza ai principii per ascendere a quella coerenza più alta in cui le cose, vivendo nel sistema, non rinunziano alla propria fisionomia. La mediazione filosofica ha le sue grandi indulgenze: accoglie e concilia tutte le discordi voci che si levano dal mondo. Ne viene che ogni filosofia ha, come consolazione, anche un largo moralismo che, rendendo al male la parte che gli spetta, non si inibisce poi di reintrodurre, in una qualsiasi maniera, il bene. E, in una parola, nelle conseguenze pratiche, dà modo di vivere e di attuare l'universale tenendo i piedi sulla terra: su questo mondo, storicamente accettato. I wertherismi, antichi o nuovi, non possono aspirare a dignità filosofica. Ma Michelstaedter ricostruisce la realtà per negarla sconsolatamente e, negandola, manifesta e matura un bisogno individuale di azione riformatrice: Werther che si sforza ad essere Nietzsche. Nella descrizione di questa parabola, la pagina si inserisce nella linearità attiva della biografia; e forse ha ragione Borgese che s'introduce allo studio di lui, considerandone il ritratto.
Così stabilito lo schema nel quale Michelstaedter deve iscriversi, i limiti che abbiamo schierati si rovesciano in altrettante caratteristiche costitutive del tipo. Le unilateralità polemiche sono semplificazioni del mondo, con cui egli si apparecchia ad agire. È chiaro che non giustifichi nulla e denudi invece l'insufficienza di tutto. Il suo soffio raggela il ritmo quotidiano del vivere e, come egli ha sfiorata la realtà, essa rimane sospesa in un atteggiamento di aspettativa; qualche cosa deve giungere a integrarla o a rifarla. I rapporti sono impoveriti e assottigliati con baldanza: né si può credere che Michelstaedter abbia scavalcato, per difetto di informazione, le tremende difficoltà che gli sarebbero potute opporre in sede di teoria. Ma poiché egli scrive per misurarsi, non cura di cercare le obiezioni generali: abbatte quelle che rappresentano evidenti pericoli per la serietà del suo proposito. Quando tutto il mondo fosse tenuto in conto di obiezione, nascerebbe quell'universalità che abbiamo già potuto escludere. E si consideri inoltre la corposa dualizzazione che Michelstaedter opera sulle cose; la quale culmina nell'irriducibile antitesi di Persuasione e di Rettorica. L'una deve trionfare e l'altra soccombere, senza che intervengano operose e sottili mediazioni, che potrebbero far tornare su di un partito già definitivo. Metro che è mantenuto, del resto, per la maggior parte dei problemi sentiti come lotta di principi eterogenei; ciascuno dei quali, nell'escludere l'altro, gli stronca perfino la possibilità di. rigermogliare. Questa particolare drammaticità del pensiero ama esternarsi direttamente per via di dialoghi e, in qualche luogo, perfino tenta di darsi un fondamento speculativo sostituendo, in teoria, all'opposto il diverso: ("È" è il diverso di "diventa", "si muta" ecc.; non il contrario di "non è", perché il "non è" non è concepito che come un "distruggersi" o "essersi distrutto").
Come tutto Michelstaedter - e anche negli sviluppi laterali - si identifica con un'unica diritta volizione in tipici momenti, si capisce che definirlo non vuoi dire tanto isolare un principio di azione, quanto ritrarre nel nostro discorso i lineamenti, il più possibile approssimati, di un'individualità. E intanto potremmo ricostruire il "nostro" Michelstaedter facendo reagire, su un temperamento facilmente riconoscibile di maschia energia consequenziaria, le principali correnti di cultura: Nietzsche, individualismo, pragmatismo; con cui egli venne a contatto, sia perché la stagione in cui si formò le portava sospese nell'aria, e sia perché dovette, da spettatore, assistere al tormento, se non profondo, almeno rumoroso, del gruppo fiorentino che le bandiva. Testimonianze di amici informati, come quella di Arangio Ruiz, confermano l'impressione, già suggerita dalla pagina, di una forza usa alle vittorie, solitaria, incoercibile. Un elenco steso dallo stesso Michelstaedter, in una breve prefazione al trattato, mette avanti alcune tappe della disperata tradizione in cui egli si inserisce; e altre, piii vicine, siamo venuti insinuando noi stessi. Ma più carnale, definito e vivente nel suo attivo dolore, egli ci viene incontro se, con un retto uso di quanto ci ha lasciato scritto, riveleremo il colore patetico e il tono affettivo del suo spirito. Questo ci permetterà di uscire dal tipo e di stringere da vicino l'uomo.
Possiamo dire, anticipando d'alquanto le conclusioni, che Michelstaedter realizza l'atteggiamento sentimentale del mistico vittorioso che, dopo di essere stato toccato dalla Grazia, si ripiega sul mondo a rammaricarne l'inguaribile miseria e proterva malizia; e si dispone, con una rinnovata ascesi, a conquistarsi la salute definitiva. È inutile riprendere i giudizi già detti per vederli nel nuovo rilievo che essi assumono; meglio ricordare le movenze che contraddistinguono questa sagoma che siamo venuti liberando. Intanto le antitesi note, dentro cui si svolge la dialettica del Michelstaedter, quando siano ridotte al loro schema primitivo, rappresentano sempre un agiografico contrasto del bene contro il male; dove il male pare che supponga il mito lamentoso di un'ignava caduta. Questa figurazione è stancata in una copiosa varietà di tipi e di metafore: come - per ricordare tra i molti, il più fantastico - nell' "incontro cosmico" fra una cometa e la Terra. Senza dire poi che, quale caduta, viene pure narrata la storia della filosofia greca dalla "persuasione" di Socrate alla "rettorica" di Aristotele. Con un vero furore di penitenza, il mondo viene spopolato d'ogni seduzione e d'ogni fede che possano servire di pretesti pratici, morali o religiosi alla vita: via i piaceri, le scienze, la famiglia, la società; bisogna "vedere ogni presente come l'ultimo, come se fosse certa dopo la morte: e nell'oscurità crearsi da sé la vita". E perfino Iddio:

Ti rivolgi a Dio? Non c'è Dio, Dio muore con te; il regno dei cieli crolla con te, domani sei morto, morto; domani è finito tutto - il tuo corpo; la tua famiglia, i tuoi amici, la tua patria, quello che ancora puoi fare, il bene, il male, il vero, il falso, le tue idee, la tua parte Iddio e il suo regno, il paradiso, l'inferno, tutto, tutto, domani è finito tutto; fra 24 ore è la morte.

Tetro ardore che ritrova, sul fondo di una psicologia paragonabile, ritmi deserti a anno mille. Ma ancora alla psicologia dei mistici egli aderisce per la raggiante indeterminatezza da cui non cura sottrarre il segno delle sue aspirazioni; facendone un termine di fede e non di convinzione ragionata. La parola "fede" tocca l'estrema caratteristica che è possibile dare di Michelstaedter. Una fede violenta concitata e precipitosa, senza trepidi o gaudiosi misteri. Senza beatitudine; solo promette al sommo della via della salute una disperata consolazione: "il dolore è gioia". Questo uomo moderno che, nell'umanesimo, ha smarrito il dio trionfale e solenne; che viene da una gente per la quale ogni tradizione religiosa non suole più raccomandarsi ad altro che alle forme del culto, senza abitudini interiori che facciano rigermogliare il nudo dettame in un terreno di eticità; giunge a crearsi, in questa irrelativa e arida solitudine dello spirito, la propria fede. Non gli resta che la vita gagliarda ed egli le chiede un dono assurdo e totale di Assoluto. Allora, quando nel deserto che si è fatto intorno a lui, cerca "dove fondar in loco stabile" la sua speranza, una voce di salute gli risponde: "Questo loco è il qualunque punto dove uno è, purché vi permanga"; "L'unica via di chi permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo del futuro, di tener raccolta nel presente la propria vita".
Tale la sua fede senza dio, senza tradizione, senza la cordialità di un rito che la ravvivi nella esasperata esperienza di ogni giorno. A lui basta la scarna certezza che l'ha pervaso: né si adopera a fecondarla con una pratica del mondo, che la renda più sensibile e umana; anzi la contrae e ne ricerca gli echi nei più cavi laghi del cuore; la esaspera a virtù operativa facendone una specie di ossessione. Non è un maestro; ma un iniziatore, che getta la sua saggezza mistica e involuta, e non fonda chiese e rifiuta le imitazioni. "Ma ognuno deve fare da sé la rivoluzione, deve ricrearsi da sé se vuol giungere alla vita". Con ciò non si vuol dire che il tempo della vita, acerbo e ancora povero di contrasti umani, in cui la chiara fede gli lampeggiò, non abbia influito a limitarne la sfera delle aderenze, la larghezza dei motivi, l'alone delle simpatie. Certo la parola di Michelstaedter non è mai venata di compassione: va dritta e senza pentimenti. Il coraggio della sua risoluzione gli permette di fare a meno di certe umili solidarietà; perciò gli sono leciti lo sprezzo e l'invettiva e il piglio sgarbato e sufficiente del forte che ghigna sull'illuso. Allo scienziato che vanta la propria oggettività, egli suggerisce di farne la riprova col ripetere "l'esperimento di Gilliat nei xxLavoratori del mare, quando si lascia uccidere dall'acqua che monta, seduto sullo scoglio". Più in grande, quest'assenza di simpatia spiega come la critica di Michelstaedter, lungi dal determinarsi in argomenti particolari e propri al singolo oggetto, s'arresti sempre alla stessa ripugnanza per il corso cieco che tutti li travolge: tutti uguali, privi di sviluppi intrinseci, abbandonati al proprio peso in un abisso senza cielo.
Venendo a toccare dello stile di Michelstaedter, conviene ancora tenere presente il complesso della sua figura, sebbene egli sia anche autore di poemi e d'altre operette di natura specificamente letteraria, bisogna senz'altro rinunziare a farne un poeta, nel senso che una qualunque delle sue esperienze si sia conclusa con un esito puramente espressivo. Tornano, anzi, a mente certi suoi grami rendiconti di invenzioni allegoriche, incapaci di obliarsi in uno stacco di buona fantasia. Né vorremmo lasciarci indurre a parlare di una promettente immaturità, per i tratti che gli riescono là dove non sembra neppure che egli cerchi la poesia.
Al contrario, anche sotto il rispetto dello stile, potremmo dire che la figura di Michelstaedter si è attuata compiutamente e che egli ha avuto lo stile che si meritava. Infatti egli si trova, di sorpresa, le mani piene di doni lirici quando le necessità di quella sua legge intima che sappiamo, implicano attimi di ingenuo ripiegamento sul reale. Quando, poniamo, muove per negare le cose della terra; ma frattanto, poiché le deve, prima di tutto, oggettivamente guardare, è bastata quella pausa impregiudicata perché le cose trovino, nel solo fatto che esistono, le ragioni sufficienti per esistere. La passione dello scrittore, spiccatasi da un desiderio di dimostrare, si era concentrata tutta in uno sforzo di esattezza visiva che aumentasse l'efficacia della prova; poi egli si tocca gli occhi con meraviglia e l'oggetto, di cui tentava dare una scrupolosa e violenta fotografia, è già trasfigurato. Le linee gracili e povere che lo sguardo fuggevole trattenne, ora passano, con una verità scabra e nuova, nella frase senza melodia. L'incanto ne è morbido e fievole, come d'una musica di cui appena qualche accordo evochi il tono e le armonie. Ricordiamo l'estatica e dolorosa fermezza di questo paese, notata direttamente, quasi da diario, e già fatale: "Molte volte accade di passar per queste mezze radure dove la terra sembra far qua e là groppi di forza esuberante. Questi groppi bassi sono i grossi vecchi tronchi con le loro potenti radici - ma distorti, mutilati da ogni parte per i ripetuti tagli". Però si tratta ancora di parentesi da cui il discorso tenderebbe a liberarsi; e più leggera si snoderebbe la coerenza degli argomenti.
Peraltro, in simili inavvertite conversioni del discorso dal puramente pratico al puramente contemplativo, accade che la constatazione dell'insufficienza delle cose, con cui il mistico si esorta a perseverare nella costruttiva ascesi, si distenda in calme, precise ed efficaci pitture; come nel tratto dove lo smarrimento del debole, entrato nella sfera del forte, è quasi scordata nell'esemplare descrizione del gruppo statuario del satiro e dell'ermafrodita.
Ma i passi più interessanti sotto il rispetto dell'arte sono quelli che suggellano stati di rara psicologia, appartenenti a quel tipo di esperienze che a Michelstaedter furono consuete. La posizione staccata, che egli prende in riguardo al mondo delle forme e delle apparenze più sensibili, gli dà una veggenza complessa e tentacolare del rapporto tra i fenomeni che salgono alla superficie e gli strati più profondi della coscienza: dove un flutto vitale travolge nel suo decorso torbido e primordiale gli elementi del dolore cosmico. Regioni in cui la sensibilità non può scendere che a sbalzi, senza relazioni chiare con gli ordinari stati d'animo di cui è materiata la coscienza comune; qui i giudizi e le azioni perdono le loro domestiche affabilità: intimità difficili di fronte alle quali il coraggio espressivo diventa ingrata pazienza di essere oscuri. Ogni soccorrevole riferimento a realtà più note - indispensabile, pare, per chi voglia definire - viene meno. Anche la storia, con le sue provvidenziali inesorabilità, fatte di conseguenze del passato e dell'avvenire, abbandona nudo l'uomo in tali contingenze. Ma in ciò Michelstaedter è davvero un illuminato e guarda con coraggio dentro quella nebulosa, che raramente riesce a trarsi dal tormento di disperate gestazioni di chiarezza. Egli osserva con un prisma che, nel deviare i raggi, affina e separa le qualità particolari, senza confonderle in nuove vibrazioni di luce e di colore. In tali scomposizioni fredde e monocromatiche, Michelstaedter allinea e analizza pazientemente tutti gli aspetti che gli appariscono. Pensiamo alla rappresentazione del mondo sotto la specie degli appetiti, dove la realtà si riduce a un enorme e grottesco termine di appagamento; oppure alla analisi di certe paure soprannaturali: come quella notissima del terrore notturno, quando la coscienza di esistere, ridestatasi, non si sia peraltro potuta inserire nella trama dell'illusione. O anche lo spavento dei bambini:

Nelle tregue delle loro imprese, dei loro piani, quando sono soli, e da nessuna cosa di ciò che li attornia sono attratti o a frugare o a rubare o a rompere o a discorrere o a tutte quelle altre loro occupazioni, si trovano con la piccola mente a guardare l'oscurità. Le cose si sformano in aspetti strani: occhi che guardano, orecchi che sentono, braccia che si tendono, un ghigno sarcastico e una minaccia in tutte le cose. Si sentono sorvegliati da esseri terribilmente potenti e che vogliono il loro male. Non fanno più un gesto senza riflettere ad "Essi". Se lo fanno con una mano, lo devono fare anche con l'altra... Quando passano una camera oscura, sembra ai bambini che questi "Essi" gridino mille voci, che con mille mani abbranchino, che in mille guizzi ghigni il sarcasmo nell'oscurità, si sentono succhiati dall'oscurità, fuggono folli di terrore e gridano per stordirsi.

Ma le citazioni, isolando, tolgono molto della meraviglia che nasce alla fine di lunghi e minuti elenchi di particolari, quando l'impressione dell'insieme si libera di colpo per l'unione degli ultimi tocchi con la eco dei precedenti, quasi inavvertita prima. Né l'autore né noi vi eravamo preparati: la poesia si è spontaneamente generata sulla pienezza originale della visione. Poi si smarrisce ancora in un ritmo più duro che riattacca. (1929)