Elogio della Follia, di Erasmo da Rotterdam
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da Erasmo da Rotterdam al suo Tommaso Moro

Alcuni giorni fa, tornando dall'Italia in Inghilterra, per non sprecare in chiacchiere banali il tempo che dovevo passare a cavallo, preferii riflettere un poco sui nostri studi comuni e godere del ricordo degli amici tanto dotti e cari, che avevo lasciato qui. Fra i primi che mi sono tornati alla mente c'eri tu, Moro carissimo. Anche da lontano il tuo ricordo aveva il medesimo fascino che esercitava, nella consueta intimit?, la tua presenza che ? stata, te lo giuro, la cosa pi? bella della mia vita.

Visto, dunque, che ritenevo di dover fare ad ogni costo qualcosa, e che il momento non sembrava adatto a una meditazione seria, mi venne in mente di tessere un elogio scherzoso della Follia.

"Ma quale capriccio di Pallade - ti chiederai - ti ha ispirato un'idea del genere?" In primo luogo, il tuo nome di famiglia, tanto vicino al termine mor?a, quanto tu sei lontano dalla follia. E ne sei lontano a parere di tutti. Immaginavo inoltre che la mia trovata scherzosa sarebbe piaciuta soprattutto a te, che di solito ti diletti in questo genere scherzi, non privi, mi sembra, di dottrina e di sale, perch? nella vita di tutti i giorni fai in qualche modo la parte di Democrito. Sebbene, infatti, per singolare acume d'ingegno tu sia tanto lontano dal volgo, con la tua incredibile benevolenza e cordialit? puoi trattare familiarmente con uomini d'ogni genere, traendone anche godimento.

Quindi, non solo accoglierai di buon grado questo mio modesto esercizio retorico, per ricordo del tuo amico, ma anche lo prenderai sotto la tua protezione; dedicato a te, non mi appartiene pi?: ? tuo.

E' probabile, infatti, che non mancheranno voci rissose di calunniatori ad accusare i miei scherzi, ora di una futilit? sconveniente per un teologo, ora di un tono troppo pungente per la mansuetudine cristiana; e grideranno che prendo a modello la commedia antica e Luciano, mordendo tutto senza lasciare scampo. Vorrei per? che quanti si sentono offesi dalla scherzosa levit? del mio tema, si rendessero conto che non sono l'inventore del genere, e che gi? nel passato molti grandi autori hanno fatto lo stesso. Tanti secoli fa, Omero cant? per scherzo "la guerra dei topi con le rane", Virgilio la zanzara e la focaccia, Ovidio la noce. Policrate incorrendo nelle critiche di Ippocrate fece l'elogio di Busiride, Glaucone quello dell'ingiustizia, Favorino di Tersite, della febbre quartana, Sinesio della calvizie, Luciano della mosca e dell'arte del parassita. Sono scherzi l'apoteosi di Claudio scritta da Seneca, il dialogo fra Grillo e Ulisse di Plutarco, l'asino di Luciano e di Apuleio, e il testamento - di cui ignoro l'autore - del porcello Grunnio Corocotta menzionato anche da san Girolamo. Lasciamo perci? che certa gente, se crede, vada fantasticando che, per svago, a volte, ho giocato a scacchi, o, se preferisce, che sono andato a cavallo di un lungo bastone. Certo, ? una bella ingiustizia concedere a ogni genere di vita i suoi svaghi, e non consentirne proprio nessuno ai letterari, soprattutto poi quando gli scherzi portano a cose serie, e gli argomenti giocosi sono trattati in modo che un lettore non del tutto privo di senno pu? trarne maggior profitto che non da tante austere e pompose trattazioni. Come quando con mucchi di parole si tessono le lodi della retorica o della filosofia, o si fa l'elogio di un principe, o si esorta a fare la guerra ai Turchi, mentre qualcuno predice il futuro, o va formulando questioncelle di lana caprina. In realt?, come niente ? pi? frivolo che trattare in modo frivolo cose serie, cos? niente ? pi? gradevole che trattare argomenti leggeri in modo da dare l'impressione di non avere affatto scherzato. Di me giudicheranno gli altri; eppure se la presunzione non mi accieca completamente, ho fatto s? l'elogio della Follia, ma non certo da folle. Quanto poi all'accusa di spirito mordace, rispondo che si ? sempre concessa agli scrittori la libert? d'esercitare impunemente la satira sul comune comportamento degli uomini, purch? non diventasse attacco rabbioso. Per questo mi meraviglia tanto di pi? la delicatezza delle orecchie d'oggi, che riescono a sopportare ormai solo titoli solenni. In taluni, anzi, trovi una religione cos? distorta che passano sopra alle pi? gravi offese a Cristo prima che alla minima battuta ironica sul conto di un pontefice o di un principe, soprattutto poi se entrano in gioco i loro privati interessi. D'altra parte, uno che critica il modo di vivere degli uomini cos? da evitare del tutto ogni accusa personale, si presenta come uno che morde, o non, piuttosto, come chi ammaestra ed educa? E, di grazia, non investo anche me stesso con tanti appellativi poco lusinghieri? Aggiungi che, chi non risparmia le sue critiche a nessun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi. Se, dunque, ci sar? qualcuno che si lamenter? d'essere offeso, sar? segno di cattiva coscienza o per lo meno di paura. Satire di questo genere, e molto pi? libere e mordenti, troviamo in san Girolamo, che talvolta fece anche i nomi. Io non solo non ho mai fatto nomi, ma ho adottato un tono cos? misurato che qualunque lettore avveduto si render? conto che mi sono proposto la piacevolezza piuttosto che l'offesa. N? ho seguito l'esempio di Giovenale: non ho mai smosso l'oscuro fondo delle scelleratezze; ho cercato di colpire quanto ? risibile piuttosto che le turpitudini. Se poi c'? ancora qualcuno che nemmeno cos? ? contento, ricordi almeno questo: che ? bello essere vituperati dalla Follia e che avendola introdotta a parlare, dovevo rimanere fedele al personaggio. Ma perch? dire queste cose a te, avvocato cos? straordinario da difendere in modo egregio anche cause non egregie? Addio, eloquentissimo Moro, e difendi con zelo la tua Mor?a.

dalla campagna, 9 giugno 1508.


Elogio della Follia
di Erasmo da Rotterdam

Parla la Follia

1. Qualsiasi cosa dicano di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca anche dai pi? folli - tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli D?i e gli uomini. Non appena mi sono presentata per parlare a questa affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati di non so quale insolita ilarit?. D'improvviso le vostre fronti si sono spianate, e mi avete applaudito con una risata cos? lieta e amichevole che tutti voi qui presenti, da qualunque parte mi giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nep?nte degli D?i d'Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se foste tornati allora dall'antro di Trofonio. Appena mi avete notata, avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo sole mostra alla terra il suo aureo splendore, o quando, dopo un crudo inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci venti di Favonio, e tutte le cose mutando di colpo aspetto assumono nuovi colori e tornano a vivere visibilmente un'altra giovinezza. Cos? col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente meditata orazione.

2. Perch? poi io sia venuta qui oggi, e vestita in modo cos? strano, lo saprete fra poco, purch? non vi annoi porgere orecchio alle mie parole: non quell'orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri, ma quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli: quell'orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedic? alle parole di Pan. Mi ? venuta infatti voglia d'incarnare con voi per un po' il personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso, che oggi riempiono la testa dei ragazzi di capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine, degne di donne pettegole. Io imiter? quegli antichi che per evitare l'impopolare appellativo di sapienti, preferirono essere chiamati sofisti. Il loro proposito era di celebrare con encomi gli D?i e gli eroi. Ascolterete dunque un elogio, e non di Ercole o di Solone, ma il mio: l'elogio della Follia.

3. Certamente, io non faccio alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell'estrema dissennatezza e tracotanza di chi si loda da s?. Sia pure folle quanto vogliono; dovranno riconoscerne la coerenza. Che cosa c'?, infatti, di pi? coerente della Follia che canta le proprie lodi? Chi meglio di me potrebbe descrivermi? a meno che non si dia il caso che a qualcuno io sia pi? nota che a me stessa. D'altra parte io trovo questo sistema pi? modesto, e non di poco, di quello adottato dalla massa dei grandi e dei sapienti; costoro, di solito, per una falsa modestia, subornano qualche retore adulatore, o un poeta dedito al vaniloquio, e lo pagano per sentirlo cantare le proprie lodi, e cio? un sacco di bugie. Cos? il nostro fiore di pudicizia drizza le penne come un pavone, alza la cresta, mentre lo sfacciato adulatore lo va paragonando, lui che ? un pover'uomo, agli D?i, e lo propone quale modello assoluto di virt?, lui che da quel modello sa di essere lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia con le penne altrui, fa diventare bianco l'Etiope, e di una mosca fa un elefante. Io invece seguo quel vecchio detto popolare secondo il quale, chi non trova un altro che lo lodi, fa bene a lodarsi da s?.

Ora, tuttavia, devo esprimere la mia meraviglia per l'ingratitudine, o, come dire?, per l'indifferenza dei mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono di buon grado i miei benefici, eppure, in tanti secoli, non si ? trovato nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso in lode della Follia, mentre non ? mancato chi con lodi elaborate ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto l'elogio di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della calvizie, e di altri flagelli del genere.

4. Da me ascolterete un discorso estemporaneo e non elaborato, ma tanto pi? vero. Non vorrei per? che lo riteneste composto per farvi vedere quanto sono brava, come usa il branco dei retori. Costoro, come sapete, di un'orazione su cui hanno sudato trenta lunghi anni - e qualche volta l'ha fatta un altro - giurano che l'hanno buttata gi?, e magari dettata, in tre giorni, quasi per svago. A me, invece, ? sempre piaciuto moltissimo dire tutto quello che mi salta in mente.

Nessuno, perci?, si aspetti da me che, secondo il costume di codesti oratori da strapazzo, definisca la mia essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola. Sono infatti cose di malaugurio, sia porre dei confini a colei il cui potere ? sconfinato, sia introdurre delle divisioni in lei, il cui culto ? oggetto di cos? universale consenso. D'altra parte perch? una definizione, che sarebbe quasi un'ombra e un'immagine, quando potete vedermi con i vostri occhi?

5. Sono come mi vedete, quell'autentica dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i Greci Mor?a.

Che bisogno c'era di dirvi tutto questo, come se il mio volto non bastasse, come dice la gente, a mostrare chi sono? come se, pretendendo qualcuno ch'io sia Minerva o Sofia, non bastasse a smentirlo il mio sguardo, che, senza bisogno di parole, ? lo specchio pi? schietto dell'animo. Da me ? lontano ogni trucco; non simulo in volto una cosa, mentre ne ho un'altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono a tal punto inconfondibile, che non possono tenermi nascosta nemmeno quelli che si arrogano la maschera e il titolo della Saggezza, e se ne vanno in giro come scimmie ammantate di porpora o come asini vestiti della pelle del leone. Eppure, per accorti che siano nel fingere, le orecchie di Mida, spuntando fuori da qualche parte, li tradiscono. Ingrati, per Ercole, sono anche quelli che, appartenendo in pieno alla mia parte, si vergognano a tal segno di fronte alla gente del mio nome, che lo attribuiscono genericamente agli altri come un grave insulto. Essendo in realt? costoro pazzi da legare proprio quando vogliono sembrare sapienti come Talete, potremo senz'altro chiamarli a buon diritto MORO-SOFI.

6. Anche in questo, infatti, intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono proprio degli D?i se, a mo' delle sanguisughe, mostrano due lingue, e considerano una grande impresa inserire nel discorso latino, come in un intarsio, qualche paroletta greca, che magari era proprio fuori posto. Se poi fanno loro difetto termini esotici, tirano fuori da pergamene ammuffite quattro o cinque termini arcaici con cui rendere oscuro il testo al lettore. Cos? chi riesce a capire ? pi? soddisfatto di s?, e chi non capisce ammira tanto di pi? quanto meno capisce. Tra gli eletti piaceri dei nostri contemporanei, infatti, c'? anche questo: esaltare tanto di pi? una cosa, quanto pi? ? straniera. I pi? ambiziosi ridono e applaudono e, come gli asini, muovono le orecchie, dando ad intendere agli altri di avere capito tutto. E' proprio cos?. Ritorno all'argomento.

7. Il nome mio lo sapete, miei cari... Quale attributo aggiunger?? Quale, se non Arcifolli? Con quale altro pi? nobile appellativo potrebbe la dea Follia chiamare i suoi iniziati? Ma poich? non a molti sono ugualmente noti i miei maggiori, con l'aiuto delle Muse tenter? di parlarne.

Non il Caos, n? l'Orco, n? Saturno, n? Giapeto, n? alcun altro di questi D?i decrepiti e fuori moda, fu mio padre, ma Pluto lui solo, [il dio della ricchezza], padre degli uomini e degli D?i, con buona pace di Esiodo, di Omero e dello stesso Giove. Un suo cenno, ora come sempre, mette sottosopra cielo e terra. Il suo arbitrio decide della guerra e della pace, degli imperi, dei consigli, dei giudizi, dei comizi, dei matrimoni, dei trattati, delle alleanze, delle leggi, delle arti, delle cose scherzose e di quelle serie; da lui dipendono tutti gli affari pubblici e privati degli uomini. Senza il suo aiuto, tutta la folla degli D?i, dei poeti, e, oser? dire, perfino le stesse divinit? maggiori, o non esisterebbero, o vivacchierebbero alla meglio, di briciole. Chi incorre nella sua ira, neppure Pallade potrebbe aiutarlo. Chi, invece, ne gode il favore, potrebbe trarre in catene lo stesso Giove col suo fulmine. Di tale padre io mi glorio. E questo padre non mi gener? dal suo cervello, come Giove la fosca e crudele Pallade, ma dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la pi? graziosa e lieta. E non mi gener? nell'uggioso vincolo del matrimonio - in cui nacque il famoso fabbro zoppo ma, ed ? molto pi? dolce, in un amplesso d'amore, come dice il nostro Omero. N?, a scanso d'equivoci, mi gener? quel Pluto di Aristofane, gi? mezzo morto e gi? cieco, ma quello in pieno vigore, fervente di giovinezza, e non solo di giovinezza, ebbro soprattutto di schietto nettare che aveva generosamente bevuto al banchetto degli D?i.

8. Se poi volete anche sapere dove sono nata, visto che oggi nel valutare il grado di nobilt? attribuiscono la massima importanza al luogo dove si sono messi fuori i primi vagiti: ebbene, io non sono nata nell'errante Delo, non tra i flutti del mare, non in grotte profonde, ma proprio nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme n? aratro. L? non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli, malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco.

Da ogni parte ti accarezzano gli occhi e il naso moly, panacea, nep?nte, maggiorana, ambrosia, loto, rose, viole, giacinti - i giardini d'Adone. Nata fra queste delizie, non ho cominciato la vita nel pianto; subito ho sorriso dolcemente a mia madre.

Al sommo figlio di Crono non invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le loro mammelle sono state due graziosissime ninfe, Mete l'Ebbrezza, figlia di Bacco, e Apedia l'Ignoranza, figlia di Pan. Le vedete qui con me, nel gruppo di tutte le altre mie compagne e seguaci, delle quali se, per Ercole, vorrete sapere i nomi, da me li sentirete solo in greco.

9. Quella che vedete con le sopracciglia inarcate ? senz'altro Filautia; quella che sembra ridere con gli occhi, e che batte le mani, ? Colac?a; quella mezza addormentata e vinta dal sonno si chiama Lete; quella appoggiata sui gomiti e con le mani intrecciate si chiama Misoponia; l'altra, cinta da un serto di rose, e tutta cosparsa di profumi, Hedon?; Anoia questa, dai mobili sguardi lascivi. Quella dalla pelle splendente e dal corpo rigoglioso si chiama Truf?. Tra le fanciulle potete vedere anche due D?i: Como e Ipno, il dio del sonno profondo. Col fedele aiuto di questa mia corte io signoreggio su tutte le cose, e sono sovrana degli stessi sovrani.

10. Vi ho detto origine, educazione, compagni. Ora, perch? a qualcuno non paia senza fondamento la mia pretesa al titolo di dea, drizzate le orecchie e ascoltate di quanta utilit? io sia agli D?i e agli uomini, e quanto si estenda il mio potere. Se, infatti, non senza saggezza qualcuno ha scritto che essere un dio proprio questo significa: giovare ai mortali; se a buon diritto sono stati accolti nel consesso degli D?i coloro ai quali i mortali debbono il vino, il grano, e simili beni; perch? io non dovrei a buon diritto essere ritenuta e proclamata l'alfa degli D?i, dal momento che io, io sola, sono a tutti prodiga di tutto?

11. lnnanzitutto, che cosa pu? esserci di pi? dolce e prezioso della vita? ma a chi, se non a me, riportarne la desiderata origine? Non l'asta di Pallade dal padre possente, n? l'egida di Giove adunatore di nembi, generano e propagano la stirpe umana. Lo stesso padre degli D?i e re degli uomini, al cui cenno trema l'Olimpo intero, quando vuol fare quello che poi fa sempre, e cio? generare dei figli, deve deporre quel suo famoso fulmine a tre punte, deve spogliarsi del titanico sembiante con cui spaventa a suo piacimento tutti gli D?i, e, come un povero commediante qualsiasi, deve assumere la maschera di un altro personaggio. Quanto agli stoici che si credono cos? vicini agli D?i, datemene uno che sia stoico magari tre o quattro volte, o, se volete, stoico mille volte! Anche lui dovr? deporre, se non la barba che ? l'insegna della sapienza (comune, a dir il vero, con i caproni), certamente il suo sussiego. Dovr? spianare la fronte, mettere da parte i suoi princ?pi adamantini, e abbandonarsi un poco a qualche leggerezza e follia. Se vuole davvero diventare padre, insomma, anche quel saggio deve chiamare me, proprio me.

E perch?, dal momento che sto chiacchierando con voi, non essere pi? esplicita, secondo il mio costume? E' forse con la testa, col volto, col cuore, con la mano, con l'orecchio (parti considerate tutte oneste) che si generano gli D?i e gli uomini? No davvero! propagatrice del genere umano ? quella parte cos? assurda e ridicola che non si pu? neppure nominare senza ridere. Quello ? il sacro fonte a cui tutto attinge la vita, quello e non la tetrade pitagorica. E, ditemi, quale uomo vorrebbe porgere il collo al capestro del matrimonio se prima, secondo la consuetudine di codesti saggi, ne considerasse gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un uomo, se conoscesse e avesse in mente i pericolosi travagli del parto, e i fastidi di allevare i figli? Perci? se dovete la vita al matrimonio, e il matrimonio ad Anoia del mio seguito, comprenderete quello che dovete a me. D'altra parte quale donna dopo la prima esperienza vorrebbe riprovarci, se non ci fosse ad assisterla la presenza di Letes? Venere medesima, protesti pure Lucrezio, non negherebbe mai che senza l'aiuto della mia divinit? la sua forza sarebbe insufficiente e inutile. Perci? ? da quella nostra ebbrezza giocosa che sono nati i filosofi severi, a cui ora sono subentrati quelli che il volgo chiama monaci, e i re ammantati di porpora, i pii sacerdoti, i pontefici, tre volte santissimi. E infine anche tutto quel consesso degli D?i dei poeti, cos? affollato che a stento pu? contenerlo l'Olimpo, pur vasto che sia.

12. Eppure sarebbe ben poco dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi che quanto vi ? di buono nella vita ? anch'esso un mio dono. E che cos'? poi questa vita? e se le togli il piacere, si pu? ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene, io, che nessuno di voi era cos? saggio, anzi cos? folle - no, ? meglio dire saggio, da non andare d'accordo con me. Del resto neppure questi stoici disprezzano il piacere, anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla gente, rovesciano sul piacere ingiurie sanguinose; in realt? solo per distogliere gli altri e goderne di pi?, loro stessi. Ditemi, per Giove, quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso, senza il piacere, e cio? senza un pizzico di follia? E di questo ? degno testimone il non mai abbastanza lodato Sofocle con quelle sue splendide parole di elogio per me: "Dolcissima ? la vita nella completa assenza di senno".

Ma ? tempo di esaminare a parte tutta la questione.

13. E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima et? dell'uomo ? per tutti di gran lunga la pi? lieta e gradevole? ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto, s? che persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati perch? con una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli? E l'adolescenza che segue l'infanzia, quanto piace a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure riceve, con quanta bont? tutti le tendono una mano!

Ma di dove, di grazia, questa benevolenza per la giovent?? di dove, se non da me? E' per merito mio che i giovani sono cos? privi di senno; ? per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia, se non ammettessi che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza e l'educazione cominciano ad acquistare una certa maturit?, subito sfiorisce la loro bellezza, s'illanguidisce la loro alacrit?, s'inaridisce la loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto pi? si allontanano da me, tanto meno vivono, finch? non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli D?i della fiaba di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi ? sul punto di perire, anch'io, per quanto ? possibile, non riportassi all'infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. Se poi qualcuno vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su questo far? misteri.

Conduco i vecchi alla fonte della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate - il Lete che scorre agli Inferi ? solo un esile ruscello. L?, bevute a grandi sorsi le acque dell'oblio, un poco alla volta, dissipati gli affanni, torneranno bambini.

Ma delirano ormai, non ragionano pi?! Certo. E' proprio questo che significa tornare fanciulli. Forse che essere fanciulli non significa delirare e non avere senno? e non ? proprio questo, il non aver senno, che pi? piace di quella et?? Chi non vivrebbe come mostro un bambino con la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: "Odio il bambino di precoce saggezza". E chi, d'altra parte, vorrebbe rapporti e legami di familiarit? con un vecchio che alla lunga esperienza di vita unisse pari forza d'animo e acutezza di giudizio?

Cos?, per mio dono, il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante ? libero dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta di bere, ? un allegro compagno; non avverte il tedio della vita, che l'et? pi? vigorosa sopporta a fatica. Talvolta, come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose lettere [AMO], che se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito mio ? felice, simpatico agli amici, piacevole in compagnia. Del resto anche in Omero il discorso scorre dalla bocca di Nestore pi? dolce del miele, mentre amare sono le parole di Achille; e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori alla stessa infanzia, che ? s? deliziosa, ma non parla, e, priva della parola, manca del principale diletto della vita, che ? quello di una schietta conversazione. Aggiungi che ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini i vecchi, "perch? il dio spinge sempre il simile verso il simile". In che differiscono, infatti, se non nelle rughe e negli anni che nel vecchio sono di pi?? Per il resto, capelli sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta, desiderio di latte, balbuzie, garrulit?, mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione: in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano. Quanto pi? invecchiano, tanto pi? somigliano ai bambini, finch?, come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della morte, abbandonano la vita.

14. Paragoni ora chi vuole questo mio beneficio con le metamorfosi operate dagli altri D?i. E non sto a ricordare quello che fanno quando li possiede l'ira; parlo di coloro che godono di tutta la loro benevolenza: li trasformano di solito in alberi, uccelli, cicale, e perfino in serpenti, come se il diventare altro non fosse proprio un morire. Io, invece, restituisco il medesimo uomo al periodo migliore della vita, al pi? felice. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, e vivessero sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza.

Non vi accorgete che gli uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende serie e difficili, in genere sono gi? vecchi prima di essere stati davvero giovani, e questo per le preoccupazioni e per il costante e teso dibattito mentale, che un po' alla volta esaurisce gli spiriti e la linfa vitale?

Al contrario, i miei bei matti sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, proprio come quelli che chiamano porcelli d'Acarnania, immuni, per certo, da qualunque disturbo senile, a meno che non si trovino a subire in qualche misura il contagio dei saggi, come capita, poich? la vita non consente mai una completa felicit?.

Valida testimonianza di tutto questo ? il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia ? capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia. Sicch?, non a torto, si ? fatto l'elogio del detto popolare del Brabante: mentre altrove, di solito, l'et? porta saggezza, qui pi? s'invecchia e pi? matti si diventa. Non c'? popolazione, infatti, pi? incline di questa a un giocondo abito di vita e meno portata ad avvertire la tristezza della vecchiaia. Loro vicini, e dal punto di vista geografico e da quello del costume, sono i miei Olandesi - e perch?, poi, non dovrei chiamarli miei, se mi sono cos? devoti da essersi meritato un soprannome [di folli] di cui non si vergognano per nulla, che anzi ne traggono il loro vanto principale?

Vadano pure gli stoltissimi mortali a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le Aurore, e non so quale fonte che restituisca loro la giovinezza, quando io sola posso, e sono solita farlo. Sono io che possiedo quel filtro miracoloso con cui la figlia di Memnone prolung? la giovinezza di Titone suo avo. Sono io quella Venere per la cui grazia Faone ringiovan? a tal segno da essere amato follemente da Saffo. Sono mie le erbe, se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte che non solo risuscita la giovinezza svanita, ma, meglio ancora, la mantiene per sempre. Perci?, se siete tutti d'accordo su questo, che niente ? meglio della giovinezza, e niente pi? odioso della vecchiaia, vi rendete conto, io credo, di quello che dovete a me, che, fugato un male tanto grande, conservo un cos? grande bene.

15. Ma perch? parlo ancora dei mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa chiunque infamare il mio nome se si trover? un solo Dio non privo di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione del mio nume. Infatti, perch? Bacco ? sempre il chiomato efebo? proprio perch?, pazzo ed ebbro, passa tutta la vita in conviti, balli, canti e giochi, e non ha proprio nulla a che fare con Pallade. A tal punto rifugge dal desiderare la fama di sapiente, da compiacersi di un culto fatto di beffe e di scherzi. N? trova offensivo quel detto che gli attribuisce il soprannome di fatuo, e che suona: "pi? pazzo di Morico". E cambiarono il suo nome in Morico perch? i contadini, nella loro sfrenata allegria, erano soliti impiastricciare di mosto e di fichi freschi il suo simulacro, che lo ritraeva seduto alle soglie del tempio.

D'altra parte, quali lazzi non scaglia contro di lui l'antica commedia? O Dio pazzo, dicono, degno parto d'una coscia! Ma chi non preferirebbe essere questo Dio fatuo e dissennato, sempre allegro, sempre giovane, sempre generoso di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso Giove, temuto da tutti, o Pan che tutto va devastando con i terrori che diffonde, o Vulcano avvolto di scintille e sempre nero del fumo della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo, terribile con la Gorgone e la lancia? Perch? Cupido ?, invece, sempre fanciullo? Perch?? se non per la sua leggerezza, per la sua incapacit? di fare o pensare qualcosa di assennato. Perch? la bellezza dell'aurea Venere ? sempre in fiore? Perch? ? mia parente e conserva nell'aspetto il colore di mio padre. Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea Afrodite". Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro emuli, ride sempre. E quale nume i Romani venerarono pi? di Flora, madre di tutti i piaceri? Se poi si andasse ad esaminare un po' meglio, attraverso Omero e gli altri poeti, la vita anche degli D?i ritenuti pi? austeri, si scoprirebbe che tutto ? pieno di follie. E perch? poi ricordare le imprese degli altri, quando si conoscono cos? bene gli amori e i sollazzi dello stesso Giove tonante? Quando la fiera Diana, dimentica del sesso nella sua esclusiva passione per la caccia, muore tuttavia d'amore per Endimione?

Preferirei per? che gli D?i se le sentissero cantare da Momo, come una volta accadeva piuttosto spesso. Ma ora lo hanno scaraventato sulla terra con Ate perch? le sue sagge critiche disturbavano la loro felicit?. N? alcun mortale si degna di offrirgli ospitalit?; tanto meno poi c'? posto per lui alle corti dei pr?ncipi, dove per? ? sempre ospite d'onore la mia Colac?a, che va d'accordo con Momo come l'agnello coi lupi.

Allontanato lui, gli D?i folleggiano molto pi? liberamente e gradevolmente, e se la passano bene davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi. Quali scherzi scurrili, infatti, non alimenta il Priapo di legno di fico? quali divertimenti non procura Mercurio con i suoi furti ed i suoi trucchi? Perfino Vulcano, al banchetto degli D?i, si ? abituato alla parte del buffone, facendo ridere il simposio ora con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con le sue facezie. Anche Sileno, il vecchio mandrillo, uso a danzare il cordace, balla con Polifemo la TRETANELO' [il ballo dei Ciclopi], mentre le Ninfe danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino rappresentano le atellane, e Pan fa ridere tutti con le sciocche cantilene che gli D?i preferiscono al canto delle Muse, specialmente quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perch? raccontare ora ci? che fanno gli D?i alla fine del banchetto dopo una buona bevuta? Follie tali che io stessa, per Ercole, non riesco a tenermi dal riderne.

A questo punto ? meglio ricordare Arpocrate [il dio del silenzio]: che pu? succedere che qualche Dio di Corico sia in ascolto mentre narriamo fatti che neppure Momo ha potuto rivelare impunemente.

16. E' tempo ormai di seguire l'esempio di Omero lasciando da parte gli D?i e tornare sulla terra per vedere fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino solo per mio dono.

In primo luogo osservate con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano, ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti, secondo la definizione stoica, la saggezza consiste solo nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste nel farsi trascinare dalle passioni, perch? la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severit?, Giove infuse nell'uomo molta pi? passione che ragione: press'a poco nella proporzione di mezz'oncia ad un asse. Releg? inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che occupa la rocca del petto e il cuore stesso che ? la fonte della vita, e la concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione pu? solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce, enunciando i princ?pi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la subissano di grida odiose, finch? lei, prostrata, cede spontaneamente dichiarandosi vinta.

17. Tuttavia, poich? l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote un po' pi? di un'oncia di ragione, Giove, per provvedere debitamente, mi convoc? perch? lo consigliassi, come su tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio fu degno di me: affiancare all'uomo la donna, animale, s?, stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza addolcisce con un pizzico di follia la malinconica gravit? del temperamento maschile. Platone, infatti, quando sembra in dubbio circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali o fra i bruti, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di questo sesso. E, se per caso una donna vuole passare per saggia, ottiene solo di essere due volte folle, come se uno volesse, contro ogni ragionevole proposito, portare un bue in palestra. Infatti raddoppia il suo difetto chi, distorcendo la propria natura, assume sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio greco, la scimmia ? sempre una scimmia, anche se si ammanta di porpora, cos? la donna ? sempre una donna, cio? folle, comunque si mascheri.

Non per? cos? folle, voglio credere, da prendersela con me perch? la giudico folle, io che sono folle, anzi la Follia in persona. Le donne, infatti, se ponderassero bene la questione, anche questo dovrebbero considerare come un dono della Follia: il fatto di essere, sotto molti aspetti, pi? fortunate degli uomini. In primo luogo hanno il dono della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto, contando su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all'uomo, di dove gli viene l'aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta, e un certo che di senile, se non dalla maledizione del senno? Le donne, invece, con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile, con la pelle morbida, danno quasi l'impressione d'una eterna giovinezza. Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non piacere agli uomini quanto pi? ? possibile? Non mirano forse a questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi; tante arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli occhi, la pelle? C'? forse qualche altro motivo che le faccia apprezzare dagli uomini pi? della follia? Che cosa mai non concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di che, se non del piacere? E il diletto da nient'altro viene se non dalla loro follia. Che questo sia vero non si pu? negare solo che si pensi a tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna, a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che si mette in testa di ottenerne i favori. Ecco da che fonte sgorga il primo e principale diletto della vita.

18. Ma ci sono uomini, specialmente tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere; per loro il sommo piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa esservi un lauto banchetto senza donne; per? una cosa ? certa, che senza un pizzico di follia non pu? esservi banchetto ben riuscito. A tal punto che, se non c'? gi? qualcuno capace di far ridere con la sua follia, autentica o simulata, si chiama un buffone a pagamento, o un allegro parassita, che, con le sue comiche, ossia folli battute, dissipi il silenzio e la noia del simposio. A che scopo infatti riempirsi il ventre di tanti dolciumi, leccornie e ghiottonerie, se anche gli occhi, le orecchie e l'anima intera, non si nutrissero di risa, di scherzi, di facezie? ma cibi del genere posso ammannirli solo io. D'altra parte anche quei riti conviviali, come sorteggiare il re del convito, giocare ai dadi, invitare al brindisi, gareggiare intorno ad un tavolo a cantare e bere a turno, passarsi il mirto cantando, ballare, far pantomime, non sono stati inventati dai sette sapienti della Grecia ma da me, per la felicit? dell'umana specie.

Tutte le cose di questo genere hanno un tratto comune: che quanto pi? partecipano della follia tanto pi? rallegrano la vita dei mortali, che, se fosse triste, neanche meriterebbe di essere chiamata vita. E triste risulter? senz'altro, se non le toglierai di dosso l'innato tedio con questo tipo di divertimenti.

19. Forse taluni trascureranno anche questo genere di piacere e saranno paghi dell'amore e della familiarit? degli amici, affermando che l'amicizia vale pi? di tutto: l'amicizia, un bene non meno necessario dell'aria, del fuoco, dell'acqua; tanto soave che se togli l'amicizia togli il sole; infine tanto nobile - ammesso che la cosa ci riguardi - che gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni fondamentali. Ma che succede se dimostro che anche di questo bene cos? grande sono io la poppa e la prora? Io lo dimostrer? non col sofisma del coccodrillo, non coi soliti cornuti o con altre simili dialettiche sottigliezze, ma alla buona, facendovi toccare la cosa con mano.

Orbene, chiudere gli occhi, ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei difetti degli amici, amarne e apprezzarne come qualit? alcuni dei vizi pi? evidenti, non ? forse qualcosa di molto vicino alla follia? C'? chi bacia il neo dell'amica, chi trova incantevole il polipo di Agna; il padre dice del figlio strabico che ha il vezzo di ammiccare. Tutto questo, io domando, che ?, se non pura follia? Ripetano a gran voce che ? follia: eppure essa sola ? capace di promuovere e cementare le amicizie. Parlo dei comuni mortali, nessuno dei quali nasce senza difetti: il migliore ? chi ne ha meno; quanto poi a quei famosi saggi che hanno il piglio di D?i, tra loro l'amicizia, o non nasce affatto, o ? qualcosa di cupo e scostante, limitata poi a pochissimi (non oso dire che non include proprio nessuno), perch? la maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia, anzi non c'? nessuno che, in un modo o in un altro, non abbia le sue stranezze, e non c'? amicizia se non tra persone simili. Se, infatti, tra questi uomini austeri si desse una volta uno scambievole affetto, non sarebbe per nulla stabile e durerebbe ben poco, nascendo tra uomini difficili e pi? oculati del necessario, capaci di cogliere i difetti degli amici con l'occhio acuto dell'aquila e del serpente di Epidauro. Quando per? si tratta dei loro difetti, come ci vedono poco! e come ignorano la parte della bisaccia che portano dietro le spalle! Perci?, dato che la natura dell'uomo ? tale che nessuno ? immune da gravi difetti (aggiungi la grande variet? di caratteri e di studi, le tante cadute, i tanti errori, i tanti casi della vita mortale), come potranno questi Arghi gustare anche solo per un'ora le gioie dell'amicizia se non interverr? quella che i Greci chiamano EUETHEIA, termine felice da tradursi con follia, o con indulgente semplicit?? Del resto, non ? forse del tutto cieco quel Cupido, che ? artefice e padre di ogni legame? E come il brutto gli appare bello, cos? fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello ci? che gli ? toccato in sorte, che il vecchio ami la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono cose che accadono a ogni pi? sospinto e che muovono il riso; eppure sono proprio queste cose ridicole il fondamento di una societ? che vive con gioia.

20. Quanto si ? detto dell'amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che altro non ? se non un legame per la vita tra singoli individui. Dio immortale, quanti divorzi, o fatti anche peggiori dei divorzi, non si avrebbero dappertutto, se la domestica convivenza del marito con la moglie non si rafforzasse nutrendosi di adulazioni, di scherzi, d'indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose che appartengono al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato saggiamente s'informasse dei passatempi a cui gi? molto prima delle nozze si dedicava la sua verginella cos? delicata e pudica in apparenza. E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese delle mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza dei mariti! E anche questo, a buon diritto, ? da attribuirsi alla Follia, a cui si deve se il marito ama la moglie e la moglie il marito, se in casa regna la pace, se il vincolo dura.

Si ride del cornuto, del cervo (e quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga con i baci le lacrime dell'adultera. Ma quanto meglio lasciarsi ingannare cos? che rodersi di gelosia e volgere tutto in tragedia!

21. Insomma, senza di me nessuna societ?, nessun legame potrebbe durare felicemente. Il popolo si stancherebbe del principe, il servo del padrone, la serva della padrona, il maestro dello scolaro, l'amico dell'amico, la moglie del marito, il locatore del locatario, il compagno del compagno, l'ospite dell'ospite, se volta a volta non s'ingannassero a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente finta di non vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi sembrano enormit?; ma ne sentirete di pi? belle.

22. Di grazia, chi odia se stesso come potr? amare qualcuno? chi ? interiormente combattuto, potr? forse andare d'accordo con altri? potr?, chi ? sgradito e molesto a se stesso, riuscire gradevole a un altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo pi? pazzo della Follia stessa. Pertanto, se non ci fossi pi? io, lungi dal sopportare il prossimo, ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto di s? e delle sue cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre, ha posto nell'animo dei mortali, soprattutto se appena pi? intelligenti, il seme di questo male: scontento di s? e ammirazione per gli altri. Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle squisite doti che sono il profumo della vita. A che giova infatti la bellezza, il massimo dono degli D?i immortali, se deve esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve intristire per il veleno di senili malinconie? Infine, in tutti i casi della vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti (agire come conviene non ? solo la prima regola dell'arte, ma di tutta la nostra condotta), se non ti sar? propizia Filaut?a, che a buon diritto tengo in conto di sorella, tanto validamente mi presta il suo aiuto in ogni occasione? Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo ? proprio il colmo della follia; ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile? Togli alla vita l'amor proprio e subito la parola suoner? fredda sulle labbra dell'oratore, il musicista non piacer? a nessuno con le sue melodie, l'attore si far? fischiare con la sua mimica, il poeta e le sue muse saranno irrisi, sar? tenuto a vile il pittore con la sua arte, si ridurr? alla fame il medico con le sue medicine. Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore, invece di Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno che non balbetta neanche una parola; invece di un distinto cittadino, un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri, devi proprio cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere il primo a lodarti, e non senza una punta di adulazione.

Infine, poich? la felicit? consiste soprattutto nel voler essere ci? che si ?, qui interviene col suo aiuto la mia Filaut?a, facendo in modo che nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere, schiatta, posizione, educazione, Patria, tanto che n? un irlandese si cambierebbe con un italiano, n? un tracio con un ateniese, n? uno scita con un abitante delle Isole Fortunate. O singolare bont? della natura che in tanta variet? di cose, stabil? un regime di uguaglianza! Dove scarseggia coi suoi doni, l?, ? solita aggiungere una dose maggiore di amor proprio. Ma che sciocchezza ho detto! Proprio questo ? il pi? grande dei suoi doni.

23. Ora dovrei aggiungere che nulla di grande si pu? intraprendere senza la mia spinta, perch? ? a me che si deve l'invenzione di ogni nobile arte. Forse che non sia la guerra la fonte e il coronamento di ogni celebrata impresa? E che c'? di pi? pazzesco dell'impegnarsi, per non so quali cause, in un confronto da cui, immancabilmente, ognuna delle due parti trae pi? danno che guadagno? Dei caduti, poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le schiere in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro rauco suono, a che servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi, col loro sangue povero e privo di calore, e che a malapena tirano il fiato? C'? bisogno di gente ben piantata; con moltissima audacia e pochissimo cervello. A meno che non si preferisca arruolare Demostene, tanto vile soldato quanto grande oratore, che, seguendo il consiglio d'Archiloco, appena vide il nemico fugg? abbandonando lo scudo.

La prudenza, obiettano, in guerra ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda; e si tratta di prudenza militare, non filosofica; per il resto, l'impresa tanto egregia della guerra ? affidata a parassiti, ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.

24. Della cui totale inutilit? sul piano pratico ? testimone lo stesso Socrate che l'oracolo d'Apollo giudic? - con poco senno, del resto - il solo sapiente: quando tent? d'impegnarsi in non so quale faccenda pubblica, fu costretto a ritirarsi fra il generale dileggio. Anche se del tutto sciocco non si dimostr? quando rifiut? il titolo di sapiente che attribu? solo a Dio, e quando sostenne che il saggio non deve occuparsi di politica; e meglio avrebbe fatto a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza, se si vuol vivere da uomini.

D'altra parte, quando fu processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta? Infatti mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre misurava il salto delle pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare, non imparava nulla di ci? che riguarda la vita di tutti i giorni. In aiuto del maestro, sull'orlo di una condanna capitale, interviene il discepolo Platone, difensore cos? egregio che, turbato dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche frase smozzicata. E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto animare i soldati in guerra, lui che, levatosi a parlare, ammutol? di colpo come se d'improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido per natura, non os? mai aprire bocca. Marco Tullio, il padre della romana eloquenza, abitualmente, preso da poco dignitoso tremore, esordiva balbettando, come un ragazzino. Quintiliano vede in questo la prova dell'oratore di valore, che misura le difficolt?; ma non farebbe meglio a dire che la sapienza ? un ostacolo a condurre in porto le faccende pratiche? Che faranno costoro quando si dovr? ricorrere alle armi, se si perdono d'animo cos? quando si combatte semplicemente a parole?

Nonostante questo, a Dio piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati saranno gli Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori si daranno alla filosofia. Se, invece, consulterai gli storici, troverai che il concentrarsi del potere nelle mani di un filosofastro o di un letterato ? la peggiore sciagura che possa colpire uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni: uno dei quali turb? la pace della repubblica romana con le sue pazze denunce; l'altro, mentre difendeva con un eccesso di saggezza la libert? del popolo romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi a questi i Bruti, i Cassi, i Gracchi, e Cicerone stesso, che allo stato romano fece tanto male quanto Demostene a quello ateniese. Quanto a Marco Antonio, ammesso che fosse un buon imperatore (potrei contestarlo, perch?, dedito come era alla filosofia, per questa stessa fama si era fatto prendere a noia dai concittadini) ammesso tuttavia che lo fosse, certamente, lasciando dietro di s? il figlio che lasci?, danneggi? lo Stato pi? di quanto non gli avesse giovato col suo governo. Questa categoria, infatti, di uomini dediti allo studio della filosofia, di solito ha pochissima fortuna in ogni cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo; penso sia la provvidenza della natura a volere impedire che questo malanno della filosofia si diffonda pi? largamente fra gli uomini. Cos? risulta che Cicerone ebbe un figlio degenere, e che Socrate, il famoso filosofo, ebbe figli, com'? stato scritto non del tutto a torto, "pi? simili alla madre che al padre", e cio? stolti.

25. Comunque, se fossero come asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici affari, ci si potrebbe passare sopra; il guaio ? che sono altrettanto incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a pranzo un sapiente: disturber? col suo cupo silenzio, o con le sue noiose questioncelle. Invitalo alla danza: diresti che balla come un cammello. Portalo ad uno spettacolo: baster? la sua espressione a guastare il divertimento alla gente e, come il saggio Catone, sar? costretto a lasciare il teatro perch? non pu? spianare il cipiglio. Se per caso capiter? durante una conversazione, sar? come il lupo della favola. Se c'? da fare un acquisto, un contratto, insomma qualcuna delle cose indispensabili alla vita di ogni giorno, questo sapiente ti sembrer? un pezzo di legno, non un uomo. A tal punto ? incapace di rendersi utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perch? inesperto delle faccende usuali e perch? tanto lontano dal giudizio corrente e dalle accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa anche odiare, per questa sua grande diversit? di vita e di intendimenti. Tra i mortali, infatti, che cosa mai si fa che non trabocchi di follia, e che non sia opera di folli in un mondo di folli? Perci?, se qualcuno volesse opporsi da solo a tutti, io gli consiglierei di ritirarsi, come Timone, in un deserto, per godervi, da solo, la propria saggezza.

26. Ma, per tornare all'argomento proposto, quale forza, se non l'adulazione, raggrupp? nella citt? quegli uomini primitivi, simili ai sassi e alle querce? Questo solo vuole indicare la famosa cetra di Anfione e di Orfeo. Cosa mai riport? alla concordia cittadina la plebe romana che gi? stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo e puerile apologo del ventre e delle altre membra. Altrettanto si dica dell'analogo apologo di Temistocle, della volpe e del riccio. E quale discorso di un sapiente avrebbe potuto raggiungere l'efficacia della famosa cerva immaginata da Sertorio, o della trovata dei due cani, dello spartano Licurgo, o dell'altra ridicola storia, sempre di Sertorio, sul modo di strappare i peli dalla coda del cavallo? Per non parlare di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta moltitudine con invenzioni favolose. E' con simili sciocchezze che si fa presa su quella grossa e potente bestia che ? il popolo.

27. Viceversa, quale citt? ha mai fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i precetti di Socrate?

Che cosa persuase i Deci a votarsi spontaneamente agli D?i Mani? Che cosa trascin? nella voragine Quinto Curzio, se non la vanagloria, dolcissima sirena (ma quanto esecrata dai sapienti!).

Che c'? infatti di pi? sciocco, dicono, di un candidato che lusinga il popolo in tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al popolo, che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo? Aggiungi la sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati a un uomo insignificante, il fatto che si d? il caso di tiranni scelleratissimi elevati con pubbliche cerimonie alla gloria dell'Olimpo. Sono autentiche manifestazioni di follia, e per riderci sopra non basterebbe un solo Democrito. Chi lo nega? Tuttavia, proprio di qui sono nate le grandi imprese degli eroi, levate al cielo dall'opera di tanti letterati. Questa follia genera le citt?; su di essa poggiano i governi, le magistrature, la religione, le assemblee, i tribunali. La vita umana non ? altro che un gioco della Follia.

28. Quanto poi alle arti, cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell'animo umano la brama d'inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute nobili? Furono uomini davvero stoltissimi quelli che hanno creduto valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose veglie quella fama di cui niente pu? essere pi? vano. Ma intanto voi dovete alla Follia tante cose e cos? egregie della vita, e, ci? che soprattutto conta, la follia altrui fa la vostra cuccagna.

29. C'?, ora, qualcosa di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l'operosit?, rivendicher? anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che ? come accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo che riuscir? anche in questo purch? voi, come prima, mi prestiate benevola attenzione. In primo luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza, a chi meglio conviene fregiarsi dell'appellativo di saggio? Al sapiente che, parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende, o al folle che n? il pudore, di cui ? privo, n? il pericolo, che non misura, distolgono da qualche cosa? Il sapiente si rifugia nei libri degli antichi e ne trae solo sottigliezze verbali. Il folle affronta da vicino le situazioni coi relativi rischi e cos? acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che sembra avere visto, bench? cieco, Omero, quando dice: "Il folle capisce i fatti". Sono due infatti i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l'animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi.

Perch?, se preferiscono attingere quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle cose, state a sentire, vi prego, quanto ne sono lontani coloro che si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'? noto, tutte le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce affatto diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono, vedi la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa, al posto della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto, della ricchezza la miseria, dell'infamia la gloria, della dottrina l'ignoranza, del vigore la debolezza, della generosit? l'abiezione, della letizia la malinconia, della prosperit? la sventura, dell'amicizia l'inimicizia, del salutare il nocivo: in breve, se apri il Sileno, trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno giudica troppo filosofico questo discorso, mi spiegher?, come suol dirsi, pi? alla buona.

Chi negher? che un re ? ricco e potente? Eppure, se manca del tutto dei beni dell'animo, se non ? mai contento di nulla, ? davvero il pi? povero di tutti. Se poi il suo animo ? una sentina di vizi, ? addirittura uno schiavo abietto. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare anche per gli altri. Ma accontentiamoci dell'esempio proposto. A che scopo? domander? qualcuno. State a sentire dove voglio arrivare.

Se uno tentasse di strappare la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma, mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser preso da tutti a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di colpo tutto muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un giovane, un vecchio; chi prima era un re, d'improvviso diventa uno schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo da nulla. Dissipare l'illusione significa togliere senso all'intero dramma. A tenere avvinti gli sguardi degli spettatori ? proprio la finzione, il trucco. L'intera vita umana non ? altro che uno spettacolo in cui, chi con una maschera, chi con un'altra, ognuno recita la propria parte finch?, ad un cenno del capocomico, abbandona la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento.

A questo punto, se un sapiente caduto dal cielo si levasse d'improvviso a gridare che il personaggio a cui tutti guardano come a un Dio e a un potente, non ? neppure un uomo, perch? come le bestie si lascia dominare dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni cos? numerosi e turpi, ? l'ultimo degli schiavi; e, se ad un altro che piange il padre morto ordinasse di ridere perch? il padre, finalmente, ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non ? che morte; e se chiamasse plebeo e bastardo un terzo che mena vanto di una nobile nascita, ma che ? ben lontano dalla virt?, unica fonte di nobilt?: se allo stesso modo parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla di pi? stolto di una saggezza intempestiva; nulla di pi? fuori posto del buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi non sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti, e dimentica persino la regola conviviale: o bevi o te ne vai, e vorrebbe che una commedia non fosse pi? una commedia. Invece, per un mortale, ? vera saggezza non voler essere pi? saggio di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso all'andazzo generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono, proprio questo ? follia. Non lo contester?, purch? riconoscano in cambio che questo ? recitare la commedia della vita.

30. Quanto al resto, D?i immortali, parler? o tacer?? E perch? mai dovrei tacere cose pi? vere della verit?? Ma forse, in cos? grave frangente, meglio sarebbe chiamare in aiuto dall'Elicona le Muse che i poeti sono soliti invocare anche troppo spesso per vere sciocchezze. Assistetemi dunque per un poco, figlie di Giove, finch? non dimostri che nessuno senza la guida della follia pu? accedere alla sapienza, a quella che chiamano la rocca della felicit?.

In primo luogo, ? pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia: ci? che distingue il savio dal pazzo ? che questi si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione. Perci? gli stoici spogliano il sapiente di tutte le passioni come fossero delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi, non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della sapienza, ma nell'esercizio della virt? vengono sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano al bene. Anche se qui fieramente leva la sua protesta Seneca, col suo stoicismo integrale, negando al sapiente ogni passione. Ma cos? facendo distrugge anche l'uomo e crea al suo posto un Dio di nuovo genere, che non ? mai esistito e non esister? mai; anzi, per parlare ancora pi? chiaro, scolpisce la statua di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di qualunque sentimento umano. Perci?, se lo desiderano, si godano pure il loro saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui nella Repubblica di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei giardini di Tantalo.

Chi, infatti, non sfuggir? con orrore come spettro mostruoso un uomo cos? fatto, sordo ad ogni naturale richiamo, incapace d'amore o di piet?, come "una dura selce o una rupe Marpesia"? Un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai, ma che con l'occhio acuto di Linceo tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona; solo di s? contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui solo libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza amici, pronto a mandare all'inferno gli stessi D?i, e che condanna come insensato e risibile tutto ci? che si fa nella vita. Eppure quel perfetto sapiente ? proprio un animale fatto cos?. Ma, di grazia, se si dovesse decidere con i voti, quale citt? lo vorrebbe come magistrato, quale esercito lo designerebbe come capo? Quale donna vorrebbe o sopporterebbe un simile marito, quale anfitrione un simile convitato, quale servo un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque, uno della folla dei pazzi pi? segnalati, che, pazzo com'?, possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando la simpatia dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si possa convivere, che, infine, non ritenga estraneo a s? niente di ci? che ? umano? Ma ormai del sapiente ne ho abbastanza. Perci? torniamo a parlare degli altri vantaggi che offro.

31. Supponiamo che potendo spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno - come, secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversit? minaccino la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza, tutti gli affanni della giovent?, e com'? pesante la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle malattie, dei vari accidenti, l'incalzare delle contrariet?: nulla mai che sia immune da un amaro veleno; per non dire di quei mali che l'uomo subisce dall'uomo, come la povert?, la prigionia, l'infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto ? come mettersi a contare i granelli di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui per quali colpe gli uomini abbiano meritato questa sorte, o quale Dio irato li abbia costretti a nascere tanto infelici. Chi rifletta a tutto questo non sar? forse portato ad approvare l'esempio, pur cos? penoso, delle vergini di Mileto? E quali sono soprattutto gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati la morte? Non sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di pi?? Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni, i Cassi, i Bruti, prendiamo il famoso Chirone che, potendo diventare immortale, prefer? cercare spontaneamente la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe se la sapienza si diffondesse; sarebbe necessario altro fango e un secondo Prometeo capace di plasmare altri uomini. Io, invece, puntando ora sull'ignoranza e ora sulla spensieratezza, a volte facendo dimenticare i malanni, a volte suscitando speranze di cose favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla di miele, in cos? grandi malanni, sono cos? soccorrevole che nessuno vuole lasciare la vita, neppure quando il filo delle Parche ? gi? esaurito e la vita stessa viene meno. Anzi chi ha minori motivi di restare in vita, tanto pi? ama vivere, tanto ? lontano dall'essere comunque sfiorato dal tedio della vita.

Si deve certo a me, se si vedono in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi che non hanno pi? neppure volto d'uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati, canuti, calvi, o, per dirla con Aristofane, lerci, curvi, miseri, rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che ora si tingono i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e ora si servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c'? tra loro chi si strugge d'amore per una fanciulla e, in fatto di amorose sciocchezze, d? punti anche a un ragazzino. Che vecchi rammolliti, gi? pronti per il cataletto, sposino giovinette, anche se prive di dote e destinate a fare la gioia di altri, ? cosa ormai cos? frequente da costituire quasi motivo di vanto.

Ma nulla c'? di pi? spassoso di certe vecchie praticamente gi? morte tanto sono decrepite, a tal punto cadaveriche da sembrare reduci dagl'inferi, ma che hanno sempre sulle labbra il ritornello: "la vita ? bella"; fanno ancora le vezzose; mandano sentore di capra - come dicono i Greci; conquistano a caro prezzo un qualche Faone, s'imbellettano di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono i peli del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano con tremuli mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; ed hanno ragione: ma loro, le vecchie, sono tanto contente di s?, nuotano in un mare di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e tutto per merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d'irrisione riflettesse un po': ? meglio trascorrere nella follia una vita colma di dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una trave a cui impiccarsi?

Che la loro condotta sia giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa proprio nulla: nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore, non ne tengono nessun conto. Prendersi un sasso in testa, questo s? che fa male. La vergogna, l'infamia, il disonore, le offese, nuocciono nella misura in cui fanno soffrire. Per chi non se la prende, non sono neppure un male. Che t'importa se tutti ti fischiano, se tu ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola Follia.

32. Mi pare di sentire protestare i filosofi: l'infelicit?, dicono, ? proprio qui, nell'essere prigionieri della Follia, sbagliare, vivere nell'inganno, nell'ignoranza. Ma essere uomo ? appunto questo. N? riesco a capire perch? parlino d'infelicit?: cos? siete nati, educati, formati: questa ? la sorte comune a tutti. Nessuno ? infelice quand'? in armonia con la propria natura, a meno di compiangere l'uomo perch? non pu? volare con gli uccelli, n? camminare a quattro zampe con gli altri mammiferi, o perch?, a differenza dei tori, non ? armato di corna. Da tal punto di vista chiameremo infelice anche un bellissimo cavallo perch? non sa di grammatica e non mangia dolciumi, infelice il toro in quanto negato agli esercizi della palestra. In realt?, come non ? infelice il cavallo che ignora la grammatica, cos? non ? infelice l'uomo per la sua follia, che ? conforme alla sua natura.

Ma ecco che quegli esperti del ragionamento tortuoso tornano alla carica. E' dono peculiare dell'uomo, dicono, la conoscenza scientifica, di cui si serve per compensare con l'ingegno ci? che la natura gli ha negato. Come se fosse verosimile che la natura, cos? sollecita nei confronti delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini, avesse tirato via solo nella creazione dell'uomo, rendendogli necessarie quelle scienze che Theuth, col suo genio ostile al genere umano, invent? per nostra somma iattura: tanto inadatte a renderci felici che anzi contrastano col loro presunto fine, come con eleganza sostiene in Platone un re molto saggio a proposito dell'invenzione dell'alfabeto. Le scienze dunque sono penetrate fra gli uomini, insieme alle altre calamit? della vita mortale, per opera di coloro da cui partono tutti i malanni, i demoni che ne hanno anche derivato il nome, in greco DAEMONES, ossia "coloro che sanno". La gente semplice dell'et? dell'oro, del tutto priva di dottrina, viveva sotto l'unica guida della natura e dell'istinto. Che bisogno c'era della grammatica, quando tutti parlavano la stessa lingua e niente altro si chiedeva se non di capirsi l'un l'altro? A che la dialettica, se non c'era contrasto di opposte posizioni? A che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che bisogno c'era della giurisprudenza, se non c'erano quei cattivi costumi che, senza dubbio, hanno fatto nascere le buone leggi? Erano troppo religiosi per scrutare con empia curiosit? i misteri della natura, la grandezza, i moti, gl'influssi delle stelle, le cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo di conoscere pi? di quanto era loro concesso. Lo stolto desiderio di andare a cercare cosa ci fosse di l? dal cielo non passava neppure per la mente. Col graduale esaurirsi dell'et? dell'oro, dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con la loro superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi loro interessi svagati, moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente. Con la sola grammatica ce ne sarebbe gi? di troppo per il tormento di una vita intera.

33. Tuttavia tra queste scienze le pi? pregiate sono le pi? vicine al senso comune, cio? alla Follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono il freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano nulla, mentre un solo medico vale quanto molti uomini. In questa professione quanto pi? uno ? ignorante, avventato, leggero, tanto pi? ? considerato dagli stessi pr?ncipi con tanto di corona in testa. La medicina, infatti, specialmente come viene esercitata oggi dai pi?, si riduce, come la retorica, a una forma di adulazione. Il secondo posto, con un brevissimo stacco, spetta ai legulei - e starei per dire il primo; la loro professione, per non esprimere pareri personali, ? irrisa per lo pi? dai filosofi, fra il generale consenso, come un'arte da asini. Tuttavia gli affari, dai pi? grandi ai pi? piccoli, sono a discrezione di questi asini. I loro latifondi si estendono, mentre il teologo, dopo essersi documentato su tutti gli aspetti della divinit?, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua con cimici e pidocchi.

Ma, se le arti pi? fortunate sono quelle pi? affini alla Follia, pi? fortunati fra tutti sono coloro che riescono a tenersi lontani da qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che in nessuna parte ? manchevole, a meno che non pretendiamo di oltrepassare i confini della nostra sorte mortale. La natura odia gli artifici: fortunato chi ? rimasto immune dalla contaminazione delle arti.

34. Ors?, non vedete che fra le varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio le pi? lontane dalle arti, quelle che hanno per unica maestra e guida la natura? che c'? di pi? felice o mirabile delle api? E dire che non hanno neppure tutti i sensi. Come potrebbe un architetto realizzare qualcosa di simile alle loro costruzioni? quale filosofo mai fond? una Repubblica come la loro? Il cavallo, invece, poich? ? simile all'uomo dal punto di vista dei sensi ed ? diventato suo compagno, ? anche partecipe delle umane calamit?. Non di rado, vergognandosi di perdere in gara, si sfianca nella corsa; in guerra, assetato di vittoria, viene colpito e morde la polvere insieme al cavaliere. Per non parlare del morso, degli sproni aguzzi, della stalla dove ? quasi prigioniero, del frustino, del bastone, delle redini, del cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica schiavit? a cui si ? votato spontaneamente nel tentativo di vendicarsi a ogni costo del nemico emulando gli eroi. Quanto pi? invidiabile la condizione delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata obbedendo solo al naturale istinto, sempre che lo consentano le insidie degli uomini! Gli uccelli, infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati a imitare la voce umana, quanto si allontanano dal primitivo splendore! A tal segno, sotto tutti i rispetti, il prodotto di natura ? migliore di quello che l'arte ha adulterato.

Perci? non loder? mai abbastanza il gallo in cui si reincarn? Pitagora che, essendo stato tutto, filosofo, uomo, donna, re, principe, privato cittadino, pesce, cavallo, rana e, credo, anche spugna, nessun animale, tuttavia, giudic? pi? disgraziato dell'uomo, perch?, mentre tutti gli altri sono contenti dei loro limiti naturali, soltanto l'uomo tenta di oltrepassare i confini della sua condizione.

35. E tra gli uomini, sotto molti punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi. Molto pi? saggio di Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo che prefer? di grugnire in un porcile piuttosto che andare con lui incontro a tante calamit?. Mi pare la pensi cos? anche Omero, padre delle favole, che, mentre di continuo dice gli uomini miseri e travagliati, e a pi? riprese chiama infelice Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo termine parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. Perch? mai? Soltanto perch?, quell'astuto inventore di trucchi agiva solo sotto la spinta di Pallade, e, quanto mai sordo a ogni richiamo della natura, era tutto cervello.

Perci? i pi? lontani dalla felicit? sono tra i mortali quelli che aspirano alla sapienza, doppiamente stolti perch?, dimentichi della loro condizione di uomini, si atteggiano a D?i immortali e, a somiglianza dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi di ordigni costruiti dalla loro perizia; i meno infelici, invece, sembrano quelli che restano pi? vicini all'istinto e alla stupidit? dei bruti, n? tentano mai di oltrepassare le capacit? dell'uomo. Prover? anche a dimostrarlo, e non con gli entim?mi degli stoici, ma con qualche esempio alla portata di tutti. Per gli D?i immortali, vi ? forse al mondo qualcosa di pi? felice di quella specie di uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui, sciocchi? appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dir? anzi una cosa che, se a prima vista pu? sembrare una sciocchezza ed un'assurdit?, in fondo ? di una verit? indiscutibile.

Loro, innanzitutto, non hanno paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano rimorsi di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei defunti; non hanno paura delle apparizioni; non si crucciano per il timore di mali incombenti; non entrano in ansia nella speranza di beni futuri. Insomma, non sono in bal?a dei mille affanni a cui ? esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi pi? si avvicina alla stupidit? dei bruti - ne sono garanti i teologi - ? anche immune dal peccato. Ed ora, mio sciocchissimo saggio, vorrei che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte e giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel mucchio di tutti i tuoi guai; alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato ai miei folli. Aggiungi che, non solo vivono in perpetua letizia, scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche a tutti gli altri, dovunque vadano, motivi di piacere, scherzo, divertimento e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perci?, mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono senza eccezione sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li stringono in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza, li soccorrono, non tenendo in nessun conto quanto possono dire o fare. Nessuno desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li risparmiano, istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono davvero sacri agli D?i, e a me in particolare. Perci?, a buon diritto, sono da tutti onorati.

36. Grandi re, tanto se ne dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un'ora, possono farne a meno n? a tavola n? a passeggio. Non di poco preferiscono questi buffoni agli austeri filosofi, che tuttavia sono soliti mantenere per ragioni di prestigio. Perch? poi li preferiscano, non mi sembra un mistero, n? deve destare stupore; quei saggi, per i pr?ncipi, sono solo apportatori di tristezza; talora fidando nella loro dottrina, non si peritano di sfiorare quelle orecchie delicate con qualche pungente verit?. I buffoni, invece, offrono ai pr?ncipi la sola cosa che questi desiderano con tutta l'anima: delizie come passatempo, scherzi, risate, divertimenti. E non dimenticate anche questa non trascurabile dote dei folli: solo loro sono schietti e veritieri.

E che c'? mai di pi? lodevole della verit?? Anche se in Platone un detto d'Alcibiade attribuisce la verit? al vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia di un elogio che, in assoluto, spetta soprattutto a me. Ne fa fede Euripide che a me si riferisce col celebre detto: "Il folle dice cose folli". Il folle porta scritto in faccia, e traduce in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo Euripide, hanno due linguaggi: quello della verit? e quello dell'opportunismo. E' loro caratteristica mutare il nero in bianco, spirando dalla medesima bocca ora il freddo ora il caldo, avendo in fondo al cuore tutt'altro da quello che dicono nei loro artefatti discorsi. Nella loro fortuna i pr?ncipi a me sembrano sotto questo rispetto molto sfortunati: non hanno nessuno che dica loro la verit?, e sono costretti ad avere come amici degli adulatori.

Ma, si potrebbe osservare, le orecchie dei pr?ncipi detestano la verit? e proprio per questo rifuggono dai saggi, nel timore che qualcuno di lingua pi? sciolta osi dire cose vere piuttosto che gradevoli. Cos? ?: i re non amano la verit?. Tuttavia proprio questo si volge mirabilmente in vantaggio per i miei folli: da loro si ascoltano con piacere, non solo la verit?, ma anche indubbie insolenze, a tal punto che, la stessa cosa, detta da un sapiente, gli frutterebbe la morte, detta da un buffone diverte il signore oltre ogni dire. La verit?, infatti, ha un non so quale schietta capacit? di piacere, purch? non si accompagni all'intenzione di offendere: ma questo ? un dono che gli D?i hanno elargito ai soli folli.

Sono press'a poco medesime le ragioni per cui le donne, pi? inclini per natura al divertimento e alle frivolezze, si trovano di solito tanto bene con un simile genere di uomini. Perci?, qualunque cosa costoro facciano - anche se a volte sono cose fin troppo serie - le donne, tuttavia, le volgono in scherzo e gioco, abili come sono nel mascherare ogni loro trascorso.

37. Ma ora torniamo alla felicit? dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia, senza n? il timore n? il senso della morte, se ne vanno diritti ai campi Elisi, per dilettare anche l?, coi loro scherzi, il riposo delle anime pie.

Paragoniamo quindi la condizione del saggio con quella di questo buffone. Immagina, per contrapporlo a lui, un modello di sapienza: un uomo che abbia consumato tutta la fanciullezza e l'adolescenza a istruirsi in mille modi, perdendo la parte migliore della propria vita in veglie senza fine, in affanni e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria vita abbia mai gustato un istante di piacere; sempre parco, povero, triste, austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri; pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima del tempo, colto da morte prematura, anche se nulla importa, dopo tutto, quando muore un uomo cos?, che non ? mai vissuto. Ecco l'immagine perfetta del sapiente.

38. A questo punto, sento che le rane del Portico si rimettono a gracidare contro di me. "Niente, dicono, ? pi? miserevole della demenza. Ma una eminente follia ? molto vicina alla demenza, o ? demenza essa stessa. Che cosa infatti ? la demenza, se non l'uscire di senno? e costoro ne sono usciti del tutto. "Ors?, vediamo di confutare con l'aiuto delle Muse anche questo sillogismo". Certo il loro ragionamento ? sottile, ma, come il Socrate platonico, procedendo per divisione, di una Venere e di un Cupido ne faceva due, cos? anche i nostri dialettici, se volevano apparire in senno, dovevano distinguere dissennatezza da dissennatezza. Infatti non ogni follia ? fonte di guai. Altrimenti Orazio non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un'amabile follia?", n? Platone avrebbe collocato il delirio dei poeti, dei vati e degli amanti tra i massimi doni della vita; n? la Sibilla avrebbe chiamato folle l'impresa di Enea.

In verit? ci sono due specie di follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte che le crudeli dee della vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile sete di oro, o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri consimili orrori; oppure quando travagliano con le furie e le faci tremende, un animo conscio dei propri delitti. L'altra, non ha nulla in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta ogni volta che una dolce illusione libera l'animo dall'ansia e lo colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli. Proprio questa illusione Cicerone, scrivendo ad Attico, augura a se stesso come un gran dono degli D?i, per potersi liberare dall'oppressione dei gravi mali incombenti. N? aveva torto quell'argivo che era pazzo al punto da sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo, applaudendo, godendosela, perch? credeva vi si rappresentassero tragedie bellissime, mentre non si rappresentava proprio nulla. Eppure, in tutte le altre faccende della vita, era perfettamente normale: cordiale con gli amici, "gentile con la moglie, capace di perdonare ai servi e di non dare in escandescenze se il sigillo rotto denunciava la bottiglia aperta". Guarito dalle cure dei familiari che gli somministrarono le medicine del caso, tornato del tutto in s?, cos? si lamentava con gli amici: "Per Polluce! m'avete ammazzato, amici miei, e non salvato, privandomi del piacere e togliendomi con la forza quella mia cos? dolce illusione".

Aveva ragione: erano loro che sbagliavano e che, pi? di lui, avevano bisogno dell'elleboro, loro che credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse un malanno, una cos? felice e piacevole follia.

Tuttavia non ho ancora accertato se qualunque errore del senso o della mente meriti il nome di follia. Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro ammira come un monumento di dottrina una rozza poesia, non si pu? senz'altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia, non solo col senso, ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade sempre e in proporzioni insolite, di lui, s?, diremo che ha un ramo di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse di essere Creso, re di Lidia. Ma quando questa specie di follia, come di solito accade, assume aspetti piacevoli, ? di non piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta, si badi, di un'affezione molto diffusa; pi? di quanto di solito si crede. Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto. E non di rado vi accadr? di vedere che, di due pazzi, ? il pi? pazzo quello che pi? si prende gioco dell'altro.

39. Eppure, ve lo assicura la Follia in persona, uno ? tanto pi? felice quanto pi? la sua follia ? multiforme, purch? si mantenga entro il genere a me peculiare: un genere cos? diffuso che non so se fra tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune da una qualche forma di pazzia. La differenza ? tutta qui: chi vedendo una zucca la scambia per la moglie, viene chiamato pazzo perch? la cosa succede a pochissimi. Chi invece, avendo la moglie in comune con molti, giura che ? pi? virtuosa di Penelope, e, felice del suo errore, ? orgoglioso di s?, nessuno lo chiama pazzo, perch? la cosa accade spesso e dovunque.

Appartengono alla confraternita anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad una partita di caccia, e vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte le volte che sentono il suono cupo del corno e l'abbaiare dei cani. Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li annusano, mandino per loro profumo di cinnamomo. E quale dolcezza squartare la selvaggina! L'umile plebe pu? squartare tori e castrati, ma sarebbe un delitto farlo con un capo di selvaggina: questa ? prerogativa di nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col coltello destinato allo scopo (? vietato servirsi di uno strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia determinate membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa lo circonda, ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito, mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi uno ha la fortuna d'assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare non poco in nobilt?. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione di selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press'a poco in fiere, si illudono invece di menar vita da re.

Molto simili sono quanti, in preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano il quadrato in rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari di ogni limite e misura finch?, ridotti in estrema povert?, non hanno pi? n? tetto n? cibo. Ma che gli importa del dopo? Intanto, per alcuni anni, sono stati immensamente felici.

Molto vicini a costoro, mi pare, sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare la natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta essenza. Si nutrono di una speranza cos? dolce da non tirarsi mai indietro di fronte a spese o fatiche, e con mirabile spirito inventivo ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di pi? e per rivestire l'inganno di liete apparenze, finch?, dato fondo a tutto il loro, non possono costruire pi? niente, nemmeno un fornello. Non per questo, tuttavia, smettono di sognare i loro bei sogni, ma spingono con tutte le loro forze anche gli altri verso la medesima felicit?. E quando l'ultima speranza li ha abbandonati, resta tuttavia, a consolarli pienamente, un detto: le grandi cose basta averle volute. Accusano allora la brevit? della vita, inadeguata alla grandezza dell'impresa.

Sono in dubbio se annoverare nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia ? decisamente uno spettacolo di spassosa follia vedere a volte gente cos? schiava del gioco da sentirsi venire le palpitazioni appena giunge al loro orecchio il rumore di dadi. Quando poi, obbedendo al costante stimolo della speranza di vincere, vedono naufragare tutta la loro fortuna, infranta contro lo scoglio del gioco, ben pi? insidioso del Capo Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la fama di uomini poco seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi nel gioco li ha vinti. E che dire di quando, ormai vecchi, con la vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare? E quando infine la meritata gotta impedisce l'uso delle mani, arrivano a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi. Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il pi? delle volte non volgesse in passione rabbiosa; ma qui siamo ormai nel regno delle Furie, non nel mio.

40. E' senza dubbio della mia pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono ad ascoltare o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si parla di eventi portentosi, di spettri, di fantasmi, di larve, degl'inferi, o di altre innumerevoli cose del genere. Quanto pi? la favola si scosta dal vero, tanto pi? volentieri ci credono, tanto pi? voluttuosamente le loro orecchie ne sono solleticate. Di qui, non solo un apprezzabile passatempo contro la noia, ma anche una fonte di guadagno, specialmente per i sacerdoti ed i predicatori.

Sono della stessa razza quanti nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti a morire in giornata, se hanno visto il simulacro ligneo o l'immagine dipinta di un gigantesco san Cristoforo (il nuovo Polifemo); o credono di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi in breve rendendo omaggio a sant'Erasmo in certi giorni, con speciali moccoli e determinate formulette. In san Giorgio hanno scoperto una specie di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano il suo cavallo dopo averlo adornato con la massima devozione di falere e di borchie, n? risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi la benevolenza del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo loro, ? proprio degno di un re.

Che dire poi di quelli che, nella dolcissima illusione di immaginarie indulgenze accordate ai loro peccati, computano quasi con l'orologio alla mano il periodo da passare in purgatorio, numerando secoli, anni, mesi, giorni, ore, secondo una sorta di tavola matematica sicura al cento per cento. O di quelli che fidando in segni magici o in giaculatorie inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale disposizione, o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze: ricchezze, onori, piaceri, abbondanza di tutto, una salute costantemente ottima, una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, per?, senza fretta, per carit?; ben vengano le delizie dei beati, ma quando, con disappunto, dovranno lasciare i piaceri della vita a cui sono abbarbicati con le unghie e coi denti.

Immagina un negoziante, ma anche un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina dopo tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango di un'intera vita, un'autentica palude di Lerna, e ritiene che tanti spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse, tante stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano riscattati come in base ad un regolare patto, e riscattati al punto da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.

E chi ? pi? folle, o meglio pi? felice, di quanti recitando ogni giorno sette versetti del salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata? A indicare a san Bernardo quei magici versetti si crede sia stato un demone faceto, pi? sciocco invero che furbo, se, poveretto, rimase intrappolato nel suo stesso inganno. Roba da matti! persino io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l'approvazione, non solo del volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.

O non ? forse lo stesso caso di quando ogni regione reclama il suo particolare santo protettore, ognuno coi suoi poteri, ognuno venerato con determinati riti? questo fa passare il mal di denti; quello assiste le partorienti. C'? il santo che fa recuperare gli oggetti rubati, quello che rifulge benigno al naufrago, un altro che protegge il gregge; e via discorrendo. Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio, alla quale il volgo attribuisce quasi pi? poteri che al figlio.

41. Infine, che cosa chiedono gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra tanti ex-voto di cui sono zeppe le pareti, e persino le volte di certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse guarito dalla follia, o che fosse diventato, sia pure uno zinzino, pi? saggio? Qualcuno si ? salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico, ? riuscito a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre gli altri combattevano, ne ? uscito con fortuna salvando anche l'onore; uno, con l'aiuto di un santo protettore dei ladri, ? caduto dal patibolo per poter continuare ad alleggerire delle loro ricchezze quelli che non le meritano. Chi ? fuggito dal carcere forzando la porta; un altro ? guarito dalla febbre con disappunto del medico; a uno la bevanda velenosa non ? stata letale, perch?, sciogliendogli il corpo, gli ? servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che si era data da fare per niente. Un uomo, pur essendoglisi rovesciato il carro, ha riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora, rimasto sotto le macerie, ? sopravvissuto; uno, infine, colto sul fatto da un marito, ? riuscito a svignarsela.

Nessuno che renda grazie per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma perch? poi mi vado a cacciare in questo mare di superstizioni? "Cento lingue, cento bocche, un'ugola di ferro, non mi basterebbero a enumerare tutte le variet? di pazzi, a elencare tutte le forme di follia." (Virgilio, "Eneide"). A tal punto la cristianit? intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno che di solito ne viene. Se per? nel frattempo qualche odioso saggio si levasse a dire le cose come stanno - "morirai bene, se bene hai vissuto; laverai i tuoi peccati, se all'offerta di una moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere, digiuni, e un radicale cambiamento di vita; avrai la protezione di questo Santo, se ne imiterai la vita" -; se quel saggio si mettesse a ripetere queste cose ed altre del genere, vedresti in quale sgomento farebbe precipitare le anime dei mortali, prima cos? colme di letizia!

Rientrano in questa congrega coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale con tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappati, dei cantori, dei lamentatori di mestiere, come se dovessero avere un qualche sentore dello spettacolo, o se da morti potessero vergognarsi qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza, a somiglianza di chi, elevato ad una carica, si preoccupa di organizzare giochi e banchetto.

42. Per quanto cerchi di non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro che, in nulla diversi dall'ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia oltremodo di un vano titolo nobiliare. Chi, a sentir lui, discende da Enea, chi da Bruto, chi da Arturo; mostrano da ogni parte gli antenati in effigie, ritratti da scultori e pittori. Ti enumerano uno dopo l'altro bisavoli e trisavoli ricordandone gli antichi soprannomi, mentre per parte loro non dicono molto di pi? di una muta statua, anzi dicono meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia il dolce amore di s? li fa vivere in perfetta letizia. N? mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come se fossero divinit?.

Ma perch? perdermi a parlare dell'una o dell'altra specie di gente, come se dappertutto la nostra Filaut?a non fosse per tanti, e nelle forme pi? inattese, fonte di grandissima felicit??

Questo qui ? pi? brutto di una scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha tracciato tre linee col compasso, si crede Euclide. Un altro ancora, che sta come un asino davanti alla lira, ed ha mezzi vocali degni di un gallo in amore quando si avventa sulla gallina, s'immagina di essere un secondo Ermogene. Un posto a parte merita quell'ineffabile genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi ha delle doti, se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente felice di cui parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella, teneva d'intorno i servi perch? gli suggerissero i nomi; e, fidando nel fatto di averne in casa tanti assai ben piantati, pur essendo cos? debole da reggere l'anima coi denti, non avrebbe esitato a cimentarsi in una gara di pugilato.

A che ricordare chi fa professione di artista? La filaut?a ? peculiare a tutta questa gente a tal segno, che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere il campicello paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto nell'ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti. Quanto pi? uno lascia a desiderare, tanto pi? ? arrogante nell'autocompiacimento, tanto pi? si vanta, tanto pi? si gonfia. Il simile ama il simile, e quanto meno si vale tanto pi? si ? ammirati; i pi? vanno sempre dietro alle cose peggiori, perch?, come ho detto, la maggior parte degli uomini ? soggetta alla follia. Quindi, se chi ? pi? ignorante ? pi? contento di s? e ha pi? largo successo, cosa mai lo dovrebbe indurre ad optare per una cultura autentica, che in primo luogo gli costerebbe parecchio, e in secondo luogo lo renderebbe pi? fragile e pi? timido; e, infine, restringerebbe sensibilmente la cerchia dei suoi ammiratori.

43. Mi rendo conto che la natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui, ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione, e starei per dire di una stessa citt?. Di qui la pretesa degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della bellezza, della musica, delle laute mense; gli Scozzesi vantano nobilt?, parentele regali, nonch? dialettiche sottigliezze; i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo; gli Italiani affermano la loro superiorit? nelle lettere e nell'eloquenza; e si cullano tutti nella dolcissima convinzione di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere di felicit?, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi sogni dell'antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio della loro nobilt?. I Greci, quali inventori delle arti, si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi, e tutta quella massa di autentici barbari, pretendono il primato anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi. Molto pi? gustoso ? il caso degli Ebrei che aspettano sempre incrollabili il proprio Messia, e ancor oggi si tengono aggrappati al loro Mos?; gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell'alta statura e della conoscenza della magia.

44. Senza andare dietro ai casi particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere venga dalla Filaut?a agli individui e ai mortali in genere. Le sta quasi alla pari la sorella Adulazione.

La filaut?a, infatti, consiste nell'accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si tratta di adulazione. Oggi, per?, l'adulazione non gode buona fama; ma questo fra coloro per cui le parole valgono pi? delle cose. Ritengono che l'adulazione non si pu? accompagnare alla fedelt?, mentre potrebbero rendersi conto di quanto sbagliano, solo se guardassero all'esempio che viene dalle bestie. Chi, infatti, pi? adulatore del cane? e, al tempo stesso, chi pi? fedele? Chi ? pi? carezzevole dello scoiattolo? ma chi pi? di lui amico dell'uomo? A meno che non si vogliano considerare pi? utili all'uomo i fieri leoni, e le crudeli tigri, o i feroci leopardi. Anche se ? vero che c'? una forma d'adulazione davvero perniciosa con cui taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui, li portano alla rovina. Questa mia adulazione, invece, ha radice in un certo bonario candore ed ? molto pi? vicina alla virt? di quella durezza e severit? ruvida e stizzosa, di cui parla Orazio, e che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall'inerzia, sveglia gli ottusi, d? sollievo ai malati, mitiga i violenti, mette pace fra gli innamorati e ne conserva la buona armonia. Attira i fanciulli allo studio delle lettere, rallegra i vecchi, ammonisce ed ammaestra i pr?ncipi senza offenderli, sotto specie di lodarli. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di s? pi? contento e a s? pi? caro, il che ? parte della felicit?, e addirittura la parte pi? importante. Che cosa pu? esservi di pi? gentile di due muli che si grattano a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione ? una notevole parte della celebrata eloquenza, e costituisce la parte maggiore della medicina; della poesia poi ? la componente massima. Ed ? miele e condimento di tutte le relazioni umane.

45. Ma ? male, dicono, essere ingannati; c'? molto di peggio: non essere ingannati. Sono, infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicit? dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle. Infatti tale ? l'oscurit? e variet? delle cose umane che niente si pu? sapere con chiarezza, come giustamente affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.

Se poi qualcosa si pu? sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano, infine, ? fatto in modo tale che la finzione lo domina molto pi? della verit?. Chi ne volesse trovare una prova facilmente accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano. Ma, se l'urlatore di turno (? stato un lapsus, volevo dire l'oratore), come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella da vecchierelle, tutti si svegliano, si tirano su, stanno a sentire a bocca aperta. Del pari, se c'? un Santo leggendario e poetico - per esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo vedrete venerare con molto maggiore piet? di San Pietro, e San Paolo, e dello stesso Ges? Cristo. Ma di questo, qui non ? il luogo. Costa veramente poco conquistare la felicit? illusoria che dicevo! Le cose vere, anche le meno rilevanti, come la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione, invece, costa cos? poco, e alla nostra felicit? giova altrettanto, se non di pi?. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia andato a male, di cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo, mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa mai gl'impedisce di godersela? Al contrario, se a uno lo storione d? la nausea, che razza di piacere ne trarr?? Se una moglie decisamente brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa Venere, non sar? forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla ammirato una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso di trovarsi davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sar? forse pi? felice di chi ha comprato a caro prezzo un'opera di quegli artisti per poi gustarla forse con minore passione? Conosco un tale che si chiama come me, e che alla sposa novella don? alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.

Ditemi un po', che differenza c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente presso di s? delle sciocchezzuole di nessun valore come se fossero chiss? qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava una spesa e godeva dell'illusione della moglie che gli era grata come se avesse ricevuto doni di gran pregio.

Che differenza pensate vi sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di desiderare un'altra felicit?? La condizione dei folli, perci?, non differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa differisce, ? preferibile. Innanzitutto perch? la loro felicit? costa ben poco: solo un piccolo inganno di s?.

46. E poi perch? ne godono insieme con moltissimi, e "non c'? bene di cui si possa godere davvero se non si ha qualcuno con cui dividerlo" (Seneca, "Epistuale morales"). E chi non sa quanto pochi sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'?? In tanti secoli i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi, per Ercole, se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe sapiente a met?, e forse neppure per un terzo.

Perci?, se dei molti meriti di Bacco giustamente si considera il pi? importante la capacit? di scacciare gli affanni, e anche questo solo finch?, appena smaltita la sbornia, gli affanni tornano all'assalto - come dicono, su bianchi destrieri - quanto pi? completo ed efficace il mio beneficio per cui l'animo, in una ebbrezza perenne, senza nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza! N? lascio alcun mortale privo del mio dono, mentre i doni degli altri D?i vanno ora a questo ora a quello.

Non sgorga dappertutto, a scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.

A pochi la bellezza, dono di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono di Mercurio; non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le ricchezze, n? il Giove omerico concede a tutti l'imperio. Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi lasciano il tripode di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi dardi diffonde la peste. Nettuno ne uccide pi? di quanti ne salva; per non menzionare cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure, Pene, Febbri, e simili, che non sono divinit? ma carnefici. Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente in cos? generoso abbraccio.

47. Non voglio preghiere e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare del cerimoniale ? stato trascurato. Se, quando tutti gli altri D?i sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne faccio una tragedia. Quanto agli altri D?i, invece, sono cos? suscettibili che quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe pi? prudente - lasciarli perdere piuttosto che venerarli. Come certi uomini, cos? difficili ed irritabili, che ? preferibile non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.

Nessuno, dicono, offre sacrifici o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo, un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo, ci passo sopra. D'altronde onori del genere esulano dai miei desideri. Perch? mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una focaccia, un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo mi tributano un culto che persino dai teologi viene tenuto nel massimo pregio! A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana perch? riceve sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede, mi hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole di vita. Una forma di culto che non ? frequente neppure fra i cristiani.

Quanti sono, infatti, coloro che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari a mezzogiorno, quando proprio non ce n'? bisogno! D'altra parte, quanto pochi cercano d'imitarne la castit?, la modestia, l'amore per il regno dei cieli! Mentre ? questo alla fine il vero culto, il pi? gradito agli abitatori del cielo. Inoltre, perch? mai dovrei desiderare un tempio, quando l'universo ? il mio tempio? e un gran bel tempio, se non erro. N? mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini. N? sono cos? sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perch? i pi? ottusi adorano le immagini invece delle divinit?, mentre a noi capita quello che di solito succede a quanti sono soppiantati dai loro rappresentanti. Io credo di avere tante statue quanti sono gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel volto la mia immagine vivente. Non ho nulla da invidiare agli altri D?i, se vengono venerati chi in un cantuccio della terra chi in un altro, e solo in giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone ad Argo, Minerva ad Atene, Giove sull'Olimpo, Nettuno a Taranto, Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza sosta vittime ben pi? pregiate.

48. Se qualcuno giudica questo mio discorso pi? baldanzoso che veritiero, andiamo un po' a vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto mi devono, e in che conto mi tengono, tanto i potenti come i poveri diavoli.

Non esamineremo la vita di uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella di personaggi segnalati, da cui sar? facile giudicare gli altri. Che importa infatti parlare del volgo e del popolino che, al di l? di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni? Tante, infatti, sono le forme di follia di cui da ogni parte il popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per riderne non basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi Democriti, ci vorrebbe ancora un altro Democrito. E' quasi incredibile quanti motivi di riso, di scherzo, di piacevole svago, i poveracci offrono agli D?i. Agli D?i che dedicano le ore antimeridiane, quando ancora non sono ubriachi, a litigiose discussioni e all'ascolto delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di nettare, e non hanno pi? voglia di attendere a faccende serie, seduti nella parte pi? alta del cielo, si chinano a guardare cosa fanno gli uomini. N? c'? spettacolo che gustino di pi?. Dio immortale! quello s? che ? teatro! Che variet? nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta vado a sedermi nelle file degli D?i dei poeti. Questo si strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno ? riamato tanto pi? ama senza speranza. Quello sposa la dote e non la donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora, roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando a pagare dei professionisti perch? recitino la commedia del compianto! C'? chi piange sulla tomba della matrigna, e chi spende tutto ci? che pu? racimolare per impinguarsi il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame. Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l'ozio. C'? chi si prodiga con ogni cura per gli affari degli altri mentre trascura i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire, si crede ricco del denaro altrui; un altro pone all'apice della sua felicit? morire povero pur di arricchire l'erede. Questi per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari, affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti; quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando a caccia di vecchi senza eredi; n? manca chi, in vista dello stesso risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e gli altri offrono agli D?i che stanno a guardare uno spettacolo oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro che vogliono intrappolare. La razza pi? stolta e abietta ? quella dei mercanti che, pur trattando la pi? sordida delle faccende e nei modi pi? sordidi, pur mentendo, spergiurando, rubando, frodando a tutto spiano, si credono da pi? degli altri perch? hanno le dita inanellate d'oro. N? mancano di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente venerabili, senza dubbio perch? una piccola parte degli illeciti profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa d'incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l'avessero ricevuto in eredit?. C'? chi, ricco solo di speranze, sogna la felicit?, e gi? questo sogno, per lui, ? la felicit?. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi, mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e illeciti. Questo si fa portare candidato perch? ambisce a pubbliche cariche, quello ? contento di starsene accanto al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato che ? in combutta con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un altro propende per il grandioso. C'? chi, senza nessuna ragione d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme, a Roma, a San Giacomo di Compostella.

Insomma, se, come una volta Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza di terremoti e di tragedie pu? provocare un animaletto cos? piccino e destinato a vita cos? breve. Infatti, di tanto in tanto, un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.

49. Sarei io stessa un'autentica pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a pi? non posso, se continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia proprie del volgo. Mi rivolger? a quelli che fra i mortali vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso ramo d'oro.

Fra loro al primo posto stanno i grammatici, che sarebbero per certo la gen?a pi? calamitosa, pi? lugubre, pi? invisa agli D?i, se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, non pesano solo le cinque maledizioni di cui parla l'epigramma greco, ma tante, tante di pi?: sempre affamati, sempre sporchi, se ne stanno nelle loro scuole, e le ho chiamate scuole, ma avrei dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di tortura; fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi, imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio, avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono cos? contenti di s?, quando col volto truce e con la voce minacciosa atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume ? la quintessenza del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavit? ? pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare la loro tirannide col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche pi? felici si sentono per non so quale convinzione di essere dei dotti. Mentre ficcano in testa ai ragazzi madornali sciocchezze, tuttavia, Dio buono, di fronte a chi, Palemone o Donato che sia, non ostentano sprezzante superiorit?? E con non so quali trucchi riescono a meraviglia nell'intento di apparire al re sciocche mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno di s?.

C'? poi un'altra fonte di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome della madre di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA, BOVINATOR o MANTICULATOR, o quando, scavando da qualche parte, tira fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione mutila. O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi! come se avesse messo in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia! E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori? credono ormai che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro. Ma la scena pi? divertente si ha quando si scambiano lodi e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di loro incappa in un lapsus, e un altro pi? avveduto per caso se ne accorge, allora s?, per Ercole, che ne viene fuori una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento.

Ho conosciuto una volta un tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica, di filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne, messo da parte tutto il resto, da oltre vent'anni si tormenta sulla grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivr? abbastanza da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del discorso; finora nessuno, n? dei Greci n? dei Latini, ci ? riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo modo, pur essendovi tante grammatiche quanti grammatici, anzi di pi? se solo il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate pi? di cinque, questo tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante, attanagliato com'? dalla paura che qualcuno lo privi della gloria, rendendo vane cos? annose fatiche. Preferite chiamarla follia o stoltezza? A me poco importa, purch? siate disposti a riconoscere che, per mio beneficio, l'animale pi? infelice di tutti pu? attingere tale una felicit? da non volere scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani.

50. Meno mi devono i poeti, che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili. Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalit? e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto sono legate Filaut?a e Kolak?a, che da nessun'altra stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante. Quanto ai retori, bench? prevarichino un poco con la complicit? dei filosofi, fanno parte anche loro della nostra confraternita. Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: che, a parte le altre sciocchezze, tanto hanno scritto e con tanto impegno a proposito dell'arte di scherzare. E l'autore, chiunque esso sia, della RETORICA AD ERENNIO, annovera la follia tra le variet? di facezie; Quintiliano poi, che in questo campo ? di gran lunga il migliore, ci ha dato sul riso un capitolo pi? lungo dell'ILIADE. Tanto essi valorizzano la follia che spesso quando sono a corto d'argomenti, cercano una scappatoia nel riso. A meno di negare che sia proprio della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo cose che appunto, fanno ridere.

Nella stessa schiera rientrano quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per pochi dotti, e che non rifiutano per giudici n? Persio n? Lelio, a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di piet?, perch? senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti, tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano a una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a cos? caro prezzo comprano un premio da nulla quale ? la lode, e lode di pochissimi, per di pi?: la pagano con tante veglie, con tanto spreco di sonno - il sonno, la pi? dolce delle cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.

Aggiungi il danno della salute, la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la cecit?, la povert?, l'invidia degli altri, la rinuncia ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi pi? ne ha, pi? ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena: mali s? gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi. Quanto pi? felice il delirio dello scrittore mio seguace quando, senza starci punto a pensare, solo col modico spreco di un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce prontamente in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni, sapendo che pi? sciocche saranno le sciocchezze che scrive, e pi? trover? consenso nella maggioranza, cio? in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre dotti, ammesso che le leggano? e che peso pu? avere il giudizio di cos? pochi sapienti, se a contrastarlo c'? una folla cos? sconfinata? Ma ancora pi? avveduti si rivelano coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona una gloria che ? frutto del faticoso impegno d'altri; fidano su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall'inganno.

Vale la pena di vedere come sono soddisfatti di s? quando la gente li elogia, quando li segna a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!"; quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in cima a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'? grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perch? anche gli ignoranti hanno gusti diversi. Che dite degli stessi nomi, non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo chiamarli camaleonte o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto, secondo l'uso dei filosofi.

Eppure pi? di tutto diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi, encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un Callimaco; chi ? superiore a Cicerone e chi pi? dotto di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro fama, creano un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito prendere", finch? ne escono tutti vittoriosi e lasciano il campo da trionfatori.

I saggi ridono di queste cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto, per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti, del resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; n? possono negarlo, se non sono proprio degl'ingrati.

51. Fra gli eruditi il primo posto spetta ai giureconsulti, e nessuno pi? di loro ? soddisfatto di s? quando, impegnati in una fatica di Sisifo, formulano leggi a migliaia, non importa a qual proposito, e aggiungendo glosse a glosse, pareri a pareri, fanno in modo da presentare lo studio del diritto come il pi? difficile fra tutti. Attribuiscono infatti titolo di nobilt? a tutto ci? che costa fatica.

Accanto ai giuristi collochiamo i dialettici e i sofisti, una gen?a pi? loquace dei bronzi di Dodona: uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto di chiacchiera con venti donne di prima scelta. Meglio per loro sarebbe, se fossero soltanto chiacchieroni, e non anche litigiosi al punto di polemizzare con estrema tenacia per questioni di lana caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa, i diritti della verit?. Pieni di s? come sono, godono ugualmente quando, armati di tre sillogismi, non esitano ad attaccare lite con chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia li rende invincibili, anche se il loro avversario ? uno Stentore.

52. E poi ci sono i filosofi, venerandi per barba e mantello: affermano di essere i soli sapienti; tutti gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com'? bello il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli; quando misurano, quasi col pollice e il filo, il sole, la luna, le stelle, le sfere; quando rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima esitazione, come se fossero a parte dei segreti della natura artefice delle cose, come se venissero a noi dal consiglio degli D?i! La natura, intanto, si fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi. A dimostrare che nulla sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla spiegazione di ogni singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla, affermano di sapere tutto; non conoscendo se stessi e non accorgendosi, a volte, della buca o del sasso che hanno sotto il naso, o perch? in molti casi ci vedono poco, o perch? sono altrove con la testa, sostengono di vedere idee, universali, forme separate, materie prime, quiddit?, ecceit?, e cose tanto sottili da sfuggire, credo, persino agli occhi di Linceo. Disprezzano in particolare il profano volgo, quando confondono le idee agli ignoranti con triangoli, quadrati, circoli, e figure geometriche siffatte, disposte le une sulle altre a formare una specie di labirinto, e poi con lettere collocate quasi in ordine di battaglia e variamente manovrate. N? mancano, fra loro, quelli che, consultando gli astri, predicono l'avvenire promettendo miracoli che vanno al di l? della magia; e, beati loro, trovano anche chi ci crede.

53. Quanto ai teologi, forse meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio e di toccare quest'erba puzzolente, perch?, altezzosi e litigiosi come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere con centinaia di argomenti, costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero senz'altro di eresia, questo essendo il fulmine con cui di solito atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure, ancorch? siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti, anche loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me quell'alta opinione di s? che li rende felici, come se il terzo cielo fosse la loro dimora, e li induce a guardare dall'alto in basso con una sorta di commiserazione tutti gli altri mortali, quasi animali che strisciano a terra, mentre loro, trincerati dietro un valido esercito di magistrali definizioni, conclusioni, corollari, proposizioni esplicite ed implicite, a tal segno abbondano di scappatoie da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con distinzioni che recidono ogni nodo con una facilit? che neppure la bipenne di Tenedo possiede, inesauribili nel coniare termini nuovi e parole rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri che sono a base della creazione e dell'ordinamento del mondo; per quali vie la macchia del peccato si ? trasmessa di generazione in generazione; in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo si ? formato nel grembo della Vergine; come nell'Eucaristia ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma queste sono cose risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi grandi e illuminati - cos? li chiamano. Quando se le trovano di fronte si esaltano:

"Qual ? l'istante della generazione divina? ci sono pi? filiazioni in Cristo? ? sostenibile la proposizione "Dio Padre odia il Figlio"? avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino, di zucca, di pietra? In caso affermativo, come la zucca avrebbe potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce? che cosa avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato uomo? Infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere?". Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fino da ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto pi? sottili di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalit?, le quiddit?, le ecceit?, che sfuggirebbero agli occhi di tutti, fatta eccezione di un novello Linceo capace di vedere nelle tenebre pi? profonde anche le cose che non sono in nessun luogo. Aggiungi sentenze cos? paradossali che i famosi oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano al confronto luoghi comuni dei pi? rozzi e banali. Per esempio, che accomodare una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore ? delitto pi? grave che strangolare mille uomini; che dire una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, ? pi? grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora pi? sottili queste sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli scolastici, ch? usciresti prima dai labirinti che non dalle oscure tortuosit? di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti, occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte le scuole, ma solo le principali.

In tutte c'? tanta erudizione, tanta astrusit?, che, secondo me, persino gli Apostoli, se si trovassero a dover discutere con questi teologi di nuovo genere, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo. Paolo pot? dimostrare la sua fede, ma quando dice che "la fede ? sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi", d? una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale. Proprio Paolo, che in modo eccellente fece professione di carit?, ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima epistola ai Corinzi, un'analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli Apostoli, certamente, celebravano l'Eucaristia con la dovuta piet?. Non credo per? che, interrogati sul termine A QUO e sul termine AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull'ubiquit? di un medesimo corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce e nel sacramento dell'Eucaristia; sull'istante in cui avviene la transubstanziazione, dovuta com'? ad una formula composta di pi? parole distinte, e quindi a una quantit? discreta in divenire: non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel definire, gli Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli scotisti.

Avevano conosciuto la madre di Ges?; ma chi di loro dimostr?, con l'ineccepibile metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute da colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe capito - certo non ne ha mai colto la sottigliezza - la questione del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente e finale del battesimo, n? mai hanno fatto menzione del suo carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, s?, Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico: "Dio ? spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito e verit?". Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purch? vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell'aureola che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere queste finezze, se prima non ci si ? dedicati anima e corpo, per almeno trentasei anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto? Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera operata. Dappertutto insistono sulla carit?, ma non distinguono fra carit? infusa e carit? acquisita, n? spiegano se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata. Detestano il peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi alla scuola degli scotisti. L'insegnamento di Paolo pu? essere preso come punto di riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli; ebbene, io non potrei mai indurmi a credere che egli avrebbe cos? spesso condannato le questioni, le discussioni, le genealogie e quelle che chiamava logomach?e, se fosse stato un esperto nell'argomentare. E s? che le dispute dei suoi tempi erano senz'altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri maestri che potrebbero dare punti a Crisippo.

Anche se poi questi maestri, nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano, ma ne offrono un'accettabile interpretazione Quest'onore tributano in parte all'antichit?, in parte all'autorit? degli Apostoli. Del resto, sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva mai sentito far parola dal maestro. Se per? la cosa si verifica in Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente annotare: "affermazione respinta". Eppure si tratta di autori che confutarono i pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi miracoli pi? che con i sillogismi. D'altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe stato in grado di capire neppure una delle "questioni quodlibetali" di Scoto. Al giorno d'oggi, qual mai pagano, qual mai eretico non si darebbe senz'altro per vinto di fronte a tante capillari sottigliezze? Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto privo di ritegno da scoppiare in sconce risate; o, infine, cos? esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un mago di fronte a un mago, o un duello fra due avversari armati entrambi di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere la tela di Penelope. Secondo me i cristiani darebbero prova di un gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli scotisti coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti cos? ostinati, gl'invitti albertisti, e con essi l'intera banda dei sofisti: assisterebbero, credo, alla pi? divertente delle battaglie e a una vittoria mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere ai loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato? chi tanto avveduto da non restarne accecato?

Ma voi credete che i miei siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne ? di pi? dotti, che tengono a vile queste arguzie teologiche giudicandole futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio esecrando, e il massimo dell'empiet?, parlare con linguaggio cos? volgare di cose tanto misteriose, oggetto d'adorazione pi? che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maest? della divina teologia con parole e concetti cos? poveri e addirittura sordidi.

Nel frattempo, per?, gli altri rimangono pieni di s?, addirittura si battono le mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene non trovano neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare da certa rovina la Chiesa universale sostenendola con la forza dei loro sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle il mondo. E vi pare poco gratificante por mano ai misteri delle Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in quella guisa, come fossero cera? Esigere che le proprie conclusioni, gi? accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute pi? importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo, ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l'oracolo, sentenziano: "Proposizione scandalosa"; "proposizione irriverente"; "questa odora di eresia"; "questa suona male". Per fare un cristiano non basta pi? il battesimo, n? il Vangelo, n? Pietro, n? Paolo, n? san Girolamo, n? sant'Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso, il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi baccellieri, cos? sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza l'insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni: "vaso da notte, tu puzzi" e "il vaso da notte puzza"; oppure: "bolle la pentola" e "la pentola bolle"?

Chi avrebbe liberato la Chiesa da cos? gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto, se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta autorit?? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno tutto ci?? o quando ritraggono con molta esattezza il mondo infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di quella repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti, creandone infine una pi? grande di tutte, pi? bella, perch? le anime beate abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare e anche di giocare a palla? A tal segno la loro testa ? infarcita di una miriade di sciocchezze del genere che, secondo me, nemmeno quella di Giove era cos? gonfia quando, sul punto di partorire Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perci? non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa cos? accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe.

A volte, anch'io rido del fatto che, quanto pi? il loro linguaggio ? barbaro e rozzo, tanto pi? si credono grandi teologi, e in quel balbettare, comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza d'ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia compatibile con la dignit? delle sacre lettere sottomettersi alle leggi della grammatica. Mirabile maest?, invero, quella dei teologi, se a loro soli ? lecito costellare di spropositi il discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi agli D?i quando vengono salutati con venerazione quasi religiosa, e chiamati maestri nostri. Credono presente in quell'appellativo qualcosa di simile al tetragramma degli ebrei. Perci? considerano un'empiet? non scrivere "Magister noster" tutto in lettere maiuscole. Se poi qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister", di colpo annullerebbe la maest? del nome teologico.

54. Quasi altrettanto felici, sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci, usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per buona parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione; e nessuno s'incontra in giro pi? di questi pretesi solitari. Non vedo che cosa potrebbe esserci di pi? miserando di loro, se non ci fossi io a soccorrerli in tanti modi. Perch?, pur essendo questa gen?a a tal segno detestata da tutti, che persino un incontro casuale con qualcuno di loro ? ritenuto di malaugurio, si cullano tuttavia nell'illusione di essere chiss? che cosa. In primo luogo ritengono che il massimo della piet? consista nell'essere tanto ignoranti da non sapere neppur leggere. Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi, di cui sono in grado di indicare a memoria il numero d'ordine senza peraltro capirli, sono convinti d'accarezzare in modo dolcissimo le orecchie degli D?i. Neppure mancano quelli che vendono a caro prezzo il loro sudiciume e l'andare in giro mendicando: dinanzi alle porte chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c'? albergo, non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo danno degli altri mendicanti. Cosi, queste carissime persone, dicono di darci un'immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza, rozzezza, impudenza.

E cosa c'? di pi? divertente del loro fare tutto secondo una regola, quasi in base a un calcolo matematico che sarebbe delittuoso violare? Quanti nodi deve avere il sandalo; di che colore deve essere il cordone; quale il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e di quale larghezza la cintura; di che tipo e di che capacit? il cappuccio; quale la precisa misura della chierica; quante ore vanno concesse al sonno? Eppure, quanta diversit?, chi non lo vede, in questa uguaglianza imposta a corpi e temperamenti cos? vari! Tuttavia, per queste sciocchezzuole, non solo si considerano superiori agli altri, ma anche fra di loro si disprezzano a vicenda e, pur professando la carit? apostolica, fanno un'autentica tragedia di una cintura diversa o di un colore un po' pi? scuro. Ne potresti vedere di cos? rigidamente attaccati alla regola da portare esclusivamente vesti di lana di Cilicia, e biancheria di lino di Mileto; altri, al contrario, portano vesti di lino e biancheria di lana. C'? chi, odiando toccare il danaro come fosse veleno, non si astiene comunque n? dal vino n? dalle donne. Infine, mirabile in tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto a regola di vita, e questo, non nell'intento di guardare a Cristo, ma per distinguersi tra di loro.

Buona parte della loro soddisfazione deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome di Cordiglieri, distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del nome di Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi, quelli di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti, altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco. Gran parte di costoro, a tal punto d? peso alle proprie cerimonie e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia premio adeguato a meriti cos? grandi; e non pensano che Cristo, non facendo alcun conto del resto, chieder? loro se hanno osservato il suo unico precetto: la carit?. Allora uno esibir? il pancione gonfio di pesci d'ogni specie; un altro rovescer? al suo cospetto centinaia di moggi di salmi. Un altro ancora far? il conto degli infiniti digiuni; se poi tante volte ha rischiato di scoppiare, ? stato per quell'unico pasto che si concedeva... dopo. Altri ancora mostrer? il mucchio delle cerimonie a cui ha partecipato, tanto greve che a malapena potrebbero trasportarlo sette navi da carico. Qualcuno si vanter? di avere oltrepassato i sessant'anni senza toccare denaro, se non con le mani protette da due paia di guanti. Chi produrr? la cocolla tanto sporca e grassa che neanche un marinaio se ne gioverebbe. Chi ricorder? di avere fatto per pi? di undici anni la vita dell'ostrica, sempre attaccato allo stesso luogo; e chi si far? un merito della voce divenuta rauca per l'ininterrotto cantare, o del rimbecillimento derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa torpida dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo queste vanterie che altrimenti rischierebbero di non finire pi?, "Di dove viene, dir?, questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco per mia una legge sola, e solo di questa non si fa parola. Pure, una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di parabola, ho promesso l'eredit? del padre mio non alle cocolle, non alle giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carit?. Non conosco questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato che vorrebbero sembrare anche pi? santi di me, occupino, se vogliono, i cieli dei seguaci di Abraxas, o si facciano edificare un nuovo cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai miei precetti".

Quando sentiranno queste parole, e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che faccia credete che si guarderanno a vicenda?

Nel frattempo si beano della loro speranza, e non senza mio merito. E poi, bench? lontani dalla vita pubblica, nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare, perch? attraverso la cosiddetta confessione conoscono senza eccezione i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro, ? peccato, salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi di qualche racconto pi? divertente; ma anche allora raccontano i fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se per? qualcuno irrita questi calabroni, predicando al popolo, se ne vendicano a misura di carbone, e bollano il nemico con allusioni tanto scoperte da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce proprio nulla. N? la smettono di latrare, se prima non gli hai gettato il boccone in bocca.

Eppure, quale commediante, quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando nella predica s'esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro assoluta ridicolaggine, s'attengono nel modo pi? spassoso alle norme sull'arte del dire tramandate dai maestri? Dio immortale! come gesticolano! E come cambiano voce! E come canterellano! Come si spenzolano verso l'uditorio e come mutano espressione! come punteggiano tutto con urla! Quest'arte oratoria viene trasmessa come un segreto da un fraticello all'altro: sebbene non mi sia concesso di venirne a conoscenza, tenter? comunque di procedere per congetture.

Scimmiottando i poeti, cominciano con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carit?, prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono trattare del mistero della Croce, prendono opportunamente gli auspici da Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno, si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro discorso ? la fede, premettono una lunga introduzione sulla quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio stupido, scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima, dovendo spiegare il mistero della Trinit?, volendo fare cosa che suonasse gradita all'orecchio dei teologi, e mettere al tempo stesso in mostra la sua non comune dottrina, si dette a battere una strada affatto nuova. Part? dalle lettere dell'alfabeto, dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo e dell'aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia dei pi?, anche se non mancava qualcuno che borbottava tra s? le parole d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente arriv? al punto di dimostrare che l'immagine di tutta la Trinit? scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale che nessun matematico potrebbe disegnarla con pi? evidenza nella polvere. E nel comporre questa orazione, quel teologo principe per otto mesi interi aveva faticato tanto, che anche oggi ? pi? cieco di una talpa, senza dubbio per avere consumato tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure non si lamenta della cecit?: crede anzi di avere raggiunto il successo con poca spesa.

Ho ascoltato un altro ottuagenario, un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns Scoto redivivo. Dovendo spiegare il mistero del nome di Ges?, con mirabile sottigliezza dimostr? che tutto quanto se ne poteva dire era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. Perch? il fatto che la sua declinazione abbia tre casi soli ? segno manifesto della divina Trinit?. Il mistero ineffabile poi, sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S, il secondo, JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano che ? sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche pi? ostico, da risolversi col calcolo matematico. Divise la parola Jesus in due parti uguali, in modo che una lettera, in mezzo, restasse divisa in due. Disse che quella lettera per gli Ebrei ? SYN, che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta manifesto che Ges? ? colui che redime il mondo dai peccati. Per l'originalit? dell'esordio tutti rimasero a bocca aperta, i teologi in particolare, s? che per poco non tocc? loro la sorte di Niobe; mentre a me quasi successe come al Priapo di legno di fico che, con suo grave danno, si trov? ad assistere ai riti notturni di Canidia e di Sagana. E non a torto. Infatti, quando mai il greco Demostene, o il latino Cicerone, sono andati ad escogitare un simile esordio? Essi ritenevano difettoso un proemio che troppo si scostasse dal tema: neanche i bifolchi, che hanno la natura per guida, esordiscono cos?. Ma questi dotti ritengono che il loro preambolo - cos? lo chiamano - raggiunga il massimo della potenza retorica quando proprio non ha nulla a che fare col resto del discorso, tanto che chi ascolta meravigliato finisce col dire tra s?: "ma dove si va a finire?". In terzo luogo commentano, tirandone fuori un raccontino, qualche breve passo del Vangelo, ma frettolosamente e quasi incidentalmente, mentre questo solo era il punto da sviluppare. In quarto luogo, cambiando parte in commedia, sollevano un problema teologale, che talvolta non sta n? in cielo n? in terra. Anche questo ritengono conforme alle regole dell'arte. Qui finalmente assumono piglio teologico, riempiendo gli orecchi degli ascoltatori di famosi nomi di dottori solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi, dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. Allora sbandierano davanti ad una folla ignorante sillogismi, maggiori, minori, conclusioni, corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive di mordente e decisamente scolastiche. Resta ormai il quinto atto, in cui l'artista deve rivelarsi in tutta la sua bravura. A questo punto tirano in ballo una qualche rozza e sciocca storiella, tolta, penso, dallo SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA ROMANORUM, e ne offrono un'interpretazione allegorica, tropologica, ed anagogica. Cos? portano a compimento la loro Chimera, qualcosa che neppure Orazio riusciva a immaginare quando scriveva: "aggiungete ad una testa d'uomo, ecc.".

Da non so chi, hanno poi sentito dire che l'inizio dell'orazione deve essere basso di tono. Perci? cominciano con una voce cos? bassa che neanche loro la sentono, come se il parlare servisse quando nessuno capisce. Hanno anche imparato che, a volte, per suscitare emozioni, ? opportuno erompere in un grido. Perci?, a met? di un discorso concitato, all'improvviso si mettono a strillare furiosamente, senza il minimo bisogno. Quegli scoppi di voce che nulla giustifica ti farebbero giurare di trovarti davanti a casi da trattare con l'elleboro. Inoltre, avendo appreso che il discorso deve animarsi via via che procede, quando, bene o male, hanno esaurito l'inizio delle singole parti, a un tratto adottano un tono appassionato, anche se l'argomento ? dei meno interessanti, e finiscono col concludere dando l'impressione di essere esausti.

Avendo infine imparato che i retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre qualche battuta scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con un tale senso d'opportunit?, da farti dire che sono come l'asino davanti alla lira. Talvolta mordono anche, ma in modo da provocare pi? solletico che ferite. N? riescono mai ad adulare meglio di quando fanno mostra di non aver peli sulla lingua. Infine tutto il loro stile ? tale da farti giurare che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone per? molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto da non lasciare dubbi: o i ciarlatani hanno imparato la retorica dagli oratori, o gli oratori dai ciarlatani.

Nondimeno, certo per opera mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui si curano di parlare in modo gradito, perch? i mercanti, opportunamente lisciati, sono inclini, di solito, ad elargire una piccola parte del mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre ragioni, sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perch? ? loro costume attingerne conforto quando vogliono sfogare i propri malumori coniugali.

Vi rendete conto, suppongo, di quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando tra i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole sciocchezze e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant'Antonio.

55. Non mi par vero di concludere, oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati nel nascondere ci? che mi devono, quanto empi nell'ostentare una finta piet? religiosa.

E' giunto il tempo di trattare un po', con tutta schiettezza, dei re e dei pr?ncipi di corte, che, come si conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima sincerit?. Se, infatti, avessero solo una briciola di senno, che vi sarebbe di pi? malinconico, o di meno desiderabile, della loro vita? N? riterr? che valga la pena d'impadronirsi del potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri l'entit? del peso che grava sulle spalle di chi vuole essere un principe sul serio. Chi assume il potere supremo deve occuparsi degli affari pubblici, non dei propri interessi. Deve pensare esclusivamente alla pubblica utilit?; non deve scostarsi neanche di un pollice dalle leggi, di cui ? autore ed esecutore; deve assicurarsi dell'integrit? di tutti i funzionari e di tutti i magistrati. Lui solo, agli occhi di tutti, pu?, a guisa di astro benefico, giovare enormemente alle cose di quaggi? coi suoi costumi senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all'estrema rovina. I vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si propagano tanto. Ma se il principe, con la posizione che occupa, si scosta appena dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando moltissimi uomini. Inoltre poich? la condizione del principe porta con s? parecchie cose che di solito inducono a tralignare piaceri, libert?, adulazione, lusso - tanto pi? attentamente egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al proprio compito. Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori, gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima gli chieder? ragione anche della colpa pi? lieve, e tanto pi? severamente quanto pi? prestigioso fu il suo imperio. Se il principe riflettesse su queste cose e su moltissime altre del genere - e ci rifletterebbe se avesse senno - non dormirebbe, credo, sonni tranquilli, n? riuscirebbe a gustare il cibo.

Col mio aiuto, i pr?ncipi lasciano, ora, tutti questi motivi d'affanno nelle mani degli D?i, e se la spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli, perch? una punta d'ansia non abbia mai a levarsi dal fondo del cuore. Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere di un principe, se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli, se mettono in vendita per trarne un utile magistrature e prefetture, se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini delle loro sostanze, facendole confluire nel loro tesoro privato: ma trovando dei pretesti, tanto da conferire una qualche apparenza di giustizia anche alla peggiore iniquit?. E per conquistare comunque le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione. Dovete immaginare un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi privati, dedito ai piaceri, con un'autentica avversione per la cultura, la libert? e la verit?, che non si cura minimamente della salvezza dello Stato, che adotta come unit? di misura le proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una collana d'oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virt? riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami al suo dovere di superare gli altri in tutte le virt? eroiche. Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina purezza dell'animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario amore per lo Stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare solo vergogna della sua pompa, e col temere che qualche critico salace non si prendesse gioco di lui volgendo in beffa questo apparato scenico.

56. Che dir? dei cortigiani pi? segnalati? Bench? nulla vi sia di pi? strisciante, di pi? servile, di pi? sciocco, di pi? spregevole di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto. In una cosa sola sono modesti all'estremo: paghi di portarsi addosso oro, gemme, porpora ed altre insegne della virt? e della sapienza, lasciano sempre agli altri il privilegio di praticarle. Si ritengono molto fortunati perch? possono chiamare "mio signore" il re, perch? hanno imparato un saluto di tre parole, perch? sanno intercalare titoli onorifici: Serenit?, Maest?, Magnificenza; perch? sono abilissimi nel deporre ogni pudore quando si tratta di ricorrere a complimenti adulatori. Queste, infatti, sono le arti di un vero nobile, di un vero uomo di corte. Del resto, se vai a guardare pi? da vicino il loro costume di vita, troverai degli autentici Feaci, dei pretendenti di Penelope - il resto del verso lo conoscete, e l'Eco ve lo ripete meglio di me. Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora sonnecchiano. Poi la colazione e, a mala pena terminata, ? gi? ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli scacchi, le lotterie, i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i giochi, le insulsaggini. Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a tavola, si cena; a questa seguono i brindisi, non uno solo, per Giove. E cos?, senz'ombra di noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Io stessa, a volte, mi allontano col voltastomaco quando li vedo, quei magnanimi, in mezzo alle donne, ognuna delle quali si crede tanto pi? vicina all'Olimpo quanto pi? lunga ha la coda, mentre i grandi fanno a gomitate per mostrarsi pi? vicini a Giove, e ognuno tanto pi? ? beato quanto pi? pesante ha la catena al collo, segno manifesto, non solo di ricchezza, ma anche di robustezza.

57. Gi? da un pezzo i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno a modello il genere di vita dei pr?ncipi, e con un successo forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della veste di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza, immune da ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa la croce che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni; se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere, che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene fanno quelli che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge, o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita premura. Vescovi sono sul serio nell'arraffare quattrini: in questo la loro vigilanza ? tutta occhi.

58. Altrettanto dicasi dei cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni, ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po' anche al loro paludamento e si chiedessero: che significa il candore della cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la porpora che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa l'ampio mantello che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la cavalcatura di sua Eminenza, e che basterebbe a coprire anche un cammello? Non significa forse la carit? che ovunque si diffonde per venire in aiuto a tutti, cio? per insegnare, esortare, consolare, rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi ai pr?ncipi malvagi? Non significa il generoso sacrificio, non solo delle proprie ricchezze, ma anche del proprio sangue, per amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su queste cose, dico, terrebbero poco alla carica: deporla sarebbe un piacere; oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate, alla maniera degli antichi Apostoli.

59. Ora ? la volta dei sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno pi? di loro si troverebbe a soffrire, se tentassero di imitarne la vita: povert?, travagli, dottrina, croce, disprezzo del mondo; se pensassero al loro nome PAPA, cio? padre, e alla loro qualifica di SANTISSIMO! Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi quel posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte le forze? A quanti vantaggi dovrebbero dire addio, se la saggezza riuscisse appena a farsi sentire! Ma che dico, saggezza? Dovrei dire un grano di quel sale menzionato da Cristo. Addio a tante ricchezze, a tanti onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante cariche, a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze, e a tanti cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate un po' che mercato, che razza di messe rigogliosa, che mare di ricchezze ho concentrato in poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime, preghiere, prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere. Ancora - particolare non trascurabile - sarebbero ridotti alla fame tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari, mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani - e stavo per aggiungere un'espressione pi? sguaiata, ma temo che offenda l'orecchio, insomma, una cos? folta schiera che costituisce l'onere - ? un LAPSUS, volevo dire l'onore - della curia romana. Sarebbe proprio inumano, anzi un delitto abominevole! ma sarebbe molto peggio riportare al bastone e alla bisaccia quei sommi pr?ncipi della Chiesa, che sono la vera luce del mondo.

Ora, se fatiche ci sono, si lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno tanto, e si mantengono per s? la gloria e il piacere, quando ci sono. Cos?, col mio aiuto, non c'? quasi nessuno che pi? di loro faccia, in perfetta tranquillit?, una gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso Cristo, se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato rituale che ha movenze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione di titoli: beatitudine, reverenza, santit?; e benedizioni e anatemi. Non si usa pi? far miracoli: roba d'altri tempi. Insegnare ai fedeli ? faticoso; interpretare le Sacre Scritture ? lavoro da farsi a scuola; pregare ? una perdita di tempo; spargere lacrime ? misero e femmineo; vivere in povert? ? spregevole. Turpe la sconfitta e indegna di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati: infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.

Rimangono solo le armi e le "dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna, e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano le anime dei mortali all'inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso, tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro. Bench? le parole dell'Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito", essi identificano il patrimonio di Pietro con i campi, le citt?, i tributi, i dazi, il potere. E mentre, accesi dall'amore di Cristo, combattono per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa, sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici. Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell'oblio; legiferando all'insegna dell'avidit?, lo mettono in catene; con le loro interpretazioni forzate ne alterano l'insegnamento; coi loro turpi costumi lo uccidono.

Poich? la Chiesa cristiana ? stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora, come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve pi? che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato fossero le Furie a scatenarla, cos? rovinosa da portare con s? la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione, la pace, I'intero genere umano. N? mancano colti adulatori, pronti a chiamare questa evidente follia zelo, piet?, fortezza, escogitando stratagemmi che permettono d'impugnare il ferro mortale e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella suprema carit? che secondo il dettato di Cristo un cristiano deve al suo prossimo.

60. Una cosa, continuo a chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando pi? per le spicce, tralasciando il culto, le benedizioni e altre cerimonie del genere, si comportano addirittura da satrapi, fino a considerare una specie di debolezza, e senz'altro una vergogna per un vescovo, rendere la valorosa anima a Dio altrove che su un campo di battaglia, sono stati loro a offrire il modello di un tale comportamento, o lo hanno a loro volta imitato?

Ma ormai la massa dei sacerdoti, considerando peccaminoso venire meno alla santit? di vita dei presuli, levando il grido di guerra si d? a combattere per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie! e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi documenti qualcosa con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo debito va al di l? delle decime! N? intanto ai sacerdoti vengono in mente i molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte loro, essi hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Sono gente buffa: sostengono di aver fatto tutto il loro dovere quando hanno borbottato alla bell'e meglio le solite giaculatorie, e io, per Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda, perch? nemmeno loro sono capaci di udirle o di intenderle, pur gridandole con quanto fiato hanno in corpo.

C'? un punto, per?, che i sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi ad accumulare guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire. Se poi c'? un peso da portare, prudentemente lo scaricano sulle spalle altrui, e lo fanno passare di mano in mano, in una sorta di gioco a palla. Come i pr?ncipi laici, delegano a vicari, settore per settore, le funzioni di governo, e il vicario, a sua volta, ricorre a un vicario in sottordine; cos?, per modestia, lasciano al popolo la cura di tutto quanto riguarda la religione. Il popolo la scarica su quelli che chiama ecclesiastici, come se per parte sua non avesse nulla a che fare con la Chiesa: pare che i voti pronunciati al battesimo non contino nulla. A loro volta, i sacerdoti che si denominano secolari, come se appartenessero al mondo pi? che a Cristo, scaricano il fardello sul clero regolare; il clero regolare sui monaci; i monaci di meno stretta osservanza su quelli di osservanza pi? rigida; gli uni e gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i soli presso cui, sepolta, si nasconde la piet?, ma cos? nascosta che a mala pena si pu? scorgerla.

Cos? fanno anche i pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi i gravami pi? strettamente apostolici; i vescovi li affidano ai parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti, che, a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore.

61. Ma io, qui, non mi propongo di passare in rassegna i costumi di pontefici e sacerdoti; non vorrei avere l'aria di comporre una satira, mentre ? il mio elogio che pronuncio; n? vorrei si credesse che, mentre elogio i cattivi pr?ncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato brevemente di queste cose per mettere in chiaro che nessuno al mondo pu? vivere felicemente, se non ? iniziato ai miei misteri, e se non ha me dalla sua.

Come mai, infatti, la stessa dea di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto va d'accordo con me da avere giurato eterna inimicizia a questi sapienti, mentre ai folli ha donato ogni bene anche nel sonno? Voi conoscete il famoso Timoteo, che di qui ha preso anche il soprannome, ed il proverbio: "anche dormendo piglia pesci". C'? anche l'altro detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri sono i proverbi che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva stella"; "ha il cavallo di Seio e l'oro di Tolosa". Smetto le citazioni: non vorrei avere l'aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo.

Per tornare in argomento: la Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il motto "il dado ? tratto". La saggezza, invece, rende piuttosto timidi; perci? comunemente vedete questi sapienti impegnati a combattere con la povert?, la fame, il fumo; li vedete vivere dimenticati, senza prestigio, senza simpatie: mentre gli stolti, ben forniti di soldi, raggiungono le alte cariche dello Stato e, per dirla in breve, prosperano in tutti i sensi. Infatti, se si ripone la felicit? nel favore dei pr?ncipi, nell'entrare a far parte della cerchia di questi miei fedeli simili a D?i ingioiellati, che c'? di pi? inutile della sapienza, anzi di pi? aborrito presso gente del genere? Se si vuole arricchire, che cosa pu? guadagnare un mercante attenendosi alla sapienza? Se terr? in qualche conto gli scrupoli dei sapienti sul latrocinio e l'usura, avr? ripugnanza a spergiurare; colto a mentire, arrossir?. Se si desiderano onori o benefizi ecclesiastici, un asino o un bue potr? aggiudicarseli prima del sapiente. Se ? il piacere che ti muove, le fanciulle, che in questa storia hanno il posto d'onore, si danno di tutto cuore agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente e lo fuggono come fosse uno scorpione. Infine, chiunque si ripromette una vita in qualche misura lieta, comincia con l'escludere il sapiente, tollerando piuttosto qualunque altro animale. In breve, da qualunque parte tu ti volga, presso pontefici, pr?ncipi, giudici, magistrati, amici, nemici, grandi e piccoli, tutto si ottiene col danaro alla mano; ma il sapiente disprezza il danaro, e perci?, di solito, da lui ci si tiene lontani con la massima cura.

62. Ed ora, bench? sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere il discorso. Perci? smetter? di parlare, ma non senza avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi autorit? a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni; e questo perch? qualcuno non sospetti scioccamente che sia io sola a compiacermi di me stessa, e perch? i legulei non mi accusino di non produrre documenti. Perci?, prendendo esempio da loro, allegher? le prove senza preoccuparmi che siano pertinenti.

In primo luogo, tutti sono persuasi della verit? di un notissimo proverbio: "Quando una cosa manca, ottimo sistema ? fingere che ci sia". Perci? ? bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo ? somma sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione, meritano dai dotti cos? grande lode. Con franchezza anche maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro" prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma, aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove: "Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa, piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo". Gi? in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti, ? detto a pi? riprese privo di senno, e spesso e volentieri i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli e adolescenti. Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode pi? alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo ? pieno di pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti pi? si estende, tanto pi? vale?

63. Ma forse per i cristiani l'autorit? di costoro non ha gran peso. Perci?, se credete, possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa - credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per uno spinoso calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa pi? di ogni istrice e porcospino, perch? dalla sua Sorbona per un po' si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce, magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda colpevole di furto, come se per farmi una cos? bella preparazione teologica alla chetichella avessi saccheggiato i tesori dei maestri. Ma che c'? da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col tenere a mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.

Torniamo in argomento. Scrive l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito ? il numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi che probabilmente nessuno ha mai visto? Con pi? chiarezza si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni uomo ? reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini [X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga nella sapienza il suo vanto". Ma perch?, ottimo Geremia, non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "Perch?, risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."

Ritorniamo all'Ecclesiaste. Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanit? delle vanit?; tutto ? vanit?", che altro vuol dire, secondo voi, se non che la vita umana ? tutta un gioco della follia? Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone, a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc'anzi: "Tutto il mondo ? pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico, quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente, come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente che tutti i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura umana, il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ci? si accorda quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se ? stolto chiunque non ? sapiente, e se chi ? buono, stando agli Stoici, ? anche sapiente, la stoltezza, di necessit?, ? retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo [21] di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza"; e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita non ha nulla da offrire.

Alla stessa conclusione approda il detto: "Chi pi? sa, pi? soffre; chi pi? conosce, pi? spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore; nei cuori degli stolti la gioia".

Non riteneva, infatti, che bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia". E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo ? l'ordine ecclesiastico - che chi ? primo per dignit? deve occupare l'ultimo posto, il che ? conforme al dettato evangelico.

Che poi la Follia ? superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64 [4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole, non riferir? le sue parole se prima non avrete collaborato con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa ? pi? opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle comuni e dappoco?" Perch? tacete? Anche se cercate di non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice della brocca alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perch? lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri maestri. O forse qualcuno di voi ? cos? stolto da lasciare per la strada oro e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli inaccessibili, e addirittura negli angoli pi? segreti di una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti. Perci?, se si nasconde quanto ? pi? prezioso, mentre si lascia in vista ci? che vale meno, la sapienza che l'Ecclesiastico vieta di nascondere non sar? palesemente meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza ? migliore dell'uomo che nasconde la sua sapienza" [41, 18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede nessuno suo simile? Cos? infatti intendo le parole del decimo [X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada, essendo lui stolto, crede che tutti lo siano". E non ? forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano uguali a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri ci? che in te c'? di buono? Perci? il gran re Salomone non si vergogn? di questa qualifica quando, nel trentesimo capitolo [Prov. 30, 2], disse: "Sono il pi? folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti, scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegn? la denominazione di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il pi? dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse sconveniente.

Qui mi danno sulla voce certi greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie - cio? ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico Erasmo, che molto spesso ricordo a titolo di merito, non ? l'alfa [il primo] della schiera, certo ? il beta [il secondo]). Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia in persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti. Con le sue parole non cerca di farsi passare per pi? stolto degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri di Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi cos? collocato, con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri, rettifica: "ma io lo sono anche di pi?", perch? nel ministero del Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli, ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto di presunzione, adott? la follia come copertura, e disse "parlo da dissennato", perch? sapeva che dire la verit? senza offendere nessuno ? privilegio dei soli pazzi.

Che cosa intendesse davvero Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere. Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati; buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza ne taccio il nome, perch? i nostri volatili gracchianti non si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono pi? di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando cos? (riporter? le sue parole, e non solo nella lettera, ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cio?, se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli, anche pi? folle vi sembrer? ponendomi al disopra di loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico di s?, cambia argomento.

64. Ma perch? mi affanno tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua e in l? come un elastico, tanto ? vero che in san Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Cos?, letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forz? il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, stacc? dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa: "Agli D?i dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli D?i ignoti e stranieri". Penso che questi figli di teologi, seguendone l'esempio, sopprimendo qua e l? quattro o cinque parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino ai loro scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle che seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto. Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono tratti a invidiare i teologi.

Che mai hanno pi? da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di pi? ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco, Cristo, perch? i suoi smettessero del tutto di confidare in questo genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo cos? poco equipaggiati da non avere n? calzari contro le spine e i sassi, n? bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una borsa la prenda, e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza, disprezzo del mondo, non ? chi non intenda il giusto significato di questo passo. Il proposito ? di rendere i legati di Cristo anche pi? inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia, ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino la loro missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non quella, per?, di cui si servono predoni e parricidi per i loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni, s? che nulla vi resti, salvo la piet?.

Orbene, state un po' a vedere a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo. Secondo lui la spada ? la difesa contro i persecutori, il sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo, ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non rendendo male per male, perch? beati sono i mansueti, non i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio dei passeri e dei gigli, non li volesse pi? vedere partire senza la spada. La comprino, a costo di vendere la tunica; meglio nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine spada indichi tutto ci? che pu? servire come arma di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i bisogni vitali. Cos? l'interprete del pensiero divino fa predicare il Cristo in croce da Apostoli armati di lance, balestre, fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perch? non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato. N? il brav'uomo ? turbato neppure dal fatto che Cristo ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato di comprare a cos? caro prezzo, e che mai, per quel che se ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade e scudi la violenza dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse stato conforme a questa interpretazione.

C'? poi un altro, e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome) che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian - "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra" - ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.

Di recente partecipai io stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. Poich? uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]: "Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla buona strada, evitalo". E pi? volte tornava a dire quelle parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva. Fin? con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E VITA) l'eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione ineccepibile dal punto di vista teologico, e poich? qualcuno continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo, un'autorit? irrefragabile: "State a sentire, disse. La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico ? malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte i piedi calzati di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici". Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione e all'ubriachezza.

65. Sono una sciocca a volermi dilungare su queste cose, cos? numerose che neanche tutti i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo solo farvi presente che, se tanto ? stato concesso a quei maestri di primissima grandezza, ? giusto usare qualche indulgenza a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del tutto esatte.

E ora, tornando finalmente a Paolo, parlando di s? dice: "Voi sopportate di buon grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma quasi come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della follia e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? "Chi di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".

In Luca [34, 25] Ges? chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo: "La follia di Dio ? pi? saggia del senno degli uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini umani, come nell'altro esempio: "La parola della croce ? follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].

Ma perch? mai insisto nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'? bisogno, se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre: "Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo, per cui i sovrani guardano con diffidente antipatia le persone troppo intelligenti. Cos? accadeva a Cesare con Bruto e Cassio - mentre di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; cos? accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia nella propria saggezza.

Lo attesta chiaramente san Paolo quando dice: "Dio sceglie ci? che il mondo considera stolto", e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso la stoltezza", perch? attraverso la saggezza non era possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Mander? in fumo la sapienza dei sapienti e condanner? la saggezza dei saggi".

E ancora quando Ges? lo ringrazia perch? aveva rivelato ai piccoli, cio? agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti. In greco, infatti, il termine per indicare i bambini ? infanti (n?pioi) in contrapposizione ai sapienti (zof?i ). Nello stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Ges? che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa, la sollecita protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei", se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca, 11, 42-43]. Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori, pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo predilige le pi? lontane dall'astuzia della volpe. Perci? prefer? cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto senza rischio cavalcare un leone. Cos? lo Spirito Santo ? sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero. Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po' dappertutto cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Ges? chiama pecore i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. N? c'? animale pi? stupido di questo, stando anche al detto aristotelico "indole di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto dalla stupidit? di quell'animale, di solito si applica a titolo ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi agnello, e Giovanni Battista lo indic? con questo nome: "Ecco l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.

Di qui una clamorosa conclusione: i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di piet?, sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza, lui che ? la sapienza del Padre, si ? fatto in qualche modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si ? presentato con sembiante di uomo. Come si ? fatto anche peccato per risanarci dai peccati. N? volle porvi altro rimedio se non la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti, cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini, dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto privi d'intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per cogliere i momenti opportuni: non devono cio? confidare nella propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso principio s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di assaggiare il frutto dell'albero della sapienza, quasi che la scienza fosse il veleno della felicit?. San Paolo, d'altra parte, condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina. E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.

Forse c'? anche un altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia presso gli D?i; al sapiente non si perdona, tanto ? vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo. Cos? infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12, 11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore: "Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato per mancanza di discernimento". E anche Saul di fronte a David si discolpa cos?: "E' chiaro, dice, che ho agito da sciocco". E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare il tuo servo d'iniquit?; ho agito da sciocco", come se non potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in croce, quando preg? per i suoi nemici, port? come unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perch? non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina perch? nella mia incredulit? ho agito per ignoranza" [Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito da ignorante", se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa "perci? ho ottenuto misericordia", se non che non l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi ? venuto in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe della mia giovent? e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].

Come avete sentito, adduce due argomenti: la giovane et? - a cui sempre io, la Follia, mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale per fare intendere la grande forza della follia.

66. Per non dilungarmi all'infinito cercher? di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici godono pi? degli altri delle funzioni religiose, e perci?, per puro istinto, sono sempre i pi? vicini agli altari. Vedete inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio, scelsero le vie della semplicit?, mentre furono nemici acerrimi delle lettere.

Infine non c'? pazzo che sembri pi? pazzo di coloro che una volta per sempre siano stati conquistati in pieno dal fuoco della carit? cristiana: a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove, e non nel loro corpo. E che altro ? questo se non follia? Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi di vino dolce, se Paolo sembr? pazzo al giudice Festo.

Comunque, visto che una volta tanto ho vestito la pelle del leone, andr? pi? in l? mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che i cristiani cercano di conquistare a cos? caro prezzo, altro non ? se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate alle parole: non c'? intenzione d'offesa; considerate piuttosto i fatti. C'? in primo luogo un punto di contatto fra cristiani e platonici: entrambi ritengono che l'anima, irretita nei vincoli del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione e alla fruizione del vero. Perci? Platone definisce la filosofia una meditazione sulla morte, perch?, a somiglianza della morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perci?, finch? l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi in piena libert?, e viene quasi meditando una fuga dal carcere corporeo, allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade per malattia, per una qualche affezione organica, allora ? pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie predicono il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito del divino.

Non c'? dubbio: questo accade perch? la mente, libera in parte dall'influenza del corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio profetico.

Se ci? accade nell'ardore della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma cos? vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura, e tanto pi? in quanto riguarda un pugno di disgraziati che in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio. Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle cose, e del prigioniero che, fuggito di l?, tornando poi nell'antro afferma di avere contemplato le cose reali, e che loro s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista se non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia di coloro che sono irretiti in cos? grave errore; ma quelli, a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via. Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia prevale, e quasi crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica la religione, invece, quanto pi? una cosa ? attinente al corpo tanto pi? la trascura ed ? tutto preso dalla contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le ricchezze, al secondo le comodit? relative al corpo, all'ultimo l'anima: che, dopo tutto, i pi? neanche credono esista perch? l'occhio non pu? scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo tendono con tutte le loro forze a Dio, il pi? semplice degli esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia: ossia all'anima, che pi? di tutto ? vicina a Dio; trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene, ne sentono il peso e la noia; hanno, ed ? come se non avessero; posseggono, ed ? come se non possedessero. Nei singoli casi ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto, bench? tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni sono pi? corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto, il gusto; altri pi? distaccati dal corpo, come la memoria, l'intelletto, la volont?.

Dato che la potenza dell'anima risulta maggiore l? dove concentra il suo sforzo, le persone religiose, poich? tutta la forza dell'animo loro si volge alle cose lontane per eccellenza dai sensi pi? corposi, subiscono in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega cos? ci? che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio invece di vino.

E anche fra le passioni dell'anima alcune sono pi? legate agli aspetti carnali del corpo, come l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia, l'invidia: chi coltiva sentimenti di piet? le respinge senza remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per gli amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma quanti vivono secondo piet? cercano di sradicare dall'animo anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato, infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo ? opera di Dio padre - ma in quanto ? buono e porta in s? il lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori della quale sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.

Con questo medesimo criterio giudicano di tutti i doveri: tutto ci? che ? visibile, se non ? da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto, che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito ai moti d'ira o di superbia, perch? lo spirito gi? meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti. Altrettanto dicasi della Eucaristia. Bench? non vada sottovalutato l'aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura ? pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cio? del contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta la morte di Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo, sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee per risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro, tutt'uno con lui.

Queste le azioni, questi i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che il sacrificio sia tutto nello stare quanto pi? ? possibile accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando ad altre quisquilie relative al rito.

Quanto al pio, non solo nelle cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge da ci? che ? legato al corpo, tutto preso dall'eterno, dall'invisibile, dalla realt? spirituale. Perci?, dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di piet? e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al volgo. E ci? risulter? pi? chiaro se, come ho promesso, dimostrer? in poche parole che quel sommo premio altro non ? se non una forma di follia.

67. Considerate in primo luogo che qualcosa di simile gi? vagheggi? Platone quando scrisse che il delirio degli amanti ? il pi? felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso, ma in colui che ama, e quanto pi? si allontana da s? e si trasferisce in lui tanto pi? gode. E quando l'animo si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi, a buon diritto senza dubbio si pu? parlare di delirio. Altrimenti che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non ? in s?", o anche "torna in te stesso", e "? tornato in se stesso"? D'altra parte quanto pi? ? perfetto l'amore, tanto pi? ? grande, tanto pi? beato il delirio. Quale sar? dunque quella vita celeste che fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che ? il pi? forte, sar? vittorioso, e assorbir? il corpo tanto pi? facilmente perch? gi? in vita lo avr? mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione. Poi sar? a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma Mente la cui potenza ? infinitamente superiore. A questo punto l'uomo sar? interamente fuori di s?, e solo per questo felice, perch?, essendo fuori di s?, subir? non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae a s?.

Anche se questa felicit? sar? perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste corporea, riceveranno il dono dell'immortalit?, gli uomini pii, dato che la loro vita ? tutta una meditazione di quella vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicit?, ma che vale molto di pi? di tutti i piaceri corporei, anche se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto la sfera dello spirito ? superiore al corpo, e quella dell'invisibile al visibile. Questa certo ? la promessa del Profeta: "l'occhio non vide, l'orecchio non ud?, non penetrarono nel cuore dell'uomo le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa ? la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne - pochissimi invero - sono c?lti da un turbamento che alla follia ? vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di s?. Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perci? piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena pregustato la felicit? futura!

68. Dimentica di me stessa, ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso abbia peccato di petulanza e prolissit?, pensate che chi parla ? la Follia, e che ? donna. Ricordate per? il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito"; a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle donne.

Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ci? che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'? un altro: "Odio l'ascoltatore che ricorda". Perci? addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.


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