JOHN MILTON
Traduzione di
LAZZARO PAPI
IL PARADISO PERDUTO
LIBRO TERZO
Dio dallalto del suo trono vede Satáno che vola verso questo mondo allora novellamente creato. Lo addita al Figlio assiso alla sua destra: predice che Satáno riuscirà nel pervertire luomo, e dimostra che, avendo egli creato libero e capace di resistere al Tentatore, la sua divina giustizia e sapienza non possono in verun modo accusarsi. Dichiara che questa sua divina giustizia e sapienza non possono in alcun modo accusarsi. Dichiara che questa giustizia divina vuole una soddisfazione, e che luomo dee morire con tutta la sua posterità, se qualcun atto ad espiare la offesa di lui non si sottomette alla pena che gli è dovuta. Il Figlio di Dio si offerisce volontario, il Padre accetta, consente alla sua incarnazione, comanda a tutti gli Angeli di adorarlo, e tutti i Cori, unendo le voci loro al suono delle arpe, celebrano la gloria del Padre e del Figlio. Satáno intanto scende sullerma convessità del più estremo orbe di questo universo; di là fa passaggio nel sole, ove egli trova Uriele reggitore di quella sfera; ma prima si trasforma in un Angelo dellordine minore, e col pretesto che uno zelo ardente lha spinto a intraprendere quel viaggio per contemplare le cose novellamente create e luomo principalmente, si informa del luogo ove questi dimora. Saputo ciò, si parte e cala sul monte Nifate.
Salve, o del cielo primigenia figlia,
O dell'Eterno coeterno raggio,
Se tal nomarti senza biasmo io posso,
O sacra luce. E nol potrò se Iddio,
Iddio medesmo è luce, ed altro albergo,
Fin dall'eternitade egli non ebbe
Che il tuo fiammante inaccessibil grembo,
O d'increata rifulgente essenza
Fulgido effondimento? O se piuttosto
Ami esser detta un puro etereo rivo,
La tua sorgente chi dirà? Tu pria
Fosti del sol, tu pria de' cieli, e all'alta
Voce di Dio, come d'un manto, il mondo
Di te stessa avvolgesti allor che, tolto
All'infinito informe Vôto, ei fuora
Dalle negre sorgeva acque profonde.
Or con ali più ardite a te ritorno
Da' laghi Stigi alfin scampato, ov'io
Tante or medie or estreme a varcar ebbi
Tenebre nel mio volo, e ad altro suono
Che quel soave della Tracia lira,
Della Notte e del Cao gli orror cantai.
Dalla celeste Musa a entrar nell'ima
Buia discesa instrutto e ver le stelle
A risalir per via solinga e dura,
Salvo a te riedo, o bella Luce, e sento
L'alma tua lampa che di vita è fonte;
Ma tu questi occhi a visitar non torni
Però, che in cerca del tuo raggio invano
Rotansi, e albór non trovano: tal denso
Vel li ricopre, o lor pupille ha spente
Maligno umor! Ma non per questo io cesso
D'ir là vagando ov'ha più spesso in uso
Di far sua stanza delle Muse il coro,
Lungo un limpido fonte, o in colle aprico,
O in ombroso boschetto: un così forte
Amor de' sacri carmi il sen m'infiamma.
Ma te, Sionne, in prima, e i tuoi fioriti
Soavemente mormoranti rivi
Che il sacro piè ti bagnano, notturno
A visitar io vengo, e spesso in mente
Mi tornano que' duo ch'ebber con meco
Egual destino (egual così foss'io
A loro in fama almen!), Tamiri il cieco
E 'l cieco Omero, e di que' Vati antichi,
Tiresia e Fíneo, mi sovvien pur anco.
Allor mi vo di que' pensier nudrendo
Onde sgorgano poi spontanei e pronti
Armonïosi versi, e a quel somiglio
Vigile augel che sott'ombrosa chiostra
Nascoso intuona il suo notturno canto.
Le stagioni così riedon coll'anno,
Ma il giorno a me non riede: io più non veggo
Nè i dolci raggi del mattin che spunta,
Nè quei del sol che cade; io più non veggo
Di primavera i fior, nè rosa estiva,
Non più scherzosi armenti, non più mandre,
E non più volto d'uom, divina imago:
Ma folta nube invece e buio eterno
Mi cinge intorno e dai piacer che dolce
Fanno la vita, mi divide: invano
Del bel saper, delle grand'opre sue
Apre natura il libro; è per me tutto
Oscuro, vôto, cancellato, e chiusa
M'è a Sapïenza una gran via per sempre.
Tanto più vivi dunque, o tu, celeste
Luce, i tuoi rai nella mia mente infondi
E ne illustra ogni parte, occhi migliori
Tu m'apri in essa e ne disgombra e tergi
Ogni bassa caligine terrena,
Onde scorgere io possa e altrui far conte
Negate a mortal guardo arcane cose.
Dal luminoso empireo, ov'egli siede
In alto soglio ch'ogni altezza avanza,
L'onnipossente Padre, in giù rivolse
Gli occhi a mirar le sue grand'opre e l'opre
Che uscivano da lor. Più che le stelle
Gli stanno innumerabili d'intorno
Gli eccelsi Cori che ineffabil gioia
Traggon della sua vista, ed ave a destra
Della sua gloria la raggiante imago,
L'unico Figlio: sulla terra i nostri
Due padri antichi, i soli due tuttora
Dell'umana progenie, ei mira in prima,
Che dell'almo giardin nella romita
Sede coglieano gl'immortali frutti
Di gioia e amor, di non turbata gioia,
D'amor senza rivali; indi l'inferno
E 'l golfo immenso che dal ciel lo parte,
Egli risguarda, e là Satán che il vallo
Del ciel costeggia ov'ha confin la notte,
Satán che in alto per quell'aer fosco
Con ali stanche e con bramoso piede
Piegava omai vèr l'erma esterna faccia
Di questo mondo che pareagli salda
Terra priva di cielo, e incerto egli era
Se aere o vasto Oceáno in sen l'abbracci.
Con quello sguardo, innanzi a cui s'aduna
Ogni passata, ogni presente ed ogni
Futura cosa, Iddio dall'alto il mira;
E 'l tutto antiveggendo, in questi accenti
Rivolto al figlio: Unico figlio, ei dice,
Vedi tu là d'atroce rabbia acceso
Il nostro fier nemico, a cui prescritti
Sono confini invan, cui non le sbarre,
Non le catene dell'inferno tutte
E non l'interminabile frapposto
Oceano ponno rattener? Vendetta,
Disperata vendetta ei sol respira
Che più pesante sull'altera testa
Pur gli dee ricader. Da tutti i suoi
Ritegni disfrenato, ei della luce
Entro i recinti, non lontan dal cielo
Or batte l'ali ed al testè creato
Mondo s'indrizza, onde tentar se possa
D'aperta forza incontro all'uom far uso,
O con danno maggior, gl'inganni oprando,
Dal dritto calle travïarlo, e fia
Ch'ei lo travolga. A sue lusinghe orecchio
Darà l'incauto e a sue menzogne, e il solo
Divieto mio, quel pegno sol ch'io volli
D'ubbidïenza ei romperà: ribelle
A me farassi, egli e sua stirpe infida.
Colpa di chi, se non di lui? L'ingrato
Quanto aver mai potea, da me tutt'ebbe:
Giusto e retto io lo fei, vigor bastante
A reggersi gli diedi, ancor che insieme
Libertade al cader. Tali io creai
Tutti gli eterei Spiriti diversi,
Quei che fedeli a me restaro e quelli
Che mi volsero il tergo. Ognun che stette,
Libero stette, e libero pur cadde
Ognun che cadde: e qual sincera prova
Di vera lealtà, di fè, d'amore
Darmi potean, da libertà divisi?
Quello così ch'eran d'oprar costretti
Sol fora apparso, e il lor voler non mai.
Se volontade, se ragion (chè questa
Pur nella scelta sta) senz'uso e vane,
Alla necessitade ivan soggette,
Qual dal loro ubbidir merito e lode
Potean essi raccorre, io qual diletto?
Come convenne, io li creai, nè ponno
La man che li formò, la loro essenza
Giustamente accusar, qual se catena
Alla lor volontà fosse un destino
In decreto immutabile e nell'alto
Mio preveder già fisso. Essi, non io,
Decretaro il lor fallo; e s'io 'l previdi,
La previdenza mia qual ebbe parte
Nella lor colpa? Se imprevista ell'era,
Sarìa stata men certa? In guisa alcuna
Il Fato dunque e l'antiscorger mio
Non li sforzò, non mosse; e fu lor opra
Il giudizio, la scelta e la ruina.
Liberi fur color, libero al pari
È l'uomo, e tal sarà, finchè nei turpi
Lacci per sè medesmo ei non s'avvolga.
Se no, cangiar la sua natura e quello
Eterno, irrevocabile, decreto
Dovrei per esso cancellare, ond'io
D'intera libertà gli feci il dono,
E per cui vuol cader ciascun che cade.
Figlia d'orgoglio reo, di scusa indegna
La colpa fu di que' celesti Spirti
Che depravâr, sedussero se stessi;
Ma gioco è l'uom di lor maligna frode;
Quindi ei trovi mercè, mercè non mai
Trovin color. Così la gloria mia
Per giustizia e pietà fia che risplenda
In terra e in ciel, ma di più vivo raggio
Prima ed estrema la pietà rifulga.
Mentre Dio sì parlò, d'ambrosia un'alma
Fragranza il cielo tutto intorno empieo,
E de' beati eletti Spirti in seno
Novello gaudio inenarrabil sparse.
Di gloria incomparabile fu visto
Splendere il divin Figlio; e tutto in lui
Mostrarsi espresso il sommo Padre: in volto
Pietà celeste, immenso amore, immensa
Grazia gli riluceano, e, Padre, ei disse,
Oh quanto dolce ne' tuoi detti estremi
Fu la parola che il perdon promette
All'uom caduto, onde tue laudi il Cielo
Farà sonare altissime e la terra
Con inni senza fine, e fia tuo nome
Benedetto in eterno! Alfin perduto
L'uom dunque andría per sempre, ei ch'è l'estrema
Opra delle tue mani e la più cara,
Egli che cade, è ver, ma tratto e spinto
Da iniqua frode al precipizio? Ah! Padre,
Sia da te lunge un tal rigor, sia lunge
Da te che sei d'ogni creata cosa
Il giustissimo giudice. Vorresti
L'empio disegno del nemico nostro
Far dunque lieto e vano il tuo? Fia paga
La sua malizia e tua bontà distrutta?
Dunque agli abissi suoi, benchè dannato
A maggior pena, ei tornería superbo
Della presa vendetta, e seco insieme
Nell'eterno dolor trarría l'intera
Da lui corrotta umana stirpe? Adunque
Tu l'opre tue strugger vorresti, e quello
Per lui disfar che per tua gloria festi?
Ah! che la tua bontà, la tua grandezza
Altro chieggon da te. Figlio, rispose
L'onnipossente Padre, o Figlio, in cui
La sua gioia maggior trova quest'alma,
Figlio di questo sen, che sei mio Verbo
E Sapïenza ed efficace Possa,
A' miei pensieri, a' miei decreti eterni
Ogni tuo detto appien consuona. Ogni uomo
Perduto non andrà; chi vuol, fia salvo;
Non già pel solo suo voler, ma retto
Da quella grazia ond'io farogli dono
Liberamente: io le languenti forze
In lui ravviverò ch'a impure e guaste
Voglie il peccar sommesse; anco una volta
Col mio sostegno il suo mortal nemico
Affronti in pari agon, ma vegga insieme
Quant'ei sia fral senza il sostegno mio,
E senta che il suo scampo a me si debbe,
A me sol, non ad altri. Io già fra tutti
Mi elessi alcuni e di mia grazia i doni
(Fu tale il mio voler) versai sovr'essi.
Gli altri sonarsi in core udran sovente
La voce mia che dalle torte vie
Richiameralli del fallir, l'offeso
Mio Nume ad implorar, finchè sia tempo
Di grazia e di perdon. Dai ciechi sensi,
Quanto lor basti, io la caligin densa
Disgombrerò: que' duri cori a' preghi,
Al pentimento, all'obbedir saranno
Ammolliti e piegati; e a' preghi loro,
Al pentimento, all'obbedir, se schiette
Saran lor brame e lor pensier, non sorda
Avrò l'orecchia mai, non chiusi i lumi.
Dentro il lor sen la Coscïenza, il mio
Incorruttibil giudice e sicura
Guida io porrò, cui se daranno ascolto,
Luce maggior da non spregiata luce
Otterran sempre, e, in lor proposto immoti,
Usciran salvi di lor corso a riva.
Ma chi di mia pietà disprezza i giorni
E 'l mio lungo soffrir, pietà non speri:
Alle tenebre sue tenebre aggiunte
Saran, durezza alla durezza, inciampo
A inciampo, e al suo cader cadute e morte.
Solo a costor la mia pietade è chiusa.
Ma tutto ancor questo non è: sleale
L'uom, col disubbidir, rompe ogni omaggio
Ed al suo Dio tenta agguagliarsi; ei tutto
Perde così, nè via gli resta alcuna
Ad espïar suo tradimento. A morte
Con tutti i figli suoi devoto e sacro
Egli è perciò; morir ei debbe, o debbe
Mia giustizia perir, se altra non s'offra
Vittima degna e volontaria il duro
A compier sacrificio, e morte accetti
Per l'altrui morte. Or dove fia che tanto
Amor si trovi? Chi di voi, celesti
Alte Possanze, esser vorrà mortale
A salvar l'uom dal suo mortal delitto?
Qual giusto andrà per un ingiusto a morte?
V'ha in tutto il ciel chi nudra un così bello
E sì sublime affetto? Ei disse, e niuno
Degli Spirti celesti il labbro mosse;
Alto silenzio in ciel si fe': dell'uomo
Niun difensore o intercessor comparve,
E meno ancor chi la mortale ammenda
E 'l gran riscatto di recare osasse
Sul proprio capo. Or la final sentenza
D'eterno danno sull'umana stirpe
Già si compieva; e già tenean lor preda
Morte ed inferno; ma il divino Figlio,
Che del divino amor tutti rinchiude
Gli ampi tesori in seno, ecco interponsi,
E sì favella: È proferita, o Padre,
La tua parola: sì, grazia e perdono
L'uom troverà. La grazia tua che tutte
S'apre le vie, che de' tuoi messi alati
È la più ratta, e le dimande, i preghi,
Le brame anco previen, dal corso usato
Or rimarrassi? Ah! che sarìa dell'uomo,
Se tal'ella non fosse? Ei nelle colpe
Morto e perduto, unqua cercar non puote
Il soccorso di lei, nè alcun restauro
A far per sè gli resta o degna offerta,
Di tutto debitor, di tutto privo.
Eccomi dunque, io per lui m'offro, io vita
Per vita do, sulla mia testa cada
Lo sdegno tuo, m'abbi qual uom, per lui
Il sen paterno io lasciar vo', partirmi
Dalla tua destra glorïosa, e pago
Son per lui di morire: in me rivolga
Morte sua rabbia e tutta in me la sfoghi.
Non rimarrò sotto il suo buio impero
A lungo io già; tu posseder mi desti
In me medesmo sempiterna vita:
Sì, per te vivo, ancor ch'io ceda a morte,
E quanto in me potrà perir, sia tutto
Di sua piena ragion; ma poichè reso
Quel tributo le avrò, tu me sua preda
Non lascerai, nè dell'immonda tomba
Entro gli orrori soffrirai che sempre
L'alma mia pura ed immortal soggiorni.
Sì, vincitore indi alzerommi, a Morte
Torrò sue spoglie, ed il suo dardo stesso
In lei torcendo, sotto i piè porrommi
L'altera vincitrice oppressa e vinta.
Del debellato e invan fremente inferno
Io le negre Possanze alto pe' vasti
Campi dell'etra al trïonfal mio carro
Trarrò in catene, e tu, contento, o Padre,
A me sorriderai dal soglio eterno
Per la mia man del tuo vigor ripiena
Veggendo spento ogni nemico, e Morte
Del suo scheletro stesso alfin la tomba
Empiere e disfamar. Così dal largo
Stuol de' redenti miei seguìto e cinto
Farò ritomo a queste sedi alfine,
E innanzi, o Padre, a te, sul cui sembiante,
Non più si mostrerà nube di sdegno,
Ma pien perdono, inalterabil pace
E amor e gioia splenderanno eterni.
Tacque, ciò detto, ma tuttor parlava
Anco tacendo il suo soave aspetto
Tutto spirante un immortale amore
Vèr l'uom mortale, amor che vinto in lui
Dall'alto ossequio filïal sol era.
Lieto di gire al sacrifizio, i cenni
Sol del gran Padre attende. Alto stupore
Tenea sospeso il ciel che i detti arcani
Non comprendea; ma senza indugio il sommo
Padre così soggiunse: O tu, che sei
Mio sol diletto, o tu, che in cielo e 'n terra
Resti al genere uman caduto in ira
Unica pace, unico asil, tu sai
Quanto a me l'opre mie tutte sian care;
E se l'uom, benchè estrema, ancor mi sia
Caro d'ogn'altra al par, mentr'io consento
Che tu dalla mia destra e dal mio seno
T'allontani per esso, onde un tal poco
Io te perdendo, la perduta intera
Sua stirpe salvi. A tua natura dunque
Quella di lor congiungi, i quai tu solo
Redimer puoi. Sovra la terra scendi,
Sii fra gli uomin laggiuso uomo tu stesso,
Con portentoso nascimento umana
Carne vestendo entro virgineo grembo,
Quando fia tempo; e dell'uman lignaggio
Capo e padre sii tu, d'Adamo invece,
Benchè figlio d'Adam. Com'essi a morte
Van tutti in lui, sì richiamati a vita,
Qual da nuova radice, in te saranno
Tutti color che otterran scampo, e niuno
L'otterrà senza te. Nel suo delitto,
D'infetto tronco infetti rami, involti
Son tutti i figli suoi; tuo merto quindi
Riparator sopra ciascun si stenda
Che l'opre ingiuste sue per te rifiuti,
Per te le giuste ancora; egli riceva,
Rigermogliando in te, vita novella,
Quasi in novello suol trasposta pianta.
Così ciò che l'uom dee, l'uom fia che paghi:
(Giusta ragion il vuole) a sua sentenza
Ei soggiaccia così, mora, risorga,
E, risorgendo, i suoi fratei che a prezzo
Di sua vita scampò, seco pur levi.
Sarà in tal guisa dal celeste amore
L'infernal odio vinto, ancor che troppo
Nobile e prezïosa ostia ripari
Quanto l'inferno per sì facil via
Distrusse e ancor distrugge in lor che sordi
Stan della Grazia all'amoroso invito.
Nè mentre tu dell'uom l'umil natura
In te rivesti, la tua propria e diva
Abbasserai perciò. Se lasci il trono,
Su cui tu siedi eguale a me, se lasci
Questa celeste gloria e questa eterna
Perfetta gioia, dagli estremi danni
Così tu salvi il condannato mondo;
E così, figlio mio, per proprio merto
Assai di più che per natío diritto
Ti mostrerai: la tua bontà sublime,
Più che la tua grandezza, al grado eccelso
Egual t'attesterà: maggior l'amore
Fu che la gloria in te; quindi fia teco,
Mercè tanta umiltà, la stessa ancora
Umanitade tua quassuso alzata,
Ed incarnato sederai su questo
Soglio medesmo, Uom Dio, prole divina
E umana insiem, Re universal dell'almo
Licore asperso della sacra oliva.
Ogni poter ti do, tuoi merti assumi,
Eterno impera, a te soggetti sono,
Come a supremo Sir, Principi e Troni,
Possanze e Regni. Quanto in cielo e 'n terra
E nel profondo tartaro soggiorna,
A te dinanzi incurverassi umìle;
E un giorno alfin verrà che intorno cinto
Di queste empiree squadre, in mezzo al cielo
Apparirai; di là tuoi messi alati
Dell'apprestato tribunal tremendo
Andran l'avviso ad arrecar: repente
I vivi tutti e tutti insiem gli estinti
D'ogni trascorsa età (tal suon dal lungo
Sonno fia che li scuota!) al tuo cospetto
La sovrana ad udir sentenza estrema
S'affretteran da tutti i punti a un tempo
Del costernato mondo. In mezzo all'ampio
Stuolo de' Santi tuoi gli Angeli rei
E i rei mortali il gran giudizio udranno
Che lanceralli entro l'abisso: allora
Sazio sarà l'inferno e le sue porte
Chiuse per sempre. Immense fiamme intanto
La terra, gli astri, ogni creata cosa
Alla tua voce struggeran, ma tosto
Dalle ceneri lor novella terra,
Novello cielo sorgeran più belli.
Ivi gli Eletti tuoi faran dimora,
E, dopo i lunghi tollerati affanni,
Aurei giorni vedran d'auree fecondi
Giustissim'opre e trïonfar tra loro
Amor e gioia e veritade e pace.
Tu allor porrai da canto il regio scettro;
Chè più non n'avrai d'uopo, e tutto in tutti
Iddio sarà. Voi, divi Spirti, intanto
Innanzi a lui che ad eseguir la grande
Impresa muor, prostratevi, ed onore
Eguale al genitor riceva il figlio.
Così dicea l'Onnipossente, e tutti
Gli Angeli allor d'un alto e dolce plauso,
Qual vien da immenso stuolo e da soavi
Beate voci, empiero il cielo, e lungi
Echeggiar fe' l'eterne sedi un lieto
Osanna glorïoso. Ai troni augusti
Profondamente ognun s'inchina e al suolo
Riverente ed umìl la sua depone
Aurea corona d'amaranto intesta,
D'amaranto immortal purpureo fiore
Che all'arbor della vita in Paradiso
Già cominciava a germogliar vicino;
Ma pel fallo dell'uom trasposto venne
In ciel ben presto ov'esso nacque in prima.
Ivi or cresce e s'infiora e della vita
Alto adombra la fonte e i campi, dove
Per mezzo al cielo il fiume della gioia
Più dell'elettro limpide e fragranti
L'onde sue placidissimo rivolge.
Di quei sempre vivaci eletti fiori
Si fan corona alle splendenti chiome
I divi Spirti, e ricoperto allora
Di tanti sparsi serti il suol celeste,
Simile a un mar di fulgido diaspro,
Ridea vermiglio e fiammeggiante intorno
Di quelle porporine eteree rose.
In fronte quindi si ripongon tutti
Le lor ghirlande, e l'arpe d'ôr lucenti
Che pendon loro quai faretre a lato,
Recansi in mano, arpe accordate ognora,
E discorrendo con maestre dita
Le corde in pria, preceder fanno al canto
Soave sinfonìa ch'erge a sublime
Estasi l'alme: indi dell'arpa al suono
Ciascun la voce accoppia, e non è voce
Che discordi lassù dove suprema
In tutto regna consonanza eterna.
Te in pria cantaro, onnipossente Padre,
Infinito, immutabile, immortale,
Eterno Re, te creator del tutto
Che se' fonte di luce e nell'immensa
Luce medesma che t'avvolge il soglio
Eccelso, inaccessibile, t'ascondi
Impenetrabilmente, e quando ancora
Con nube stesa intorno intorno, quasi
Tabernacol fiammante, adombri il pieno
Fulgór de' raggi tuoi, da' lembi estremi
Scintilli sì che tutto abbagli il cielo,
Nè da vicin può Serafino alcuno
Il lampo sostener che fuor ne sgorga,
Ma fa con ambe l'ali agli occhi un velo.
Indi a te, divin Figlio, a te, divina
Rassomiglianza, fu rivolto il canto,
A te che pria d'ogni creata cosa
Genito fosti, a te nel cui sembiante
Visibil fatto, senza nube splende
Il sommo Padre, in cui non può per altra
Guisa affisarsi occhio creato alcuno.
Dalla sua gloria in te l'ardente lume
Impresso sta, trasfuso in te riposa
L'ampio suo Spirto: egli de' cieli il cielo,
Egli per te le angeliche Possanze
Tutte creò, per te lo stolto orgoglio
Delle perverse ammutinate squadre
Traboccò negli abissi; in quel gran giorno
Di sue tremende folgori ministro
Fu il possente tuo braccio, e tu le vive
Del fero carro sfavillanti rote
Che l'eterna scuoteano empirea mole,
Sulle cervici a' rovesciati Spirti
Terribile aggirasti. Al tuo ritorno
Piene di gioia le fedeli schiere
Alto levár solenne plauso, e figlio
Te celebràr della paterna possa,
Te su i paterni perfidi nemici
Aspro vendicator; ma tal sull'uomo
No, non sarai. Di scellerato inganno
Vittima cade questi, onde tu, sommo
Padre di grazia e di mercè, temprasti
Coll'infelice il tuo rigor severo
E pendesti al perdon: ti scorse in volto
Di giustizia e pietà la gran contesa
L'unico tuo diletto Figlio e pronto
A finirla s'accinse. Ei dall'eterna
Gloria del ciel discende, ei s'offre a morte
Per l'umano fallir. Oh amor sublime!
Oh amore incomparabile, che solo
Nel sen d'un Dio può ritrovarsi! Salve,
O gran Figlio di Dio, salve, del guasto
Genere uman riparator possente;
De' nostri canti ampio suggetto ognora
Sarà tuo nome, ognor sull'arpe nostre
Suoneranno tue laudi, e mai da quelle
Del Padre tuo non suoneran disgiunte.
Così ne' regni di eterna luce
Essi spendeano in gioia e in dolci canti
L'ore beate. Sulla salda intanto
Del rotondo Universo opaca vôlta
Ch'ogni altra inferïor lucente sfera
In sè rinchiude e del Caosse affrena
E delle antiche Tenebre gli assalti,
Satán scende e passeggia. Un picciol globo
A lui parea da lunge, or terra immensa
Gli sembra, oscura, desolata ed erma;
Severo ciel che sotto il torvo aspetto
Di notte senza stelle ognor si giace,
E del Caosse che d'intorno freme
Sempre esposto al furor. Solo in quel lato
Che del ciel guarda le lontane mura,
Per l'aere da' furenti orridi nembi
Meno percosso, un fioco lume ondeggia.
Quivi l'iniquo Spirto in largo campo
Spazia a grand'agio, ed avoltoio sembra
Che là cresciuto ove il nevoso Imao
L'argine oppon degli ammontati ghiacci
Al vago Scita, dalla trista terra
Scarsa di preda sloggia e via sen vola
Di pingui agnelli e di capretti in cerca
Su per li colli ove le greggie han pasco,
Ver le fonti del Gange o dell'Idaspe
Dirizzando il cammin, ma scende intanto,
Stanco dal lungo vol, sugli arenosi
Campi di Sericana, ove sì destro
Guida il Cinese i suoi di canna intesti
Leggieri carri con le vele e 'l vento,
Che scorrer sembra il mar. Così Satáno,
Sovra quel suol simíle a mar ventoso,
Tutto anelante alla sua preda e solo
Su e giù cammina. Tutto solo egli era;
Chè là vivente o inanimata cosa
Non si trovava ancor, ma poscia allora
Che l'opre de' mortali ebbe la Colpa
Piene di vanità, lassù volaro,
Come aerei vapori, in larga copia
Le cose di quaggiù fugaci e vane.
Quest'orbe tenebroso in suo passaggio
Il reo Spirto rinvenne e a lungo errando
Per esso andò, ma un fil di dubbia luce
Tremolando improvviso a sè gli stanchi
Suoi passi in fretta volse. Ei lungi scopre
Superba mole che alle mura ascende
Del ciel per gradi splendidi e infiniti:
Ad essa in cima qual di regio tetto
Un'ampia porta appar, ma ricca e vaga
Oltr'ogni paragon, con fronte adorna
D'oro e diamanti: folgorava tutto
D'orïentali folte gemme intesto
Il grand'arco che in terra ingegno alcuno
Nè in rilevate, nè in dipinte forme
Solo adombrar non mai potrìa. Simíli
Eran le scale rilucenti a quelle,
Per cui, fuggendo la fraterna rabbia,
Sotto il notturno aperto ciel disteso
Là nel campo di Luza il buon Giacobbe
Discendere e salir fulgidi stuoli
D'Angeli vide in sogno e nel destarsi,
Quest'è, gridò, quest'è del ciel la porta.
In ogni grado alto divin mistero
Si nascondea, nè stettero là sempre
Immoti già, ma tratti in ciel talora
Fur da invisibil mano. Un luminoso
Mar di liquide perle o di diaspro
Al di sotto scorrea, su cui gli Eletti
Che varcâr poi di terra ai seggi eterni,
Fêro in braccio degli Angioli tragitto,
O fur rapiti da corsier di foco
Oltre quell'onde in su volante carro.
Giù la gran scala era calata allora,
O perchè dall'agevole salita
Lo Spirto reo fosse tentato, o a fargli
Sentir più crudo il sempiterno esiglio
Dalle beate porte. Incontro ad esse
Aprivasi di sotto in ver la terra
Un ampio varco che al felice appunto
Sito dell'Eden rispondea, più largo
Varco di quello assai che sul Sionne
E la promessa terra a Dio sì cara
Fu schiuso poscia, e per lo qual sovente
Gli spediti quaggiù celesti messi
A visitar quelle tribù felici
Venir soleano e ritornare, e Dio
Di là dove il Giordan l'origin prende
Fin dell'Arabia e dell'Egitto ai lidi.
L'amoroso stendea vigile sguardo.
Sì largo era quel varco, ove fur fissi
I confini alle tenebre, siccome
Del mare all'onde. Ivi Satán s'arresta,
E dal grado più basso, onde alla soglia
Del ciel conduce l'aurea scala, il guardo
In giù volgendo, ad un sol punto scopre
L'intero mondo, e all'improvvisa vista
Attonito riman. Così guerriero
Esplorator che per deserte e buie
Vie tutta notte andò fra rischi errando,
Sul ciglio alfin d'un erto monte asceso
Allo spuntar del mattutino albôre
S'arresta e guata, e di repente amene
Straniere terre in lontananza scorge
Non prima viste, ampia città famosa,
E splendenti palagi e torri eccelse
Che del sorgente sole il raggio indora.
Con tal stupor, sebbene al cielo avvezzo,
Va contemplando quel maligno Spirto
Quest'Universo; ma più forte il punse
Invidia ancor quando sì bello il vide.
Tutto per ogni banda egli lo spia
(E bene il può di là dove sublime
Sovrasta al fosco spazïoso manto
Che la notte distende in vasto giro)
Dal punto Oriental di Libra infino
Al velloso Monton che lungi porta
Oltre orizzonte per le atlantich'onde
Andromeda lucente. Indi col guardo
L'ampiezza tutta dall'un polo all'altro
Ei ne misura, e vêr le prime piagge,
D'indugio impazïente, in giù si lancia
Con vol precipitoso. Obliquo ei torce
Pel candid'aere puro il facil corso
Fra globi innumerabili che stelle
Paion da lunge e davvicin son mondi,
Vasti mondi, o felici isole amene
Simili a quegli Esperidi giardini
Sì rinomati un dì, beati campi,
Lieti boschetti, dilettose valli
Di fior vestite, e ben tre volte e quattro
Isole fortunate. Ei via trascorre,
E quai ne sien gli abitator felici
Non s'arresta a cercar; ma l'aureo sole,
Che più del ciel l'immensa luce imita,
Sovra ad ogn'altra stella a sè richiama
Lo sguardo suo: colà rivolge il corso
Pel firmamento placido (se in alto,
Ovvero in basso, o presso il centro, o lungi,
Chi 'l potría dir?) dove la nobil lampa
Lungi dal folto popolo degli astri
Che in convenevol lontananza stanno
Dall'occhio suo sovran, loro dispensa
Il tesor de' suoi rai. Con ordin vario,
Ma immutabile ognor ne' varj moti,
Al suo rallegrator lume d'intorno
La mestosa lor veloce danza
Menano quelli, e i giorni, i mesi, gli anni
Misuran seco; e forse in giro mossi
Son de' suoi rai dall'attraente forza
Che dolce scalda l'Universo e dolce
Ogni lontana e più riposta parte
Penetra e scuote coll'arcano ed almo
Foco sottil: sito ammirabil tanto
Fu fisso all'orbe animator del mondo!
Colà Satáno approda, e macchia pari
A quella ond'egli il lucid'astro adombra,
Sguardo mortal d'ottici ingegni armato
Forse giammai non vi scoperse: il loco
Egli trovò sopra ogni dir lucente,
E molto più che non rifulge in terra
Terso metallo o gemma. Ogni sua parte
Non è simìl, ma sfolgorante e piena,
Come di foco è pien rovente ferro,
D'egual lume è ciascuna. Oro là sembra,
Qua purissimo argento: ivi il fulgóre
Del crisolito imíta, o del rubino,
O del topazio, o del carbonchio; o quello
Dei dodici gioielli, onde d'Aronne
Il sacro petto fiammeggiava adorno;
Nè il nostro immaginar pinge sì bella
Quella mirabil pietra, a cui rivolto
Fu de' creduli Sofi invan tuttora
Lo studio ed il sudor, sebben in ceppi
Il fuggevole Erméte a por sia giunta
La lor arte possente, e su traendo
Dal marin fondo il vecchio Proteo sciolto
In varie guise ognor, stringerlo sappia
A ripigliar per vitrea angusta doccia
La sua forma natìa. Mirabil cosa
A chi dunque sarà, che spirin quivi
Puro elisir le regïoni e i campi,
E volgan aurei flutti i fonti e i fiumi,
Quando col tocco del sovrano raggio
Che nel terrestre umor s'infonda e mesca,
Il sol da noi sì lunge, in queste basse
Tenebre può produr tante e sì rare
Cose ammirande, e trasformar l'impuro
Loto in raggianti prezïose gemme?
Nulla abbagliato da cotanta luce,
Quivi d'alto stupor spettacol novo
Trova il maligno Démone, e col guardo
Ch'ombra od intoppo non incontra, tutti
Signoreggia dell'aere i campi immensi.
Come dal sommo vertice del cielo,
Colà dove la notte al dì s'adegua,
In sul meriggio a noi diritti vibra
Quel pianeta i suoi rai, dritti lassuso
Così li manda ognor per vie disgombre
D'ogni opaco ritegno, e l'eter puro,
Qual non è altrove, di Satán gli sguardi
Aguzza e guida ai più lontani oggetti.
Un Angel glorïoso a un tratto ei scorge,
Quell'Angelo medesmo ivi dipoi
Da Giovanni veduto: egli a Satáno
Volgea le spalle, ma il celeste lume
Non cela già che lo riveste; intorno
Gli sfavilla alla fronte aurea tïara
Intesta de' più puri eletti raggi,
E mollemente sull'alate spalle
Gli ondeggia sparso il folgorante crine.
Fisso in pensier profondo, ad alto incarco
Intento egli parea. S'allegra allora
Lo Spirto reo che ritrovato alfine
Spera d'aver chi all'Eden drizzi il suo
Errante volo, alla felice sede
Dell'uom, che al lungo suo viaggio è meta,
E principio sarà de' nostri affanni.
Ma per fuggire indugio o rischio, in pria
Cangiar la propria in altra forma ei pensa;
E tosto un Cherubin leggiadro e vago,
Ma non dei primi, ei si dimostra: in volto
Fresca gli ride gioventù celeste,
E concorde si sparge in ogni membro
Grazia e decoro. Il menzogner sembiante
Nulla smentisce in lui; vezzoso serto
Gli orna le tempie, ed alle gote intorno
Gli scherzano ravvolti in vaghe anella
I biondetti capelli; ali ha sul tergo
Di sparse d'oro variopinte penne;
Succinto e lieve è il suo vestir, e innanzi
A' composti suoi passi argentea verga
Ei stringe in man. Pria d'appressarsi, udito
Dall'Angel fu che il luminoso volto
Tosto a lui volse e manifesto apparve
L'Arcangelo Urïele, un di que' sette
Che, più vicini al solio dell'Eterno,
Stanno pronti a' suoi cenni, ed occhi suoi
Son quasi, che de' cieli e della terra
Le vaste piagge rapidi scorrendo,
Van sul suolo a portare, o van sull'onda
I suoi decreti. A lui Satán s'appressa
E così gli favella: O tu che sei
Uno, Urïele, di que' sette Spirti
Che vestiti di gloria innanzi al trono
Stan dell'Onnipossente, e per l'eccelse
Sfere interpetre sei, sei messaggiero
Di quell'alto voler che i figli suoi
Umili aspettan dal tuo labbro, e forse
Per supremo decreto egual onore
Or godi qui d'ir visitando attorno
Queste nuove da lui create cose,
A te ricorro. Ardente brama il petto
Di veder, di conoscere m'infiamma
Quest'opre sue stupende, e, più ch'ogni altra,
L'uomo, dell'amor suo, del suo favore
Oggetto singolar, l'uomo, per cui
In sì mirabil ordine ei dispose
Quest'Universo. Un tal desìo mi trasse
Così soletto a errar lungi dal coro
Degli altri Cherubini; ah! tu m'insegna,
Inclito Serafino, in qual di questi
Splendidi mondi stabilita all'uomo
Sia la dimora, o se dimora alcuna
Fissa ei non abbia ed in ciascuno scerre
La possa a grado suo. Fa ch'io trovarlo
Ed in segreto o apertamente io possa
Di lui goder la vista, a cui sì largo
Fu il sommo Creator di grazie tante
E liberale donator di mondi.
Così potrem nell'uom, come in ogn'altra
Cosa, esaltar quel Facitor sovrano
Che al fondo dell'inferno i suoi ribelli
Spinse a ragione, e a ripararne il danno
Questa nuova creò felice stirpe
Che più fedel gli fia. Sagge son tutte
L'opre e i disegni suoi. - Così quel falso
Angel parlò, nè il ben celato inganno
Urïel discoprì; chè dato ad uomo
O ad Angelo non è scorger la chiusa
Intenebrata Ipocrisia, quel solo
Mal che nascoso ad ogni sguardo, e chiaro
Soltanto a quel di Dio che andar lasciollo,
Della terra e del ciel le vie trascorre.
Così sovente la Prudenza ancora
Sta vigilante invan, spesso il Sospetto
Sulle soglie di lei s'acqueta e dorme,
E 'l proprio posto inavveduto cede
Alla semplicità che al mal non pensa
Dove niun male appar. Da sua bontade
Così il rettor del sol, quell'Urïele
Ch'ha sovr'ogn'altro Spirito del cielo
Acuto il guardo, nell'inganno è tratto;
E del suo schietto cor seguendo i moti,
Al frodolento infignitor maligno
Cotal risposta diede: Angel vezzoso,
Questa tua brama che a conoscer l'opre
È rivolta di Dio perchè s'esalti
Ognor più la sua gloria, anzi che biasmo,
Lode ben merta; e più di pregio è degno
Quanto più vivo è quello zel che spinto
T'ha sì lontan dal tuo celeste seggio
In questi lochi e così sol, co' tuoi
Occhi medesmi ad ammirar quel ch'altri
Forse d'udir per fama in ciel s'appaga.
Ah! degne inver d'altissimo stupore,
Degne che in lor sempre il pensier s'affissi,
Son l'opre di sua mano e viva fonte
Di puro soavissimo diletto.
Ma qual creata mente abbracciar puote
L'infinito lor numero o 'l profondo
Sapere investigar che fuor le tragge
Dal nulla e le alte lor cagioni asconde?
Presente io fui quando la massa informe
Della rude materia in groppo unita
Apparve; umile il Cao sua voce intese,
S'acchetò dell'abisso il fier muggito,
E Immensitade ebbe confini: il labbro
Egli di nuovo aperse e di repente
Fuggissi il buio, sfolgorò la luce,
E dal disordin fuor l'ordine surse.
L'acqua, la terra, l'aere, il foco allora
Ch'eran fra sè ravviluppati e misti,
Ai varj posti lor corser veloci;
E l'eterea del ciel sustanza pura,
Di varie forme impressa, in su volando
In giri si ravvolse, e gli astri, questo
D'ardenti faci innumerabil coro,
Venne a compor, qual vedi; e ognun suo loco,
Ognun suo corso ebbe prescritto. Il resto
In cerchio immenso la gran vôlta e 'l muro
Formò dell'Universo. Or gli occhi abbassa
A quel globo laggiù che a noi rimanda
Parte del lume che di qui gli piove
Sul lato incontro a noi; la terra è quella,
Dell'uom la sede, e quella luce è il giorno
Che la rischiara. Ora la notte abbuia
L'altro emisfero suo, ma la propinqua
Luna (così quell'altra stella ha nome)
Coll'improntato suo fulgor le presta
Opportuno soccorso, ed alternando
Il mensual suo giro, ora di luce
Empie ed or vôta il suo triforme aspetto;
E così della notte il fosco impero
Sopra la terra scema. Or gli occhi porgi
A quella macchia che colà t'addito:
Il soggiorno d'Adam, l'Eden è quello,
E quell'alte ombre il suo ritiro. Vanne;
Il tuo cammino errar non puoi: conviensi
A me seguire il mio. Ciò detto, altrove
L'Angelo si rivolse. A lui Satáno
Profondamente s'inchinò, qual suole
Spirto minore a maggior Spirto in cielo,
Ove dovuta riverenza e onore.
Niun mai trascura: indi affrettato e spinto
Dalla sua speme, in molte aeree ruote
In vêr la costa della bassa terra
Precipita il suo volo, e del Nifate
In sull'alpestre vetta alfin si cala.