FRANÇOIS RABELAIS

Traduzione di
GILDO PASSINI



GARGANTUA E PANTAGRUELE


LIBRO PRIMO: XI - XXXI

CAPITOLO XI.

Dell'adolescenza di Gargantua.


Dai tre ai cinque anni Gargantua fu allevato ed educato secondo il volere del padre in ogni disciplina conveniente; e passò quel tempo come tutti i bimbi del paese; bevendo mangiando e dormendo; mangiando, dormendo e bevendo; dormendo bevendo e mangiando.

Sempre s'avvoltolava nel fango, s'incarbonava il naso, s'imbrattava la faccia, scalcagnava le scarpe, sbadigliava spesso alle mosche e inseguiva volentieri i farfalloni soggetti alla giurisdizione dell'impero paterno. Si pisciava sulle scarpe, smerdava la camicia, si soffiava il naso nelle maniche, moccicava nella minestra, sguazzava dappertutto, beveva nelle pantofole e si grattava di solito la pancia con un paniere. Aguzzava i denti con uno zoccolo, lavava le mani nella minestra, si pettinava con un bicchiere, sedeva fra due selle col culo a terra, si copriva con un sacco bagnato, beveva mangiando la zuppa, mangiava la focaccia senza pane, mordeva ridendo, rideva mordendo, sputava nel piatto, peteggiava grasso, pisciava contro il sole, si tuffava nell'acqua per ripararsi dalla pioggia, batteva il ferro quand'era freddo, fantasticava chimere, faceva lo smorfioso, faceva i gattini, diceva il pater noster della bertuccia, ritornava a bomba, faceva l'indiano, batteva il cane davanti al leone, metteva il carro davanti ai buoi, si grattava dove non gli prudeva, faceva cantare i merli, troppo abbracciava e nulla stringeva, mangiava il pan bianco per primo, metteva i ferri alle cicale, si faceva il solletico per iscoppiar dal ridere, si slanciava con ardore in cucina, la faceva in barba agli dei, faceva cantar magnificat a mattutino e gli andava a fagiolo. Mangiava cavoli e cacava tenero, discerneva le mosche nel latte, faceva perder le staffe alle mosche, raschiava la carta, scarabocchiava la pergamena, se la dava a gambe, tirava all'otre, faceva i conti senza l'oste, faceva il battitore senza prendere gli uccelletti, prendeva le nuvole per padelle di bronzo e le lucciole per lanterne, pigliava due piccioni a una fava, faceva l'asino per aver crusca, del pugno faceva mazzuolo, voleva mettere il sale sulla coda alle gru per prenderle, sfondava porte aperte, a caval donato guardava sempre in bocca, saltava di palo in frasca, tra due verdi metteva una matura, colla terra faceva il fosso, faceva guardia alla luna contro i lupi, sperava, calando le nubi, prendere le allodole cascate da cielo, faceva di necessità virtù, quale il pane, tale faceva la zuppa, faceva distinzione fra rasi e tonduti, ogni mattina vomitava l'anima. I cagnolini del padre mangiavano nella sua scodella; ed egli mangiava con loro. Egli mordeva loro orrecchie, essi gli graffiavano il naso; egli soffiava loro nel culo, essi gli leccavan le labbra.

E volete, sentirne una, ragazzi? Che il mal di botte v'inghiotta! Questo piccolo porcaccione palpeggiava sempre le sue governanti sopra e sotto, davanti e di dietro e arri somari! E cominciava già a esercitare la braghetta che ogni giorno le governanti gli adornavano di bei mazzolini, di bei nastri, di bei fiori, di bei fiocchi. Esse passavano il tempo a farla rinvenire tra le mani come il maddaleone da impiastri, poi scoppiavano a ridere quand'essa levava le orecchie come se il gioco fosse loro piaciuto.

L'una lo chiamava: mia cannelluccia, l'altra: mio bischero, l'altra: mio ramoscello di corallo, l'altra: mio cocchiume, mio turacciolo, mio trapano, mio stantuffo, mio succhiello, mio pendaglio, mio rude gingillo duro ed arzillo, mio mattarello, mio salciccin di rubino, mio coglioncin bambino.

- È per me, diceva l'una.

- È mio, diceva l'altra.

- Ed io, diceva una terza, debbo dunque restarne senza? Ma allora perbacco lo taglio.

- Tagliarlo! diceva un'altra; ma gli farete male signora mia; tagliereste il pipi ai bimbi? Verrebbe su il signor Senzacoda.

E perché si divertisse come i bambini del paese, gli fabbricarono un bel mulinello con le pale d'un mulino a vento del Mirabelais.



CAPITOLO XII.

Dei cavallucci fittizi di Gargantua.


Poi, affinché fosse tutta la vita buon cavaliere, gli fabbricarono un bel cavallone di legno, che egli faceva impennare, saltare, volteggiare, springare e danzare tutto insieme, e andar di passo, di trotto, di trapasso, di galoppo, all'ambio, di mezzo galoppo, di travargo, alla camellesca, all'onagresca e gli faceva cambiar pelo (come i monaci cambiano dalmatica secondo le feste) dal baio scuro all'alezano, al grigio pomellato, al topino, al cervino, al roano, al vaccino, allo screziato, al variegato, al punteggiato, al bianco.

Egli stesso si fece di un grosso traino, un cavallo da caccia, uno per tutti i giorni con un fusto da frantoio, e con una grossa quercia, una mula ingualdrappata per la camera. N'ebbe inoltre altri dieci o dodici di ricambio e sette per la posta. E tutti quanti li metteva a dormire coricati vicino a sé.

Un giorno capitò a visitare suo padre, con gran corteo e pompa, il signore di Paninsac. Proprio lo stesso giorno erano venuti a trovarlo anche il duca di Sbafagratis e il conte Masticavento.

In fede mia, il castello risultò un po' stretto per tanta gente, specie le scuderie: allora il maggiordomo e il maresciallo degli alloggi del detto signore di Paninsac, per sapere se in qualche altro angolo della casa vi fossero stalle disponibili, si rivolsero a Gargantua ancor fanciullo, considerando che i bambini volentieri spiattellano tutto, e gli domandarono, in confidenza, dove erano le scuderie dei grandi cavalli.

Gargantua li condusse salendo la grande scalea del castello e passando per la seconda sala, in una grande galleria per dove entrarono in un torrione. Mentre salivano un'altra scalinata, il maresciallo disse al maggiordomo:

- Questo ragazzo ci mena pel naso: le scuderie non sono mai alla sommità delle case.

- Adagio, disse il maggiordomo, io conosco posti, a Lione, alla Baumette, a Chinon e altrove, nei quali le Scuderie stanno al sommo della casa, e può darsi che ci sia un'uscita posteriore che metta al montatoio; ma per maggior sicurezza ora glielo chiedo.

- Dove ci conducete, carino mio? domandò a Gargantua.

- Alla stalla dei miei grandi cavalli, ci siamo quasi, non mancano che questi gradini.

Poi, facendoli passare per un altro salone, li condusse alla sua camera e, aprendo la porta:

- Ecco, disse, le scuderie che chiedete: ecco qui il mio ginnetto, il mio ungherese, il mio lavedano, il mio trottatore.

E mettendo loro sulle spalle una grossa leva:

- Vi regalerò, disse, questo frisone; mi viene da Francoforte, ma sarà vostro; è un gran buon cavalletto e di gran resistenza. Con un terzuolo, una mezza dozzina di cani spagnuoli e un paio di levrieri, eccovi fatti re e padroni delle pernici e delle lepri per tutto questo inverno.

- Per San Giovanni! dissero essi, siamo capitati bene! Abbiamo preso un bel granchio.

- Non è vero, diss'egli: granchi non ce n'è stati qui dentro da tre giorni.

Indovinate un po' ora se era più il caso di nascondersi per la vergogna o di ridere per la facezia.

E mentr'essi scendevano tutti confusi egli domandò:

- Volete un'albiera?

- Cos'è?

- Cinque stronzi da farvi una musoliera, rispose

- Per oggi, osservò il maggiordomo, se ci mettono arrosto, non rischiamo di bruciare, poiché siamo conditi in tutte le salse, se non erro. Tu ci hai scornato, carino mio, un giorno o l'altro ti vedrò papa.

- È probabile, diss'egli; ma allora voi sarete papilione e questo grazioso pappalardo sarà un pappagallo perfetto.

- Vero, vero, disse il maresciallo.

- Ma, disse Gargantua, indovinate quanti punti d'ago vi sono nella camicia di mia madre.

- Sedici, rispose il maresciallo.

- Non è parola di vangelo, affermò Gargantua, poiché ce n'è davanti e di dietro, li contaste troppo male.

- Quando? chiese il maresciallo.

- Quando il vostro naso, disse Gargantua, servì di cannella per spillare un moggio di merda, e la vostra gola servì d'imbuto per travarsarla in altro recipiente, essendo le doghe sconnesse.

- Corpo di Dio! disse il maggiordomo, abbiamo incontrato qui un bel burlone. Dio vi salvi dai malanni, signor chiacchierino, tanto avete lo scilinguagnolo sciolto!

Così discendendo in gran fretta sotto la volta delle scale lasciarono cadere la grossa leva di cui l'aveva cariccati, onde Gargantua:

- Voi siete pessimi cavalieri, diavolo! Il vostro cortaldo vi manca proprio al momento del bisogno. Se vi occorresse andar di qui a Cahusac che preferireste: cavalcare un'ochetta o menare una troia al guinzaglio?

- Preferirei bere, disse il maresciallo.

Così dicendo, entrarono nella sala terrena ov'era raccolta tutta la brigata e raccontando loro la nuova avventura, li fecero ridere come un branco di mosche.





CAPITOLO XIII.



Come qualmente Grangola s'accorse dell'intelligenza meravigliosa di Gargantua per l'invenzione d'un forbiculo.





Sul finir dei cinque anni, Grangola, di ritorno dalla disfatta inflitta ai Canariani, venne a trovare suo figlio Gargantua. E ne fu tutto lieto come poteva essere un tal padre rivedendo un tal figlio.

Lo baciava, lo abbracciava e non cessava di interrogarlo su diverse cose, bamboleggiando con discorsi puerili. E bevve con lui e le sue governanti alle quali, tra l'altro, domandava insistentemente, se l'avessero tenuto lavato e pulito. Gargantua rispose che aveva a ciò provveduto egli stesso, in guisa che in tutto il territorio non v'era bimbo più netto di lui.

- In che modo? chiese Grangola.

- Ho inventato, rispose Gargantua, con lunghi e diligenti esperimenti, un modo di forbirmi il culo, che è il più signorile, il più eccellente, il più spedito che mai si vedesse.

- Quale? chiese Grangola.

- Ora ve lo dico rispose Gargantua. Una volta mi pulii col cache nez di velluto di una delle damigelle e lo trovai buono per la morbidezza della seta che mi dava una voluttà ineffabile al fondamento; un'altra volta con un loro cappuccio e fu lo stesso; un altra volta con una sciarpa da collo; un'altra volta con le orecchiette del cappuccio, di raso rosso; ma il ricamo in oro di tante piccole sfere di merda che v'erano applicate, mi scorticarono tutto il di dietro; che il fuoco di Sant'Antonio possa bruciare il budello culare dell'orefice che lo fece e della damigella che lo portò!

Il male passò forbendomi con un berretto da paggio, bene impennacchiato alla svizzera.

Poi, cacando dietro un cespuglio, trovai un gatto marzolino e me ne servii per forbirmi, ma quello con l'unghie mi ulcerò tutto il perineo.

Guarii l'indomani forbendomi coi guanti di mia madre, ben profumati di malzoino.

In seguito mi forbii colla salvia, col finocchio, coll'aneto, colla maggiorana, colle rose, colle foglie di zucca, di cavolo, di bietola, di vite, d'altea, di verbasco (il rossetto del culo), di lattuga, di spinaci - questi furono di gran giovamento alla mia gamba - poi di mercorella, di persicaria, d'ortica, di conzolida; ma queste mi produssero il cacasangue, come dicono i Lombardi, del quale guarii forbendomi colla mia braghetta.

Poi mi forbii colle lenzuola, colla coperta, colle tendine, con un cuscino, con un tappeto usuale, con uno verde, con uno straccio, con un tovagliolo, con un fazzoletto, con un accappatoio. E n'ebbi da tutti piacere più che i rognosi sotto la striglia.

- Ma insomma, disse Grangola, di tanti forbiculi quale ti parve il migliore?

- Un momento, disse Gargantua, non tarderete a saperne il tu autem. Mi forbii ancora col fieno, la paglia, la stoppa, la borra, la lana, la carta. Ma



Chi con carta il cul deterge,

Sui coglion la merda asperge.



- Che! esclamò Grangola, tu rimi già, ti sei dunque strofinato alla bottiglia, coglioncino mio?

- Certo, mio re, rispose Gargantua, e rimo anche meglio e rimo tanto che spesso nel rimar m'inreumo. Ascoltate un po' ciò che la vostra latrina canta ai cacatori:



Cacone,

Diarrone,

Petone,

Stercoso,

Il lardo

Ti sfugge,

Si strugge,

Ha in me

Riposo.

Schifoso,

Merdoso,

Goccioso,

Di Sant'Antonio ti bruci il martir,

Se tutti

Gl'impuri

Tuoi buchi

Non turi,

E non forbisci avanti di partir.



Ne volete ancora?

- Sì, per Bacco, rispose Grangola.

- E allora, rispose Gargantua, ecco qua:



RONDÒ.



Cacando l'altro ier comodamente,

La gabella pagai che al culo devo.

Non fu l'odore tal quale credevo,

E ne rimasi tutto puzzolente.

Oh, se m'avesse alcun cortesemente

Condotto la Gentile che attendevo

Cacando.



A lei col mio buon mestolo imbrandito

Il buco dell'urina avrei condito,

Mentr'ella avrebbe col suo roseo dito

Il buco della merda a me forbito,

Cacando.



Ed ora andate a dire che sono un buono a nulla. Oh per la merda! Mica li ho fatti io questi versi, ma udendoli recitare dalla nobil matrona che vedete qui, li ho conservati nel ripostiglio della mia memoria.

- Torniamo, disse Grangola, al nostro argomento.

- Quale? Cacare? chiese Gargantua.

- Ma no, rispose Grangola, forbire il culo.

- Siete disposto, chiese Gargantua, a pagare un buon barile di vin bretone se vi metto nel sacco in questa materia?

- Volentieri, rispose Grangola.

- Non è necessario forbir culo, disse Gargantua, se non sia sporco: sporco esser non può se non s'è cacato; conviene dunque primum cacare, e poi forbirsi il culo.

- Oh quanto senno, figliolo mio! esclamò Grangola. Uno di questi giorni ti fo promuovere dottore alla Sorbona ché, per Dio, hai più saviezza che anni. Ma seguita ora, ti prego, l'argomento forbiculativo. E per la mia barba, prometto che non un barile, ma sessanta botti ti dono, di quel buon vin bretone, intendo, che veramente non cresce in Bretagna, ma nella buona terra di Verron.

- Provai poscia, continuò Gargantua, a forbirmi con una parrucca, con un origliere, con una pantofola, con un carniere, con un paniere - Oh l'ingrato forbiculo codesto! - poi coi cappelli. Notate che i cappelli, taluni son lisci, altri pelosi, altri vellutati, altri di seta, altri di raso. Migliori di tutti son quelli col pelo, che astergono in modo perfetto, la materia fecale. Poi mi forbii con una gallina, con un gallo, con un pollastro, con pelle di vitello, con una lepre, con un piccione, con un marangone, con una borsa d'avvocato, con una barbuta, con una cuffia, con un logoro. Ma concludendo, dico e sostengo che non v'ha forbiculo migliore d'un papero di copiosa pelurie, tenendogli però la testa fra le gambe. Lo affermo sull'onor mio, credetemi, voi vi sentite una voluttà mirifica all'orifizio del culo sia per la dolcezza di quella pelurie sia pel tepore del papero che facilmente comunicandosi al budello anale ed agli altri intestini, arriva fino alla regione del cuore e del cervello. Oh, non è a credere che la beatitudine degli eroi e semidei che se la godono nei Campi Elisi, derivi dal loro asfodelo, o dall'ambrosia e del nettare come dicono le nostre vecchierelle. La loro beatitudine viene, a mio avviso, dal forbirsi il culo con un'ochetta. Così la pensa anche mastro Giovanni di Scozia.





CAPITOLO XIV.



Come qualmente Gargantua fu istruito da un sofista nelle lettere latine.



All'intender questi discorsi il buon uomo Grangola fu rapito d'ammirazione per l'assennatezza e la meravigliosa intelligenza del suo figliolo Gargantua e disse alle governanti:

- Filippo, re di Macedonia, riconobbe l'accortezza del figlio Alessandro dal modo di domare destramente un cavallo. Quel cavallo era sì terribile e sfrenato che nessuno osava montarlo: a tutti i cavalcatori dava gran riscossoni e a chi faceva rompere il collo, a chi le gambe, a chi la testa, a chi le mascelle. Ciò considerando Alessandro nell'ippodromo (dove si facevano movere e volteggiare i cavalli) s'accorse che la furia di quello non veniva se non dallo spavento della sua ombra. E allora salito in groppa lo spinse a corsa nella direzione del sole, sicché l'ombra si proiettasse dietro e in questo modo rese il cavallo docile al suo volere. Da ciò riconobbe il padre la divina intelligenza del figlio e lo fece egregiamente istruire da Aristotele il più stimato allora fra tutti i filosofi greci. Ebbene, io vi dico che solo dall'argomento trattato ora davanti a voi con Gargantua, ho compreso che qualcosa di divino è nel suo intelletto, tanto m'appare acuto, sottile, profondo e sereno. Bene istruito salirà a grado sovrano di sapienza. Voglio pertanto affidarlo a qualche gran dotto che lo ammaestri secondo le sue facoltà; e nulla sia risparmiato.

Gli consigliarono infatti un gran dottore in teologia chiamato Maestro Thubal Oloferne, il quale gl'insegnò così bene l'alfabeto che lo recitava a memoria anche a rovescio.

Questo insegnamento richiese cinque anni e tre mesi. Poi gli lesse il Donato, il Faceto, il Teodoleto e Alano in Parabolis. Questo insegnamento richiese tredici anni, sei mesi e due settimane.

Ma notate che intanto gl'insegnava a scrivere in caratteri gotici e così gli faceva copiare tutti i suoi libri, poiché l'arte della stampa non usava ancora.

Portava dunque seco un grosso scrittoio pesante più di settemila quintali, l'astuccio del quale eguagliava in altezza e grossezza i pilastroni della chiesa di Ainay; il calamaio, appesovi con grosse catene di ferro, poteva contenere una botte d'inchiostro.

Poi gli lesse il De modis significandi coi commenti di Urtaborea, Facchino, Cenetroppi, Galeotto, Gianvitello, Billonio, Leccasterco e d'un branco d'altri. Questo insegnamento richiese più di diciotto anni e undici mesi. E l'imparò così bene che, messo alla prova, lo rivomitava alla rovescia e dimostrava sulla punta delle dita alla madre che de modis significandi non erat scientia.

Poi gli lesse il Composto, impiegandovi sedici anni e due mesi, ma ecco che il detto precettore morì e



Fu l'anno mille quattrocento venti

Per uno scol che tolselo ai viventi.



Gli successe come precettore un vecchio catarroso, chiamato Maestro Giobelino Imbrigliato, che gli lesse Hugutio, il Grecismo di Hebrard, il Dottrinale, le Parti, il Quid est, il Supplementum, il Marmotteto, il De moribus in mensa servandis, il libro di Seneca: De quattuor virtutibus cardinalibus, il Passavanti con commento, il Dormi secure, per le feste, e vari altri della stessa farina.

Con questi studi divenne tanto sapiente che mai d'allora in poi ne fu infornato uno altrettale.





CAPITOLO XV.



Come qualmente Gargantua fu affidato ad altri precettori.





Intanto il padre notò che veramente il ragazzo studiava con amore e allo studio dava tutto il suo tempo, ma che non ne traeva profitto anzi, ciò ch'è peggio, ne diveniva matto, cretino, fantastico, farneticante.

E rammaricandosi un giorno con Don Filippo De Marais, viceré di Papaligozza, questi gli disse che sarebbe stato meglio non imparasse nulla piuttosto che ficcarsi in testa quei libri, con quei precettori: la scienza loro non era che bestialità, la loro sapienza scempiaggine, a non altro adatta che a imbastardire i buoni e nobili spiriti e a corrompere ogni fior di giovinezza. "Ne volete una prova? disse, prendete un giovanetto di questi d'ora che abbia studiato solo un paio d'anni, e se non mostrerà miglior giudizio, miglior parlare, migliori concetti di vostro figlio e anche miglior contegno e garbo tra la gente, dite pure d'ora innanzi ch'io non son altro che un taglia salame della Brenne".

Piacque la proposta a Grangola e volle si facesse la prova.

La sera, a cena, il detto De Marais, presentò un suo paggetto di Villegongis, chiamato Eudemone, tanto ben pettinato e abbigliato, e pulitino, e grazioso nei modi che pareva un angioletto piuttosto che un uomo. E disse a Grangola:

- Vedete questo ragazzo? Non ha sedici anni; vediamo, di grazia, qual differenza sia tra il sapere dei vostri vuoti matteologi d'un tempo e i giovani d'oggidì.

- Vediamo, disse Grangola e comandò che il paggio incominciasse per primo.

Allora Eudemone, chiestane prima licenza al Viceré suo signore, col berretto in mano, la faccia aperta, le sue labbra rosse, gli occhi sicuri, volto lo sguardo a Gargantua, restando in piedi con modestia giovanile, cominciò a lodarlo ed esaltarlo prima per la virtù dei buoni costumi, in secondo luogo pel sapere, in terzo luogo per la nobiltà, in quarto luogo per la sua bellezza fisica. In quinto luogo lo esortava dolcemente a riverire con ogni riguardo suo padre, il quale si studiava di farlo ben istruire; e per ultimo lo pregava che volesse considerarlo come il più umile de' suoi servi. Poiché altro dono non chiedeva al cielo pel momento, se non la fortuna di rendergli qualche gradito servigio.

Tutto il discorso fu profferito con gesti sì acconci, pronunzia sì schietta, voce sì eloquente e un fraseggiar latino sì puro ed adorno che parve un Gracco, un Cicerone, o un Emilio di Roma antica, meglio che un giovanetto di questo secolo.

La prova di Gargantua invece fu questa: che mettendosi a piangere come un vitello e nascondendo la faccia col berretto, non fu possibile cavargli una sola parola più che un peto da un asino morto.

Il padre ne fu tanto corrucciato che voleva ammazzare Mastro Giobelino. Ma il detto De Marais glielo impedì persuadendolo con buone parole a moderare la collera. Comandò tuttavia Grangola che fosse regolato subito il conto a Giobelino e che, dopo averlo fatto tracannare teologalmente, lo mandassero a tutti i diavoli.

Così, aggiungeva, se morisse briaco come un inglese per oggi almeno non costerebbe nulla al suo oste.

Partito Mastro Giobelino, Grangola chiese al Viceré quale precettore potesse consigliargli e fu tra loro stabilito di affidare l'ufficio a Ponocrate, precettore di Eudemone. E che tutti insieme andassero a Parigi per sapere quali erano gli studi dei giovanetti francesi di quel tempo.





CAPITOLO XVI.



Come qualmente Gargantua fu inviato a Parigi e l'enorme giumenta che lo portò e come qualmente essa si sbarazzò delle mosche bovine della Beauce.



Quella stessa stagione, Fayoles, quarto re di Numidia, mandò dall'Africa a Grangola la più enorme e grande giumenta che mai si vedesse, e la più mostruosa. (Dall'Africa, infatti, come sapete, giungono sempre cose mai viste). Era grande come sei oriflanti, aveva i piedi digitati come il cavallo di Giulio Cesare, le orecchie spenzolanti come le capre di Linguadoca e un piccolo corno sul culo. Quanto al resto aveva pelo rossigno fulvo intrammezzato di pomelli grigi. Ma soprattutto, aveva una coda orribile, grossa, pelo più, pelo meno, come la torre di Saint-Mars, presso Longès, e quadrata del pari, con ciuffi adunchi né più né meno che spighe di frumento.

Se ciò vi stupisce, stupitevi anche più della coda dei montoni sciti, che pesava più di trenta libbre, e delle pecore di Soria alle quali (se è vero ciò che dice Tenaud) bisogna attaccare una carretta al culo per portare una coda tanto lunga e pesante. D'egual misura non l'avete voialtri, porcaccioni d'insignificanti paesi.

Essa fu imbarcata su tre caracche e un brigantino fino al porto di Olona, in Thalmondoys.

Quando Grangola la vide: "Ecco, disse, quel che ci vuole per portare mio figlio a Parigi. Ora sì, per Dio, che tutto andrà bene! Ed egli diventerà un gran chierico. Ah, se non ci fossero le signore bestie noi vivremmo come chierici".

L'indomani, dopo bere si sottintende, Gargantua, il suo precettore Ponocrate, il seguito e con essi il paggio Eudemone, si misero in viaggio. E poiché il tempo era sereno e mite, suo padre gli aveva fatto fare degli stivali gialli; Babin li chiama borzacchini.

Viaggiarono allegramente, sempre in gozzoviglia, fin sopra Orlèans. Là era un'estesa foresta, trentacinque leghe lunga e larga diciassette, o all'incirca, orribilmente fertile e infestata di mosche bovine e calabroni: un vero brigantaggio per le povere giumente, gli asini e i cavalli. Ma la giumenta di Gargantua vendicò bravamente tutti gli oltraggi colà perpetrati sulle bestie della sua specie, con un tiro che nessuno s'aspettava. Infatti, appena entrarono nella foresta, i calabroni volarono all'assalto, ma essa sguainò la sua coda e avventandola intorno, non solo li disperse, ma abbattè tutto il bosco. Come un falciatore fa cader l'erba così essa abbatteva gli alberi a torto e a traverso, di qua, di là, di su, di giù, in lungo e in largo, sopra e sotto di guisa che sparirono e bosco e calabroni: tutto il territorio fu rasa campagna.

A quello spettacolo Gargantua tutto gongolante, pur senza vantarsene, disse alla sua gente: "Beau ce". Da quel giorno la regione cominciò a chiamarsi la Beauce.

Ma tutta la colazione si ridusse a sbadigli. In memoria di che anche oggi i gentiluomini della Beauce fanno colazione di sbadigli e ne hanno buon pro e ci sputano anche meglio.

Finalmente giunsero a Parigi. Per due o tre giorni si ristorarono facendo baldoria con tutto il seguito. Ma s'informarono intanto delle persone più sapienti ch'erano allora nella città e anche se c'era buon vino.





CAPITOLO XVII.



Come qualmente Gargantua pagò il suo benvenuto ai Parigini e come portò via i campanoni della chiesa di Notre-Dame.





Qualche giorno dopo essersi ristorati, mentre Gargantua andava in giro a visitare la città, tutta la gente restava a bocca aperta ad ammirarlo.

Il popolo di Parigi infatti è tanto balordo e scemo di sua natura che un ciarlatano, un monaco questuante, un mulo co' suoi sonagli, uno strimpellatore di viola a un quadrivio, chiaman più gente che un predicatore del Vangelo. Tanto molestamente dunque gli tenevan dietro che fu costretto a riposarsi sulle torri della chiesa di Notre-Dame.

E là seduto, vedendo tanta gente intorno a sé disse chiaramente: "Mi pare che questi bricconi vogliano che io paghi loro il benvenuto e la buona entrata. È giusto. Ora gli offro subito la bicchierata: ma sarà un vino par ris. E, tutto sorridente, spalancò la sua bella braghetta e spianando il bischero in aria li scompisciò sì aspramente e copiosamente che ne annegò duecentosessantamila quattrocento e diciotto, senza contare le donne e i fanciulli.

Un certo numero poté scampare a quella pisciaforte grazie alla leggerezza dei piedi. E pervenuti sull'altura dov'è l'Università, sudando, tossendo, sputando e ansimando, cominciarono a sacramentare e bestemmiare: "Per le piaghe di Dio! Rinnego Dio! Sangue di Diana, sta un po' a vedere!... Per la Merdiana! Per la testa di Dio! Das dich Gots leyden schend! Potta di Cristo! Ventre di San Quenet! Virtù di Dio! Per San Fiacre di Brie! Per San Ringano! Fò voto a San Teobaldo! Pasqua di Dio! Buondì di Dio! Che il diavolo mi porti! Fede di gentiluomo! Per Santa Salciccia! Per San Godegrande martirizzato a suon di mele cotte! Per San Fottino apostolo! Per San Vito! Per Santa Mamica! siamo inondati par ris! "

Da quel giorno la città fu chiamata Paris, mentre, prima si chiamava, come dice Strabone (lib. IV) Leucezia, cioè in greco: bianchetta, a cagione delle coscie delle dame di Parigi, che sono bianche.

E poiché inoltre, al momento dell'imposizione del nuovo nome ciascuno dei presenti bestemmiò invocando il santo della sua parrocchia, a Parigi, (specie di porto di mare dove c'è gente d'ogni razza) gli uomini son per natura forti giocatori forti giuristi e un tantino arroganti; onde Giovannino de Barranco a giusto titolo nel libro De copiositate reverentiarum stima che son detti Parrhesiens, cioè, in greco, valenti parlatori.

Gargantua, dopo la pisciata, considerando i campanoni delle torri, li fece suonare armoniosissimamente e ciò facendo gli venne in mente che ben potevano servir da sonagli sul collo della sua giumenta che voleva rimandare al padre carica di formaggi della Brie e d'aringhe fresche. E infatti se li portò a casa.

Intanto passò un pescaprosciutti, commendatore di Sant'Antonio per la sua questua suina, il quale avrebbe voluto portarseli via furtivamente perché il suono lo annunciasse da lungi e facesse tremare di paura i lardi in sale, ma poi, per sentimento d'onestà li lasciò stare; non è che scottassero, gli è che erano un tantinello pesantucci a portare. Badate che non era l'antonista di Bourg; quello è un mio carissimo amico.

Tutta la città fu in subbuglio. Alle sommosse, come sapete, sono tanto inclini, che i forestieri stupiscono della pazienza dei re di Francia i quali non li frenano, come giustizia vorrebbe, dati gli inconvenienti che sorgono ogni giorno. Ah volesse Dio che io conoscessi l'officina dove si fabbricano tanti scismi e macchinazioni, ben io vorrei denunciarla alla confraternita della mia parrocchia!

Il popolo dunque, tutto fuor di sé e balordo s'adunò alla Sorbona, dov'era allora e ora non è più, l'oracolo di Leucezia.

Colà fu esposto il caso e fu dimostrato il danno dei campanoni asportati.

Dopo aver ben sofisticato pro et contra, fu deliberato a mò di baratipton, doversi inviare a Gargantua i più anziani e competenti della facoltà di teologia, per dimostrargli quale orribile inconveniente fosse la perdita delle campane. E nonostante l'obiezione d'alcuni dell'Università che l'incarico meglio s'addiceva a un oratore che a un teologo, l'affare fu affidato al nostro Mastro Giannotto de Bragmardo.





CAPITOLO XVIII.



Come qualmente Giannotto De Bragmardo fu inviato a Gargantua per recuperare i campanoni.





Mastro Giannotto, tonduto alle cesarina e indossato il suo bravo tiripipion teologale, bene antidotato lo stomaco di cotognate al forno e d'acqua benedetta... di cantina, si recò all'abitazione di Gargantua parando avanti a sé vitelli dal muso rosa e traendo dietro cinque o sei maestri inerti unti e bisunti a gloria dell'economia. Li incontrò sull'entrata Ponocrate e spaventato in vederli così agghindati, pensava fossero maschere impazzite fuor di stagione. Poi chiese ad uno dei maestri inerti della carovana che cosa cercasse quella mascherata. Gli fu risposto che domandavano la restituzione delle campane.

Ponocrate corse subito a informarne Gargantua per poter dare sollecita risposta e deliberare prontamente sul da farsi. Gargantua, avvertito, chiamò in disparte Ponocrate suo precettore, Filotimo suo maggiordomo, Ginnasta suo scudiero ed Eudemone e li consultò brevemente su ciò che doveva fare e rispondere. Tutti furono d'avviso d'introdurre gl'inviati nel salotto di bevimento e lì che bevessero teologalmente; e intanto perché il catarroso Giannotto non si gloriasse d'aver ottenuto colla sua richiesta la restituzione delle campane, mentre egli beveva, si mandassero a chiamare il Prevosto della città, il Rettore della facoltà e il Vicario della chiesa, ai quali avrebbe consegnato le campane prima che il teologo esponesse il suo mandato. Dopo la consegna, presenti anche i sopravvenuti, avrebbero dato udienza all'arringa teologale. Così fu fatto. I chiamati arrivarono e il teologo, condotto nel bel mezzo della sala, cominciò, non senza tossire, come segue.





CAPITOLO XIX.



L'arringa di Mastro Giannotto De Bragmardo a Gargantua per recuperare le campane.



"Ehen, hen, hen,! Mna, dies signore, Mna dies! Et vobis, signore! Sarebbe un gran bel fatto che ci rendeste le nostre campane, poiché ne abbiamo molto bisogno. Hen, hen, hasc,! Ne abbiamo rifiutato una volta del bravo danaro sonante dai cittadini di Londra, in Cahors, e altresì da quelli di Bordeaux, nella Brie, i quali volevano comprarle per la sostantifica qualità della complessione elementare che è intronificata nella terrestrità della loro natura quidditativa, per estraniare gli aloni e i turbini dalle nostre vigne, veramente non nostre, ma poco ci manca. Poiché se perdiamo il sugo di vigna, tutto perdiamo; sentimento e legge.

"Se voi ce le restituite per mia richiesta io ci guadagnerò dieci spanne di salciccia e un buon paio di brache che saranno una grazia di Dio per le mie gambe, se no, non mi terranno la promessa. Oh, per Dio, Domine, un paio di brache non è mica un pugno in un occhio, et vir sapiens non abhorrebit eam. Ah, ah, non è mica dato a tutti avere un paio di brache. Io lo so bene per esperienza personale, pensate, Domine: son diciotto giomi che sto a rugumare questa bella arringa: Reddite quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo. Ibi iacet lepus. Date a Cesare quel ch'è di Cesare e date a Dio quel ch'è di Dio. Questo è l'importante.

"In fede mia, Domine se volete cenare con me in camera corpo di Dio, charitatis, nos facemus bonum cherubin. Ego occidi porcum et ego habet bon vino. Faremo una bella baldoria. Ho ammazzato un maiale e c'è buon vino in cantina. Ma di buon vino non si può fare cattivo latino. Orsù, da parte Dei, date nobis clochas nostra. In nome di Dio dateci le nostre campane. Tenete, vi regalo in nome della Facoltà, un esemplare dei Sermones de Utino, e utinam, una buona volta, consegnateci le nostre campane. Vultis etiam pardonos? Per Diem vos habebitis, et nihil payabitis. Volete indulgenze? Le avrete per dindirindina, e non pagherete un soldo. Oh, Signore! Domine clochi dona minor nobis. Per Diana! est bonus urbis. Tutti se ne servono. Se fanno comodo alla vostra giumenta, altrettanto alla nostra facoltà, la quale è comparata alle giumente insipienti ed è fatta a loro somiglianza: Quae comparata est jumentis insipientibus et similis facta est eis, Psalmo nescio quo, non so più in quale salmo, e sì che l'aveva annotato nei miei appunti; ed è unum bonum Achilles; argomento capitale. Hen, hen, ehen, hasch! Orsù, ecco vi provo che me le dovete consegnare. Ego sic argumentor. Onnis clocha clochabilis in clocherio clochando clochans clochativo clochare fecit clochabiliter clochantes. Parisius habet clochas. Ergo gluc. Ah, ah ah, questo si chiama parlare. E in tertio primae in Darii... o altrove. Ah, per l'anima mia, passò quel tempo che facevo il diavolo a quattro in argomentare. Presentemente non fo che farneticare: d'ora innanzi null'altro mi conviene che buon vino, buon letto, buon fuoco alle spalle, il ventre a tavola e scodella ben profonda. Ahi, Domine vi prego in nomine patris et Filii et Spiritus Sancti, amen, che rendiate le nostre campane: e che Dio vi preservi dal male e insieme Nostra Signora della Salute qui vivit et regnat per omnia saecula saeculorum, Amen. Hen, hasch shasch, grenhenhasch!

"Verum enim vero, quando quidem, dubio procul, Edepol quoniam ita, certe meus, deus fidius, una citta senza campane è come un cieco senza bastone, un asino senza sottocoda, una vacca senza sonaglio. E fino a che non ce le avrete restituite non cesseremo di gridarvi dietro come un cieco senza bastone, di ragliare come un asino senza sottocoda, di mugghiare come una vacca senza sonaglio.

"Un quidam latineggiatore dimorante presso l'Hotel Dieu disse una volta, allegando l'autorità d'un Taponnus, pardon, volevo dire Pontanus, poeta secolare, che s'augurava campane di piume con una coda di volpe per batacchio, perché gli davano la cronica alle trippe del cervello quando componeva i suoi vermi carminiformi. Ma nac, patatì patatà, tira, gira, molla, fu dichiarato eretico, noi le facciamo come di cera.

Il teste non ha più nulla da aggiungere. Valete et plaudite. Calepinus recensui.







CAPITOLO XX.



Come qualmente il teologo si portò il suo panno e come promosse lite ai Sorbonisti.





Non appena il teologo ebbe finito, Ponocrate ed Eudemone scoppiarono a ridere così profondamente che credettero render l'anima a Dio, né più né meno di Crasso quando vide un coglionaccio d'asino mangiarsi i cardi, e come Filemone il quale morì a forza di ridere vedendo un asino che mangiava i fichi preparati pel desinare. Insieme con loro cominciò a ridere anche mastro Giannotto e ridevano a gara tanto da averne le lagrime agli occhi per la veemente concussione della sostanza cerebrale dalla quale era stata spremuta quella umidità lagrimale e versata presso i nervi ottici. Pareva proprio che essi rappresentassero in quel modo Democrito eracliteggiante ed Eraclito democriteggiante.

Calmato il riso, Gargantua consultò la sua gente sul da farsi. Ponocrate fu d'avviso che si facesse ribere quel bell'oratore e poiché li aveva divertiti e fatti ridere più che non avrebbe fatto Songecreux, gli si regalassero le dieci spanne di salciccia menzionate nella allegra arringa, con un paio di brache, tre centinaia di ciocchi di legno scelto, venticinque moggi di vino, un letto a triplice strato di piuma anserina e una scodella ben capace e profonda: tutte comodità, com'egli aveva detto, necessarie alla sua vecchiaia.

Detto fatto. Ma Gargantua, dubitando si trovassero lì subito brache adatte a quelle gambe, né sapendo quale foggia meglio s'attagliasse al detto oratore, se colla martingala ch'è il ponte levatoio del culo, per andar di corpo più comodamente; oppure alla marinara per meglio alleviare i rognoni; o alla svizzera per tener calda la trippa; o a coda di merluzzo per non riscaldare i reni, gli fece dare sette aune di panno nero e tre di bianchetto per la fodera.

La legna fu portata dai facchini; i maestri in arti portarono le salsiccie e la scodella. Mastro Giannotto volle portare il panno.

Uno dei detti maestri, chiamato Jousse Baudouille gli rimostrò che ciò non era né decoroso né conveniente allo stato teologale e ch'era meglio dare il panno a qualcuno di loro.

- Ah, disse Giannotto, somaro due volte, tu non concludi affatto in modo et figura. Ecco a che cosa servono le supposizioni e le parva logicalia. Pannus pro quo supponite?

- Confuse et distributive, disse Baudouille.

- Io non ti domando, o somaro, disse Giannotto, quomodo supponit, ma bensì pro quo: pro tibiis meis, s'ha a dire, somaro. E perciò lo porterò io, egomet, sicut suppositum portat adpositum.

E così lo portò lui, alla chetichella, come già Pathelin.

Il bello fu quando il tossicoloso, presentandosi trionfalmente all'assemblea della Sorbona, richiese in compenso le brache e le salsicce promesse. La Sorbona glie le negò recisamente, avendole egli ricevute da Gargantua come s'era risaputo. Egli obbiettò che quelle le aveva ricevute gratis e che la liberalità del donatore non li svincolava dalla loro promessa. Ciò nonostante gli fu risposto che si contentasse d'aver ragione, che altro non avrebbe ricevuto.

- Ragione? disse Giannotto. Ma non sta di casa qua dentro! Traditori, sciagurati, gente da nulla! Non c'è sulla terra gente più perfida di voi; me n'intendo bene io. Non claudicate davanti a uno zoppo; son del mestiere. Anch'io appartenni alla vostra combriccola. Per la coratella di Dio, avvertirò il re, degli abusi enormi che si perpetrano qua dentro per opera e intrigo vostro. E mi colga la lebbra se non vi faccio bruciar vivi tutti quanti come sodomiti, traditori, eretici e seduttori, nemici di Dio e di virtù.

A queste parole stesero un atto d'accusa contro di lui e lui a sua volta li fece citare. Insomma il processo fu assunto dalla Corte ed è sempre in corso. I Sorbonicoli per questa faccenda fecero voto di non più ripulirsi e Mastro Giannotto coi suoi di non più soffiarsi il naso, finché non fosse pronunciata la sentenza definitiva.

Ecco la ragione per cui son rimasti fino ad oggi tanto sporchi e mocciosi; infatti la Corte non ha ancora ben vagliato tutti i documenti. La sentenza uscirà alle prossime calende greche, cioè l'anno del mai. Poiché, voi ben lo sapete, i teologi della Corte superano la natura e vanno contro i loro stessi articoli. Gli articoli di Parigi cantano chiaro che Dio solo può fare cose infinite, che la Natura nulla può fare d'Immortale: ma dà fine e compimento a tutte le cose da essa prodotte: omnia orta cadunt etc.

Questi ingollatori di nebbia invece conferiscono Infinità e Immortalità ai processi. E ciò facendo hanno realizzato e dimostrato la massima di Chilone Lacedemone consacrata in Delfo, il quale affermava: Miseria esser compagna di Processo e miseri essere i litiganti, i quali vedono prima la fine della loro vita che il riconoscimento del diritto reclamato.







CAPITOLO XXI.



Lo studio e la dieta di Gargantua secondo la disciplina dei suoi professori sorbonagri.





Passati così i primi giorni e rimesse al loro posto le campane, i cittadini di Parigi riconoscenti all'onestà di Gargantua, gli offrirono di mantenere e nutrire la sua giumenta finché gli piacesse. E avendo egli gradito l'offerta, la inviarono a pascolare nella foresta di Bière; ma credo che ora non ci sia più.

Quindi volle mettersi alacremente allo studio sotto la disciplina di Ponocrate, ma questi, in principio, ordinò che seguitasse secondo il suo costume, affine di comprendere come in sì lungo tempo, gli antichi precettori avessero potuto renderlo tanto sciocco, zuccone, e ignorante. Egli regolava dunque così le sue giornate: si svegliava tra le otto e le nove, facesse chiaro o no: così avevano ordinato i suoi pedagoghi teologi allegando il detto di David: Vanum est vobis ante lucem, surgere: è vano sorgere prima della luce.

Poi con sgambetti, salti e capriole faceva un po' di ginnastica sul letto per meglio destare gli spiriti animali, e si vestiva secondo la stagione, ma indossava volentieri una grande e lunga tunica di frisato grosso foderato di volpe; poi si pettinava col pettine di Almain, cioè colle quattro dita più il pollice, giacché i suoi precettori gli dicevano che pettinarsi in altro modo, e lavarsi e pulirsi era una perdita di tempo in questo mondo.

Poi cacava, pisciava, vomitava, ruttava, scorreggiava, sbadigliava, sputava, tossiva, dava il singhiozzo, sternutiva e si soffiava il naso all'arcidiacona; e faceva colazione, per combattere la rugiada e l'aria cattiva, con belle trippe fritte, belle braciole sulle bragie, bei prosciutti, bei capretti arrosto, e zuppe di prima in quantità. Ponocrate gli rimostrò che non doveva mangiare così subito appena alzato di letto senza aver fatto prima un po' di ginnastica. E Gargantua rispose:

- E che? Non basta voltolarsi nel letto, come ho fatto cinque o sei volte prima di alzarmi? Papa Alessandro faceva altrettanto per consiglio del suo medico ebreo e visse fino alla morte, a dispetto degli invidiosi. I miei maestri così m'hanno avvezzato dicendo che la colazione rinforza la memoria e davano per primi l'esempio del bere. Io me ne trovo benissimo e pranzo anche meglio. Mastro Tubal, che primeggiò tra i licenziati di Parigi al suo tempo, mi diceva che non era tutto, correre velocemente, ma che bisognava anche partir di buon ora: parimenti la salute totale del genere umano non istà nel reiterar sorsate l'una dopo l'altra come anitre, ma nel cominciare a bere di buon mattino; unde versus:



Levarsi all'alba non allieta il cuore;

Ma tracannare all'alba è assai migliore.



Dopo una copiosa colazione dunque, andava in chiesa dove gli portavano, dentro un gran paniere, un grosso breviario impantofolato, pesante, tra untume, fermagli e pergamena, undici quintali e sei libbre, poco più, poco meno. Sentiva ventisei o trenta messe; intanto capitava il suo elemosiniere ufficiale imbacuccato come un allocco e col fiato bene antidotato a forza di sciroppo vinoso.

Borbottava con esso tutti i suoi Kirie e con tanta attenzione se li sorbiva, da non lasciarne cadere una goccia.

Uscendo di chiesa gli conducevano sopra un carro di buoi un mucchio di rosarii di San Claudio, coi grani grossi quanto lo stampo d'un berretto; e passeggiando per chiostri, gallerie, o giardini ne sgranava da solo più di sedici eremiti.

Poi studiava una mezz'oretta, gli occhi fissi sul libro ma l'anima in cucina, come diceva il Comico.

Dopo aver pisciato un orinale pieno, sedeva a tavola. E poiché era per natura flemmatico, cominciava il pasto con qualche dozzina di prosciutti, di lingue di bue affumicate, di bottarghe, di salsiccie e simili altre avanguardie del vino. Intanto quattro camerieri gli gettavano in bocca palate di mostarda l'una dopo l'altra senza tregua; poi ci beveva su una spaventevole sorsata di vino bianco per sollevare i rognoni. Quindi mangiava, secondo la stagione, le carni che desiderava e non cessava di mangiare se non quando la pelle gli tirava. Né a bere conosceva termine o regola, poiché, diceva, solo termine e confine del bere essere quando il sughero delle pantofole per ringonfiamento si alzasse di un mezzo piede.





CAPITOLO XXII.



I giochi di Gargantua.





Poi, borbottando alla grossa un tocco d'orazione di ringraziamento, si lavava le mani con vin fresco, si curava i denti scarnificando un piede di maiale e chiacchierava allegramente coi suoi. Quindi, steso il tappeto verde, mettevan fuori mucchi di carte, di dadi e scacchiere.

E là giocava:



a goffo, a passadieci,

a primiera, a trentuno,

a rubamazzo, a pari e sequenza

a pigliatutto, ai trecento,

a trionfo, ai disgraziati,

a piccardia, alla condannata,

al centro, a carta voltata,

alla spinetta, al malcontento,

alla sfortunata, al lanzichenecco,

alla furba, al cucú,

a chi l'ha lo dica, a tavole intere,

a piglia,niente,gioca,fuori, a tavole abbassate,

a matrimonio, a rinnegadio,

al gallo, al forzato,

all'opinione, a dama,

a chi fa l'uno fa l'altro, a babuino,

a sequenza, a primus secundus,

all'uvette, a piè di coltello,

ai tarocchi, alle chiavi,

a cochinverde, chi vince perde al centro del quadrato,

al belinato, a pari e dispari,

al tormento, a testa e corona,

alla ronfa, alle martore,

al glic, agli aliossi,

agli onori, a bilia,

alla morra, al ciabattino,

agli scacchi, al gufo,

alla volpe, a leprottino,

a campana, a tirlintana,

alle vacche, ad avanti porchetto,

alla bianca, alle gazze,

alla fortuna, al corno,

alla zara, al bue,

alle tavole, alla civetta,

a nicca nocca, a ti pizzico senza ridere,

al lurco, alle beccate,

alla reginetta, a sferrar l'asino,

a sbaraglino, a trotta gregge tru,

al trictrac, a va somaro, su,

a io mi siedo, alle vallette,

alla barba d'oribus, alla verghetta,

alla boschina, alle piastrelle,

a tira lo spiedo, a ci sto anch'io,

alla botte in fiera, a spegnimoccolo,

a compare, prestami il tuo ai birilli,

sacco, al Siam,

alla coglia di montone, a palla piatta,

a buttafuori, al verrettone,

ai fichi di Marsiglia alla lippa,

alla mosca, a rosicamerda,

a dagli, arciere, dagli, ad Angenart,

a scuoiavolpe, alle boccie in corte,

alla granata, al volano,

all'uncino madama, a scondarella,

a vender l'avena, alla pentolaccia,

a soffiare il carbone, a mio talento,

ai responsori, al mulinello,

a giudice vivo e giudice ai giunchetti,

morto, a baston corto,

a trarre i ferri dal forno, a prillavola,

al finto villano, a mosca cieca,

ai quagliettini, al picchetto,

al gobbo di corte, alla bianca,

a San Trovato, al furetto,

a pizzica spugnole, alla seghetta,

al pero, al castelletto,

a pimpompetto, alla fila,

a trallalalella trallalalà, alla fossetta,

al cerchio, alla trottola,

alla troia, alla tromba,

a ventre contro ventre, al monaco,

alle tenebre, a beccalaglio,

allo stupito, alla grola,

al pallone, a gallo canta,

alla spola, a Colin maliardo,

a sculaccioni, a guardargli il muso,

alla scopa, allo spione,

a San Cosimo, vengo ad al rospo,

adorarti, al pallamaglio,

a lumacone il bruno, al pistone,

a vi colgo senza verde, a bilbochetto,

a pian pian bel bello se ne alle regine,

va quaresima, ai mestieri,

a quercia forcelluta, a testa a testa, o testa a

a caval per terra, piè,

alla coda del lupo, al pinotto,

a peto in gola, a mano morta,

a Guglielmino, dammi la ai buffetti,

mia lancia, a lavar la cuffia, madama,

a dondolarsi, allo staccio,

ai fasci di tre covoni, a seminar l'avena,

alla betulla, al ghiottone,

alla mosca, al molinetto,

a migna, migna, bue, a defendo,

agli spropositi, alla giravolta,

a nove mani, a schioppetto arrabbiato,

a testa pazza, a cul per terra,

a ponte caduto, all'aratro,

a bestia morta, alle fiche,

a monta monta la scaletta, alle pernacchie,

al porco morto, a pestamostarda,

a cul salato, a gambadilegno,

a l'uccellin volò, volò, alla ricaduta,

a caccia al terzo, a trar le freccie,

alle piramidi, a salincerchio,

a saltacespugli, alla gru,

a tagliar la strada, a taglia taglia,

alla cutt, ai biscottini sul naso,

al quattrino borsa in culo, agli schiaffi,

al nido di bozzagro, ai buffetti.

al passavanti.



Dopo aver ben giocato, stacciato, crivellato e passato il tempo, conveniva bere un pochino, cioè undici bigoncie a testa; e subito dopo banchettare, sopra un banco cioè, o sopra un bel lettone sdraiarsi e dormire due o tre ore senza cattivi pensieri, né maldicenza. Svegliatosi, scrollava un po' le orecchie e intanto gli portavano vin fresco e beveva meglio che mai. Ponocrate gli rimostrava non esser igienico bere dopo dormire.

- Ma, rispondeva Gargantua, se è proprio questa la vita dei Padri. Io di mia natura dormo salato e il sonno mi tien luogo d'altrettanto prosciutto.

Poi cominciava a studiare un tantino e giù paternostri! Per meglio snocciolarli nella debita forma, montava sopra una vecchia mula che aveva servito nove re, e così, borbottando colla bocca e dondolando la testa, andava a veder prendere i conigli colle reti.

Al ritorno entrava in cucina per informarsi quale arrosto fosse allo spiedo. E cenava benone, in coscienza, e volentieri convitava qualcuno dei beoni vicini coi quali bevendo a gara, contavano e il vecchio e il nuovo.

Frequentavano la casa fra gli altri i signori De Fou, De Gourville, De Grignault e De Marigny. Dopo cena venivano in tavola: belli evangeli di legno, vale a dire scacchiere, o il bel flusso o un due tre o tutti gli altri giochi, tanto per farla breve, oppure andavano a trovare le ragazze dei dintorni e lì nuovi spuntini e pusigni e ripusigni. Poi dormiva tutto un sonno filato fino all'indomani alle otto.





CAPITOLO XXIII.



Come qualmente Gargantua fu educato da Ponocrate con disciplina tale che non perdeva

un'ora del giorno.







Quando Ponocrate conobbe la maniera sbagliata di vivere di Gargantua, deliberò d'istruirlo nelle lettere in modo diverso: ma pei primi giorni tollerò l'antico andamento considerando che la natura non sopporta mutazioni repentine senza grave malanno.

Per meglio cominciar l'opera sua supplicò un sapiente medico di quel tempo, nominato Teodoro, che studiasse il possibile per rimettere Gargantua su miglior via. Egli lo purgò, secondo le regole, con elleboro d'Anticira. Con tal medicina lo guarì dal disordine e dai vizi del cervello, e parimenti gli fe' dimenticare tutto ciò che aveva imparato sotto gli antichi precettori, come già usava Timoteo per quei discepoli che erano stati istruiti da altri musici.

A meglio ottenere il suo fine, l'introdusse nelle compagnie dei sapienti di Parigi, a emulazione dei quali gli crebbe l'ardore e il desiderio di studiare in modo diverso e di far apprezzare il suo valore.

Poi gli diede tale indirizzo di studi che non perdeva un'ora del giorno e dava tutto il suo tempo alle lettere e all'onesto sapere.

Si svegliava infatti Gargantua circa le quattro del mattino. Mentre gli facevano il massaggio, gli si leggeva qualche pagina della Sacra Scrittura a voce alta e chiara e con pronunzia adatta alla materia. A questo ufficio era addetto un giovane paggio nativo di Basché nominato Anagnoste. Secondo l'argomento della lettura spesso si dava a riverire adorare, pregare, e supplicare il buon Dio, la maestà e i meravigliosi avvedimenti del quale, la lettura aveva illustrato.

Poi andava al cesso a fare escrezione della digestione naturale. Ivi il precettore ripeteva ciò che era stato letto chiarendogli i punti più oscuri e difficili. Tornando consideravano lo stato del cielo, se era quale l'avevano lasciato la sera precedente, in quali segni dello zodiaco entravano il sole e la luna in quel giorno.

Ciò fatto, mentre lo vestivano, pettinavano, ravviavano, abbigliavano e profumavano, gli ripassavano le lezioni del giorno avanti. Egli stesso le recitava a memoria e vi applicava qualche caso pratico e concernente le umane condizioni. Talora prolungavano questo esercizio per due o tre ore, ma di solito tralasciavano quando era completamente abbigliato. Poi per tre buone ore gli facevano lettura.

Usciti quindi all'aperto sempre conversando degli argomenti trattati dalla lettura, andavano al Bracque o nei prati e giocavano alla pallacorda, al pallone, alla pila trigona, esercitando gagliardamente il corpo come prima avevano esercitato la mente. Giocavano in piena libertà, interrompendo la partita quando piaceva loro e cessavano, di consueto, quand'erano vinti dal sudore o dalla stanchezza. Allora erano ben asciugati e strofinati, si cambiavano di camicia e passeggiando tranquillamente andavano a vedere se il pranzo era pronto e in attesa recitavano chiaramente con eloquenza alcune sentenze ritenute dalla lezione.

Intanto veniva Monsignor l'Appetito e a buon punto si mettevano a tavola. Al principio dei pasti un lettore leggeva qualche piacevole istoria delle antiche prodezze fino a che Pantagruele avesse fatto recare il suo vino. Allora, se pareva opportuno, si continuava la lettura, o cominciavano a conversare allegramente insieme, parlando, nei primi mesi, della virtù, proprietà, efficacia e natura di tutto ciò ch'era servito in tavola: pane, vino, acqua, sale, carni, pesci, frutta, erbe, radici, e del modo di prepararle. Ciò facendo, apprese in poco tempo tutti i passi concernenti quelle materie, di Plinio, Ateneo, Dioscoride, Giulio Polluce, Galeno, Porfirio, Appiano, Polibio, Eliodoro, Aristotele, Eliano e altri. E dopo aver ragionato di questi autori, per controllare i testi facevano portare i loro volumi. In tal modo egli apprese a mente così bene le dette cose, che non c'era medico, allora, che ne sapesse la metà. Dopo conversavano degli argomenti letti nel mattino e finivano il pasto con un po' di cotognata.

Si curava i denti con un ramo di lentisco, si lavava mani ed occhi con bell'acqua fresca e rendeva grazie a Dio con qualche bel cantico composto in lode della benigna munificenza divina.

Portavano poi delle carte, non per giocare ma per apprendervi mille piccole combinazioni e invenzioni tratte dall'aritmetica. Alla quale tanto s'appassionò che tutti i giorni dopo pranzo e dopo cena si divertiva colla scienza dei numeri quanto prima coi dadi e le carte. E divenne sì profondo nell'aritmetica teorica e in quella pratica, che l'inglese Tunstal il quale aveva trattato diffusamente la materia, confessò d'essere rimasto, di fronte a Gargantua, all'abbicì.

E non solamente imparò l'aritmetica, ma altre scienze matematiche come geometria, astronomia, musica. Poiché, attendendo la concezione e digestione degli alimenti, fabbricavano mille piacevoli strumenti, componevano figure geometriche e parimente applicavano i canoni astronomici. Poi si divertivano a cantare cori di quattro o cinque voci accordate musicalmente, oppure svolgevano un tema così a capriccio di gola. Degli strumenti musicali imparò a suonare il liuto, la spinetta, l'arpa, il flauto alemanno e quello a nove fori, la viola e il trombone.

Passata così un'ora e finita la digestione, si purgava degli escrementi naturali, poi si rimetteva al suo studio principale per tre ore o più, sia ripassando le cose lette il mattino, sia proseguendo il libro cominciato, sia esercitandosi a ben tracciare e comporre la scrittura gotica e la romana.

Uscivano poi dal palazzo con un giovane gentiluomo, turenese, lo scudiere Ginnasta, che gl'insegnava l'equitazione. Si cambiava vesti e montava un corsiero, un ronzino, un ginnetto, un barbero, un cavallo leggero, e li spingeva alla carriera, li faceva volteggiare in aria, varcar fossati, saltar palizzate, girare in tondo stretto, tanto a destra, come a sinistra. E non rompeva lancie poiché è la più gran sciocchezza del mondo dire: "Ho rotto dieci lancie in torneo, o in battaglia". Un carpentiere può fare altrettanto; buon titolo di gloria è invece con una sola lancia averne rotto dieci nemiche. Colla sua lancia dunque, acciaiata, dura e rigida, fracassava una porta, sfondava una corazza, atterrava un albero, infilava un anello, abbatteva una sella da battaglia, un usbergo, una monopola ferrata. Ciò faceva coperto d'armatura da capo a piedi.

Quanto alle bravure e alle acrobazie sul cavallo, nessuno lo superava. Il volteggiatore di Ferrara non era che una scimmia in confronto. Abilissimo appariva nel saltare rapidamente dall'uno all'altro di quei cavalli detti desultori, senza toccar terra: montava in sella da ciascun lato, colla lancia in pugno e senza staffe, guidava il cavallo, senza briglia, a suo piacere, poiché tali esercizi sono alla militare disciplina utilissimi.

Un altro giorno si esercitava al maneggio dell'azza e sì valentemente l'agitava e in rudi puntate sospingeva, e agilmente mulinando calava, che fu promosso cavaliere d'armi in campagna e in ogni prova.

Poi brandiva la picca, impugnava lo spadone a due mani, la spada bastarda, la spagnuola, la daga, il pugnale, corazzato e non corazzato, con scudo, con cappa e con rondella.

Cacciava il cervo, il capriolo, il daino, il cinghiale, le pernici, i fagiani, le ottarde. Giocava al pallone e lo faceva balzare in aria e col piede e col pugno. Lottava, correva, saltava e non a tre passi e un salto, non a piè zoppo, non alla tedesca, poiché, diceva Ginnasta, tali salti erano inutili e di nessun beneficio in guerra; ma d'un salto varcava un fossato, sorvolava una siepe, montava di slancio sei passi contro un muro e s'arrampicava in questo modo a una finestra dell'altezza di una lancia.

Nuotava in acqua profonda diritto e arrovesciato, di lato, movendo tutto il corpo, o i soli piedi, con una mano in aria nella quale teneva un libro; e così traversava la Senna senza bagnarlo e traendo coi denti il suo mantello come Giulio Cesare. Poi appoggiandosi con una mano entrava in una barca dalla quale si rituffava a capofitto nell'acqua, sondava il profondo, s'insinuava tra le roccie, piombava negli abissi e nei gorghi. Quindi girava a suo piacere la barca, la dirigeva, la spingeva rapidamente, o adagio, secondo corrente e contro corrente, la fermava nel rapido delle chiuse, con una mano la guidava e con l'altra schermeggiava un gran remo, tendeva la vela, s'arrampicava sull'albero per le sartie, correva sui pennoni, aggiustava la bussola, tendeva le boline, sbandava il timone.

Uscito dall'acqua, scalava rudemente la montagna e con pari franchezza scendeva; montava sugli alberi come un gatto, saltava dall'uno all'altro come uno scoiattolo e ne abbatteva i grossi rami come Milone. Con due pugnali aguzzi e due picconi provati, saliva sul tetto d'una casa come un sorcio e balzava dall'alto a terra in posizione da non farsi mai alcun male.

Lanciava il dardo, la sbarra di ferro, la pietra, il giavellotto, lo spiedo, l'alabarda, tendeva l'arco, e tirava a forza di reni le forti balestre d'assedio, sparava l'archibugio ad occhio, affustava il cannone e tirava al bersaglio, al pappagallo, dal basso in alto, dall'alto in basso, di fianco e all'indietro come i Parti. Saliva e scendeva con le mani per una corda attaccata a un'alta torre, con la stessa agilità e sicurezza come se camminasse sopra un prato ben livellato.

Si appendeva per le mani ad una pertica sospesa ai capi a due alberi e andava e veniva colle mani a tale velocità che non si poteva raggiungerlo correndo.

E per tenere in esercizio torace e polmoni gridava come cento diavoli. Io l'ho udito una volta chiamare Eudemone dalla porta di San Vittore ed ero a Montmartre. Stentore non ebbe tal voce alla battaglia di Troia.

Per rinforzare i nervi gli avevano fabbricato due grossi salmoni di piombo che egli chiamava manubrii, del peso, ciascuno, di ottomila e settecento quintali; li afferrava uno per mano, li elevava sopra la testa e così li teneva tre quarti d'ora e anche più, prova di forza inimitabile.

Giocava alla barra coi più forti, e quando il momento venisse, si piantava sui piè rigidamente e sfidava i più robusti a smuoverlo dandosi per vinto a chi lo scotesse, come già faceva Milone; e ad imitazione di lui serrava una melagrana nel pugno, regalandola a chi potesse strappargliela.

Dopo aver occupato così il suo tempo, gli facevano i massaggi, si lavava, mutava vestito e se ne ritornava pian piano.

Passando per prati o altri luoghi erbosi, osservavano gli alberi e le piante richiamandosi ai libri degli antichi che ne hanno scritto, come Teofrasto, Dioscoride, Marino, Plinio, Nicandro, Macerio e Galeno, e ne portavano a piene mani a casa consegnandole a un giovane domestico chiamato Rizotoma a cui erano affidati insieme coi marrelli, le vanghe, i zappini, i badili, le roncole e altri strumenti necessari a ben erborizzare.

Arrivati a casa, mentre si preparava la cena, ripetevano passi delle letture fatte e sedevano a tavola.

Notate qui che il desinare era sobrio e frugale: non mangiava che per calmare i latrati dello stomaco: la cena invece era copiosa e larga e tanto vi si cibava quanto gli era necessario per sostenersi e nutrirsi, che è la vera dieta prescritta da buona e sicura medicina, checché consiglino in contrario un branco di sciocchi medici addestrati alla scuola dei sofisti.

Durante la cena continuava la lettura cominciata a desinare finché sembrasse opportuno; poi si conversava di argomenti letterari e utili.

Dopo l'orazione di ringraziamento si davano a cantare musicalmente, a suonare strumenti armoniosi, oppure si dilettavano di piccoli passatempi, colle carte, coi dadi e coi bussolotti e là restavano allegramente divertendosi qualche volta fino all'ora di dormire; qualche volta andavano a visitare i crocchi di letterati o di viaggiatori che giungevano da paesi stranieri.

Nel pieno della notte, prima di ritrarsi, salivano sulle terrazze della casa a osservar l'aspetto del cielo, e vi notavano le comete, se ve ne fossero, e le figure delle costellazioni, le posizioni, i rapporti, le opposizioni e le congiunzioni degli astri.

Poi, insieme col precettore ricapitolava brevemente, all'uso dei pitagorici, tutto ciò che aveva letto, visto, imparato, fatto o inteso nel corso di tutta la giornata.

Indi pregavano Dio creatore, adorandolo e confermando la loro fede in lui, e glorificandolo della sua bontà immensa, e rendendogli grazie di tutto il tempo passato, si raccomandavano alla sua divina clemenza per tutto l'avvenire.

Ciò fatto andavano a riposare.





CAPITOLO XXIV.



Come qualmente Gargantua occupava il tempo quando l'aria era piovosa.





Se faceva tempo piovoso e burrascoso, la mattinata era occupata come il solito; solo faceva accendere un bello e chiaro fuoco per correggere l'intemperie dell'aria. Ma, dopo desinare, invece d'uscire per la ginnastica, restavano a casa e, per apoterapia, si divertivano a imballare fieno, a spaccare e segar legna e a battere il grano nel granaio. Poi studiavano pittura e scultura, o richiamavano in uso l'antico gioco degli aliossi come lo descrive Leonico e come lo gioca il nostro buon amico Lascaris. Giocando ricordavano i passi degli antichi autori riferentisi a tal gioco e qualche metafora da esso suggerita.

Anche andavano a vedere come si lavoravano i metalli o come si fondeva l'artiglieria, o i lavori dei lapidari, orefici e incisori di gemme, degli alchimisti, dei coniatori di monete, dei fabbricanti di tappezzerie, tessuti e velluti; degli orologiai e degli specchiai, dei tipografi, dei fabbricanti d'organi, dei tintori e d'altrettali artigiani e offrendo vino, dappertutto, potevano conoscere a considerare l'industria e le invenzioni dei mestieri.

Andavano a sentire le lezioni pubbliche, gli atti solenni, le esercitazioni retoriche, i discorsi, le arringhe degli avvocati di grido, i sermoni dei predicatori evangelici.

Passava per le sale e luoghi destinati a esercizi di scherma e là si misurava coi maestri d'ogni arme e mostrava coi fatti di saperne quanto e più di loro.

Invece di erborizzare, visitavano le botteghe dei droghieri, erboristi, speziali e consideravano accuratamente frutti, radici, foglie, gomme, sementi, grassi esotici e anche come li adulteravano.

Andava a vedere giocolieri, saltimbanchi e ciarlatani e ne considerava i gesti, le astuzie, le capriole e le belle parlate, singolarmente di quelli di Chaunys in Picardia, che sono per natura gran chiacchieroni e abili spacciatori di frottole in materia di scimmie verdi.

Ritornati per la cena, mangiavano più sobriamente degli altri giorni e carni più disseccative e meno sostanziose, affinché la temperie umida dell'aria comunicata ai corpi per necessario contatto, fosse in questo modo corretta, e non soffrissero incomodo per non aver fatto ginnastica come il solito.

Così fu educato Gargantua, e con questa regola quotidiana profittava come si comprende dovesse profittare un giovane giudizioso della sua età, con un esercizio continuo, il quale, benché sembrasse difficile in principio, diveniva in seguito tanto dolce, lieve e piacevole da apparire passatempo regale, piuttosto che studio di scolaro.

Tuttavia Ponocrate per sollevarlo dalla veemente tensione mentale, sceglieva, una volta al mese, un giorno ben chiaro e sereno nel quale uscivano di città fin dal mattino e andavano o a Gentilly, o a Boulogne, o a Montrouge, o al ponte di Charanton, o a Vanves, o a Saint-Cloud. E là passavano tutta la giornata a far la più gran baldoria del mondo, scherzando, divertendosi, bevendo, giocando, cantando, danzando, voltolandosi sull'erba di qualche bel prato, snidando passerotti, cacciando quaglie, pescando rane e gamberi.

Ma, se la giornata passava senza libri e letture, non passava tuttavia senza profitto, poiché ripetevano a memorta dei versi delle Georgiche di Virgilio, di Esiodo, del Rusticus del Poliziano, componevano qualche piacevole epigramma latino e lo traducevano in rondò e ballate francesi.

Banchettando separavano l'acqua dal vino annacquato come insegna Catone nel De re rustica e Plinio, con un bicchiere fatto d'edera; lavavano il vino in una bacinella piena d'acqua, poi lo ritiravano con un imbuto e facevano passar l'acqua da un bicchiere a un altro; costruivano parecchi piccoli congegni automatici, vale a dire semoventi da se stessi.





CAPITOLO XXV.



Come qualmente sorse gran conflitto tra i focacceri di Lernè e quelli del paese di Gargantua, onde seguirono grosse guerre.



In quel tempo, era il principio dell'autunno, stagione delle vendemmie, i pastori della contrada che facevan guardia alle vigne per impedire agli stornelli di beccar l'uva, videro i focacceri di Lernè passare presso il quadrivio portando alla città dieci o dodici carichi di focaccie.

Essi chiesero cortesemente che ne vendessero loro qualcuna, al prezzo del mercato. Notate ch'è un mangiar di paradiso, far colazione d'uva e focaccia fresca; massimamente d'uva pinella, uva ficarola, moscatella, zibibbo, e d'uva cachereccia, che fa andar gli stitici come una fontana e spesso credendo scorreggiare se la fanno addosso, onde son chiamati cuideurs des vendanges.

Alla richiesta non consentirono i focacceri, anzi, ciò ch'è peggio, li insultarono grandemente chiamandoli affamati, sdentati, buffoni di pel rosso, galeotti, cacainletto, ragazzacci, lime sorde, fannulloni, leccapiatti, buzzoni, fanfaroni, cattivi soggetti, zoticoni, rompiscatole, rodibriciole, rodomonti, fiocchettoni, scimmiotti, lasagnoni, miserabili, macacchi, matti, zucconi, buggeroni, palloni, pitocchi, bovai da stronzi, pastori di merda ed altrettali epiteti diffamatori, aggiungendo che non eran pan pe' lor denti quelle belle focaccie e ch'era anche troppo per loro grosso pan di crusca e pagnottaccia.

A quell'oltraggio uno dei pastori chiamato Forgier, onesto e valente giovanotto, rispose garbatamente:

- Da quando avete voi messo corna, che siete tanto arroganti? Diavolo! Una volta ce ne vendevate pure. Ed ora rifiutate! Non è questo il modo di trattare da buoni vicini; non v'accogliamo mica così noi quando venite a comprare il nostro bel frumento per fare pasticcini e focaccie. In cambio di focaccie vi avremmo dato la nostra uva; ma per la madre di Dio, potreste pentirvene: o un giorno o l'altro avrete a fare con noi: verrà la nostra volta, ricordatevene.

Allora Marchetto, gran gonfaloniere della corporazione dei focacceri gli disse:

- Ah, ah che galletto, e che cresta stamattina! Devi aver mangiato di molto miglio iersera. Vien qua, vien qua che ti darò le focaccie.

Forgier, s'avvicinò in tutta semplicità e trasse dalla cintura una moneta pensando che Marchetto gli avesse a spacchettare qualche focaccia; ma quegli gli menò una sì rude frustata sulle gambe da lasciarvi il segno di tutti i nodi, poi si diede a scappare; ma Forgier, gridando con quanto fiato aveva in gola: Soccorso! all'assassino! gli avventò il grosso randello che teneva sotto l'ascella, e lo colpì alla giuntura coronale della testa, sull'arteria crotafica della tempia destra in tal guisa, che Marchetto stramazzò dalla giumenta e meglio sembrava uomo morto che vivo.

Intanto i mezzadri che abbacchiavan le noci lì presso accorsero coi loro perticoni e giù addosso ai focacceri come battessero segala verde. Gli altri pastori e pastore, udendo le grida di Forgier sopraggiunsero con fionde e bracciali e via a inseguirli tempestando loro addosso una grandinata di pietre. Finalmente li raggiunsero e tolsero loro quattro o cinque dozzine di focaccie; tuttavia li pagarono al prezzo d'uso e diedero loro un centinaio di noci e tre ceste d'uva bianca. Poi i focacceri aiutarono a rimontare in sella Marchetto, malamente ferito, e invece di proseguire per Parilly, ritornarono a Lerne, minacciando forte i bovai pastori e mezzadri di Seuilly e di Cynays.

Pastori e pastore invece fecero gran baldoria con quelle focaccie e bella uva e se la spassarono insieme al suono della zampogna, ridendosi di que' bei focacceri che avevano avuto mala sorte per non essersi segnati il mattino con la mano buona. Poi con sugo di grossa uva canina fecero una bella unzione sulle gambe di Forgier, che ne fu ben presto guarito.







CAPITOLO XXVI.



Come qualmente gli abitanti di Lernè, per comando del re loro Picrocolo, assalirono d'improvviso i pastori di Gargantua.



Tornati a Lernè i focacceri, senz'altro, prima ancora di mangiare e bere si recarono sul Campidoglio e là innanzi al re, chiamato Picrocolo, terzo di questo nome, presentarono i loro lagni mostrando i panieri rotti, i berretti gualciti, le vesti lacerate, le focaccie andate in malora e specialmente la enorme ferita di Marchetto e affermarono che tutto ciò era accaduto causa i pastori e mezzadri di Grangola, sul gran quadrivio dopo Seuilly.

Il re montò subito in furore e senza più chiedere né come né perché, fece gridare il bando per tutto il paese imponendo che ciascuno sotto pena d'impiccagione convenisse in armi sulla piazza grande davanti al castello nell'ora del mezzodì.

Per meglio confermare il suo disegno ordinò di dar dentro ai tamburi tutt'intorno alla città ed egli stesso, mentre preparavano il desinare, andò a far affustare l'artiglieria, spiegare bandiere ed orifiamme, e caricare gran quantità di munizioni da guerra e da bocca.

Desinando distribuì i comandi e fu per suo decreto stabilito che comandasse l'avanguardia il Signore Granpelo con sedicimila e quattordici archibugieri e trentacinquemila e undici fanti.

Il Grande Scudiero Toccaleone fu incaricato del comando dell'artiglieria composta di novecento quattordici grossi pezzi di bronzo, tra cannoni, doppi cannoni, basilischi, serpentine, colubrine, bombarde, falconi, passavolanti, spirole e altri pezzi.

La retroguardia fu affidata al duca Raspadanari, al centro si tenne il re coi principi del reame.

Così sommariamente ordinati, prima di mettersi in marcia inviarono trecento cavalleggeri sotto gli ordini del capitano Ingollavento per compiere ricognizioni nella regione e scoprire se vi fossero imboscate; ma dopo aver accuratamente esplorato, trovarono tutto il paese intorno tranquillo e silenzioso senza traccia di genti riunite.

Ciò inteso, Picrocolo comandò che tutti marciassero rapidamente dietro le loro bandiere.

Si misero dunque in campagna senz'ordine e misura, gli uni confusi con gli altri, guastando e distruggendo tutto per dove passavano senza risparmiare né ricco, né povero, né luogo sacro, né profano; portavano via buoi, vacche, tori, vitelli, manze, pecore, montoni, capre e caproni, galline, capponi, pollastri, paperi, oche, maiali, troie, porcellini. Bacchiavano le noci, vendemmiavano le vigne, estirpando anche le viti, squassavano tutte le frutta dagli alberi. Facevano un danno incomparabile e non trovarono alcuno che resistesse: tutti si rendevano a discrezione e li supplicavano di trattarli più umanamente, ricordando che in ogni tempo erano stati buoni vicini e amici, senza che essi mai avessero commesso né sopruso né offesa contro loro per essere così improvvisamente maltrattati; e che Dio li avrebbe presto puniti. A quelle rimostranze nient'altro rispondevano se non che volevano insegnar loro a mangiare focaccie.





CAPITOLO XXVII.



Come qualmente un monaco di Seuilly salvò il brolo dell'abbazia dal saccheggio dei nemici.





Tanto fecero e tempestarono saccheggiando e rapinando, che arrivarono a Seuilly, ove spogliarono uomini e donne e portarono via ciò che poterono, nulla trovando troppo caldo o troppo pesante. Benché la peste fosse nella maggior parte delle case, entravano dappertutto, rubavano quanto v'era, e ciò ch'è mirabile, a nessuno colse malanno; i curati, vicari, predicatori, medici, chirurghi e farmacisti che andavano a visitare, curare, guarire, sermoneggiare e consigliare i malati, erano tutti morti del contagio; a quei diavoli di ladri ed assassini non capitò mai alcun male. Onde procede ciò, Signori? Pensateci, ve ne prego.

Dopo aver saccheggiato il borgo, si recarono all'abbazia con orribile tumulto, ma la trovarono ben serrata e chiusa, onde l'esercito principale passò oltre verso il guado della Vède; non si fermarono che sette bande di fanti e duecento lancie che abbatterono le mura di cinta per rovinare tutta la vendemmia.

I poveri diavoli di monaci non sapevano a che santo votarsi. Ad ogni buon conto fecero suonare ad capitulum capitulantes.

Là deliberarono di fare una bella processione rinforzata di bei cantici e litanie contra hostium insidias e corroborata di bei responsi pro pace.

Era nell'abbazia un monaco claustrale chiamato frate Gianni degli Squarciatori, giovane, gagliardo, agghindato, di buon umore, ben destro, ardito, avventuroso, risoluto, alto, magro, ben tagliato di bocca, ben provvisto di naso, svelto sbrigator di preghiere, rapido spacciatore di messe, magnifico sbarazzator di vigilie, e insomma, per farla corta vero monaco in monacheria; e, quanto al resto, ferrato fino ai denti in materia di breviario.

Sentendo egli il fracasso dei nemici dentro il recinto della vigna, uscì per vedere ciò che fosse e vedendo che vendemmiavano il vigneto nel quale era il bere di tutta l'annata, ritorna nel coro della chiesa dov'erano gli altri monaci, tutti sbalorditi come fonditori di campane, e sentendoli cantare Ini, nim, pe, ne, ne, ne, ne, ne, ne, ne, tum, ne, num, num, ini, i, mi, i, mi, co, o, ne, no o, o, ne, no, no, no, rum, ne, num, num:

- Ah, ah, diss'egli, ben caca... cantato! Ma dovreste, perdio, cantare:



Addio panieri, la vendemmia è fatta.



Do l'anima al diavolo se non sono già nella nostra vigna e se non tolgono uva e pampini così bene che, corpo di Dio, non ci sarà più modo di coglier uva per quattr'anni. E che berremo intanto noi poveri diavoli, pel ventre di San Giacomo? Oh, Signore Iddio, da mihi potum!

- Che fa qui quest'ubriacone, disse il priore del convento, mettetelo in prigione. Turbare così il servizio divino!

- Ma, disse il monaco, il servizio del vino facciamo sì che non sia turbato! poiché a voi stesso signor Priore, piace ber del migliore. E così fa ogni uomo dabbene; mai uomo nobile odiò buon vino: è questo un apoftegma monacale. Ma le antifone che state ora cantando non sono di stagione.

Perché credete che le vostre ore di breviario siano corte al tempo delle messi e delle vendemmie e lunghe per l'avvento e durante l'inverno? Il defunto Frate Macé Pelosse di buona memoria, vero zelatore (o io do l'anima al diavolo) della nostra religione, mi disse, lo ricordo, che così era perché in questa stagione, si possa ben pigiare e fare quel vino che d'inverno s'ha poi a bere.

Ascoltatemi, signori! Chi ama il vino, corpo di Dio, mi segua! E arditamente, e che mi bruci Sant'Antonio se gusteranno più il sugo coloro che non soccorsero la vigna! I beni della chiesa, ah ventre di Dio! Ah, no, no! Diavolo! Per essi volle morire San Tommaso l'Inglese! Se morissi anch'io non sarei santo del pari? Ma non morrò tuttavia, poiché io farò morire gli altri.

Ciò dicendo si sbarazzò della lunga tonaca, afferrò l'asta della croce che era di cuor di corniolo, lunga come una lancia, tonda e adatta a bene impugnarsi e incisa qua e là di fiori di giglio quasi totalmente scomparsi. Saltò fuori in casacca colla sua cocolla a mò di sciarpa e coll'asta della croce piombò di colpo sui nemici. Vendemmiavano essi nella vigna senza bandiere, né tromba, né tamburo, poiché i portaguidoni e portabandiera avevano lasciato guidoni e bandiere presso il muro e i tamburini avevano sfondato da una parte i tamburi per riempirli d'uva, le trombe erano cariche di grappoli e di tralci, tutti erano sbandati. Egli dunque, così tremendamente piombò loro addosso senza dir né ahi né bai, che li rovesciava come porci picchiando per diritto e per traverso secondo la vecchia scherma.

Agli uni sfracellava il cervello, agli altri spezzava braccia e gambe, ad altri slogava le vertebre del collo, ad altri demoliva le reni, asportava il naso, sacramentava gli occhi, fendeva le mascelle, cacciava i denti in gola, sfondava gli omoplati, stritolava le gambe, sgangherava gli ischi, frantumava le ossa.

Se qualcuno tentava nascondersi tra i pampini più spessi, gli sbriciolava la spina dorsale e lo stroncava come un cane.

Se qualcuno voleva salvarsi fuggendo, gli faceva volar la testa a pezzi fracassandogli la sutura lamboidale.

Se qualcuno si arrampicava sopra un albero, pensando mettersi al sicuro, lo impalava colla sua asta per il culo.

Se qualche vecchio suo conoscente gli gridava:

- Oh, frate Gianni, amico mio, Frate Gianni, io m'arrendo!

- Per forza! esclamava egli; ma insieme renderai l'anima a tutti i diavoli.

E giù botte. E se alcuno fosse stato sì temerario da resistergli di fronte, allora mostrava la forza de' suoi muscoli e gli trapassava il petto traforando mediastino e cuore.

Ad altri, picchiando tra costa e costa, arrovesciava lo stomaco e morivano sull'istante.

Altri colpiva sì fieramente all'ombelico che gli uscivano le trippe. Ad altri attraverso i coglioni traforava il budello culare. Era, credete, il più orribile spettacolo che si vedesse mai.

Gli uni gridavano: Oh Santa Barbara!

Gli altri: Oh, San Giorgio!

Gli altri: Oh, Santa Nytouche!

Gli altri: Oh, Madonna di Cunault! di Loreto! delle Buone Novelle, della Lenou! della Riviera!

Gli uni si votavano a San Giacomo; gli altri al santo sudario di Chambery, ma s'incendiò tre mesi dopo talché non se ne poté salvare un brandello; gli altri a quello di Cadouyn; gli altri a San Giovanni d'Angery; gli altri a Sant'Eutropio di Saintes, a San Massimo di Chinon, a San Martino di Candes, a San Claudio di Sinays, alle reliquie di Javrezay e a mille altri buoni santucci.

Gli uni morivano senza parlare, gli altri parlavano senza morire; gli uni morivano parlando gli altri parlavano morendo.

Altri ancora gridavano a gran voce: "Confessione! Confessione! Confiteor! Miserere! In Manus!"

Fu sì grande il gridare dei feriti che il priore dell'abbazia e tutti i monaci uscirono e quando videro quella povera gente caduta nella vigna e ferita a morte, ne confessarono qualcuno. Ma mentre i preti s'indugiavano a confessare, i fraticelli corsero al luogo dov'era Frate Gianni e gli domandarono come potessero aiutarlo. Ed egli rispose che sgozzassero i caduti. Ed essi, appese le loro gran cappe a un pergolato vicino, cominciarono a sgozzare e finire i feriti a morte. E sapete con quali ferri? Colle roncolette, quei piccoli mezzi coltelli coi quali i ragazzi sbucciano le noci.

Poi, Frate Gianni, sempre colla sua brava croce, raggiunse la breccia che avevano fatta i nemici. Alcuno dei fraticelli portarono nelle loro camere bandiere e guidoni per farsene delle giarrettiere. Ma quando quelli che s'erano confessati vollero uscire da quella breccia, il monaco li tempestava di colpi dicendo:

- Questi qui son confessati e pentiti, hanno guadagnato l'indulgenza e se ne vanno in paradiso dritti come un falcetto o come la strada della Faye.

Così, per la sua prodezza furono sbaragliati tutti i soldati entrati nella vigna in numero di tredicimila seicento e venticinque, senza contare le donne e i bambini, sempre sottinteso.

Mai e poi mai l'eremita Maugis fu sì valoroso col suo bordone contro i Saraceni, come è scritto nelle Geste dei quattro figli d'Aimone, quanto il nostro monaco contro i nemici coll'asta della croce.





CAPITOLO XXVIII.



Come qualmente Picrocolo prese d'assalto la Roche Clermault e con quale dolore e difficoltà Grangola si mise in guerra.





Mentre il monaco scaramucciava, come abbiamo detto, contro gl'invasori della vigna, Picrocolo rapidissimamente passò co' suoi il guado della Vède, assalì la Roche Clermault senza trovar resistenza ed essendo già notte deliberò di alloggiare colle sue genti nella città e ristorarsi del brucior della collera.

Il mattino prese d'assalto i bastioni e il castello e lo fortificò a modo, fornendolo delle munizioni necessarie, poiché pensava di ritrarsi colà caso mai fosse assalito da altre parti, essendo il luogo forte e per arte e per natura, grazie alla situazione e posizione sua.

Ma ora lasciamoli là e torniamo al nostro buon Gargantua rimasto a Parigi tutto inteso allo studio delle buone lettere e agli esercizi ginnastici, torniamo al buon vecchio Grangola suo padre che, dopo cena, si riscalda i coglioni a un bello chiaro e gran fuoco intento ad arrostir le castagne e a far disegni sulla cenere, col paletto bruciato all'un dei capi col quale si attizza al fuoco, raccontando alla sua donna e ai famigliari belle storie del tempo andato.

Uno dei pastori che facevano guardia alle vigne, nominato Pierotto, si recò da lui in quell'ora e raccontò per filo e per segno le violenze e il saccheggio che Picrocolo, re di Lernè, commetteva nelle sue terre e domini, e come aveva depredato guasto e saccheggiato tutto il paese, eccetto la vigna di Seuilly salvata, ad onor suo, da Frate Gianni degli Squarciatori, e come presentemente il detto re fosse colle sue genti alla Roche Clermault dove si fortificava in gran fretta.

Ahimè! Ahimè! disse Grangola, che è questo, buona gente? Sogno od è vero ciò che mi si dice? Picrocolo mi viene ad assalire! Picrocolo il mio vecchio amico d'ogni tempo, e di tutta la mia razza e parentela! Chi lo muove? Chi lo punge? Chi lo mena? Chi l'ha così consigliato? Oh! Oh! Oh! Oh! Oh! Mio dio, mio Salvatore, aiutami, ispirami, consigliami sul da farsi. Io affermo davanti a te - così mi sia concesso il tuo favore - che mai feci a lui dispiacere, né danno alle sue genti, né saccheggio alle sue terre; anzi, per contro, l'ho soccorso di uomini, di danaro, di favore e di consiglio in tutti i casi che ho potuto conoscere l'utile suo. S'egli mi ha oltraggiato a questo segno non può derivare che dallo spirito maligno. Buon Dio, tu conosci il mio cuore, ché a te nulla può essere celato; se per caso fosse diventato furioso e tu me l'avessi inviato qui per risanare il suo cervello, concedimi di potere e sapere renderlo con buona cura al giogo del tuo santo volere.

Oh! Oh! Oh! mie buone genti, miei amici, miei fedeli servitori, bisognerà che io vi disturbi per aiutarmi? Ahimè! La mia vecchiaia non domandava d'ora innanzi che riposo; in tutta la mia vita non ho cercato che pace, ma bisogna, lo vedo bene, che ora carichi d'armatura le mie povere spalle stanche e deboli e che la mia mano tremante impugni la lancia e la mazza per soccorrere e difendere i miei poveri sudditi. E a ben giusta ragione, se dal loro lavoro son mantenuto, del loro sudore nutrito, io, i miei figlioli, la mia famiglia.

Tuttavia non moverò guerra che prima non abbia tentato tutte le arti e vie della pace, in questo son fermo.

Fece dunque convocare il consiglio e presentata la situazione così come stava, fu concluso che s'inviasse a Picrocolo un uomo prudente a chiedere perché così d'improvviso avesse rotto la pace invadendo terre alle quali non aveva nessun diritto: inoltre che si mandasse a chiamare Gargantua e la sua gente per difendere il paese in questo frangente.

Piacquero a Grangola le proposte e comandò che così si facesse.

Inviò dunque subito il Basco, suo domestico, a cercare in tutta fretta Gargantua e gli scrisse così come segue:





CAPITOLO XXIX.



Il tenore della lettera che Grangola scrisse a Gargantua.





"Il fervore de' tuoi studi richiedeva che per lungo tempo non ti distraessi da cotesta filosofica quiete, se la mancata fede dei nostri antichi amici e confederati non minacciasse ora la sicurezza della mia vecchiaia. Ma poiché vuole questo fatale destino che da coloro io sia inquietato nei quali più riponeva fiducia, mi è forza richiamarti a difesa delle genti e dei beni che per naturale diritto ti son confidati.

Poiché, come deboli sono le armi all'esterno se non è senno nella propria casa, così vano è lo studio e inutile il senno se in tempo opportuno non siano adoperati e con virtù messi in atto.

È mio proposito non provocare anzi recar pace; non assalire, ma difendere; non conquistare, ma proteggere i miei fedeli sudditi e le terre ereditarie nelle quali Picrocolo è entrato da nemico senza causa né ragione, e va proseguendo la sua pazza impresa con violenze non tollerabili da persone libere.

Ho creduto mio dovere, per calmare la sua collera e prepotenza, di offrirgli quanto pensavo potesse soddisfarlo e più volte gli ho inviato amichevoli messaggi per sapere in che, da chi e come si sentisse oltraggiato: ma non ebbi per tutta risposta che la sua intenzione di sfidarmi, non altro diritto egli accampando, che di fare sulle mie terre ciò che gli aggrada. Onde ho conosciuto che il Sempiterno Iddio l'ha abbandonato alla guida del suo solo arbitrio e della sua passione la quale non può essere che cattiva se dalla grazia divina non è continuamente illuminata. Certo, per contenerlo nel dovere e rimetterlo in senno, Dio l'ha inviato contro me con ostili bandiere.

Pertanto, figlio mio amatissimo, appena ricevuta qluesta lettera, il più presto che potrai, ritorna in fretta a soccorrere non tanto me (come tuttavia per naturale pietà è tuo dovere) quanto i tuoi che di ragione puoi salvare e proteggere.

L'impresa sarà condotta colla minore effusione di sangue; e, se sia possibile, coi più adatti congegni, colle precauzioni ed astuzie di guerra, salveremo tutti gli uomini e li rimanderemo lieti alle loro case.

La pace di Cristo, Redentore nostro, sia con te, figlio carissimo. Saluta per me Ponocrate, Ginnasta, Eudemone.

Il giorno ventesimo di Settembre.

Tuo padre Grangola".





CAPITOLO XXX.



Come qualmente Ulrico Galletto fu inviato a Picrocolo.





Dettata e firmata la lettera, Grangola ordinò che il suo referendario Ulrico Galletto, uomo saggio e discreto, del quale aveva sperimentato la virtù e il senno in diversi affari contenziosi, andasse a Picrocolo per rimostrargli ciò che da loro era stato deliberato.

Partì subito il buon Galletto e, passato il guado, domandò al mugnaio notizie di Picrocolo. Il mugnaio gli disse che le soldatesche non gli avevan lasciato né gallo né gallina, ch'erano chiusi a La Roche Clermault e lo sconsigliava di procedere oltre per paura delle sentinelle: erano furibondi.

Galletto non ebbe difficoltà a crederlo e per quella notte alloggiò dal mugnaio.

L'indomani mattina si recò col trombettiere alla porta del castello e chiese alle guardie che gli lasciassero parlare al re per suo bene.

Il re avvertito, non consentì gli si aprisse la porta, ma salì sui bastioni e disse all'ambasciatore:

"Che c'è di nuovo? Che avete da dire?"

E l'ambasciatore espose l'ambasciata come segue:

CAPITOLO XXXI.



L'arringa di Galletto a Picrocolo.





"Nessuna più giusta cagion di dolore pei mortali che l'incontrare offesa e danno là dove per diritto operare speravano favore e benevolenza.

E non senza causa (se pure senza ragione) molti in quella disgrazia caduti, hanno tale iniquità stimato men tollerabile della lor propria vita e non pervenendo, né per forza, né per ingegno a porvi riparo, di propria mano, si privarono della luce.

Non è dunque meraviglia se alla tua furiosa e ostile invasione l'animo del re Grangola, mio sovrano, di fiero dolore è percosso e la sua mente turbata. Meraviglia sarebbe se non l'avessero commosso gli eccessi incomparabili che sulle sue terre e sui sudditi suoi sono stati da te e dalle tue genti perpetrati, nessun esempio d'inumanità risparmiando, di che tanta afflizione ha sofferto, per l'affetto cordiale onde ai sudditi fu sempre legato, che alcun uomo mortale più non potrebbe. Tuttavia oltre ogni umano credere più grave gli è che le offese e i torti gli vengano da te e da tuoi. Infatti, a memoria d'uomo tu e i padri tuoi con lui e gli antenati suoi avevate tale amicizia contratta, che fino ad oggi come sacra fu inviolabilmente osservata, conservata e mantenuta, talché non solamente lui e i suoi, ma anche le nazioni barbare del Poitou, di Bretagna, del Mans, e quelle che abitano oltre le isole di Canaria e Isabella, hanno più facil cosa reputato demolire il firmamento e inalzare gli abissi fin sopra le nubi, che rompere l'alleanza vostra, e tanto l'hanno nelle loro imprese temuta, che mai osarono provocare, irritare, e danneggiare l'uno per timore dell'altro.

Ma c'è di più. La fama di questa sacra amicizia tanto ha di sé riempito il cielo che poche genti oggi vivono e abitano per tutto il continente e le isole dell'oceano, che non abbiano ambiziosamente aspirato esser in quella ricevute a patti da voi stessi fissati, perocché l'essere con voi confederati non meno stimarono delle loro stesse terre e dei loro propri domini; di guisa che, a memoria d'uomo, mai non fu né principe, né lega tanto efferata o superba che abbia osato assalire non dico le terre vostre, ma neanche quelle dei vostri confederati, e se pure con inconsulta precipitazione hanno contro essi attentato qualche novità, appena saputo il nome e titolo della vostra alleanza, subitamente dall'impresa desistettero.

Qual furia dunque, rotta ogni alleanza, conculcata ogni amicizia, infranto ogni diritto, ti move ora a invadere da nemico le sue terre, senza essere stato da lui né da' suoi danneggiato, irritato, provocato?

Dov'è la fede? Dove la legge? Dove la ragione? Dove la umanità? Dove il timor di Dio? Credi tu che questi oltraggi restino celati agli spiriti eterni e a Dio sovrano che è giusto retributore delle nostre imprese? Se così credi t'inganni: ogni azione cadrà sotto il suo giudizio. È forse fatalità di destino e influsso d'astri che vuol metter fine alla tua comodità e tranquillità? Certo tutte le cose hanno loro corso e loro fine e quando sono al sommo pervenute, ruinano in basso poiché non possono a lungo in tale stato dimorare. Ed è la sorte di quelli che non possono con ragione e temperanza le loro fortune e prosperità moderare.

Ma se così era destinato, se dovesse ora la tua fortuna e quiete finire, era necessario che ciò avvenisse recando torto al mio re, quello per il quale tu regnavi? Se la tua casa deve rovinare, occorreva proprio che nella sua rovina cadesse sui focolari di colui che l'aveva adornata? Ciò è tanto fuor dei termini di ragione, tanto aborrente dal senso comune, che appena può esser concepito da umano intelletto, e rimarrà non credibile tra gli stranieri fino a quando le conseguenze accertate e provate dimostrino come nulla sia santo né sacro per coloro che si sono allontanati da Dio e dalla Ragione e per seguire le loro inclinazioni perverse.

Se qualche torto fosse stato fatto da noi ai tuoi sudditi, ai tuoi domini; se avessimo favorito i tuoi nemici; se nelle tue vicende non ti avessimo soccorso; se il tuo nome e l'onor tuo fossero stati da noi feriti, o, per meglio dire, se lo spirito calunniatore che tenta trarti a male, avesse con false apparenze e illusori fantasmi messo nella tua mente che avessimo contro te operato cose non degne della nostra antica amicizia, tu dovevi prima investigare la verità, poi ammonirci, e noi ti avremmo dato soddisfazioni tali che avresti avuto occasione d'essere contento. Ma, oh eterno Iddio! che impresa è codesta tua? Vorresti tu come perfido tiranno saccheggiare e rovinare il reame del mio Signore? L'hai tu trovato tanto ignavo e stolto che non volesse, o tanto privo di genti, di danaro, di senno e d'arte bellica, che non potesse resistere ai tuoi iniqui assalti?

Dipàrtiti ora di qua, ed entro il giorno di domani ritorna nelle tue terre senza commettere nella ritirata, né tumulti né violenze, e paga mille bisanti d'oro pei danni recati al nostro territorio. La metà consegnarai domani, l'altra metà pagherai agli idi del maggio prossimo venturo, lasciandoci intanto per ostaggio i duchi di Giramola, di Culobasso e di Minutaglia insieme col principe Grattina e il visconte delle Piattole".

CONTINUA III