JOHN MILTON

Traduzione di
LAZZARO PAPI



IL PARADISO PERDUTO


LIBRO QUARTO


Satáno, alla vista dell’Eden e del luogo ove si propone di eseguire l’audace suo disegno contro Dio e contro l’uomo è agitato da molti dubbj e da molte passioni, dal timore, dall’invidia, dalla disperazione; ma alfine si conferma nel male e si avanza verso il paradiso, del quale si descrive l’esterno prospetto e il sito. Egli supera tutti gli ostacoli e si posa in forma di smergo sull’albero della vita, il più alto di tutti per ispiare all’intorno. Descrizione del giardino. Satáno vede per la prima volta Adamo ed Eva; riman preso da maraviglia alla nobiltà delle loro sembianze ed alla felicità del loro stato, ma persiste nella risoluzione di procurare la ruina loro; sta ad ascoltare i lor discorsi, ne raccoglie ch’era loro vietato sotto pena di morte il mangiare del frutto dell’albero della Scienza, e disegna di fondare sopra un tale divieto la sua tentazione e sedurli alla disubbidienza. Differisce il suo proponimento al fine di informarsi meglio del loro stato per qualche altro mezzo. Intanto Uriele, scendendo sopra un raggio del sole, avverte Gabriello, a cui era affidata la guardia delle porte del paradiso, che qualche malvagio Spirito erasi fuggito dall’abisso, ch’egli era passato verso l’ora del mezzodì per la sua sfera sotto le forme d’un Angelo beato; che di là era disceso verso il paradiso, e che i suoi gesti furiosi sul monte lo avevano scoperto. Gabriello promette di trovarlo prima del nuovo giorno. Adamo ed Eva trattengonsi parlando insieme, e alla fine del dì si ritirano a riposo nel loro albergo. Descrizione di questo, e loro preghiera della sera. Gabriello ordina di far la ronda agli Spiriti ch’eran di guardia, e invia due Angeli verso l’albergo di Adamo per timor che il maligno Spirito non tenti qualcosa contro i nostri primi padri mentre dormono. È trovato all’orecchia d’Eva occupato a tentarla in un sogno, ed è condotto a Gabriello. Risponde con orgoglio e ferocia e si prepara al combattimento, ma intimorito da un segno che appare in cielo, se ne fugge dal paradiso.









Dove ah! dov'è quella pietosa e fera

Voce che l'Inspirato udìo di Patmo

Dal profondo del ciel tonare un giorno

«Guai della terra agli abitanti» allora

Che, di nuovo sconfitto, a far scendea

Furibondo il Dragon le sue vendette

Sopra l'umana stirpe? Oh! perchè avviso,

Finchè n'è tempo ancora, ella non porge

Ai nostri primi sventurati padri

Del lor vicin nemico, onde i mortali

Schivar agguati suoi potesser forse?

Di rabbia acceso ecco Satán discende,

Pria tentator e accusator dipoi,

La prima volta in terra, e 'l suo furore

Per la perduta pugna e per l'orrenda

Caduta sua vien a sfogar sul frale

Uomo innocente; ei vien, ma benchè tanto

Intrepido da lunge, or non ritrova

Pei vinti rischi e pel suo presto arrivo

D'allegrarsi ragion. L'atro disegno,

Presso a scoppiar, nello sconvolto petto

Gli si raggira e bolle e 'l proprio fabbro

Si ritorce a colpir, come guerriera

Macchina fulminante indietro balza,

Mentre dal seno il tuon scaglia e la morte.

Dubbio, terror tutti confonde e mesce

I suoi pensier: d'inferno uscito invano

Egli è, l'inferno ha in cor, l'inferno intorno

Pertutto egli ha, nè per cangiar di loco

Al circondante orror più che a sè stesso

Può un sol passo involarsi. Il già sopito

Suo disperar di coscïenza al fero

Grido or si sveglia, e la mordace idea

Di quel ch'ei fu, di quel ch'egli è, di quello

Che in avvenir sarà, delle più gravi

Pene che sempre a maggior colpe aggiugne

La giustizia infallibile del cielo,

L'ange e spaventa. I dolorosi sguardi

All'Eden che fiorito e fresco e vago

Gli s'appresenta, or ei rivolge, ed ora

Al cielo, e al sol che in cima arde e lampeggia

Dell'alta sua meridiana torre;

Quindi così del cor l'ambascia cupa

Esalò sospirando: O tu, che cinto

Di tanta gloria, spazïando vai

Solo Signor lassù, che sembri Nume

Di questo nuovo mondo, e in faccia a cui

La scema fronte ogn'altra stella asconde,

Mi volgo a te, ma non con voce amica

Io già mi volgo, ed il tuo nome aggiungo,

O sol, per dirti in qual dispetto io m'abbia

I raggi tuoi che mi rammentan quale

Fosse il grado ond'io caddi, e la tua spera

Quant'io di gloria e di splendor vincessi.

Oimè! da quale stato un cieco orgoglio

Precipitommi! Io contro il re del cielo,

Io contro lui che paragon non ave,

Osai levar lassù la fronte e l'armi?

E perchè mai? No, tal ricambio invero

Ei non mertò da me, da me che a tanta

Altezza avea creato, ei che i suoi doni

Non mai rimproverò, che lievi e dolci

Servigi sol chiedeva, animo grato

E sacre laudi. E qual men grave omaggio

E qual più giusto? Eppur maligno tosco

Furo al mio core i benefici suoi,

E sol dier di nequizia orrido frutto.

Innalzato cotanto, a sdegno io presi

Lo star suggetto; un sol varcato passo

Credei che fatto a lui m'avrebbe eguale,

E il pondo insofferibile di mia

Riconoscenza per le grazie, ond'egli

Ognor mi ricolmava, a un tratto scosso

Avrei così da me; nè seppi allora

Che un grato cor, mentre confessa il dono,

Più debitor non è. Qual era dunque

Il mio gravoso incarco? Ah! se locato

Egli m'avesse in men sublime seggio,

Felice ancor sarei, nè spinte avrebbe

Una sfrenata ambizïosa speme

Sì lungi le mie brame. E se qualch'altro

Al par di me possente Angelo osava

Tentar la stessa impresa e me con seco

A sua parte traea? Ma che! son forse

Cadute altre Possanze a me simili,

E ferme e fide non si serban contro

Ogn'inganno, ogni assalto? Al par di quelle

Libera volontà fors'io non ebbi

Ed ugual forza? Ah! sì. Di che mi lagno

Dunque? Chi dunque accuserò? Quel Dio

Che fu d'eguale amor, di doni eguali

Largo con tutti? Maledetto dunque

Quell'amor e quei doni, a me, del pari

Che il feroce odio suo, cagion fatale

D'interminabil duolo; anzi in eterno

Maledetto io medesmo, il cui volere,

Contro il voler di lui, libero scelse

Questa ch'or merto e provo acerba sorte.

Dove, misero me! dove sottrarmi

All'immensa ira sua? Dove allo stesso

Mio furor disperato? Ovunque io fugga,

Trovo l'inferno, anzi del core in fondo

Meco lo porto: ivi un più cupo abisso

Di quell'abisso atroce in cui m'ha spinto

Il mio delitto, si spalanca, e tanto

Lo supera in orror che bello e dolce

L'inferno stesso è al paragone. Ah! cedi,

Cedi, Satáno, alfin. Che! loco alcuno

Al pentimento ed al perdon non resta?

No, se sommesso in pria, se umìl... Che dico?

Umil, sommesso io mai? Qual onta! Ah! furo,

Fra quei Spirti laggiù da me sedotti,

Ben altro fur le mie promesse e i vanti.

Io che l'Eterno a rovesciar dal solio

Bastante m'affermai, potrei fra loro

Servo e di servitù nunzio tornarmi?

Oimè! ch'essi non san quanto una vana

Mi costi ombra di gloria! essi non sanno

Fra quali angosce internamente io gema,

Mentre da lor sull'infernal mio solio

Adorato m'assido! A me che giova

Scettro e corona, se più ch'altri appunto

Io ruino perciò nel cupo centro

Di tutte le miserie e son supremo

Sol negli affanni? O ambizïon, son queste

Le gioie tue? Ma se a pentirmi ancora

Scender potessi, e col perdono il mio

Racquistar primo stato, i sensi alteri

In me rigermogliar quella grandezza

Non faría tosto, e tutto aver a sdegno

Quanto giurò mendace ossequio? I voti

Che duolo e forza mi svellea dal labbro,

Quai nulli e vani la cangiata sorte

Tutti terrebbe. No, rinascer vera

Amistade in quel cor non può giammai,

In cui d'odio mortal fur sì profonde

Ferite impresse. A più fatal caduta

Io sol risorgerei, la breve tregua

A prezzo d'addoppiati aspri tormenti

Solo comprata avrei. Ben sallo il mio

Sagace punitor che a darmi pace

Tanto avverso è perciò quant'io mi reco

A dispetto il cercarla! Or ecco, invece

Di noi cacciati in crudo esiglio indegno,

Ecco creato l'uom, tenero oggetto

Delle sue cure; ecco d'un mondo intero,

Liberal largitor, gli ha fatto il dono.

Fuggi dunque, o speranza, e tu con essa

Fuggi, o timor, da questo sen; fuggite,

Vani rimorsi miei; per me in eterno

È perduto ogni ben: tu solo, o male,

Sii mio sol bene omai; per te diviso

Col re del cielo almen tengo l'impero,

E più che la metà saprò fors'anco

Occuparne per te. Vedrai bentosto,

Uomo odïato, e tu, novello mondo,

La possa di Satán. - Mentr'ei sì parla,

Fera procella gli dibatte il core,

E un lurido pallor d'invidia e rabbia

E disperazïon gl'infosca il volto

A vicenda tre volte. Ad ogni sguardo

Le scompigliate sue mentite forme

Lo avrìen scoperto: chè sereni e sgombri

Da sì sconce tempeste il cor, la fronte

Hanno i Celesti ognor. Lo avvisa ei tosto,

E, artefice di fraude, appiana e copre

D'esterna calma ogni tumulto interno.

Egli il primiero fu che l'alma fella

D'aspra vendetta covatrice ascose

Sotto dolci sembianze. Esperto tanto

Non è però che ad Urïele accorto

Far possa inganno. In suo cammin coll'occhio

Egli seguillo, e sull'Assirio monte,

Più ch'a beato Spirto avvenga mai,

Disfigurato il vide. I gesti feri

Di lui che allora inosservato e solo

Colà credeasi, il torbid'occhio ardente

E 'l portamento furibondo e folle

L'Angel scôrse e notò. Così Satáno

Suo cammin segue e a' fortunati campi

Dell'Eden s'avvicina. Un verde giro

D'argine rustical cinge la vasta

Pianura stesa in cima ad erto monte,

Che di pungenti vepri e d'alti e densi

Rovi tra lor confusamente attorti

Ispidi ha i lati e d'ogni parte il varco

Impenetrabil fa. Gli abeti, i pini,

L'eccelso cedro e la ramosa palma

Torreggian sopra, e sull'agreste scena

Stendon lunghissim'ombra; e quanto il colle

Più si solleva, alte ognor più spargendo

L'ombre sull'ombre, un boschereccio, altero

Maestoso teatro offrono al guardo.

Ma più ancor di lor cime il verdeggiante

Muro del Paradiso in alto sorge,

E al nostro primo padre ampio prospetto

Dei sottoposti spazïosi regni

Presenta d'ogn'intorno. Oltre quel muro

Disposti in giro ergono al ciel le sempre

Chiomanti braccia i più fecondi e belli

Arbori carchi de' più dolci frutti.

Sul ramo stesso ivi matura e spunta

Insieme il frutto e 'l fior, ambi d'un vivo

Aureo colore, a cui del par lucenti

Si mescono mill'altri; e il sol più lieto

Co' ripercossi rai vi splende e scherza

Che in vaga nube a sera, o nell'acquosa

Iride bella quando ha sparsa Iddio

La pioggia sulla terra. Amabil tanto

È quel beato suol! Ride pertutto

Soave primavera, ognor più puro

Spira quell'aere a chi s'appressa, e tale

Un almo infonde avvivator conforto

Che può dal cor, se non uscì di speme,

Ogni affanno sgombrar. Gentili aurette

Le leggiere scotendo ali fragranti

Spandon pertutto i loro profumi, e sembra,

Che voglian dir coi lor susurri il loco

Donde involâr quelle odorose prede.

Come al Nocchier ch'oltre gli estremi Cafri

Veleggia, e Mozambico ha già varcato,

Il vento aquilonar dalle felici

Arabe spiagge odor Sabei tramanda,

Ond'egli preso da diletto allenta

Il suo cammino, e 'l vecchio Oceano stesso

Per ampio tratto si rallegra e ride:

Così allettato era il malvagio Spirto

Da quell'alme dolcezze, ei che venìa

Del suo veleno ad infettarle. A tardi

Passi e pensoso, di quell'erto colle

Giunto all'aspra salita egli era omai,

Quando per varcar oltre alcun sentiero

Più non appar; di così folti ed irti

Cespugli e dumi un'aggroppata selva

Impenetrabil s'opponea. Restava

Sola una porta dall'opposto lato

Vêr l'Orïente: videla il fellone,

Ma la sdegnò superbamente, e ratto

Oltre la ripid'erta e l'alto muro

Spiccò d'un salto e sovra i piè leggieri

Nel bel loco balzò. Qual lupo spinto

Da cupa fame a ricercar di preda

Novelle tracce, erra qua e là spiando

Ove i pastor nelle di vinchi inteste

Lor chiuse a sera di raccor son usi

Il sazio gregge, e con agevol lancio

Sopra la fratta, furibondo, ingordo

Nel recinto si scaglia; o qual notturno

Ladro che all'arca per molt'oro grave

D'un ricco cittadin le insidie ha volte,

Poichè assalto non temono le forti

Soglie e le ferree sbarre, ei s'apre il passo

Per le finestre, o sopra l'arduo tetto

Arrischievol s'arrampica; tal questo

Primo atroce ladrone entrò nel santo

Ovil di Dio. Quindi a vol s'erge e sopra

L'arbor di Vita, che l'altera cima

Nel mezzo al bel giardin sugli altri innalza,

Si posa in forma di rapace smergo:

Ivi della vital salubre pianta

L'alta virtude a meditar l'iniquo

Non stette già, ma sol tramò la morte

A color che vivean. Di quel sublime

Loco che a lui, se provvido era e saggio,

Stato saria d'immortal vita pegno,

Ei sol si fe' vedetta a stender lungi

L'indagator di preda avido sguardo.

Sì poco ognun (tranne sol Dio) conosce

Del bene il prezzo, ma strumento il rende

Spesso del male, o in usi indegni il torce.

Or con nuovo stupor mira Satáno

Sotto di sè, dentro non largo giro,

L'ampie ricchezze di natura accolte

A far pago dell'uomo ogni desìo;

Anzi gli par di rivedere il cielo

Sopra la terra. Quel felice suolo

D'Eden Iddio medesmo aveva eletto,

E sugli Eoi confini il bel giardino

Ei stesso vi piantò. Verso l'aurora

L'Eden si distendea da Auran fin dove

I greci Re dipoi le rocche altere

Di Seleucia innalzaro, o dove surse

Talata e dove in pria d'Eden i figli

Ebber soggiorno. In sì ridente terra

Più assai ridente il suo giardino adorno

Avea disposto Iddio. Gli arbori tutti

Più vaghi, più fragranti e più soavi

Cresceanvi rigogliosi, e ad essi in mezzo

Sublime, eccelso e germinante ognora

Di vegetabil oro ambrosie frutta

L'arbor sorgeva della Vita, e presso

Alla vita sorgea la nostra morte,

L'arbor della Scienza, arbor funesto

Che, il ben mostrando, al mal la strada aperse.

Per l'Eden verso l'austro un ampio fiume

Scorre, e d'un monte nel boscoso fianco,

Senza torcer suo corso, entra e s'ingolfa

Per sotterranee vie. Là posta avea

Di propria man quella montagna Iddio,

Qual sponda al suo giardino, alta sovresso

La rapida corrente: indi bevuta

Dalle segrete sitibonde vene

Del poroso terren sorgea gran parte

Di quell'acque in un chiaro, immenso fonte

Che dipartito in cento rivi e cento

Irrigava il giardin; quindi per l'erta

Balza, unito di nuovo, in giù cadea

La vasta piena a rincontrar che uscita

Alfin dal cupo varco al dì risale,

E con vario cammin, divisa in quattro

Maggiori fiumi, per lontane terre

Stende suo corso e per famosi regni.

Or qual arte giammai, qual alto e dolce

Stile ridir potrìa come da quella

Sorgente di zaffir scendon fuggendo

Sovr'aurea sabbia e orïentali perle

I ruscelletti garruli da lievi

Aure increspati? e come in mille e mille

Giri sorto le fresche ombre pendenti

Volgono il puro néttare dell'onde

A visitare ed a nudrir le piante

E i fiori tutti, di quel loco degni

Anzi del cielo? In brevi aiuole e gruppi

Non ordina colà difficil arte

Quelle piante e que' fior, ma in colle, in valle,

In pian con mano liberal gli spande

L'alma natura, e dove il sol percuote

Co' novelli suoi rai gli aperti campi,

E dove imbruna impenetrabil ombra

In sull'ore più calde i bei recessi.

Tal era e varia e maestosa e schietta

Del loco la beltà! Colà distilla

Gomme odorose e balsami il boschetto;

Qui aurate poma pendono ripiene

Di celeste sapor. Gli Esperid'orti

Favoleggiati poi, qui veri in prima,

Qui fur soltanto. Là ridenti prati,

Qua piagge amene, ove pascendo vanno

Le tener'erbe i fortunati armenti;

Qui coperto di palme un colle sorge,

Ed ivi s'apre il vario pinto grembo

D'irrigua valle, ove pomposa mostra

Fan tutti i fior più vaghi, e porporeggia

Senza spine la rosa. In altro lato

Vedi freschi ritiri, ombrose grotte,

Su cui lieta s'inerpica e distende

Lussureggiante le ritorte braccia

Gravi di biondi grappoli la vite.

Con grato mormorìo discendon l'acque

Dai colli aprici e van divise errando,

O uniscono i lor rivi in chiaro lago

Ch'offre il suo specchio cristallino al margo

Coronato di mirti. Odesi intorno

Almo d'augei concento, a cui le molli

Aurette carche di fragranti spoglie

Di campi e boschi accordano il susurro

Delle tremule fronde. Avria creduto

Forse la Grecia favolosa quivi

Veder danzanti Pan, le Grazie e l'Ore

E insiem guidar la primavera eterna.

Eran men belle assai l'Etnée campagne,

Dove involata fu dal fosco Dite,

De' fior ch'ella cogliea più vago fiore,

Proserpina gentil, per cui l'afflitta

Madre corse e cercò la terra intera.

Non quel di Dafne dilettoso bosco

Presso l'Oronte, di sì lieto suolo

Venga al confronto; non l'Aonie piagge

Cui l'onda sacra e inspiratrice irriga;

Non quella dal Triton bagnata e cinta

Isoletta Niséa, dove l'antico

Cam, che Libico Giove e Ammon nomato

Fu dai Gentili, il pargoletto Bacco

Ed Amaltea celava al vigil guardo

Della matrigna Rea; non l'erto monte

D'Amara, là del Nil presso alle fonti,

Che, di splendenti rocce intorno chiuso,

De' monarchi Abissini i bruni figli

Serba nel grembo, e i salitori stanca

Per un intero dì, montagna amena,

È ver, ma da talun creduta a torto

Del Paradiso la verace sede.

Volge Satán l'occhio geloso attorno,

E senza alcun diletto ogni diletto

Del bel giardino e l'infinita schiera

Delle viventi creature osserva;

Meraviglioso a lui spettacol novo.

D'assai più nobil forma, alte ed erette,

Erette in guisa di celesti Spirti,

Due là vestite di natìa bellezza

Nella lor nuda maestà, del Tutto

Sembran tenere, ed a ragion, l'impero.

Nei lor sembianti la divina imago

Del lor Fattore, verità, consiglio,

Pura ed austera santità risplende,

Austera sì, ma in filïal riposta

Libero ossequio, onde più bella e grande

Appar dell'uom la dignità sovrana.

Come diverso è il sesso lor, diversi

Son pur i pregi e diseguali: agli alti

Pensieri ed al valor formato è l'uno,

L'altra alle grazie e a' molli vezzi: è quegli

A Dio solo soggetto, a Dio soggetta

Ed allo sposo ell'è. Sovran signore

Allo sguardo sublime, all'ampia fronte

Ei si palesa: in crespe e folte ciocche

I giacintini suoi capei dall'alto

Cadon divisi in sulle larghe spalle,

Ma non più giù. Neglettamente sparse

Le trecce d'ôr fino allo snello fianco

Scendono a lei qual velo, e in vaghe anella

Rassomiglianti ai tenerelli germi

Onde s'aggrappa la pieghevol vite

Al vicin olmo, ondeggiano, e son quasi

Di quell'appoggio, ond'ella ha d'uopo, il segno.

Gentil impero ei prende, ella gliel cede

In ritrosetto amabile sembiante,

E quel modesto orgoglio e quelle molli

Ripulse e quegl'indugi assai più dolce

Fanno il suo consentir. Nè delle membra

Veruna parte allor geloso ammanto

Copriva ancor, nè la vergogna rea

Nè questo infame onor ne' petti umani

Era entrato per anco. Onor! Pudore!

Figli di Colpa, di virtude infinita

Vane ombre e larve ingannatrici, ahi come

Tutto avete quaggiù turbato e guasto!

Come sbandiste dall'umana vita

Quant'ella avea di più vitale ed almo,

Schietto candore ed innocenza pura!

Nuda così le belle membra e senza

Temer lo sguardo d'Angelo o di Dio,

Tenendosi per man, tra l'erbe e i fiori

Sen giva errando quella coppia, in cui

Reo pensiero non cade; amabil coppia,

Fra quante in dolci maritali amplessi

Dipoi ne strinse amor, la più gentile;

Egli il più bel di tutti i figli suoi,

Di tutte le sue figlie ella più vaga.

Sotto un ombroso susurrante gruppo

Di arbori, in mezzo al verde smalto, e presso

D'un fresco fonte essi adagiârsi, e tanto

Sol d'opra speso al bel giardino intorno

Quanto più grate le aleggianti aurette,

Più soave il riposo a far bastasse

E de' cibi e del ber più vivo il senso,

Della lor cena a saporar si diero

L'ambrosie frutta che i curvati rami,

Lungo il molle sedil tutto vestito

Di tener'erba e di fioretti sparso,

Offrir pareano in volontario omaggio.

Ne spremean essi la soave polpa,

E nella cava scorza il colmo rio

Quindi attingean; nè lusinghier sorriso

Fra lor mancava o parolette accorte,

O cari vezzi, o giovanili scherzi,

Qual si conviene a bella coppia in dolce

Coniugal nodo avvinta e sola. Intorno

Festosamente givanle ruzzando

Quanti animai, dipoi feroci e crudi,

Fuggiro ad abitar erme foreste

E boschi e tane. In carezzevol atto

Fra le sue branche dondola il lione

Il tenero capretto; ed orsi e tigri

E linci e pardi insiem giulivi e mansi

Saltabellano intorno. Il lento e grave

Elefante fra loro ogni sua prova

A sollazzarli tenta, e attorce e snoda

In cento guise la volubil tromba.

L'astuto serpe in tortuose spire

Cheto e leggier s'avvolge, e di sue frodi

Dà inosservato segno. Altri sull'erba

Accovacciati stannosi, e satolli

Guatan con occhio immoto; altri a sdraiarsi

Lenti, lenti s'inviano e il preso cibo

Van ruminando. Ver l'occaso intanto

Bassato il sol precipitava il corso,

E messaggiere della sera omai

Nella lance del ciel sorgean le stelle,

Quando Satán tuttor, qual prima, immoto

Per lo stupor, ricoverando alfine

La smarrita favella, in questi accenti

Angoscioso proruppe: Oh inferno! Oh rabbia!

E fia ver quel ch'io miro? Appresso tanto

Innalzati a quel ben ch'era già nostro

Costor son dunque, di novella tempra

Strano lavor che della terra forse

Uscio? costor non Spirti al certo, eppure

Ai rifulgenti Spiriti del cielo

Somiglianti così? Quant'io dappresso

Più li vo riguardando, in me maggiore

Sorge la meraviglia, e a mio dispetto

Amarli anco potrei: tanta risplende

In lor celeste somiglianza, e tanta

Grazia e beltà nei lor sembianti ha sparso

La man che li creò! Coppia gentile,

Ah tu non sai quanto a cangiarsi è presso

La sorte tua! come dispersi andranno

Bentosto i tuoi diletti, e del dolore

Tant'aspro e amaro più, quant'or più dolce

È questo tuo gioir, preda sarai!

Tu sei felice, è ver, ma saldo schermo

Tu non avresti, onde durar felice:

No, qual doveasi, quest'eccelso ed almo

Soggiorno tuo non fu munito e cinto

Da ripari bastanti a tener lungi

Tal nemico ch'entrovvi. In te non tutto

Vôlto è l'odio però che il sen m'attosca,

E ancor pietà di te meschina avrei

Bench'io pietà non trovi. A stringer vengo

Scambievole amistà, scambievol lega

Forte così che in avvenir tu debba

Viver meco in eterno od io con teco.

Gradito al par di questo bel giardino

Forse a te non sarà quel mio soggiorno;

Ma pur, qualunque siasi, in esso accogli

L'opra del tuo Fattore: egli a me diella,

Io volentier te l'offro. A voi davante

L'ampie sue porte schiuderà l'inferno,

E con gran festa manderavvi incontro

Tutti i suoi re. Non somigliante a questi

Brevi confini, ma capace e vasto

Sarà quel loco, a ricettar bastante

Il grande stuol de' vostri figli tutti;

E se miglior non è la stanza, a lui

Grado n'abbiate che su voi mi sforza

Immeritata ad eseguir vendetta

Di quell'ingiurie, onde sol egli è reo.

Pietà mi desta l'innocenza vostra,

Ma la pubblica causa, i torti atroci

Ch'io deggio vendicar, di questo nuovo

Mondo la omai vicina ampia conquista,

L'onor, la gloria, mio malgrado ancora,

Spingonmi a quello, ond'io, sebben laggiuso

Dannato eternamente, orrore avrei.

Così parlava quel maligno, e i suoi

Infernali disegni iva scusando

Colla necessità, discolpa usata

Sul labbro de' tiranni. Indi dall'alta

Cima ov'egli posava, a vol si gitta

Fra lo stuol sollazzevole di tanti

Quadrupedi animali, ed or dell'uno,

Ora dell'altro, qual conviensi meglio

Al suo proposto, le sembianze prende.

Più da vicino rimirar sua preda

Ei può così, così spïarne i detti

E gli atti inosservato, e aver contezza

Di lei più certa. Or con fiammanti luci,

Fatto leone, le passeggia intorno,

Ed or qual tigre che scherzar sul prato

Ha scorto a' caso due cervetti e corre

Ad acquattarsi presso lor, poi s'alza

E sceglie il suo terren, cangia gli agguati,

Onde con slancio più securo entrambi

Nell'una e l'altra branca insiem gli afferri.

Con Eva intanto Adam favella, e quegli

Tutto vér loro si protende, e sembra

Che drizzi mille orecchie al suon novello.

O sola, Adam diceva, o sola in tanti

Piacer compagna mia, tu che più cara

Mi sei di tutti, ah! quel sovran Signore

Che noi fece e per noi quest'ampio mondo,

Infinità bontà certo congiunge

Ad infinita possa, e de' suoi doni

È liberal come infinito. Ei fuora

Della polve ci trasse, in questo ameno

Di gioia albergo egli ci pose; e quali

Fur seco i merti nostri, o che possiamo

In cambio offrirgli ond'uopo egli abbia? È solo

Per tante grazie sue tal ci richiede

Prova di servitù che in ver più lieve

Esser non può per noi. Fra tanti e tanti

Di dolcissime frutta arbori carchi,

L'arbor della Scïenza ei sol ci vieta;

Quel solo ei vieta che vicino sorge

All'arbor della Vita: appresso tanto

Sta la vita alla morte! E checchè sia

La morte, al certo spaventevol cosa

Ella esser dee; chè Dio, tu ben lo sai,

Dio minacciolla a chi gustare il frutto

Di quell'arbore osasse, unico pegno

Di nostra ubbidïenza in mezzo a tanti

Impressi in noi di signoria, d'impero

Splendidi segni sovra quante il suolo

E l'onda e l'aere creature alberga.

Un sì leggier divieto, Eva diletta,

Potrìa duro sembrarci allor che tanto

Ampia ed intera libertà concessa

N'è sovra ogni altra cosa, e di sì vari

Diletti abbiam la scelta? Ah! no: s'esalti

Dunque da noi con sempiterne lodi

Quell'infinita sua bontade, e il caro

Lavor che ci affidò, seguasi intanto

Di crescer questi fiori e tôrre il troppo

Rigoglio a queste piante. È dolce l'opra,

Ma se grave anco fosse, ognor mi fora

Gioconda e bella al fianco tuo. Sì disse

Adamo; ed Eva: O tu, per cui, rispose,

E di cui mi formò la man superna,

O mia guida e signor, carne primiera

Di questa carne mia, tu, senza cui

Un'opra vana e di disegno priva

Fora stato il crearmi, ah! sì, ben giusto

E verace è il tuo dir: a Dio dobbiamo

Eterne lodi, eterne grazie, ed io

Principalmente, io che il destin più bello

Godo in goder di te che tanto sei

Di me maggior, mentre compagna eguale

Tu a te medesmo ritrovar non puoi.

Spesso quel giorno mi ritorna a mente,

In ch'io riscossa da profondo sonno

La prima volta, in grembo ai fior distesa

Mi trovai sotto l'ombra, e dov'io fossi

E chi mi fossi e da qual loco e come

Ivi recata, attonita men giva

Ricercando fra me. Di là non lunge

Un mormorío da cava rupe uscìa

D'acque sgorganti che più giuso in chiaro

Liquido pian si distendeano, e immote

Stavano e pure come un ciel sereno.

Con pensiero inesperto io là m'invio,

Seggo sul verde margo, e al liscio e terso

Lago m'affaccio che pareami un altro

Lucido firmamento. I lumi appena

Io chino a riguardar che incontro appunto

Nell'acquoso chiarore ecco una forma

M'appar che inchina mi riguarda. Indietro

Io balzo, indietro ella pur balza: io lieta

Tosto colà ritorno, e lieta anch'essa

Tosto ritorna e a' guardi miei risponde

Con guardi vicendevoli, spiranti

Pari amor, pari brame. Ivi tuttora

Terrei fisi quest'occhi e in van desìo

Mi struggerei, se un'amorosa voce

Così non m'avvertìa: quel ch'ivi scorgi,

Creatura gentil, quel ch'ivi ammiri,

È il tuo sembiante stesso; ei teco viene,

Teco sen va. Ma seguimi, e tua scorta

Sarò là dove il tuo venir e i tuoi

Teneri amplessi non attende un'ombra,

Ma tal, di cui tu se' l'imago. In dolce

Inseparabil nodo a lui congiunta

Vivrai beata, un'infinita stirpe

Uscirà dal tuo fianco, e sarai detta

Dell'uman gener madre. Io tosto (e ch'altro

Potev'io far?) quell'invisibil guida,

Ove m'invita, seguo, e te discopro

Sotto l'ombra d'un platano, te bello

E maestoso in ver, ma pur men vago,

Vezzoso men, men lusinghiero e dolce

Di quell'ondosa imago. Indietro io torco

Alla tua vista il passo, il passo affretti

Tu allor vér me gridando: ah! perchè fuggi?

Ritorna, Eva gentil, t'arresta, o cara;

Ah! da me fuggi, e mia tu sei; tu sei

Mia carne ed ossa: io dal mio lato fuori,

Dal lato al cor più presso, a darti vita

Io la sostanza porsi, onde tu poscia

Il mio conforto e 'l mio diletto fossi,

Dal mio fianco indivisa: io te ricerco,

Parte dell'alma mia, te chiedo e voglio

Qual altra mia metà. Con gentil atto

Nella tua la mia man prendesti allora,

Ed io m'arresi, e da quel punto intendo

Quanto sia vinta femminil beltade

Da viril grazia e da saggezza, in cui

Sol sta vera beltà. Così dicendo,

La nostra madre universal, con occhi

Raggianti un puro ardor, tenera e dolce

Sopra del nostro genitor primiero,

Per metade abbracciandolo, appoggiossi;

E con metà del colmo ignudo seno,

Sol adombrato dalle sciolte trecce

Sotto l'oro ondeggiante, a incontrar venne

Il sen di lui. Da quelle grazie umíli

E da tanta bellezza Adam rapito,

Con amorosa maestà sorride

Alla sua sposa, e con soavi baci

Preme le caste labbra. In tale aspetto

Sorridente a Giunon dipinto è Giove,

Quand'ei le nubi che di maggio i fiori

Spargon sul suol, feconda. Il guardo altrove

Il rio Demon punto d'invidia torse;

Pur con gelosa rabbia indi tornolli

A sogguardar traverso, e il suo dolore

Esalò in questi detti: Oh tormentosa

Vista! Oh vista abborrita! In braccio dunque

L'un dell'altro costor, di gioia in gioia

Passan l'ore felici, ed io dannato

Son per sempre laggiù, donde i piaceri

E amore han bando eterno, e dove un crudo

Non appagato mai desìo bollente

Fra tanti altri martír ne cruccia e strugge?

Ma non s'obblii quel che dal loro incauto

Labbro raccolsi. In lor arbitrio il tutto

Qui non è dunque; un arbore fatale

Vietato è lor, che del Saper si noma.

Che! vietato il saper? Iniqua legge

Che gelosia dettò! Quel lor Signore

Perchè tal pregio ad essi invidia? E fia

Colpa il saper? pena la morte? solo

Ignoranza li regge e in essa è posta

La lor felicità? quest'è di loro

Ubbidïenza e di lor fè la prova?

Oh! quale scorgo agli artifizi miei

Ed alla lor ruina aperto campo!

Fervida del saper dunque s'accenda

In lor la brama, e gl'invidi comandi

Traggansi a disprezzar che il sol disegno

Di tener ligi quei che al par de' Numi

La scïenza ergerebbe, ha lor prescritto.

Spinti da tal desìo gustino il frutto

E con esso la morte. Esser diverso

L'evento ne potrìa? Ma tutto intorno

Questo giardin prima s'indaghi, e niuna

Più chiusa parte inosservata resti.

Forse condur colà potrammi il caso

Ove in qualche celeste errante Spirto

Che presso un fonte o all'ombra delle piante

Stia soletto, io m'avvenga e da lui tragga

Qualche miglior contezza. Or vivi, intanto

Che il puoi, felice coppia; in fin ch'io torni,

Affrettati a goder; di lunghi guai

Già s'avvicina inevitabil corso.

Disse, ed il piè di là sdegnoso, altero

Torse, ma gli occhi rivolgendo intorno

Sagaci, intenti, e selve e colli e valli

A cercar diessi. Per l'estreme vie

Là dove il ciel coll'oceán confina,

Lento scendeva intanto il sol cadente,

E co' suoi vespertini opposti raggi

Del Paradiso saettava appunto

La porta orïental. Fino alle nubi

Un'ardua rupe d'alabastro ell'era

Che fea di sè lontana mostra, e solo

Avea da terra un accessibil varco

Che salìa tortuoso all'erta cima.

Era il restante aspra, scoscesa balza

D'impossibil salita, e qual pria surse,

Spaventosa pendea. Del masso aperto

Fra i gran pilastri Gabrïello, il Duce

Delle angeliche guardie, assiso stava

Aspettando la notte. A eroici ludi

S'esercitava intorno a lui l'inerme

Gioventude del ciel, ma pronti all'uopo

Pendean là presso per gran gemme ed oro

Raggianti, eterei scudi e usberghi ed elmi

Ed aste e spade. Ivi Urïel, scorrendo

Sovra un raggio del sol per l'aria fatta

Già mezzo bruna, rapido discese;

Come in autunno, quando è carco il cielo

D'ignei vapori, spiccasi talora

E con lucido solco il sen dell'ombre

Fende una stella che al nocchiero, intento

Sovra l'indica pietra, il punto insegna

Onde più l'ira ei dee temer de' venti.

Sollecito Urïel così rivolge

A Gabrïello i detti: In sorte avesti,

O generoso Gabrïel, l'incarco

Di star di queste mura a guardia ed ogni

Insidia allontanarne. Or odi: un Spirto

Sul pien meriggio alla mia sfera è giunto

In questo dì, che di conoscer meglio

L'opere uscite dall'eterna mano

Studïoso mostrossi e sovra ogni altra

L'uom che è di Dio la più recente imago.

Tutt'ansio egli era di partir, lo instrussi

Del suo cammino, per l'aereo volo

Riguardando lo stetti, e là sul monte

Che quinci a Borea giace e dove in prima

Egli calossi, il suo sembiante io vidi

Fuor d'ogni uso celeste, in modi strani

Scomporsi e ottenebrarsi. Io d'inseguirlo

Coll'occhio non cessai, ma sotto l'ombre

Ei mi disparve alfin. Qualcuno, io temo,

Della sbandita ciurma, a tentar nuove

Trame, sbucò quassù dal cieco fondo.

Il rintracciarlo a te s'aspetta. Ei disse,

E l'altro a lui: Se dal raggiante cerchio

Dell'astro, ov'hai tua stanza, Angel sublime,

Sì lungi ed ampiamente il guardo stendi,

Stupor non è. Per questo varco poi

Niun passa inosservato, e niun che appieno

Qui non sia noto e che dal ciel non venga;

Nè alcun dopo il meriggio indi qui scese.

Ma se maligno insidïoso Spirto

Oltre slanciossi a queste mura, il sai,

A incorporea sostanza è fral ritegno

Argin corporeo. Se però nel giro

Di questo loco, in qualsivoglia forma

Colui s'appiatta, onde favelli, al nuovo

Albóre io lo saprò. Tanto ei promise,

Ed all'ufficio suo tornò Urïele

Sul raggio stesso, onde l'alzata punta

Obliquamente per declive calle

Lo riportò nel sol caduto omai

Sotto le Azorre; o sia che là nel suo

Diurno giro oltra ogni creder ratto

Fosse trascorso quel grand'orbe, o sia

Che con più breve rota invêr l'aurora

Questa terra volgendosi, il lasciasse

Là sul suo trono occidentale, ond'egli

Tutta de' suoi color sgorga la piena,

E di porpore e d'ôr pinge ed ammanta

Le circondanti officïose nubi.

Già la sera innoltrava, e 'l grigio incerto

Suo lume rivestìa tutte le cose

D'un languido colore: a lei d'appresso

Il silenzio venìa; chè augelli e belve,

Quelli a' lor nidi e queste al letto erboso,

Eransi tutti ricovrati. Il solo

Vigile rossignuol la notte intera

Al bosco, all'aura intorno i suoi d'amore,

Onde le taciturne ombre molcea,

Ripetè soavissimi lamenti.

Già di vivi zaffir tutta del cielo

Arde la volta, ed Espero guidante

L'esercito stellato, in luminosa

Pompa s'avanza, quando alfin degli astri

La notturna reina alto levando

In nubilosa maestà la fronte,

La sua discopre incomparabil luce

E dispiega sull'ombre il vel d'argento.

Ad Eva allor sì parla Adam: Quest'ora

Notturna, o cara mia compagna, e questa

Comune requie delle cose, a noi

Un simile riposo ancor consiglia.

Per decreto divin fatica e giorno,

Notte e riposo con vicenda alterna

Succedere si denno; e già del sonno

Vien la rugiada ad aggravar con dolce

Peso le nostre ciglia. Il giorno intero

Van tutte l'altre creature errando

Senza incarco o pensiero, e minor uopo

Han di posa perciò; ma il suo lavoro

Di membra o d'intelletto all'uom prescritto

È giornalmente, del suo grado eccelso

Non dubbia prova e del vegliante ognora

Sovra tutti i suoi passi occhio del cielo.

Pria che diman la fresca alba novella

Rosseggi in orïente, all'opre nostre

Sorger dobbiamo, all'opre usate e care.

Qui questi archi fioriti e là que' verdi

Vïali ombrosi, ove a diporto andiamo

In sul caldo meriggio, hann'uopo assai

Di nostre cure. I rami lor cresciuti

Son omai di soverchio e 'l troppo scarso

Nostro lavor deludono: più braccia

Si converriano a diradare il folto

Rigoglio lor. Quei gran rampolli ancora

E quelle gomme che, stillando al suolo,

Fan scabro mucchio ed alla vista ingrato,

Convien pure sgombrar, se tor vogliamo

Al piè gl'inciampi. A riposare intanto

Ci fa la notte e la natura invito.

Disse, ed a lui d'ogni bellezza adorna

Eva rispose: O di mia vita fonte,

Amato arbitro mio, dal tuo bel labbro

Sempre dipenderò: Dio così vuole;

Tua legge è Dio, la mia tu sei. Di donna

Il più bel vanto ed il saper migliore

È il non saper di più. Se teco io parlo,

Mi fuggon l'ore; ogni stagione ed ogni

Vicenda lor mi scordo, e tutto al paro

Teco m'aggrada. È del mattin soave

L'auretta; è dolce il rimirar l'aurora

Che sorge al canto de' già desti augelli;

È bello il sol nascente allor che inaura

Questo ameno giardin co' raggi primi,

L'erbe, le piante, i frutti e i fior lucenti

Di tremolanti rugiadose stille;

Fragrante è il suolo appo una molle pioggia,

È dilettoso di tranquilla sera

Il languido imbrunir, grata la notte

Co' suoi silenzj e 'l tenero gorgheggio

Di questo augel melodïoso; è vaga

L'argentea luna e queste fiammeggianti

Gemme del cielo che le fan corona.

Ma nè l'auretta del mattin, nè il canto

De' lieti augelli, nè il nascente sole,

Nè l'erbe, i tronchi, i frutti, i fior cospersi

Di tremolanti rugiadose stille,

Nè grato odor che dopo molle pioggia

Esali dal terren, nè della sera

Il languido imbrunir, nè della notte

Le tacit'ombre e il tenero concento

Di questo augel, nè della luna al raggio

Lenti passeggi, o scintillar di stelle,

Nulla, ben mio, senza di te m'è caro.

Ma perchè, dimmi, tutta notte splende

Di questi astri la luce? e per chi fatto

È spettacol sì bello allor che il sonno

D'ogni vivente ha chiusi i lumi? O cara,

Di Dio figlia e dell'uom, bellissim'Eva,

Le rispondeva il comun padre, intorno

A questa terra essi il prescritto corso

Dall'uno all'altro sol compiendo vanno,

E portano così di piaggia in piaggia

L'apparecchiata per le varie genti

Ancor non nate, necessaria luce.

Senz'essi sovra il negro intero mondo

Ripiglierebbe il suo dominio antico

La notte universale, e fora estinta

La vita in ogni cosa. Il lor benigno

Foco sottil per la natura tutta,

Come il lor lume, spandesi, ne' vari

Corpi con vario influsso egli s'interna

E fomenta e riscalda e tempra e nudre

E abbella il mondo, e quanto in terra cresce

Prepara a sentir meglio i rai più forti

Del sol che tutto poi matura e affina.

Benchè null'occhio li rimiri, invano

Non splendon gli astri dunque, e, senza noi,

Non creder già che spettatori al cielo

Mancassero ed omaggi ed inni a Dio.

Mentre dormiam, mentre siam desti, errando

Spiriti innumerabili sen vanno

Per ogni dove, al nostro sguardo ascosi,

E notte e dì con incessanti lodi

Contemplan l'opre sue. Quanto sovente

Dal folto de' boschetti o dalle cime

Degli echeggianti colli, in mezzo all'alto

Silenzio angusto di tranquille notti,

Non abbiam noi celesti voci udite,

O sole o alterne, al Creator supremo

Cantar inni devoti? e quanto spesso

Intere squadre di quei Spirti, o mentre

Stanno a lor guardie o van scorrendo in ronda,

Alle soavi note in pieno coro

Unendo il suon di lor celesti lire

Si dividon la notte, e dolcemente

Levan di terra al ciel nostro intelletto!

Così parlando, se ne gían soletti,

Tenendosi per man, verso il felice

Albergo lor che Dio medesmo avea

Scelto e piantato allor che in prima all'uso

E al diletto dell'uom tutto dispose.

Strettamente intrecciati allori e mirti

E qual più cresce altr'arbore di salde,

Ampie e fragranti foglie il denso ombroso

Tetto ne feano; e il flessuoso acanto

Con ogni arbusto più odoroso e folto

Ne tessean quinci e quindi i verdi muri.

L'iri, la rosa, il gelsomino ed ogni

Più vago fiore ergean le fresche e liete

Cime e pingeano le pareti intorno

De' più leggiadri fregi: il suol smaltava

La violetta, il croco ed il giacinto

De' più vivaci e gai color che al guardo

Offrisse mai per ingegnosa mano

Di varie e vaghe pietre insiem contesto

Splendido pavimento. In sì bel loco

Penetrar non osava augello o belva

O insetto alcun: tal riverenza allora

Tutti aveano per l'uom! Non mai più sacro

Solingo, dilettevole boschetto

Pane o Silvano o Fauno o Ninfa accolse

In favolosi canti. Eva, novella

Sposa, di molli ed odorose erbette,

Di fiori e di ghirlande ornò la prima

Il nuzïal suo letto, e dalle sfere

Intuonâr l'imeneo celesti Cori

Nel fortunato dì che al primo padre

Guidolla il pronub'Angelo più adorna

In sua nuda beltade e più vezzosa

Di quella un dì favoleggiata e colma

De' doni degli Dei fatal Pandora

(Troppo ad Eva simíl nel tristo evento)

Quando da Erméte al malaccorto figlio

Di Giapéto condotta, ella i mortali

Allacciò co' suoi vezzi e fe' vendetta

Dell'involato al ciel foco primiero.

Giunti all'ombrosa chiostra, ambo fermârsi,

Ambo dier volta, e sotto aperto cielo

Adoraron quel Dio che il ciel, la terra

E l'aere e 'l firmamento e della luna

Il lucid'orbe e le stellanti rote

Trasse dal nulla. E tu la notte ancora

Festi, o supremo Fabro, e festi il die

Ch'or nell'opra commessa abbiam fornito,

Nell'aïta scambievole felici,

Felici appieno in questo mutuo amore,

Che tu medesmo c'imponesti e tutti

I tuoi favor corona. A te pur anco

Questa dobbiam delizïosa sede

Troppo ampia per noi soli, e dove i doni

In sì gran copia da te sparsi hann'uopo

Di chi nosco li goda e al suolo intanto

Caggion non colti; ma dal nostro dolce

Nodo, tu il promettesti, immensa debbe

Uscir progenie a popolar la terra

Che il tuo poter, la tua bontade esalti

Insiem con noi quando il nascente sole

All'opre ci richiami, e quando al sonno,

Soave dono tuo, facciano invito,

Com'ora, le cadenti ombre notturne.

Così dicean concordi, ed altro rito

Non seguitando che i devoti e puri

Sensi del core, a Dio più ch'altri accetti,

Ambo per mano, al bel segreto albergo

Si miser dentro, e dall'impaccio scevri

Di questi nostri abbigliamenti, a lato

L'un dell'altro si giacquero, nè volse

Le spalle Adamo alla gentil sua sposa,

Se ben m'avviso, nè gli arcani riti

Eva sdegnò del coniugale amore.

Salve, almo nodo coniugal, divina

Mistica legge, salve, o nobil fonte

Dell'umana progenie e solo bene

Che proprio fosti in paradiso e in mezzo

All'altre cose tutte in pria comuni.

Dagli uomini per te fra i bruti errando

Il cieco andò libidinoso ardore;

Strette per te, per te in ragion fondate

Le care parentele in prima furo,

E di padre e di figlio e di fratello

Uditi i dolci affettuosi nomi.

Sempre il mio labbro e la mia penna sempre

Tue lodi innalzeran, viva sorgente

Di sincere domestiche dolcezze

E santa e pura anco fra noi, qual fosti

Ne' prischi dì fra i Patriarchi e i Santi,

Salve, almo nodo coniugal; tu sei

Segno agli aurei d'amor più scelti strali;

Ei sol per te la sua durevol face

Accende, ei sopra te lieto s'aggira

Sulle purpuree penne; ei teco regna,

Teco gioisce; non di Taidi e Frini

Nel compro riso e nei bugiardi vezzi,

Non fra l'orgie e le maschere procaci,

Non fra 'l tumulto di notturne danze,

Non nelle infette Corti o nei dolenti

Versi che della luna al freddo raggio

L'assiderato amante all'aura sparge

Per la bella tiranna, assai più degna

D'abbandono e di scherno. - Al dolce canto

De' rossignuoli, l'un dell'altro in braccio

S'addormentâr gli sposi, e sulle ignude

Lor membra intanto dal fiorito tetto

Una pioggia scendea di molli rose

Che rinnovò l'alba vegnente. Oh! dormi,

Dormi, coppia beata, appien felice,

Se più felice esser non cerchi, e apprendi

A non saper di più! Ma già la notte

Della celeste vôlta ascesa al mezzo,

L'ombre spargea dall'alto, e fuori usciti

Per le notturne guardie all'ora usata

I Cherubini sull'eburnea porta

In bell'ordin guerrier stavano armati,

Quando a lui ch'appo sè là tien l'impero,

Gabrïel così disse: Esci, Uzzïello,

Colla metà di questi, e attento e destro

Costeggia l'austro: l'aquilon percorra

L'altra metade, e all'occidente entrambe

Si raffrontino poi. Ratta qual fiamma,

Si divide la schiera, altri allo scudo,

Altri all'asta girando. Indi a due prodi

Sagaci Spirti che gli stanno appresso,

Ei sì comoda: Iturïel, Zefóne,

Le preste ali spiegate, e niuna sfugga

Di questo loco più segreta parte

Alle ricerche vostre; e là più ancora

Spïate attenti ov'or del sonno in braccio

Quelle due vaghe creature stanno

Sciolte d'ogni timor. Celeste messo,

Qui giunto a sera, d'aver visto narra

Un de' rei Spirti che le sbarre infrante

Chi 'l crederia? d'inferno, a questa volta

Con qualche a lui commesso empio disegno

Se ne venía: costui cercate e preso

Qui lo traete. Disse, e le raggianti

Squadre che oscuran col fulgór dell'armi

Il fulgór della luna, ei mosse. Andaro

Dritti al boschetto i due campioni, ed ivi

Di lurido in sembianza immondo rospo

Acquattato trovaro il fier nemico

D'Eva all'orecchio. Con diabolic'arte

Ei della mobil fantasia procaccia

Gli organi penetrarle, e a suo talento

Destarvi immagin strane e larve e sogni,

O con alito infetto i tenuti spirti

Che, qual da chiaro rio sottili aurette,

Sorgon dal puro sangue, irle spargendo

D'atro veneno, e generar scontenti

Egri pensier così, speranze vane,

Vani disegni e stemperate brame

D'un cieco superbir tumide e calde.

Lui tutto intento all'opra rea coll'asta

Iturïello leggiermente punse;

E, poichè al tocco di celeste tempra

Sparisce ogn'arte ed ogni inganno, e riede

Tosto ogni cosa al suo verace aspetto,

In sua forma infernal s'alza repente

Sovrappreso Satán. Così se vola

Sul negro acervo di sulfurea polve

Che pronta sta per minacciata guerra,

Una lieve scintilla, in aere a un tratto

Scoppia converso in vasta orribil fiamma.

Da stupor côlti all'improvvisa vista

Del truce Re balzâr gli Angeli addietro;

Ma il serran tosto intrepidi, e: Chi sei

Tu di quegli empi nell'abisso spinti?

(Lo richiedon crucciosi), e come osasti

Sottrarti al carcer tuo? Che fai? Che tenti

Qui trasformato e vigile all'orecchio

Di chi tranquillo dorme? A voi son io,

Satán ripiglia dispettoso, a voi

Dunque ignoto son io? Lo credo: innanzi

A me che tanto sopra voi sedea,

Mai non aveste d'apparir l'onore.

Il non mi ravvisar secura prova

È che di quello stuol voi ciurma siete.

Ma se lassù del Signor vostro in Corte

Voi mi vedeste un giorno, a che la vana

Dimanda vostra? A lui Zefón con scherno

Ribattendo lo scherno: E che! risponde,

Le stesse ancor le tue sembianze credi,

Spirto ribelle? E quel fulgór che in cielo

Te puro e fido circondava, ancora

Ti pensi aver? No: quella gloria insieme

Perì colla tua fè; del tuo delitto

E del carcere tuo l'orrore in fronte

Or soltanto ti sta. Ma vieni, a lui,

Che invïolati di serbar c'impose

Questi bei lochi e questa coppia illesa,

Debita renderai ragion severa,

Disse, e in quel suo rimproverar feroce

Il vago scintillò giovin sembiante

Di grazia insuperabile. Smarrissi

Satáno, e quanto la bontà tremenda

E augusta sia, sentì; vide in sua forma

Quanto è amabil virtù; videlo, e tristo

Di sua perdita fu, ma più l'afflisse

Il ritrovarsi agli occhi altrui sì scemo

Dell'antico splendore. Audace e baldo

Pur tuttavia si mostra, e: Teco, dice,

Eccomi pronto; al Duce tuo si vada.

Se qui pugnar si dee, con lui che manda,

Col messaggier non già, col Duce io Duce

Deggio affrontarmi, o con voi tutti insieme:

Così più gloria acquisterò vincendo,

O men ne perderò, se vinto io sono.

Il tuo timor, Zefón replica ardito,

Or qui vieta il provar quanto di noi

Anco un minimo e solo, a fronte possa

Di te malvagio, e debil quindi. Invaso

D'alta rabbia Satán più non risponde,

Ma qual fero corsier che il duro morso

Rode, superbo s'incammina: ei stima

Il fuggire o 'l pugnar vano del pari:

Tale un terror superno agghiaccia e doma

Quel cor ch'altro non teme. Omai son presso

Al punto occidental dove, trascorso

Il mezzo giro lor, giungeano appunto

I due drappelli, e in densa squadra uniti

Attendean nuovi cenni. Ad essi grida

Gabrïello da fronte: Ascolto, amici,

Vêr noi di piede un calpestìo frequente,

E già Zefóne e Iturïel discerno

Pel dubbio lume fra quell'ombre. Un terzo

Con lor s'avanza di real presenza,

Ma di scemo splendor, che agli atti, al truce

Sembiante par d'inferno il Prence: altrove

Ei non vorrà di qui torcere il passo

Senza contesa, e torve e arcigne io scorgo

Sue ciglia già: voi saldi state. Appena

Egli finì che i due colà fur giunti,

E in brevi detti chi traeano, e dove,

In qual opra, in qual atto, in qual sembiante

Da lor fu colto, raccontaro. A lui

Con fero sguardo Gabrïel sì disse:

Perchè il confine al tuo fallir prescritto,

Satán, rompesti, e qui nel loro incarco

Vieni quelli a turbar che fidi stanno

Contro il tuo fello esempio? A noi s'aspetta

Aver di tanta audacia or qui ragione,

E delle insidie che tramando stavi

A quella coppia in dolce sonno immersa,

E che in questo felice almo soggiorno

Locata ha Dio. Con dispettoso ciglio

Risponde a lui Satán: Di saggio in cielo

Tu stima avevi, o Gabrïello, e tale

Io già ti tenni pur, ma quel ch'or chiedi,

Dubitar me ne fa. Dov'è colui

Ch'ami le pene sue? Chi non vorrebbe,

Trovandone la via, scampar d'Averno,

Ancorchè là dannato? E tu, tu stesso

Romper non cercheresti i lacci tuoi

E audacemente avventurarti ovunque

Fossi più lungi dalla pena, e dove

Di scambiar col riposo i tuoi tormenti,

E col gioir più pronto il duol passato

Ricompensar sperassi? Ecco quel ch'io

Qui ricercai. Ma forse a te che solo

Conosci il ben nè mai provasti il male,

Or parlo invan: la volontade in fine

Di quei che là ci confinò, m'opponi:

Ebben; munisca di più salde sbarre,

Se in quell'atra prigion guardarci intende,

Le sue porte di ferro. A tue dimande,

Ecco le mie risposte: il resto è vero;

Ov'essi han detto, mi trovâr; ma quindi

Vorresti tu di vïolenza o trame

Dunque accusarmi? Con amaro scherno

Ei sì parlava, e l'Angelo guerriero

Sdegnosamente sorridendo: Oh! disse,

Qual danno in ciel, dacchè Satán ne cadde,

Satán, l'esperto estimator di saggi,

Eppur di là per sua follia sbalzato!

Ei dal suo carcer fugge, e in dubbio stassi

Or gravemente se sia saggio o folle

Chi dell'audacia sua ragion gli chiede

E degl'infranti suoi limiti inferni!

Cotanto savia cosa ei stima al suo

Dolor sottrarsi, al suo gastigo! e poi

D'accrescerli non cura! Or resta, iniquo

Spirto superbo, in tuo pensier fintanto

Che di fiamma settemplice avvampando

L'ira superna, alla tua fuga in mezzo

Non ti raggiunga, e negli abissi al suono

Del suo flagel terribil non ripinga

Quest'alto senno tuo, che ancor non seppe

Come pena non avvi che all'acceso

D'un infinito Dio furor s'adegui.

Ma perchè qui tu sol? perchè non venne

Tutto con te lo scatenato inferno?

Men aspro è il duol pe' tuoi compagni, o meno

Atto al soffrir se' tu? Valente Duce

Primo a fuggir dal duol, se alle tue schiere

Cotal ragion di fuga avessi addotta,

Qui senza fallo il disertor tu solo

Or non saresti. - Con un torvo sguardo

Gli risponde Satáno: Al par d'ogni altro

Io soffrir so, nè sbigottisco al duolo,

Angelo insultatore, e ben per prova

Sai se fero lassù m'avesti incontra,

Allorchè in tuo favor la ruïnosa

Folgore velocissima discese,

E all'imbelle asta tua soccorse all'uopo.

Ma i tuoi pur sempre vaneggianti detti

Móstranti ignaro assai di ciò ch'a esperto

E fido capitan dopo le dure

Passate prove e disastrosi eventi

Far si convenga, onde a perigli ignoti

La somma delle cose ei non esponga.

Quindi d'abisso a valicar gl'immensi

Deserti io solo, io sol m'accinsi e questo

Nuovo mondo a spïar, di cui non tace

Anco laggiù la fama. Io dar qui spero

Miglior albergo in terra o in aere a' miei

Infelici compagni, ancor ch'io deggia

In tal conquisto far novella prova

Di ciò che tu, di ciò che ardiscan queste,

Incontro a me, tue leggiadrette schiere;

Di cui più facil fora e degno incarco

Servir lassuso al lor Signor, cantargli

Inni devoti intorno al trono, e starsi

Fra prescritte distanze umili e inchini

Che trattar l'asta e 'l brando. - A lui risponde

Tosto l'Angel guerrier: Dire e disdirsi,

Saggio vantarsi sfuggitor di pene,

Quindi un abbietto esplorator, conviensi,

A Duce, dimmi, o di menzogne e frodi

Ad un maligno artefice? E di fede

Tu favellar potesti? O sacro nome

Di fede profanato. E a cui tu fido?

A quella iniqua abbominevol, vile

Tua ciurma di ribelli, adatto corpo

Di capo tale? Oh! rara fede è quella

Fra voi giurata appunto allor che al vostro

Supremo re da voi rompeasi fede,

Ed apparir di libertà campione,

Mostro d'ipocrisia, vorresti adesso

Tu che sì basso il guardo, umil la fronte,

Più che alcun altro, alla presenza augusta

Del Re del ciel portavi? E perchè, dimmi,

Se non per torgli il trono e por te stesso

In vece sua? Ma quel ch'io dico, or nota

Va, là rifuggi onde fuggisti; se osi

Più in questi comparir sacri confini,

Con mille giri di catene avvinto

Giù ti strascino al tuo baràtro, ed ivi

Ti conficco così che a scherno poscia

Non avrai più di quelle porte mai

Le troppo lievi sbarre. - Ei sì minaccia;

Ma di minacce il fier Satán non cura,

E di più rabbia acceso. - Allor, soggiunge,

O gran custode di confini e porte

Altero Cherubin, parla di ceppi

Quand'io sia tuo prigion. Benchè sì spesso

Codeste alate spalle tue cavalchi

Il Re del cielo, e 'l trionfal suo carro

Cogli altri tuoi compagni al giogo avvezzi,

Per quelle vie d'astri smaltate, in giro

Tu strascini lassù, ben altro peso

Da questo braccio poderoso adesso

Aspettati a sentir. - Mentr'ei dicea,

Il rifulgente angelico squadrone

Più che fiamma si fe' corrusco e rosso,

Ed in sembianza di crescente luna

Aguzzate le corna, intorno il prende

Ad accerchiar coll'aste in resta. In ricco

Campo folta così torce la messe

L'irte crestute cime ove le spinge

Gagliardo vento, e 'l buon bifolco intanto

Riguarda e teme che sol triste paglie

Lascin sull'aia poi le vôte spiche.

Nel gran rischio Satán, tutta raccolta

L'estrema possa sua, grande ed immoto

Sta qual Atlante o Teneriffe; agli astri

Giunge sua mole, e in sulle nere penne

Del gran cimiero lo spavento ondeggia;

Nè di lancia la man, di scudo il braccio

Sforniti son. Terribile conflitto

Già fra lor cominciava, e all'urto orrendo

L'Eden non sol, ma la siderea vôlta

Forse del ciel crollato avrebbe, o tutti

Di questo mondo gli elementi almeno,

Naufraghi e sciolti, nel disordin primo

Saríen tornati, se repente in cielo

Non sospendea l'onnipossente destra

Quell'aurea lance ch'ivi ancor fiammeggia

Fra lo Scorpio ed Astrea. L'Eterno in essa

Librò da prima ogni creata cosa

E le sfere e la terra e l'aria e 'l mare,

E in essa libra ancor battaglie e regni

Ed ogni evento di quaggiù. Due pondi

Or su v'impose, un di battaglia segno,

L'altro di fuga e a Gabrïel n'ascrisse

L'uno, l'altro a Satán: rapido alzossi

Questo e l'asta toccò. Ciò mira e dice

L'Angelo all'empio Spirto: Io la tua possa,

Satán, conosco, e tu la mia, non nostre,

Ma sol di lui che le ci diè; che giova

L'armi tentar, se quanto sol permette

Il ciel, vale il tuo braccio e vale il mio,

In cui dall'alto ora cotal s'infonde

Doppio vigor ch'io sotto i piè qual fango

Calpestarti potrei? Solleva in prova

Colassù gli occhi a quel celeste segno,

E vedi quanto debole e leggiero

Tu sei, se a me resister osi. - Il guardo

Leva Satáno e vede alto balzata

La lance sua; nè più, ma via sen vola

Rabbiosamente mormorando, e seco

Si dileguano insiem l'ombre notturne.

CONTINUA V