FRANÇOIS RABELAIS

Traduzione di
GILDO PASSINI



GARGANTUA E PANTAGRUELE


LIBRO PRIMO: XXXI - LVIII

CAPITOLO XXXI.



L'arringa di Galletto a Picrocolo.





"Nessuna più giusta cagion di dolore pei mortali che l'incontrare offesa e danno là dove per diritto operare speravano favore e benevolenza.

E non senza causa (se pure senza ragione) molti in quella disgrazia caduti, hanno tale iniquità stimato men tollerabile della lor propria vita e non pervenendo, né per forza, né per ingegno a porvi riparo, di propria mano, si privarono della luce.

Non è dunque meraviglia se alla tua furiosa e ostile invasione l'animo del re Grangola, mio sovrano, di fiero dolore è percosso e la sua mente turbata. Meraviglia sarebbe se non l'avessero commosso gli eccessi incomparabili che sulle sue terre e sui sudditi suoi sono stati da te e dalle tue genti perpetrati, nessun esempio d'inumanità risparmiando, di che tanta afflizione ha sofferto, per l'affetto cordiale onde ai sudditi fu sempre legato, che alcun uomo mortale più non potrebbe. Tuttavia oltre ogni umano credere più grave gli è che le offese e i torti gli vengano da te e da tuoi. Infatti, a memoria d'uomo tu e i padri tuoi con lui e gli antenati suoi avevate tale amicizia contratta, che fino ad oggi come sacra fu inviolabilmente osservata, conservata e mantenuta, talché non solamente lui e i suoi, ma anche le nazioni barbare del Poitou, di Bretagna, del Mans, e quelle che abitano oltre le isole di Canaria e Isabella, hanno più facil cosa reputato demolire il firmamento e inalzare gli abissi fin sopra le nubi, che rompere l'alleanza vostra, e tanto l'hanno nelle loro imprese temuta, che mai osarono provocare, irritare, e danneggiare l'uno per timore dell'altro.

Ma c'è di più. La fama di questa sacra amicizia tanto ha di sé riempito il cielo che poche genti oggi vivono e abitano per tutto il continente e le isole dell'oceano, che non abbiano ambiziosamente aspirato esser in quella ricevute a patti da voi stessi fissati, perocché l'essere con voi confederati non meno stimarono delle loro stesse terre e dei loro propri domini; di guisa che, a memoria d'uomo, mai non fu né principe, né lega tanto efferata o superba che abbia osato assalire non dico le terre vostre, ma neanche quelle dei vostri confederati, e se pure con inconsulta precipitazione hanno contro essi attentato qualche novità, appena saputo il nome e titolo della vostra alleanza, subitamente dall'impresa desistettero.

Qual furia dunque, rotta ogni alleanza, conculcata ogni amicizia, infranto ogni diritto, ti move ora a invadere da nemico le sue terre, senza essere stato da lui né da' suoi danneggiato, irritato, provocato?

Dov'è la fede? Dove la legge? Dove la ragione? Dove la umanità? Dove il timor di Dio? Credi tu che questi oltraggi restino celati agli spiriti eterni e a Dio sovrano che è giusto retributore delle nostre imprese? Se così credi t'inganni: ogni azione cadrà sotto il suo giudizio. È forse fatalità di destino e influsso d'astri che vuol metter fine alla tua comodità e tranquillità? Certo tutte le cose hanno loro corso e loro fine e quando sono al sommo pervenute, ruinano in basso poiché non possono a lungo in tale stato dimorare. Ed è la sorte di quelli che non possono con ragione e temperanza le loro fortune e prosperità moderare.

Ma se così era destinato, se dovesse ora la tua fortuna e quiete finire, era necessario che ciò avvenisse recando torto al mio re, quello per il quale tu regnavi? Se la tua casa deve rovinare, occorreva proprio che nella sua rovina cadesse sui focolari di colui che l'aveva adornata? Ciò è tanto fuor dei termini di ragione, tanto aborrente dal senso comune, che appena può esser concepito da umano intelletto, e rimarrà non credibile tra gli stranieri fino a quando le conseguenze accertate e provate dimostrino come nulla sia santo né sacro per coloro che si sono allontanati da Dio e dalla Ragione e per seguire le loro inclinazioni perverse.

Se qualche torto fosse stato fatto da noi ai tuoi sudditi, ai tuoi domini; se avessimo favorito i tuoi nemici; se nelle tue vicende non ti avessimo soccorso; se il tuo nome e l'onor tuo fossero stati da noi feriti, o, per meglio dire, se lo spirito calunniatore che tenta trarti a male, avesse con false apparenze e illusori fantasmi messo nella tua mente che avessimo contro te operato cose non degne della nostra antica amicizia, tu dovevi prima investigare la verità, poi ammonirci, e noi ti avremmo dato soddisfazioni tali che avresti avuto occasione d'essere contento. Ma, oh eterno Iddio! che impresa è codesta tua? Vorresti tu come perfido tiranno saccheggiare e rovinare il reame del mio Signore? L'hai tu trovato tanto ignavo e stolto che non volesse, o tanto privo di genti, di danaro, di senno e d'arte bellica, che non potesse resistere ai tuoi iniqui assalti?

Dipàrtiti ora di qua, ed entro il giorno di domani ritorna nelle tue terre senza commettere nella ritirata, né tumulti né violenze, e paga mille bisanti d'oro pei danni recati al nostro territorio. La metà consegnarai domani, l'altra metà pagherai agli idi del maggio prossimo venturo, lasciandoci intanto per ostaggio i duchi di Giramola, di Culobasso e di Minutaglia insieme col principe Grattina e il visconte delle Piattole".





CAPITOLO XXXII.



Come qualmente Grangola, per ottener pace, fa restituire le focaccie.





Quando il buon Galletto si tacque, Picrocolo, a tutti i suoi argomenti altro non rispose se non: "Veniteli a prendere, veniteli a prendere. Hanno bei coglioni e molli: v'ammaniranno focaccia".

Tornato Galletto a Grangola, lo trovò in ginocchio, chino, a capo scoperto, in fondo alla sua camera pregando Dio che volesse calmare la collera di Picrocolo e ricondurlo alla ragione evitando si ricorresse alla forza. Quando vide il buon uomo di ritorno, gli domandò:

- Ah, amico mio, amico mio, che notizie recate?

- Va tutto alla rovescia, disse Galletto, quell'uomo è forsennato e abbandonato da Dio.

- Ma insomma, amico mio, disse Grangola, con qual ragione giustifica i suoi eccessi?

- Nessuna ragione m'ha esposto; solo disse con collera qualche parola sulle focaccie. Non so se sia stato fatto oltraggio ai suoi focacceri.

- Voglio ben chiarire la cosa, disse Grangola, prima di deliberare il da farsi.

Allora chiese informazioni sulla faccenda e trovò per vero che erano state tolte delle focaccie alle genti di Picrocolo e che Marchetto aveva ricevuto una randellata sul capo, tuttavia che il tutto era stato ben pagato e che Marchetto per primo aveva ferito Forgier con una frustata alle gambe. Il consiglio unanime fu di parere si corresse alla difesa con tutte le forze. Ciononostante Grangola disse:

- Troppo m'incresce mover guerra; e poiché non si tratta che di qualche focaccia procurerò dargli soddisfazione.

S'informò adunque quante focaccie erano state prese e sentendo quattro o cinque dozzine, comandò se ne fabbricassero cinque carrettate in quella notte istessa, e una carrettata fosse tutta di focaccie confezionate con bel burro, bel tuorlo d'ovo, bel zafferano e belle spezie, questa per Marchetto, al quale, come risarcimento, dava inoltre settecentomila e tre filippi per pagare i barbieri che l'avevano curato, e come soprappiù, la masseria della Pomardière franca da gravami per lui e i suoi a perpetuità. Per condurre il tutto fu inviato Galletto il quale per via fece cogliere presso la Saulsaye molte belle canne e ne fece adornare carrette e carrettieri, egli stesso ne prese una in mano volendo mostrare così, che solo pace cercavano e andavano a chiederla.

Giunti alla porta chiesero di parlare a Picrocolo da parte di Grangola. Picrocolo non volle né lasciarli entrare, né andare a parlare con loro; mandò a dire che era occupato, ma che esponessero ciò che volevano al capitano Toccaleone che stava affustando alcuni pezzi sulle mura.

Il bravo Galletto così gli disse:

"Signore, per metter fine a tutto questo conftitto e togliere ogni pretesto di non tornare alla primitiva alleanza, siamo venuti a restituirvi le focaccie onde sorse la controversia. Cinque dozzine ne presero le nostre genti e furono ben pagate. Ma noi tanto amiamo la pace, che ve ne restituiamo cinque carrette, delle quali questa sarà per Marchetto che più si duole. E di più, per soddisfarlo interamente, ecco settecentomila e tre filippi che gli consegno, e, per gl'interessi che potesse pretendere, gli cedo la masseria della Pomardière in possesso a perpetuità per lui e suoi, franca da gravami; ecco qui il contratto della transazione. E, in nome di Dio, viviamo d'ora innanzi in pace e voi ritiratevi nelle vostre terre lietamente, lasciando libera questa città alla quale non avete alcun diritto, come riconoscerete. E amici come prima".

Toccaleone riferì tutto a Picrocolo ed eccitò vieppiù l'animo suo dicendogli:

- Hanno una bella paura quei tangheri! Quel povero beone di Grangola se la fa addosso, per Dio! A vuotar fiaschi, a quello sì ch'è bravo, ma guerreggiare non è affar suo. Io sono di avviso che ci teniamo focaccie e filippi, e quanto al resto affrettiamoci a compiere qui le fortificazioni e a proseguire la nostra impresa. Ma pensano forse d'aver a fare con un minchione volendovi rimpinzar di focaccie? Ecco l'effetto del buon trattamento e della grande famigliarità colla quale li trattavate prima: vi spregiano: ungi villano ed ei ti punge; pungi villano ed egli ti unge!

- Su, su, su, disse Picrocolo, per San Giacomo! sapranno chi sono! Fate ciò che avete detto.

- D'una cosa, disse Toccaleone, voglio avvertirvi: stiamo maluccio a vettovaglie, e magramente provvisti di munizioni da bocca. Se Grangola ci assediasse andrei senz'altro a farmi arrancar tutti i denti, meno tre, a me e alle vostre genti; con tre n'avremmo d'avanzo pei viveri che abbiamo.

- Di viveri ce n'è anche troppo, disse Picrocolo; siamo noi qui per mangiare o per battagliare?

- Per battagliare, per battagliare, rispose Toccaleone; ma dalla panza vien la danza, ed ove fame sta, la forza se ne va.

- Eh, quante ciancie! disse Picrocolo. Impadronitevi di ciò che hanno portato.

Presero dunque danaro, focaccie, buoi e carrette e rinviarono gli uomini senz'altro dire se non che d'allora in poi stessero a rispettosa distanza, per una buona ragione, che avrebbero detto loro l'indomani... E quelli, a mani vuote, tornarono a Grangola e gli raccontarono tutto aggiungendo non rimanere speranza alcuna d'indurre a pace il nemico se non con fiera e forte guerra.





CAPITOLO XXXIII.



Come qualmente certi ministri di Picrocolo con avventato consiglio lo trassero agli estremi rischi.





Prese le focaccie, comparvero davanti a Picrocolo il duca di Minutaglia, il conte Spadaccino, e il capitano Merdaglia, i quali gli dissero:

- Sire, oggi noi vi rendiamo il più avventurato e cavalleresco principe che vivesse mai, dalla morte di Alessandro il Macedone.

- Tenete, tenete il cappello in capo, disse Picrocolo.

- Grazie, risposero essi. Sire, noi siamo qui a compiere il nostro dovere. E il piano è questo:

"Voi lascierete qui di guarnigione qualche capitano con una piccola banda per guardar la piazza che ci sembra abbastanza forte sia per natura, sia per le fortificazioni compiute secondo il vostro disegno. Voi dividerete l'esercito in due parti come vi parrà meglio. L'una piomberà addosso a Grangola e alle sue genti che al primo scontro resteranno facilmente sconfitti. Allora avrete danaro a iosa, ché il villanzone ce n'ha della moneta; villanzone, diciamo, perocché un veramente nobile principe non ha mai un soldo, tesoreggiare è da villano. L'altra parte dell'esercito intanto volgerà verso Aunis, Saintonge, l'Angoumois, la Guascogna, il Perigord, Medoc e le Lande. Senza incontrare resistenza prenderanno città, castelli e fortezze. A Baiona, Saint-Jean-de Luz e Fontanarabia v'impadronirete di tutte le navi e costeggiando la Galizia e il Portogallo, saccheggierete tutti i luoghi marittimi fino a Lisbona dove troverere il rinforzo di ogni equipaggio necessario ad un conquistatore. La Spagna s'arrenderà, per Dio, non sono che bifolchi. Voi passerete per lo stretto di Gibilterra; là erigerete due colonne più magnifiche di quelle d'Ercole a memoria perpetua del vostro nome e quello stretto sarà chiamato il mar Picrocolino. Passato il mar Picrocolino, ecco Barbarossa che si rende vostro schiavo...

- Resa a discrezione, disse Picrocolo.

- Certo, dissero essi, purché si faccia battezzare. Espugnerete il reame di Tunisi, di Biserta, Algeri, Bona, Cirene, insomma tutta Barberia. Passando oltre occuperete Maiorca, Minorca, la Sardegna, la Corsica, e altre isole del Mar Ligustico e Baleare. Costeggiando a sinistra dominerete tutta la Gallia Narbonese, la Provenza. gli Allobrogi, Genova, Firenze, Lucca e buonanotte a Roma! Il povero signor papa muore già di paura.

- In fede mia, disse Picrocolo, non io andrò a baciargli la pantofola.

- Presa l'Italia, ecco Napoli, la Calabria, la Puglia e la Sicilia messe a sacco e anche Malta. Vorrei ben vedere che quegli allegri cavalieri, già di Rodi, vi resistessero! Li facciamo pisciare addosso!

- Andrei volentieri a Loreto, disse Picrocolo.

- No, no, dissero essi, ce la riserviamo pel ritorno. Quindi prendiamo Candia, Cipro, Rodi, e le isole Cicladi, e ci avviamo alla Morea. L'abbiamo in mano: oh, San Tregnano, Dio guardi Gerusalemme, poiché il sultano non può competere con la potenza vostra!

- Io farò dunque costruire, disse egli, il tempio di Salomone.

- Non ancora, obbiettarono essi, aspettate un po'. Non siate mai tanto subitaneo nelle vostre imprese. Sapete che cosa diceva Ottaviano Augusto? Festina lente. Prima vi conviene avere l'Asia Minore, la Caria, la Licia, la Panfilia, la Cilicia, la Lidia, la Frigia, la Misia, la Bitinia, la Carazia, la Satalia, Samagaria, Castamena, Luga, Sebaste, fino all'Eufrate.

- Vedremo, disse Picrocolo, Babilonia e il monte Sinai?

- Non è necessario, ora, dissero. Non abbiamo avuto già abbastanza da fare, diavolo, traversando il Mare Ircano, cavalcando le due Armenie e le tre Arabie?

- In fede mia, diss'egli, siamo fuor di noi. Ah, povere le mie genti!

- Perché? chiesero essi?

- Perché? E che berremo noi in quei deserti? Giuliano Augusto e tutto il suo esercito vi morirono di sete, come si racconta.

- Ma noi, obbiettarono, abbiamo già provveduto a tutto. Nel Mar Siriaco voi avete novemila e quattordici grandi navi cariche dei migliori vini del mondo; esse sono giunte a Giaffa. Là si trovavano due milioni e ducentomila cammelli e mille seicento elefanti che voi avrete preso in una caccia intorno a Segelmessa, quando entraste in Lidia e inoltre aveste tutte le carovane della Mecca. Non vi fornirono esse vino a sufficienza?

- Sì, diss'egli, ma non era fresco.

- Corpo d'un pesce e di non piccola statura! esclamarono essi, ma un prode, un conquistatore, un pretendente e aspirante all'Impero Universo non può sempre avere tutti i suoi comodi. Ringraziate Iddio che siete arrivato sano e salvo, voi e le vostre genti, fino al fiume Tigri!

- Ma, diss'egli, che cosa fa intanto la parte del nostro esercito che ha sbaragliato quel villano beone di Grangola?

- Eh, non se ne stanno con le mani in mano, risposero. Noi li incontreremo ben presto. Essi vi hanno conquistato la Bretagna, la Normandia, le Fiandre, l'Haynault, il Brabante, l'Artois, l'Olanda, la Zelanda. Hanno traversato il Reno passando sul ventre degli Svizzeri e dei Lanzichenecchi e parte d'essi hanno soggiogato il Lussemburgo, la Lorena, la Champagne, la Savoia fino a Lione, dove hanno trovate le vostre guarnigioni reduci dalle conquiste navali del mare Mediterraneo, e si sono riuniti in Boemia dopo aver messo a sacco la Svevia, il Wurtemberg, la Baviera, l'Austria, la Moravia, la Stiria; poi son piombati fieramente insieme su Lubecca, la Norvegia, la Svezia, la Danimarca, la Gotia, la Croenlandia, gli Estrelini fino al mar Glaciale. Ciò fatto conquistarono le isole Orcadi e soggiogarono Scozia, Inghilterra e Irlanda. Di là, navigando per il Mar Sabbioso e la Sarmazia, hanno vinto e domato Prussia, Polonia, e Lituania, Russia, Valacchia, Transilvania, e Ungheria, Bulgaria, Turchia ed eccoli a Costantinopoli.

- Andiamo a unirci con loro al più presto, disse Picrocolo, poiché voglio essere anche imperatore di Trebisonda. Non uccideremo tutti quei cani di Turchi e Maomettani?

- Che altro faremo, diavolo, dissero, se non questo? I loro beni e terre donerete a coloro che vi hanno servito onestamente.

- Ragion lo vuole, diss'egli, è giusto. Vi dono la Caramania, la Siria e tutta la Palestina.

- Ah, dissero essi, quanto siete generoso, Sire! Grazie! Dio vi faccia sempre ben prosperare!

Era presente un vecchio gentiluomo provato in diverse vicende, e vero uomo di guerra chiamato Echefrone, il quale udendo quei discorsi disse:

- Ho una gran paura che tutta questa impresa somigli alla facezia del vaso di latte, sul quale un calzolaio basava la fantasia delle sue ricchezze e poi, rottosi il vaso, non ebbe di che desinare. Dove volete arrivare con tutte queste belle conquiste? Quale sarà il risultato di tanti travagli e traversie?

- Sarà, disse Picrocolo, che al ritorno riposeremo a nostro agio.

- E, se per caso, disse Echefrone, mai non ritornaste, poiché lungo è il viaggio e periglioso; non è meglio riposare fin da ora, senza rischiarci a tante avventure?

- Oh, perdio, disse Spadaccino ecco un bel farneticone! Ma sì, andiamo a rannicchiarci a un canto del focolare e stiamo là a passar la vita e il tempo colle dame, infilando perle o filando come Sardanapalo! Chi non s'avventura non ha caval né mula, disse Salomone.

- Chi troppo s'avventura, disse Echefrone, perde cavallo e mula, al dire di Marcone.

- Basta, disse Picrocolo, lasciamo andare. Io non temo che quei diavoli delle legioni di Grangola. Se, mentre noi siamo in Mesopotamia ci pestano la coda, come si rimedia?

- È presto fatto, disse Merdaglia; un bel decretino inviato ai Moscoviti, vi metterà in campo in un momento quattrocento e cinquanta mila combattenti scelti. Oh, se mi faceste vostro luogotenente, v'ammazzo un soldo per un uomo. Io mordo, abbatto, picchio, afferro, uccido, rinnego!

- Su, su, disse Picrocolo, che tutto sia pronto e chi mi ama mi segua!





CAPITOLO XXXIV.



Come qualmente Gargantua lasciò la cittá di Parigi per soccorrere il suo paese e come Ginnasta incontrò i nemici.



Intanto Gargantua partito da Parigi appena letta la lettera del padre, cavalcando la sua grande giumenta aveva già passato il ponte della Nonnain insieme con Ponocrate, Ginnasta, ed Eudemone, i quali per seguirlo avevano preso cavalli di posta. Il resto della sua gente veniva a piccole giornate conducendo tutti i libri e strumenti di studio. Arrivato a Parilly, fu avvertito dal massaro di Gouguet che Picrocolo s'era fortificato alla Roche Clermault e aveva inviato il Capitano Trippetto con un grosso esercito ad assalire il bosco della Vède e Vaugaudry e che avevano svaligiato tutti i pollai fino al frantoio Billard, commettendo tali violenze nel paese, che era stranamente difficile a credere. Gargantua rimase impressionato e non sapeva più che dire e che fare.

Ma Ponocrate consigliò che si recassero dal Signor di Vauguyon che era stato in ogni tempo loro amico e confederato, il quale di tutto li avrebbe meglio informati. Così fecero incontinente e lo trovarono ben risoluto a soccorrerli. Egli propose di inviare qualcuno della sua gente in ricognizione per esplorare il paese e la situazione dei nemici e procedere secondo i disegni più convenienti al momento.

Ginnasta si offrì di andare, ma fu ritenuto preferibile fosse accompagnato da qualcuno che conoscesse le vie, i sentieri e i corsi d'acqua dei dintorni.

Partirono dunque lui e Prelinguand, scudiero di Vauguyon ed esplorarono da ogni parte senza paura. Intanto Gargantua si ristorò e rifocillò alquanto colle sue genti e fece dare alla giumenta una razione d'avena, cioè settantaquattro moggi e tre staia.

Ginnasta e il suo compagno tanto cavalcarono che incontrarono i nemici. Tutti sparpagliati e in disordine essi stavano saccheggiando e rubando quanto trovavano e non appena lo scorsero da lungi accorsero a lui in folla per spogliarlo. Ed egli gridò loro: "Signori, sono un povero diavolo, abbiate pietà di me! Ho ancora qualche scudo, noi lo berremo insieme poiché è aurum potabile; e venderemo questo cavallo per pagare le spese della bicchierata; e poi consideratemi dei vostri, giacché nessuno mai seppe prendere lardare, arrostire e condire, e, per Dio, smembrare e insaporire pollastri meglio di me, qui presente; e per il mio proficiat bevo alla salute di tutti i buoni compagnoni".

Allora stappò la sua boraccia e, senza mettervi il naso dentro, beveva assai onestamente. I bricconi lo guardavano spalancando la bocca di un buon piede e tirando fuori la lingua come levrieri, in attesa di bere anche loro; ma in quel momento accorse Trippetto, il capitano, per vedere che avvenisse. Ginnasta gli offrì la sua boraccia dicendo:

- A voi capitano, bevete arditamente: lo ho assaggiato, è vino di La Foye Monjault.

- Come! disse Trippetto, questo burlone si fa gioco di noi! Chi sei?

- Sono un povero diavolo, disse Ginnasta.

- Ah, disse Trippetto; poiché sei un povero diavolo, è giusto che tu abbia libero il passo; i poveri diavoli passano dappertutto senza pedaggi, né gabella; ma non è costume di poveri diavoli esser sì ben montati, perciò scendete, messer diavolo, che io ne abbia il ronzino e se non mi porta bene, mi porterete voi, mastro diavolo, poiché mi piace assai che un tal diavolo mi porti.





CAPITOLO XXXV.



Come qualmente Ginnasta uccise bellamente il capitano Trippetto e altre genti di Picrocolo.





Udite queste parole, alcuni dei presenti cominciarono ad aver paura e si segnavano a due mani pensando fosse un diavolo travestito. E uno di loro, chiamato Buon Giovanni, capitano dei franchitopini, estrasse dalla braghetta il suo breviario e gridò ad alta voce: "Aghios o theòs! Se tu sei di Dio, parla, se tu sei dell'Altro, vattene", Ginnasta non si mosse. E allora molti della banda, che avevano inteso, si squagliarono, mentre egli tutto osservava e considerava.

A un tratto fece finta di scendere da cavallo inclinando a sinistra, e appendendosi leggermente allo staffile, pur con la sua spada bastarda al fianco, guizzò di sotto il ventre e balzò in aria dall'altra parte cadendo ritto in piedi sulla sella col culo voltato verso la testa del cavallo.

- Toh, disse, il mio cazzo va a rovescio!

E là dov'era si diè a piroettare sopra un sol piede girando a sinistra e riprendendo la sua posizione senza sbagliar di un'unghia.

- Ah, esclamò Trippetto, non è affare mio codesto, per ora! E n'ho le mie buone ragioni.

- Merda! disse Ginnasta, ho sbagliato, bisogna disfare il salto.

E allora, con tutta forza e agilità si diè a piroettare come prima, girando a dritta poi, puntando il pollice della destra sull'arcione della sella, s'inalberò in verticale coi piedi in aria sostenendo tutto il corpo sui muscoli e nervi del detto pollice e fece così tre giri su se stesso. Al quarto, senza nulla toccare, balzò in orizzontale sospendendo il corpo teso tra le orecchie del cavallo e sul perno del pollice sinistro eseguì il mulinello; poi, appoggiando la destra in mezzo alla sella, prese lo slancio e andò a sedere sulla groppa come le damigelle. Quindi, sorvolando la sella comodamente colla gamba destra, si mise a cavalcioni sulla groppa.

- Però è meglio, disse, che mi aggiusti tra gli arcioni.

E poggiati i due pollici davanti a sé sulla groppa, fece una capovolta col culo in aria e si trovò in sella elegantissimo; poi d'un balzo si drizzò in aria e si tenne coi piè giunti tra gli arcioni dove fece più di cento giri su sé stesso colle braccia stese a croce gridando a gran voce:

- Infurio, diavoli, infurio, infurio! Tenetemi diavoli, tenetemi, tenetemi!

Vedendolo così volteggiare i bricconi trasecolati si dicevano l'un l'altro:

- Per la Madonna, è un folletto o un diavolo travestito: Ab hoste maligno libera nos domine! E se ne fuggivano disperatamente guardando dietro a sé come un cane che porta via un'ala d'oca.

Allora Ginnasta, cogliendo il momento favorevole, scende da cavallo, sguaina la spada e a gran colpi si lancia sui più impennacchiati abbattendoli a mucchi feriti, piagati, tramortiti e nessuno gli teneva testa pensando che fosse un diavolo affamato, sia pei mirabili volteggiamenti, sia per

le parole di Trippetto che l'aveva chiamato "povero diavolo". Tuttavia Trippetto, a tradimento, tentò fendergli il cervello colla sua spada lanzichenecca; ma Ginnasta era ben corazzato e di quel colpo non sentì che la botta. Voltatosi pronto egli lanciò a Trippetto una stoccata volante, e mentre quegli riparava al capo gli squarciò d'un colpo lo stomaco, il colon, metà del fegato, onde cadde a terra e cadendo buttò fuori quattro pentole di zuppa e, mescolata colla zuppa, l'anima.

Ciò fatto Ginnasta si ritirò considerando che non bisogna abusare della fortuna forzandola fino all'estremo, e che si addice a cavaliere trattare con reverenza la buona ventura senza molestarla, o violentarla. E rimontato a cavallo diè di sprone prendendo dritto la strada di Vauguyon. E Prelinguand con lui.





CAPITOLO XXXVI.



Come qualmente Gargantua demolì il castello del guado della Vède e come il guado fu passato.





Giunto Ginnasta, descrisse come aveva trovato i nemici e lo stratagemma usato, lui solo contro tutta la loro caterva e affermò che erano nient'altro che bricconi, predoni e briganti, ignoranti dell'arte militare e che arditamente si mettessero in marcia che sarebbe stato loro assai facile ammazzarli come bestie.

Montò dunque Gargantua sulla sua grande giumenta accompagnato come dianzi abbiamo detto. E incontrando per la strada un alto e grosso ontano, chiamato comunemente l'albero di San Martino perché si credeva cresciuto da un bordone piantatovi già da San Martino, disse:

- Ecco ciò che mi occorre: quest'albero mi servirà di bordone e di lancia.

E lo svelse facilmente da terra, ne sfrondò i rami e lo accomodò a suo piacere. Intanto la giumenta pisciò a sollievo del ventre; ma con tale abbondanza che ne fece sette leghe di diluvio; la pisciata defluendo al guado della Vède tanto gonfiò la corrente, che tutta quella banda di nemici furono annegati molto orrendamente, eccetto alcuni che avevano preso il sentiero verso le colline a sinistra.

Gargantua giunto all'altezza del bosco della Vède, fu avvisato da Eudemone che alcuni nemici erano rimasti dentro il castello; per accertarsene Gargantua gridò:

- Ci siete o non ci siete? Se ci siete non ci siate più, se non ci siete non ho altro a dire. Ma un ribaldo cannonniere che stava alle feritoie gli sparò una cannonata e lo colse alla tempia destra furiosamente: tuttavia non gli fece più male che se gli avessero tirato una prugna.

- Che è? disse Gargantua, ci gettate dei chicchi d'uva? La vendemmia vi costerà cara.

E pensava davvero che si trattasse d'un acino d'uva. Quelli che erano dentro il castello, distratti a saccheggiare, sentendo il rumore accorsero alle torri e fortezze e gli spararono più di novemila e venticinque colpi di falconetto e archibugio, mirando tutti alla testa; e sparavano così fitto contro lui che egli gridò:

- Ponocrate, amico mio, queste mosche mi acciecano, datemi un ramo di quei salici da cacciarle via.

Eran palle di piombo e pietre d'artiglieria ed egli pensava che fossero mosche bovine. Ponocrate l'avvertì che non si trattava di mosche, ma di colpi di artiglieria sparati dal castello. Allora egli percosse del suo grosso albero contro il castello e a gran colpi abbattè torri e fortezze e ridusse tutto in rovina, onde furono morti e messi a pezzi quelli che vi erano dentro.

Partiti di là, arrivarono al ponte del mulino e trovarono tutto il guado talmente coperto e affollato di cadaveri che n'era ingorgato il corso del mulino. Erano quelli periti nel diluvio urinale della giumenta. Là stettero sovra pensiero domandandosi come avrebbero potuto passare dato l'impedimento di quei cadaveri. Ma Ginnasta disse:

- Se vi son passati i diavoli vi passerò benissimo anch'io.

- I diavoli, disse Eudemone, vi son passati per portar via le anime dannate.

- Per San Tregnano! disse Ponocrate, e dunque, per conseguenza necessaria, vi passerà anche lui.

- Giusto, giusto, disse Ginnasta, se no resterò per istrada. E dato di sprone al cavallo passò oltre francamente senza che mai il cavallo si spaurisse dei corpi morti. Infatti l'aveva accostumato secondo l'insegnamento di Eliano a non spaventarsi né delle armi, né dei corpi morti; non uccidendo uomini, come Diomede che uccideva i Traci e Ulisse che metteva i corpi dei nemici ai piedi dei suoi cavalli, secondo racconta Omero, ma mettendogli un fantoccio tramezzo il fieno, o facendovelo passar su, quando gli dava l'avena. I tre altri lo seguirono senza inconvenienti, eccetto Eudemone il cui cavallo affondò il piè diritto fino al ginocchio nel ventre d'un grosso e grasso villano, annegato là a pancia all'aria, né poteva districarsi.

E rimase così impantanato finché Gargantua colla punta del bastone affondò nell'acqua il resto delle trippe del villano mentre il cavallo alzava il piede. E (ciò che è mirabile in ippiatria) il detto cavallo fu guarito da un tumore che aveva nel piede, grazie all'unzione delle budella di quel grosso briccone.





CAPITOLO XXXVII.



Come qualmente Gargantua, pettinandosi, faceva cadere dai capelli proiettili d'artiglieria.





Superata la riva della Vède, poco dopo arrivarono al castello di Grangola che li attendeva con ansia. All'arrivo di Gargantua gli fecero una festa senza pari. Mai e poi mai videsi gente più allegra. Il Supplementum supplementi chronicorum dice che Garganella ne morì di gioia, quanto a me non ne so proprio nulla e ben poco mi curo di lei, né d'altra. La verità è che Gargantua, mutati abiti e pettinandosi col suo pettine (era lungo cento pertiche e fitto di gran denti d'elefante tutti interi) faceva cadere ad ogni pettinata, più di sette balle di palle rimastegli nei capelli alla demolizione del bosco della Vède.

A quella vista Grangola suo padre, pensando fossero pidocchi gli disse:

- Ohe, mio buon figliolo, ci hai portato fin qui sparvieri di Monteacuto? Non intendevo che là tu facessi residenza.

- Signore rispose Ponocrate, non pensate ch'io l'abbia messo nel collegio dei pidocchiosi che si chiama Montacuto; so che c'è tanta crudeltà e tanta sporcizia che avrei preferito metterlo fra gli straccioni di Sant'lnnocenzo - Assai meglio sono trattati i forzati fra Mori e Tartari, gli assassini nelle prigioni criminali, meglio certo i cani nella vostra casa, che non siano i disgraziati in quel collegio. E se io fossi re di Parigi, il diavolo mi porti se non v'appiccherei il fuoco e farei bruciare il capo ai rettori che sopportano sotto i loro occhi tale inumanità.

E raccogliendo poi una di quelle palle:

- Sono cannonate, disse, che i nemici traditori hanno sparato su vostro figlio Gargantua quando passava davanti al bosco della Vède. Ma essi in cambio sono tutti periti nella rovina del castello, come i Filistei per opera di Sansone, e quelli che schiacciò la torre di Siloè, dei quali è scritto in S. Luca, XIII.

Ed ora son d'avviso che incalziamo i nemici mentre la fortuna è propizia, l'occasione ha i capelli sulla fronte; quand'è passata, non potrete richiamarla, è calva dietro il capo e non ritorna più.

- Sì, disse Grangola, ma non ora subito, questa sera voglio farvi festa e siate i benvenuti!

Ciò detto fu preparata la cena e in più del consueto furono arrostiti sedici buoi, tre manze, trentadue vitelli, sessantatre caprioli lattonzoli, novantacinque pecore, trecento porcellini di latte con salsa di mosto, duecento e venti pernici, settecento beccaccie, quattrocento capponi del Ludunese e della Cornovoglia, seimila pollastri e altrettanti piccioni, seicento gallinelle, mille e quattrocento leprotti, trecento e tre ottarde e millesettecento capponcelli. Non molta cacciagione si poté procurare così all'improvviso; non v'erano che undici cinghiali inviati dall'abate di Turpenay e diciotto fra daini, cervi e caprioli regalati dal signore di Granmont, più venti fagiani mandati dal signore di Essars e qualche dozzina di colombacci, d'uccelli acquatici, di arzavole, tarabusi, chiurli, pivieri, francolini, oche selvatiche, pizzacheretti, vannelli, palettoni, pavoncelle, aironetti, folaghe, tadorne, gazze, cicogne, oche granaiuole, fiammanti (cioè fenicotteri) terragnoli, dindi, gran quantità di gnocchetti e rinforzo di minestre.

Senza alcun dubbio i viveri abbondavano e furono cucinati a modino da Pestasalsa, Scuotipentola e Rubagresto, cuochi di Grangola. Giannotto, Michele e Gottochiaro, prepararono assai bene da bere.





CAPITOLO XXXVIII.



Come qualmente Gargantua mangiò sei pellegrini in insalata.





L'argomento richiede che raccontiamo ciò che occorse a sei pellegrini i quali venivano da San Sebastiano presso Nantes e, per paura dei nemici, s'erano nascosti per passarvi la notte, sopra uno strato di gambi di piselli, tra i cavoli e le lattughe dell'orto. Gargantua sentendosi un po' di riscaldo domandò se gli si poteva trovare delle lattughe per fargli un'insalata.

E sentendo che ve n'erano e le più belle e grandi del paese, ché erano vaste come alberi di prugne e di noci, volle andare a coglierne lui stesso e ne prese una manata, con dentro i sei pellegrini, i quali avevano sì gran paura da non osar né parlare e nemmeno tossire.

Mentre dunque risciacquava dapprima la lattuga alla fontana, i pellegrini dicevano a voce bassa tra loro: "Che fare? Finiremo per annegare dentro queste lattughe, dobbiamo parlare. Ma se parliamo ci ammazzerà come spie". E mentre così ragionavano, Gargantua li mise colle lattughe dentro una gran terrina della casa, grande come la botte di Cisteaux e, conditi con olio aceto e sale li mangiava per rinfrescarsi prima di cena, e aveva già ingoiato cinque pellegrini; il sesto rimaneva nel piatto nascosto sotto una foglia meno il suo bordone che spuntava al disopra. Vedendolo Grangola disse a Gargantua:

- Ma pare ci sia un corno di lumaca, non lo mangiate.

- Perché? disse Gargantua, per tutto il mese le lumache son buone.

E tirando il bordone con attaccato il pellegrino se lo mangiò egregiamente. Poi ci bevve su una tremenda sorsata di vino pinello aspettando che preparassero la cena.

I pellegrini così ingoiati scansarono il meglio che poterono le mole de' suoi denti, e pensavano che egli li avesse messi in qualche profonda fossa di prigione; e quando Gargantua bevve la gran sorsata credettero di annegare nella sua bocca, e il torrente del vino li travolse fin quasi nell'abisso del suo stomaco; tuttavia saltando coi loro bordoni come fanno i michelotti poterono ricoverarsi alle falde dei denti.

Ma, per disgrazia, uno di essi scandagliando il terreno col bastone, per accertarsi se fossero al sicuro, urtò rudemente nell'apertura d'un dente cariato e colpì il nervo della mandibola, onde Gargantua provò un acuto dolore e si diede a gridare dallo spasimo. Per alleviare il male fece portare il suo stuzzicadenti e uscito verso il noce groliero, snidò i signori pellegrini afferrando l'uno per le gambe, l'altro per le spalle, l'altro per la bisaccia, l'altro per la borsa, l'altro per la sciarpa. Il povero disgraziato che l'aveva colpito col bordone, lo uncinò per la braghetta; tuttavia fu gran fortuna per lui poiché gli spaccò un bubbone inguinale che lo martirizzava fin da quando erano passati per Ancenys.

I pellegrini così snidati scapparono di bel trotto attraverso un vigneto e il dolore si calmò.

In quel momento Eudemone lo chiamò per cenare poiché tutto era pronto.

- Lasciatemi prima, disse, pisciare il mio dolore.

E pisciò così copiosamente che l'urina tagliò la strada ai pellegrini che furono costretti a varcare il gran canale. Passando di là presso il margine d'un bosco in piena marcia, caddero tutti, meno Fournillier, in un trabocchetto scavato per prendere i lupi nella rete: dalla quale si liberarono grazie all'industria del detto Fournillier che ruppe tutti i lacci e cordami. Usciti di là alloggiarono pel resto della notte in una capanna presso Coudray, dove furono riconfortati dalle parole d'uno di loro, chiamato Lasdaller, il quale dimostrò come quella avventura fosse stata predetta da David nel Salmo che dice:

"Com exurgerent homines in nos, forte vivos deglutissent nos, cioè quando fummo mangiati in insalata conditi col sale, cum irasceretur furor eorum in nos, forsitan aqua absorbuisset nos, cioè quando bevve la gran sorsata; torrentem pertransivit anima nostra; cioè quando passarono il gran canale; forsitan pertransisset anima nostra aquam intolerabilem, cioè della sua urina colla quale ci aveva tagliata la strada. Benedictus Dominus, qui non dedit nos in captionem dentibus eorum.

Anima nostra sicut passer erepta est de laqueo venantium, cioè quando cademmo nella buca; laqueus contritus est cioè da Fournillier, et nos liberati sumus. Adjutorium nostrum etc".





CAPITOLO XXXIX.



Come qualmente il monaco fu festeggiato da Gargantua e i bei discorsi che tenne cenando.





Quando Gargantua fu a tavola, trangugiati i primi bocconi, Grangola cominciò a raccontar l'origine e la causa della guerra tra lui e Picrocolo e narrò come Frate Gianni degli Squarciatori aveva trionfato nella difesa del vigneto dell'abbazia, esaltando la sua prodezza oltre quelle di Camillo, Scipione, Pompeo, Cesare e Temistocle. Allora Gargantua chiese che si mandasse subito a chiamarlo per consultarsi con lui sul da fare. Ordinarono che andasse a cercarlo il maggiordomo il quale lo condusse lietamente sulla mula di Grangola.

Al suo arrivo mille carezze, mille abbracciamenti, mille saluti furono scambiati:

- Eh, Frate Gianni, amico mio, Frate Gianni mio prossimo cugino, Frate Gianni del diavolo, qua un abbraccio, amico mio!

- Un abbraccio anch'io!

- Qua, coglione, qua, voglio stroncarti a forza d'abbracciarti. E frate Gianni gongolava. Mai uomo fu tanto cortese e piacevole.

- Qua, qua, disse Gargantua, uno sgabello qui vicino a me, da questa parte.

- Ben volentieri, disse il monaco, poiché così vi piace. Paggio, dell'acqua! Versa, ragazzo, versa: l'acqua mi rinfrescherà il fegato. Vuota qui che mi gargarizzi.

- Deposita cappa, disse Ginnasta, leviamo codesta tonaca.

- Oh, per Dio, mio gentiluomo, disse il monaco, c'è un capitolo in Statutis Ordinis che non permette...

- Merda, disse Ginnasta, merda al vostro capitolo. Cotesta tonaca vi rompe le spalle; giù; giù!

- Amico mio, disse il monaco, lasciamela, che ci bevo meglio, per Dio! la tonaca diffonde allegria per tutto il corpo. Se me la levo questi signori paggi qua me ne fanno delle giarrettiere, come m'accadde una volta a Coulaine. E per di più verrà meno l'appetito. Se invece siedo a tavola con quest'abito, berrò per Dio! alla salute tua e del tuo cavallo, e allegramente. Dio vi preservi tutti da ogni male! Ho già cenato; ma non mangerò meno per questo; ho uno stomaco lastricato e cavo come la botte di san Benedetto, e sempre aperto come la borsa di un avvocato. Giù pesci, tutti fuor che la tinca, prendete l'ala della pernice o la coscia d'una monacella. Non è un bel morire, morir col cazzo dritto... Al nostro priore piace assai il bianco del cappone.

- Non somiglia in questo alle volpi, disse Ginnasta, le quali non mangiano mai il bianco dei capponi, galline e pollastre che prendono.

- Perché? chiese il monaco.

- Perché, rispose Ginnasta, non hanno cuochi da cuocerli e se non son cotti a dovere, restano rossi e non bianchi. Il rosso delle carni è segno che non son cotte, salvo gamberi e granchi che si cardinalizzano cuocendo.

- Festa di Dio Baiardo! disse il monaco, allora la testa dell'infermiere della nostra abbazia non è a cottura giusta, poiché ha gli occhi rossi come una ciotola d'ontano. Questa coscia di leprotto è buona pei gottosi. A proposito di cavoli, perché le coscie delle ragazze son sempre fresche?

- Questo quesito, disse Gargantua, non si trova né in Aristotele, né in Alessandro D'Afrodisia, né in Plutarco.

- Gli è, disse il monaco, per le tre cause per le quali un luogo è naturalmente fresco: primo, perché vi son corsi d'acqua; secondo, perché è luogo ombreggiato, oscuro e tenebroso, nel quale mai non luce sole, in terzo luogo perché è continuamente ventilato dal vento del buco di tramontana, dal vento della camicia e da quello della braghetta per giunta. E allegri! Paggio, in Bevaria!.. Crac, crac, crac... Quanto è buono Iddio che ci dona questo buon liquido! Giuro a Dio che se fossi vissuto al tempo di Gesù Cristo, avrei bene impedito agli Ebrei di prenderlo nell'orto degli ulivi. E m'abbandoni il diavolo se avessi mancato di mozzare i garretti a quei signori Apostoli che fuggirono tanto vilmente dopo aver ben cenato e lasciarono il loro buon Maestro in ballo! Io odio più che il veleno l'uomo che fugge quando occorre giocar di coltello. Oh, perché non sono Re di Francia per ottanta o cento anni almeno! Che castratura gli farei per Dio, ai fuggiaschi di Pavia, che la quartana li pigli! Perché non moriron là piuttosto che abbandonare il loro buon Principe in quella disavventura? Non è meglio e più onorevole morire combattendo coraggiosamente che vivere fuggendo turpemente?... Non c'è caso di poter mangiare ochette quest'anno... Amico dà qui di quel maiale... Diavolo! Non c'è più agresto; Germinavit radix Jesse, ch'io crepi se non muoio di sete... Questo vino non è de' più malvagi. Che vino bevevate a Parigi?... Do l'anima al diavolo se una volta non vi tenni per sei mesi corte bandita a chiunque capitasse! Conoscete frate Claudio di San Dionigi?... Oh, buon compagnone! Ma che gli è frullato in capo? non fa che studiare da non so quando. Io per parte mia non studio affatto. Nella nostra abbazia non studiamo mai per paura degli orecchioni. Il nostro defunto abate diceva esser cosa mostruosa veder un monaco sapiente. Per Dio, mio signor amico magis magnos clericos non sunt magis magnos sapientes... Non si videro mai tante lepri come quest'anno. Non ho potuto procurarmi né avoltoio, né terzuolo in nessun luogo. Il signore della Belloniera m'aveva promesso un laniere, ma mi scrisse or non è molto ch'era divenuto asmatico. Le pernici verranno a mangiarci le orecchie quest'anno. Colle reti non mi diverto, ci piglio il raffreddore. Se non corro, se non fo scompiglio, non sto bene. Vero è che saltando siepi e cespugli la mia tonaca ci lascia un po' di pelo. Mi sono procurato un bel levriere. Do l'anima al diavolo se gli scappa una lepre. Un servitore lo conduceva al signore di Maulevrier e glie l'ho rubato. Ho fatto male?

- Mainò, Frate Gianni, disse Ginnasta, mainò, per tutti i diavoli, mainò.

- E a quei diavoli bevo, disse il monaco, finché hanno vita. Che cosa ne avrebbe fatto quello zoppo, virtù di Dio? Egli preferisce che gli regalino un paio di buoi. corpo di Dio!

- Ma come! disse Ponocrate, voi sacramentate, Frate Gianni?

- Non è che per abbellire il discorso, disse il Monaco: colori di retorica ciceroniana.





CAPITOLO XL.



Perché i monaci sono sfuggiti dalla gente e perché taluni hanno il naso più grande degli altri.





In fede di cristiano, disse Eudemone, io traluno considerando la gentilezza di questo monaco che ci sbalordisce tutti quanti. E perché mai dunque si scacciano i monaci dalle buone compagnie, chiamandoli guastafeste, come le api scacciano i fuchi dai loro alveari? Ignavum fucos pecus, dice Marone, a praesepibus arcent.

- Nulla è più vero, rispose Gargantua, che tonaca e cappuccio attraggono gli obbrobri, le ingiurie e le maledizioni della gente così come il vento detto Cecias attrae le nubi. La ragione perentoria è questa; che essi mangiano la merda del mondo, cioè i peccati, e come mangiamerda son cacciati nelle loro latrine, vale a dire conventi ed abbazie, separati dal commercio delle città come appunto le latrine d'una casa. Ma se comprendete perché una scimmia in una famiglia è sempre canzonata e stuzzicata, comprenderete anche perché i monaci son da tutti sfuggiti e dai vecchi e dai giovani. La scimmia non fa guardia alla casa come il cane, non tira l'aratro come il bue, non produce né latte, né lana come la pecora, non porta carichi come il cavallo. La scimmia non fa che scagazzare e guastare dappertutto ed è questa la ragione perché tutti la motteggiano e bastonano. Similmente un monaco (intendo quelli oziosi) non lavora come il contadino, non fa guardia alla patria come il guerriero, non guarisce le malattie come il medico, non predica né illumina la gente come il dottore evangelico e l'educatore, non arreca le cose comode e necessarie alla repubblica come il mercante ed è questa la ragione perché tutti gli dan la baia e li aborrono.

- Ma, veramente, disse Grangola, pregano Dio per noi.

- Nulla è men vero, rispose Gargantua; non fanno, invece che molestare tutto il vicinato sbattacchiando le loro campane.

- Veramente, disse il monaco, una messa, un mattutino, un vespro ben scampanati sono mezzo detti.

- Borbottano a tutto spiano leggende e salmi che manco intendono, snocciolano giù paternostri lardellati di lunghe serie di Ave Maria, e senza pensarvi né comprenderli e ciò io chiamo gabbadio, non orazione. Ma li aiuti Dio se veramente pregano per noi e non piuttosto per paura di perdere la pagnotta e la loro zuppa grassa. Tutti i veri cristiani d'ogni condizione in tutti i paesi e in ogni tempo pregano Dio, e lo Spirito prega e intercede per essi e Dio li accoglie in grazia. Così fa ora il nostro buon Frate Gianni: e perciò ciascuno lo desidera in sua compagnia. Non è punto bigotto, non è sbrandellato, è onesto, allegro, risoluto, buon compagnone, coltiva la terra, difende gli oppressi, conforta gli afflitti, soccorre i malati, fa buona guardia al vigneto dell'abbazia.

- Faccio ben di più, disse il monaco: poiché sbrigando i nostri mattutini e anniversari, in coro, fabbrico corde di balestra, pulisco freccie e quadrelli, intesso reti e sacchi da prender conigli. Mai non sto ozioso. Ma orsù da bere, da bere orsù! Portate la frutta: castagne del bosco d'Estrocz. Con buon vino novello eccovi promossi compositori di scorreggie. Ma voi non siete ancora in cimberli! Per Dio io bevo a tutti i guadi come un cavallo di promotore!

- Frate Gianni, via quella gocciola che vi pende dal naso.

- Ah, Ah! disse il monaco, l'acqua al naso! Non sarò mica in pericolo d'annegare!

- No, No.

- Quare?

- Quia

Essa non v'entra, ma ben n'esce fuore

Ché il naso è antidotato di liquore.

Oh, se i tuoi stivali d'inverno, amico mio, fossero di tal cuoio ben potresti arditamente pescar l'ostriche, ché mai l'acqua non vi filtrerebbe.

- Perché mai, disse Gargantua, Frate Gianni ha un sì bel naso?

- Perché, rispose Grangola, così ha voluto Iddio, il quale ci fa secondo il suo divino volere nella forma ed al fine che crede come fa il vasaio de' suoi vasi.

- Perché, disse Ponocrate, andò tra i primi alla fiera dei nasi e se ne prese uno de' più belli e grandi.

-Trotta, trotta! disse il monaco. Secondo la vera filosofia monastica, la ragione è questa: la mia balia aveva le tette tenerine, e, poppando, il mio naso v'affondava come fosse in burro e là s'elevava e cresceva come pasta lievitata. Le balie invece che han le tette dure fanno i nasi camusi. Ma orsù; allegria! Ad formam nasi cognoscitur ad te levavi... No, non mangio mai marmellata. Paggio, in Bevaria!... Item caldarroste!...





CAPITOLO XLI



Come qualmente il monaco fece dormire Gargantua e delle sue ore in breviario.





Finita la cena si consultarono su ciò che premeva e deliberarono di uscire circa la mezzanotte in pattuglia per sapere se i nemici vigilassero e facessero buona guardia; intanto, avrebbero riposato un po' per essere poi più freschi. Ma Gargantua non poteva dormire qualunque posizione prendesse, onde il monaco gli disse:

— Io non dormo mai così saporitamente come quando ascolto la predica e prego Dio. Cominciamo subito io e voi i sette salmi e vedrete se non saremo tosto addormentati.

Piacque assai la trovata a Gargantua ed ecco che incominciarono il primo salmo. Arrivati a Beati quorum erano entrambi addormentati. Ma il monaco non mancò di svegliarsi avanti mezzanotte, tanto era avvezzo ai mattutini claustrali. E svegliato lui, svegliò tutti gli altri cantando a gran voce la canzone:



Ho, Regnault, reveille, toi, veille;

O Regnault, reveille-toi.



Quando tutti furono svegli, disse:

- Signori miei, dicono che mattutino si comincia col tossire e cena col bere. Facciamo una leggera inversione; cominciamo ora col bere, tossiremo poi a tutta forza stassera al principiar della cena.

- Bere così, disse Gargantua, subito dopo il sonno, non è buon uso in dieta di medicina. Occorre prima purgar lo stomaco da superfluità ed escrementi.

- Ben medicamente sentenziato! disse il monaco. Ma cento diavoli mi saltino addosso se non hanno più lunga vita gli ubriaconi che i medici! Io ho fatto colla mia sete un patto: che sempre si corichi con me; e a ciò provvedo durante il giorno; così poi con me si leva. Purgatevi pure finché vi piace, io prenderò il mio aperitivo.

- Che aperitivo intendete? disse Gargantua.

- Il breviario, disse il monaco, poiché come i falconieri prima di dar mangiare ai falchi danno loro a tirare qualche piede di pollo per purgargli il cervello dagli umori flemmatici e stuzzicarne l'appetito, così con questo mio allegro breviarietto mattutino mi purgo tutto il polmone ed eccomi pronto a bere.

- Secondo quale usanza, disse Gargantua, recitate queste belle ore?

- All'usanza di Fècamp, disse il monaco, con tre salmi e tre letture, o niente del tutto se non ne ho voglia. Mai non mi sono assoggettato alle ore; le ore sono fatte per comodità dell'uomo non l'uomo per le ore. Pertanto io faccio delle mie come delle staffe: le accorcio o le allungo quando meglio mi pare: brevis oratio penetrat coelos, longa potatio evacuat cyphos. Dove si trova ciò?

- In fede mia, disse Ponocrate, non lo so, mio coglioncello, ma tu vali troppo!...

- In ciò, disse il monaco, v'assomiglio. Ma venite, apotemus.

Si prepararono carbonate brasate in quantità e belle zuppe e il monaco bevve a suo piacere. Alcuni gli tennero compagnia, altri si astennero. Poi ciascuno cominciò ad armarsi e a prepararsi e armarono il monaco, suo malgrado ché egli altr'arme non voleva che la sua tonaca davanti allo stomaco e l'asta della croce in pugno. Tuttavia fu armato come vollero da capo a piedi e montato sopra un buon corsiere napolitano, e una grossa durlindana al fianco. E così Gargantua, Ponocrate, Ginnasta, Eudemone e venticinque de' più coraggiosi della casa di Grangola s'armarono di tutto punto, colla lancia in pugno, a cavallo come San Giorgio e ciascuno con un archibugere in groppa.





CAPITOLO XLII.



Come qualmente il monaco infonde coraggio ai compagni e come rimane appeso a un albero.





Se ne vanno i nobili campioni a lor ventura ben deliberati di sapere come convenga preparar lo scontro e da quali pericoli salvaguardarsi il giorno della grande e orribile battaglia. E il monaco gl'incoraggiava dicendo:

- Niente paura, niente esitazione, ragazzi, io vi condurrò con sicurezza. Dio e San Benedetto siano con noi! Se avessi forza come ho fegato, per la morte di un cane, ve li spennerei come anitroccoli. Io nulla temo fuorché l'artiglieria. Conosco tuttavia un'orazioncina insegnatami dal sottosagrestano della nostra abbazia, la quale garantisce le persone da ogni specie di cannonate; ma non mi servirà a nulla perché non ci ho fede. Il bastone della croce invece farà diavolerie. Guai perdio, se alcuno di voi farà l'imboscato! Do l'anima al diavolo se non lo fratifico in vece mia e non l'incapestro colla mia tonaca; la mia tonaca è una medicina contro la codardia. Avete inteso parlare del levriero del signore di Meurles che non valeva un soldo per la caccia? Gli misi la mia tonaca al collo e corpo di Dio, non mancava più né lepre né volpe che incontrasse sulla sua strada; ma, quel ch'è meglio, ti montava tutte le cagne del territorio, laddove prima era sfinito e nel numero de frigidis et maleficiatis.

Mentre il monaco si scalmanava a dire queste parole passando sotto un noce sulla strada del Saliceto, andò a infilzare la visiera dell'elmo al brocco d'un grosso ramo di quell'albero. E avendo tuttavia dato di sprone, il cavallo, che temeva il solletico, diè un balzo in avanti e gli sgusciò via di sotto, mentre il monaco, che per staccar la visiera dal brocco, aveva lasciato le redini e portate le mani al ramo, rimase penzoloni dal noce gridando: Aiuto! All'assassino! e protestando che c'era tradimento.

Eudemone fu il primo a vederlo e chiamò Gargantua:

- Sire, venite, venite a vedere Assalonne spenzolante!

Gargantua sopravvenuto considerò il contegno del monaco e il modo ond'era appeso ed osservò ad Eudemone:

- La comparazione con Assalonne non calza, avvegna ché Assalonne rimase appeso per la chioma laddove il nostro frate ha la testa rasa ed è appiccicato per le orecchie.

- Aiutatemi in nome del diavolo! gridava il monaco. Non è questo il momento di cianciare. Voi mi somigliate a quei predicatori decretalisti i quali insegnano che chiunque veda il suo prossimo in pericolo di morte, debba sotto pena di scomunica trisulca, invece che aiutarlo, fargli un bel sermoncino sul dovere di confessarsi e di mettersi in istato di grazia. Quando adunque io li vedrò caduti nel fiume e lì lì per annegare, invece d'accorrere a dare una mano terrò loro un bello e lungo sermoncino de contemptu mundi et fuga saeculi e quando saran morti stecchiti, allora andrò a pescarli.

- Non muoverti, anima mia, disse Ginnasta, ora vengo a te, poiché tu sei un gentile monachetto:



Monachus in claustro

Non valet ova duo;

Sed quando est extra,

Bene valet triginta.



D'impiccati n'ho visto più di cinquecento, ma non ne vidi mai alcuno che spenzolasse così garbatamente e se ci avessi tanto garbo anch'io, vorrei spenzolare così tutta la vita.

- Avete finito ancora di predicare, figli di cani? gridò il frate. Aiutatemi in nome di Dio, se in nome di quell'Altro non volete. Giuro per l'abito che porto, che ve ne pentirete tempore et loco praelibatis.

Allora Ginnasta smontò di sella e arrampicatosi sul noce, con una mano sollevò il monaco per le ascelle, coll'altra staccò la visiera dal brocco e lo lasciò cadere a terra, e lui dietro del pari.

Sceso che fu il monaco, sbarazzatosi di tutta l'armatura la scaraventò pezzo per pezzo in mezzo ai campi e ripresa l'asta della croce rimontò sul suo cavallo, che Eudemone gli aveva fermato nella fuga.

E via proseguono allegramente per la strada del Saliceto.





CAPITOLO XLIII.



Come qualmente Gargantua incontrò la pattuglia di Picrocolo e come il monaco uccise il capitano Tiravanti e poi rimase prigioniero tra i nemici.





Picrocolo al racconto degli scampati alla rotta, quando Trippetto fu strippato, montò in collera sentendo che i diavoli s'erano avventati sulle sue genti e tenne consiglio tutta notte. Corvitello e Toccaleone conclusero la sua possanza esser così grande da poter sbaragliare tutti i diavoli d'inferno se fossero venuti. Picrocolo non ne fu sicuro del tutto, ma un pochino sì, n'era persuaso.

Pertanto mandò a perlustrare il paese, sotto il comando del conte Tiravanti, milleseicento cavalieri in pattuglia tutti montati su cavalli leggeri, tutti quanti bene aspersi d'acqua benedetta e ciascuno con una stola al collo come insegna perché, se per caso, non si sa mai, avessero incontrato i diavoli, la virtù di quell'acqua gregoriana e delle stole li avesse fatti sparire e svanire. Corsero dunque fino presso Vauguyon e Maladerye, ma non trovarono alcuno a cui rivolgere la parola, onde ripassarono per di sopra e nel rifugio del tugurio da pastori, presso Couidray trovarono i cinque pellegrini e legatili li portarono con sé schernendoli come spie, nonostanti le loro esclamazioni, preghiere e proteste. Gargantua li sentì avvicinarsi mentre discendevano di là verso Seuillè e disse alle sue genti:

- All'erta, compagni, c'è il nemico e sono dieci volte più di noi. Dobbiamo affrontarli?

- E che diavolo dobbiamo fare adunque? disse il frate. Stimate voi gli uomini dal numero o non piuttosto dalle virtù e dall'ardimento?

Poi gridò:

- Addosso, diavoli, addosso!

Sentendo ciò i nemici e pensando fossero diavoli per davvero, si diedero a fuggire a briglia sciolta, eccetto Tiravanti, il quale messa la lancia in resta andò a colpire a tutta forza il monaco in mezzo al petto; ma incontrando la tonaca la punta di ferro si piegò come se voi, con una candeletta andaste a colpire un'incudine. Allora il monaco colla sua croce gli diede una sì rude botta tra capo e collo, su l'osso acromione, che lo stordì e, perduti sensi e movimento, cadde ai piedi del cavallo. Vedendo il frate la stola che quegli portava a mo' di sciarpa, disse a Gargantua:

- Costoro non son che preti: un prete non è che l'unghia di un monaco. Io son monaco perfetto per San Giovanni, e ve li ammazzerò come mosche.

Poi di gran galoppo si diede ad inseguirli e raggiunti gli ultimi li abbatteva come segala picchiando a dritto ed a rovescio.

Ginnasta chiese subito a Gargantua se dovevano inseguirli. Ma Gargantua rispose

- Nient'affatto; secondo la buona arte militare, non bisogna mai spingere il nemico alla disperazione perché ridotti agli estremi gli si moltiplicano le forze e gli s'accresce il coraggio che già veniva meno e mancava.

Nulla val meglio, con gente sbalordita e sfinita, che lasciarli privi d'alcuna speranza di salvezza.

Quante vittorie sono state strappate dai vinti ai vincitori quando questi senza moderazione tentarono di metter tutto a sacco e distruggere totalmente i nemici senza voler lasciarne un solo per diffondere le notizie.

A nemico che fugge spalancate tutte le porte e strade e fate loro un ponte d'oro perché scappino.

- Ma, veramente, disse Ginnasta, hanno il monaco.

- Hanno il monaco? disse Gargantua. Sull'onor mio sarà a loro danno. Ma per essere pronti ad ogni accidente non ritiriamoci ancora; attendiamo qui in silenzio, poiché penso di conoscere già abbastanza la natura dei nemici. Procedono più a casaccio che con ponderazione.

Mentre essi così attendevano sotto i noci, il monaco continuava a picchiare quanti gli capitassero senza riguardo ad alcuno finché incontrò un cavaliere che portava in groppa uno dei poveri pellegrini e voleva spogliarlo di tutto.

- Signor Priore, gridò il pellegrino, Signor Priore, salvatemi per carità.

Sentendo questa parola i nemici si volsero indietro e vedendo che a far tutto quell'inferno non c'era che il monaco, lo caricarono di botte come si carica di legna un somaro, ma egli nulla sentiva, massimamente quando picchiavano sulla tonaca, tanto aveva la pelle dura. Poi lo misero sotto la guardia di due arcieri ed essi voltando i cavalli e non vedendo alcuno contro loro, credettero che Gargantua e i suoi fossero fuggiti. E allora s'avvicinarono verso le Noirettes correndo quanto potevano per raggiungerlo e lasciarono il monaco solo coi due arcieri di guardia.

Gargantua intese il rumore e i nitriti dei cavalli e disse alle sue genti:

- Compagni, sento venire i nemici, e già ne scorgo alcuni che s'avanzano in folla contro di noi. Serriamoci qui e sbarriamo la strada in buon ordine. Così potremo affrontarli e sconfiggerli con onore.





CAPITOLO XLIV.



Come qualmente il monaco si sbarazzò dalle guardie e come la pattuglia di Picrocolo fu disfatta.





Il monaco vedendoli partire in disordine congetturò che andassero ad assalire Gargantua e le sue genti e si contristò prodigiosamente di non poterli soccorrere. Poi studiò il contegno dei suoi arcieri di guardia; essi avrebbero volentieri seguito la schiera per fare un po' di bottino e guardavano sempre verso la vallata per la quale discendevano. Inoltre sillogizzava dicendo:

"Questa gente sono ben poco esperti di guerra poiché né m'hanno domandato giuramento, né m'hanno tolto la spada". Subito trasse la detta spada e ferì l'arciere che lo teneva a destra, tagliandogli interamente le vene jugulari e arterie spagitide del collo con l'ugola fino alle due glandole tiroidi, e, ritirata la spada gli recise il midollo spinale fra la seconda e terza vertebra. L'arciere cadde là morto.

E il monaco volgendo il cavallo a manca, piombò sull'altro il quale vedendo il suo compagno morto e il monaco avvantaggiato su lui, gridava ad alta voce:

- Ah, Signor Priore, m'arrendo, mio Signor Priore mio buon amico, mio Signor Priore!

- Mio Signor Posteriore, gridava di rimando il monaco, amico mio, mio Signor Posteriore, ora v'acconcio io le posteriora!

- Ah, disse l'arciere, mio Signor Priore, mio caro, che Dio vi promuova Abate, Signor Priore mio!

- Per l'abito che vesto, disse il monaco, io vi farò qui cardinale. Ah, voi imponete il riscatto alla gente di religione? Io vi farò ora di mia mano un bel cappello rosso.

- Mio Signor Priore, mio Signor Priore, mio Signor futuro Abate, mio Signor Cardinale, mio tutto! Ah! ah! ah! No, mio Signor Priore, mio piccolo buon Signor Priore, mi dono a voi.

- Ed io, disse il monaco ti dono a tutti i diavoli.

E con un colpo gli affettò la testa tagliandogli il cranio sopra l'osso petroso e portando via le due ossa parietali e la sutura sagittale con gran parte dell'osso coronale; e ciò facendo recise le due meningi e aprì profondamente i due ventricoli posteriori del cervello; il cranio rimase penzoloni sulle spalle, attaccato per di dietro alla pelle del pericranio in forma di berretto dottorale, nero di sopra, rosso di dentro. E l'arciere cadde morto stecchito a terra.

Ciò fatto il monaco diè di sprone al cavallo e proseguì la via che tenevano i nemici, i quali avevano incontrato Gargantua e i suoi compagni, sulla strada maestra ed erano tanto diminuiti di numero per l'enorme strage compiuta da Gargantua col suo grande albero, da Ginnasta, Ponocrate, Eudemone e gli altri, che cominciavano a ritirarsi più che in fretta, tutti spaventati e turbati i sensi e l'intelletto come se avessero davanti agli occhi la specie e figura propria della morte in persona.

E come un asino quando gli s'attacca al culo un tafano giunonico o una mosca che lo punge, corre qua e là senza via né direzione, scaraventando a terra il carico, rompendo freno e redini senza prender fiato né riposo, e non sa chi lo move perché non vede nulla che lo tocchi, così fuggivano

quelle genti smarrite senza saper la causa del fuggire, affannate solo dal terrore panico che aveva loro invaso l'anima.

Vedendo il monaco che a null'altro pensavano che a scappare, scende da cavallo e monta sopra una grossa roccia che sovrastava alla strada e colla sua grande spada picchiava a tutta forza sui fuggiaschi senza sosta e senza risparmiarli. Tanti ne uccise e tanti ne atterrò che la spada gli si ruppe in due pezzi. Allora pensò che aveva ucciso e massacrato abbastanza e che il resto doveva pur fuggire per recare le notizie.

Impugnò pertanto un'ascia tolta a uno di quelli che là giacevano morti e tornato sulla roccia stava a veder fuggire i nemici e capitombolare tra i cadaveri: solamente faceva deporre a tutti picche, spade, lancie, ed archibugi. Coloro che portavano i pellegrini legati li fece smontare e diede i loro cavalli ai pellegrini che ritenne con sé presso la siepe.

E fece prigioniero Toccaleone.





CAPITOLO XLV.



Come qualmente il monaco condusse i pellegrini e le buone parole che disse loro Grangola.





Terminata la scaramuccia, Gargantua si ritirò colle sue genti eccetto il monaco e, allo spuntar del giorno, tornarono a Grangola il quale nel suo letto pregava Dio per la loro salvezza e vittoria e vedendoli tutti salvi e intatti li abbracciò amorosamente e domandò notizie del monaco. Gargantua gli rispose che senza dubbio era stato preso dai nemici.

- Ed essi avranno mala ventura, disse Grangola.

Così infatti era avvenuto. Ond'è ancora in uso il proverbio: Bailler le moine à quelqu'un.

Allora comandò che si preparasse una buona colazione per ristorarli. Quando fu pronta, vennero a chiamare Gargantua; ma l'assenza del monaco l'affliggeva tanto, che non voleva né bere né mangiare.

Improvvisamente il monaco arriva e dalla porta del cortile grida:

- Vino fresco, vino fresco, Ginnasta, amico mio!

Ginnasta uscì e vide Frate Gianni con cinque pellegrini e Toccaleone prigioniero. Gargantua gli andò incontro e gli fecero tutti la più calorosa accoglienza e lo condussero davanti a Grangola che volle sapere tutte le sue avventure. E tutto il monaco raccontò: come l'avevano preso, e come

s'era sbarazzato degli arcieri, e la strage che avea compiuto sulla strada e come aveva liberato i pellegrini e condotto Toccaleone. Poi si dettero a banchettare allegramente tutti insieme.

Intanto Grandola chiedeva ai pellegrini di qual paese fossero, donde venivano a dove andavano.

Lasdaller rispose per tutti:

- Signore, io sono di Saint-Genou nel Berry, questo qui è di Palluau, quest'altro di Onzay, quest'altro di Argy e questo qui di Villebrenin. Veniamo da San Sebastiano presso Nantes, e ce ne ritorniamo a casa a piccole giornate.

- Ma, chiese Grangola, che andaste a fare a San Sebastiano?

- Siamo andati, disse Lasdaller, a offrirgli i nostri voti contro la peste.

- Oh, povera gente, disse Grangola, credete voi che la peste venga da San Sebastiano?

- Certo, rispose Lasdaller, così affermano i nostri predicatori.

- Davvero? disse Grangola, i falsi profeti vi annunciano di tali frottole? Essi bestemmiano in tal modo i giusti e i santi di Dio rendendoli simili ai diavoli i quali non fanno che male tra gli uomini. Così Omero scrive che la peste fu mandata tra l'esercito dei Greci da Apollo, e così i preti inventano un mucchio di Vegiovi e divinità malefiche. E così predicava a Cirais un ipocrita, che Sant'Antonio mette il fuoco alle gambe, Sant'Eutropio rende idropici, San Gildas fa impazzire, San Ginocchio dà la gotta. Ma io l'ho punito in tal modo, benché mi chiamasse eretico, che da allora mai più nessun ipocrita osò entrare nelle mie terre e mi stupisco che il vostro re lasci loro predicare nel suo reame tali scandali; poiché meritano maggior castigo di coloro che per arte magica o altri mezzi diffondessero la peste tra la gente. La peste infatti non uccide che il corpo, quegli impostori avvelenano le anime.

Mentre egli diceva queste parole entrò il monaco con aria risoluta e domandò loro:

- Di dove siete, poveri diavoli?

- Di Saint-Genou, dissero.

- E come sta, chiese il monaco, l'abate Taglialeone, il buon beone? E i suoi monaci hanno buona cera? Corpo di Dio! essi vi fregano le vostre donne mentre andate in romitaggio.

- Ihn, ehn! disse Lasdaller, quanto alla mia son tranquillo, perché chi l'ha vista di giorno non si romperà certo il collo per andare a trovarla di notte.

- Bravo! disse il monaco, l'hai detta grossa! Foss'ella pur brutta come una diavolessa, non sfuggirà, per Dio, alla fregata, se c'è frati intorno: a buon operaio ogni pezzo è buono da metter in opera. Che mi prenda lo scolo, se al ritorno non la trovate pregna. Ma non sapete che l'ombra sola del campanile d'un'abbazia basta a ingravidare?

- È come l'acqua del Nilo in Egitto, se credete a Strabone, disse Gargantua, grazie alla quale secondo Plinio, lib. VII, cap 3, la fertilità è in tutti: nel pane, negli abiti, nei corpi.

- Andatevene, disse Grangola, andatevene, povera gente, nel nome di Dio Creatore, e che Esso vi guidi in perpetuo; e d'ora innanzi non lasciatevi indurre a codesti oziosi e inutili viaggi. Mantenete le vostre famiglie, lavorate ciascuno secondo la propria vocazione, istruite i vostri figliuoli e vivete come insegna il buon apostolo San Paolo. Ciò facendo avrete con voi la protezione di Dio, degli angeli e dei santi e non ci sarà peste o malanno che venga a danneggiarvi.

- Gargantua li condusse quindi nella sala a refocillarsi, ma i pellegrini non facevano che sospirare e dissero a Gargantua:

- Oh, felice la terra che ha per signore un tale uomo! Noi siamo più edificati e illuminati dalle sue parole che da tutte quante le prediche predicateci nella nostra città.

- È ben vero, disse Gargantua ciò che scrive Platone (lib.V, De Rep.) che le repubbliche allora saranno felici, quando i re filosoferanno o i filosofi regneranno.

Poi fece riempire le loro bisaccie di viveri, le bottiglie di vino e diede a ciascuno un cavallo per alleggerire loro il resto del cammino e qualche carlo per vivere.





CAPITOLO XLVI.



Come qualmente Grangola trattò con umanità il prigioniero Toccaleone.





Toccaleone fu presentato a Grangola che lo interrogò sull'impresa e la situazione di Picrocolo e gli chiese che cosa si proponesse con quel tumultuoso fracasso. Ed egli rispose che era suo proposito e disegno di conquistare, se poteva, tutto il territorio per vendicare l'ingiuria fatta ai focacceri.

- Troppo imprende, disse Grangola, e chi troppo abbraccia poco stringe. Non è più il tempo di conquistare così i reami a danno del suo prossimo fratel cristiano. Il voler imitare gli antichi Ercoli, e Alessandri, e Annibali, e Scipioni, e Cesari e altri tali è contrario ai principi dell'Evangelo, il quale comanda che ciascuno difenda, salvi, regga e amministri il proprio paese senza invadere da nemico gli altri. Ciò che i Saraceni e i Barbari un tempo chiamavano prodezze, ora noi chiamiamo brigantaggio e malvagità. Meglio avrebbe fatto contenendosi nella sua casa e governandola da re, che assalire la mia e saccheggiarla ostilmente, poiché, ben governando la sua, l'avrebbe aumentata, per aver saccheggiato la mia, sarà distrutto.

E voi andatevene pure nel nome di Dio e seguite le buone imprese, fate comprendere al vostro re quelli che conoscerete essere errori e non dategli mai consigli conformi al vostro particolare interesse, poiché col bene comune è perduto anche il proprio.

Quanto al prezzo del vostro riscatto, ve lo condono interamente e voglio vi siano restituiti armi e cavallo.

Così bisogna trattare tra vicini ed antichi amici, considerato che questa nostra controversia non è propriamente una guerra. Platone, (lib. V, De Rep.) voleva che non guerra ma sedizione fosse chiamata, quando i Greci movevano in armi gli uni contro gli altri, e comanda di usare in quei casi ogni moderazione. E se guerra la chiamate, essa non è se non superficiale, non penetra nel profondo dei nostri cuori, poiché nessuno di noi è offeso nel proprio onore e non si tratta, insomma, che di riparare qualche errore commesso dalle vostre genti, vostre e nostre intendo. Conosciuto questo errore, dovevate lasciar correre, poiché le persone in litigio erano più da spregiare che da prendere in considerazione, massimamente avendo io offerto di dar soddisfazione adeguata al danno patito. Dio sarà giusto estimatore del nostro conflitto ed io lo supplico di togliermi dal mondo con la morte, e mandare in rovina ogni mio bene davanti ai miei occhi piuttosto che io e i miei in nulla l'offendiamo.

Pronunciate queste parole chiamò il monaco e davanti a tutti gli domandò:

- Frate Gianni, mio buon amico, da voi è stato preso il capitano Toccaleone qui presente?

- Sire, disse il monaco, egli è presente, l'età ed il giudizio non gli mancano; preferisco lo sappiate dalla sua stessa confessione piuttosto che dalle mie parole.

E allora Toccaleone disse:

- Signore, sì, è proprio lui che mi ha preso ed io mi rendo francamente suo prigioniero.

- Avete voi, chiese Grangola al monaco, messo a prezzo il suo riscatto?

- No, disse il monaco, di ciò non mi curo.

- Quanto vorreste, disse Grangola, per lasciarlo libero?

- Nulla, nulla, disse il monaco, non m'importa.

Allora Grangola comandò che, presente Toccaleone, fossero contati al monaco per la sua presa, sessantaduemila saluti e ciò fu fatto mentre si preparava la colazione al detto Toccaleone. Infine Grangola gli domandò se voleva restare con lui o se preferiva tornarsene al suo re.

Toccaleone rispose che avrebbe fatto come egli consigliasse.

- E allora, disse Grangola, ritornate al re vostro e Dio sia con voi.

Poi gli fece dono di una bella spada di Vienna con fodero d'oro inciso di belle vignette di oreficeria, e una collana d'oro pesante settecento e due mila marchi, guarnita di gemme fine del valore di centosessantamila ducati e inoltre diecimila scudi come regalo. Dopo ciò Toccaleone montò sul suo cavallo. Gargantua lo fece scortare, per sicurezza, da trenta uomini d'arme e centoventi arcieri sotto il comando di Ginnasta, per condurlo fino alle porte della Roche Clermault se occorresse.

Lui partito, il monaco restituì a Grangola i sessantaduemila saluti ricevuti dicendo:

- Sire, non ora dovete fare tali doni. Attendete la fine della guerra, poiché non si sa mai quali casi possano sopravvenire e una guerra condotta senza buona provvista di danaro non ha che un filo di vigore. Nerbo della guerra è la pecunia.

- E allora, disse Grangola, vi contenterò alla fine, con

onesta ricompensa e con voi quanti mi avranno ben servito.





CAPITOLO XLVII.



Come qualmente Grangola mandò a chiamare le sue legioni e come Toccaleone uccise Corvitello e poi fu ucciso per comando di Picrocolo





In quegli stessi giorni gli abitanti di Bessè, di Marché vieux, di Bourg Saint-Jacques, di Trainneau, di Parillè, di Rivière, di Roches Saint-Paul, di Vaubreton, di Pantillè, di Brehemont, di Pont de Clain, di Cravant, di Grandmont, di Bourdes, di Villeaumère, di Huymes, di Segrè, di Hussè, di Saint-Louant, di Panzoust, di Coudreaux, di Verron, di Coulaines, di Chosè, di Varenes, di Bourgueil di l'Isle Bouchard, di Croulay, di Narsay, di Cande, di Montsoreau e altri luoghi confinanti inviarono ambasciate a Grangola per dirgli che erano edotti dei torti usatigli da Picrocolo e in virtù della loro antica confederazione, gli offrivano tutto il loro aiuto, sia d'uomini che di danaro e altre munizioni di guerra.

Il tesoro confederale, secondo i patti stipulati con lui, ammontava a centotrentaquattro milioni e due scudi e mezzo d'oro. Le milizie sommavano a quindicimila uomini d'arme, trentaduemila cavalleggeri, ottantanovemila archibugieri, centoquarantamila avventurieri undicimila e duecento cannoni tra cannoni doppi, basilischi e spirole, con quarantasettemila artiglieri; il tutto a soldo pagato e con vettovaglie per sei mesi e giorni quattro. Gargantua né rifiutò, né accettò del tutto l'offerta; ma li ringraziò grandemente e disse che avrebbe condotto a termine la guerra con tale accorgimento che non sarebbe stato necessario disturbare tanta gente da bene. Solamente comandò gli si conducessero in ordine le legioni che ordinariamente manteneva nelle sue piazze di La Devinière, di Chaviny, di Gravot e di Quinquenays, le quali contavano duemila e cinquecento uomini d'arme, sessantasei mila archibugieri, duecento pezzi di grossa artiglieria, ventiduemila artiglieri e seimila cavalleggeri, tutti in bande così ben provvedute di tesorieri, vivandieri, maniscalchi, armaioli e altra gente necessaria al buon attrezzamento dell'esercito, tanto bene istruiti nell'arte militare e bene armati ed esperti a riconoscere e seguire le loro insegne, e pronti a intendere e obbedire i loro capitani, tanto rapidi alla corsa e forti al cozzo, e prudenti nell'avventurarsi, che meglio sembravano un'armonia d'organi e un ingegno d'orologio che un esercito o una cavalleria.

Toccaleone, arrivato, si presentò a Picrocolo e gli contò per disteso ciò che aveva e fatto e visto. Alla fine consigliava calorosamente che si venisse ad un accomodamento con Grangola, nel quale aveva trovato il più gran galantuomo del mondo, aggiungendo che non era né utile, né giusto molestare così i vicini, dai quali non aveva ricevuto che bene; e, ciò che più importava, che mai avrebbe potuto cavarsela da quella impresa se non con scapito e disgrazia, poiché la potenza di Picrocolo non era tale che Grangola non potesse agevolmente metterli a sacco. Non aveva finito di pronunciare queste parole che Corvitello disse ad alta voce:

- Ben infelice il principe che è servito da gente che si lascia facilmente corrompere, come Toccaleone; poiché io vedo l'animo suo tanto mutato, che certo egli si sarebbe unito ai nostri nemici per combattere contro noi e tradirci, se essi avessero voluto trattenerlo; ma come la virtù è da tutti lodata e stimata, amici o nemici che siano, così la malvagità è tosto conosciuta e tenuta in sospetto e poiché di essa i nemici si servono a loro vantaggio, così essi tengono i malvagi e i traditori in abominazione.

A queste parole Toccaleone, insofferente, sguainò la spada e trafisse Corvitello un po' sopra la mammella sinistra, onde morì incontinente. E traendo dal corpo la spada disse franco:

- Così muoia chi biasimerà i fedeli servitori.

Picrocolo montò subito in furore e vedendo la spada e il fodero tanto ornati disse:

- Ti hanno forse regalata quest' arma per uccidere maliziosamente in mia presenza il mio buon amico Corvitello?

E comandò ai suoi arcieri di metterlo a pezzi; il che fu fatto subito e così crudelmente che la camera era tutta bagnata di sangue; poi fece seppellire onorevolmente il corpo di Corvitello e gettar dalle mura nella valle quello di Toccaleone.

Le notizie di queste violenze si diffusero per tutto l'esercito, onde molti cominciarono a mormorare contro Picrocolo tanto che Acchiappagatti gli disse:

- Signore, io non so che sarà per uscire da questa impresa. Vedo la vostra gente poco fiduciosa. Essi considerano che siamo qui mal provvisti di viveri e già molto diminuiti di numero per le perdite di due o tre sortite. Inoltre i nostri

nemici ricevono grandi rinforzi. Se saremo assediati non vedo come potremo sfuggire alla rovina completa.

Merda! Merda! disse Picrocolo; mi sembrate le anguille di Melun che si mettono a strillare prima che le scortichino. Lasciate, lasciate che vengano!





CAPITOLO XLVIII.



Come qualmente Gargantua assalì Picrocolo in La Roche Ciermault e sbaragliò l'esercito del detto Picrocolo.





Gargantua fu nominato comandante in capo dell'esercito. Il padre restò nella fortezza e incoraggiando le sue genti con buone parole promise gran doni a coloro che avessero compiuto prodezze. L'esercito poi giunse al guado della Vède e con barche e ponti leggeri passarono oltre rapidamente. Poi, considerando la posizione della città che era in luogo elevato e vantaggioso, nella notte si deliberò sul da fare.

Ginnasta disse: "Signore, tali sono la natura ed il temperamento dei Francesi che non valgono se non al primo assalto; al primo assalto son peggio che diavoli, ma se si fermano, valgono meno che femminuccie. lo sono d'avviso che ora, appena le vostre genti avranno riposato un poco e mangiato, ordiniate l'attacco".

L'avviso fu trovato buono. Gargantua spiegò dunque tutto l'esercito in campo aperto mettendo la riserva dal lato della salita. Il monaco prese con sé sei bande di fanti e duecento cavalieri e rapidamente traversò le paludi e giunse sopra Puy fino alla strada di Loudun.

Intanto l'assalto continuava. Le genti di Picrocolo non sapevano se fosse meglio uscir dalle mura e affrontare i nemici, oppure difendere la città senza moversi. Picrocolo fece alfine una furiosa sortita con qualche banda di cavalieri della sua casa, ma fu accolto a gran festa di cannonate che grandinavano sul pendio, talché i Gargantuisti si ritirarono nella valle per lasciar libero gioco all'artiglieria. Quelli della città si difendevano come meglio potevano, ma le freccie passavano oltre senza ferire nessuno. Alcuni della banda sfuggiti all'artiglieria caricarono fieramente le nostre genti, ma con poco profitto perché furono accolti tra le schiere e rovesciati a terra. Allora avrebbero voluto ritirarsi, ma il monaco intanto aveva loro tagliato la strada per cui si volsero alla fuga in disordine e confusione. Alcuni volevano dar loro la caccia, ma il monaco li trattenne temendo, nell'inseguire i fuggenti, perdessero l'ordinamento e fossero sorpresi così dall'assalto di quelli della città. Poi, atteso qualche tempo e nessuno facendosi innanzi, inviò il duca Frontista ad avvertire Gargantua affinché s'avanzasse per occupare il pendio a sinistra e impedire la ritirata di Picrocolo per quella porta. Gargantua profittò del consiglio in tutta fretta e inviò quattro legioni della compagnia di Sebaste; ma non poterono raggiungere la sommità del pendio senza incontrare faccia a faccia Picrocolo e quelli che si erano sparpagliati con lui. Li caricarono violentemente, ma furono tuttavia provati dalle freccie e dai tiri d'artiglieria di quelli che stavano sulle mura. Ciò vedendo Gargantua, andò in loro soccorso con grandi forze e la sua artiglieria cominciò a battere quella parte delle mura sicché tutte le schiere della città furono quivi chiamate a difesa.

Il monaco, accortosi che la parte da lui assediata era sprovvista di soldati e di guardie, considerando che coloro che sopraggiungono in una battaglia recano più timore e spavento di quelli che stanno combattendo a tutta forza mosse con gran coraggio contro il forte e tanto fece che riuscì a scalarlo con alcuno de' suoi. Tuttavia evitò ogni fracasso finché tutti i suoi non fossero saliti sulle mura, eccetto i duecento cavalieri che lasciò fuori per gli accidenti che potessero capitare. E allora lui e gli altri insieme si diedero a gridare orribilmente, uccisero senza resistenza le guardie di quella porta e l'apersero ai cavalieri, poi con tutta fierezza fecero impeto verso la porta orientale dove era la mischia e assalendo da tergo il nemico rovesciarono ogni resistenza. Gli assediati vedendo apparire i nemici, e i Gargantuisti aver occupata la città, si arresero a discrezione al monaco. Egli fece loro consegnare le armi e li riunì e rinchiuse nelle chiese, non senza aver tolto prima tutte le aste delle croci e messe guardie alle porte per impedir loro di scappare, poi, spalancata la porta orientale, uscì al soccorso di Gargantua.

Ma Picrocolo credette che il soccorso venisse a lui dalla città e s'impegnò con oltracotanza più di prima, finché Gargantua gridò:

- Frate Gianni, amico mio, benvenuto Frate Gianni!

Comprendendo allora Picrocolo e le sue genti che tutto era perduto, si diedero alla fuga in ogni direzione. Gargantua li inseguì fino a Vaugaudry uccidendo e massacrando, poi suonò la ritirata.





CAPITOLO XLIX.



Come qualmente Picrocolo fuggendo ebbe mala ventura e ciò che fece Gargantua dopo la battaglia.





Picrocolo, disperato, se ne fuggì verso l'Isle Bouchart; sulla strada di Rivière il suo cavallo inciampò; Picrocolo fu preso da tal collera che lo uccise colla spada. Poi non trovando modo di rimettersi a cavallo, volle prendere un asino del mulino che si trovava là presso; ma i mugnai lo colmarono di botte e lo spogliarono dei suoi abbigliamenti dandogli per coprirsi un meschino e rozzo vestito.

Così se n'andò il povero bilioso; poi, passando il fiume a Port-Huaux e raccontando la sua mala ventura fu avvertito da una vecchia strega che riacquisterebbe il regno alla venuta delle cocchegrù. Non si sa che sia poi avvenuto di lui. Tuttavia m'han detto che ora fa il facchino a Lione, sempre bilioso come prima; e sempre chiede ai forestieri notizie sulla venuta delle cocchegrù, certo sperando d'esser reintegrato nel regno al loro arrivo, secondo la profezia della vecchia.

Gargantua, dopo aver suonato a raccolta, primamente fece contar le sue genti e trovò che pochi erano periti in battaglia, cioè alcuni della banda del capitano Tolmero, e Ponocrate che era stato colpito da un archibugiata al giustacuore. Poi li fece ristorare, ciascuno in ordine nella sua banda, e comandò ai tesorieri che quel pasto fosse loro provveduto e pagato e che non si facesse nessun oltraggio alla città che era sua. Dopo il pasto comandò che le milizie comparissero sulla piazza davanti al castello dove avrebbero ricevuto paga per sei mesi. E così fu fatto. Indi fece radunar davanti a sé sulla piazza quanti erano rimasti della parte di Picrocolo, ai quali, presenti tutti i suoi principi e capitani, parlò come segue:





CAPITOLO L



La concione di Gargantua ai vinti.





"I nostri padri, avi e antenati a memoria d'uomo, di tal sentimento e di tal natura furono, che delle battaglie combattute e de' trionfi e vittorie riportati amarono erigere qual segno commemorativo trofei e monumenti di bontà nel cuore dei vinti, più volentieri che opere di architettura nelle terre conquistate, imperocché più stimavano la viva ricordanza degli umani con liberalità acquistata, che la muta iscrizione di archi, colonne e piramidi, soggetti alle intemperie dell'aria e all'invidia di tutti.

Ancor vivo è il ricordo della mitezza che usarono verso i Bretoni nella giornata di Saint-Aubin du Cornier e nella demolizione di Parthenay. Voi avete inteso e, intendendo, ammirato il buon trattamento che usarono coi barbari di Spagnola che avevano predato, devastato e saccheggiato i confini marittimi di Olona e Thalmondoys.

Tutto il nostro cielo fu pieno delle lodi e congratulazioni vostre e de' vostri padri quando Alfarbal re delle Canarie, non contento dei suoi successi, invase furiosamente il territorio di Onys compiendo opera da pirata in tutte le isole Armoricane e regioni finitime.

Egli fu preso e vinto in giusta battaglia navale da mio padre, che Dio conservi e protegga. Che più? là dove gli altri re e imperatori, anche quelli che si fanno chiamare cattolici, l'avrebbero miseramente trattato, duramente imprigionato, e gravissimamente taglieggiato, egli lo trattò cortesemente: amicamente lo ospitò con sé nel suo palazzo, e con incredibile bontà lo mandò libero con salvacondotto, carico di doni, carico di gentilezze, carico d'ogni segno d'amicizia. Che ne seguì? Quegli, tornato nelle sue terre fece adunare tutti i principi e stati del suo reame, espose loro l'umanità sperimentata in noi e li pregò di deliberare in modo che il mondo ne traesse esempio, come già in noi di decorosa gentilezza, così in loro di gentile decoro! I convenuti decretarono per consentimento unanime di offrirci le loro terre, domini e il reame, e che noi ne usassimo a nostro arbitrio. Alfarbal in persona ritornò subito con novemila e trentotto grandi navi onerarie portando i tesori non solamente della sua casa e della stirpe reale, ma quelli di tutto il paese: poiché imbarcatosi per far vela col vento di ovest-nord-est, tutti facevano ressa per gettare nelle navi oro, argento, anelli, gioielli, spezie, droghe e odori aromatici: pappagalli, pellicani, scimmie, zibetto, gatti selvatici, porcospini. Non era figlio di buona madre reputato chi non imbarcasse ciò che avea di singolare. Arrivato che fu, voleva baciare i piedi a mio padre: ciò che fu stimato indegno di lui e non fu permesso, fu abbracciato invece come eguale.

Egli offrì i suoi doni, e non furono accettati per essere eccessivi.

Si dichiarò mancipio e schiavo volontario lui e la sua posterità: ciò non parve equo e non fu accettato. Egli cedè, secondo il decreto degli stati, le sue terre e il reame, offrendo gli atti di trasmissione e cessione, firmati, sigillati e ratificati in tutta regola: ciò fu totalmente rifiutato e i contratti bruciati. Il risultato fu che mio padre cominciò a commoversi di pietà e a piangere copiosamente considerando il franco volere e la semplicità dei Canariani e con parole squisite e sentenze convenienti cercava menomare l'importanza del buon trattamento usato, dicendo nulla aver fatto che valesse più di un bottone e se aveva mostrato qualche minima gentilezza, l'aveva fatto perché suo dovere. E Alfarbal invece a decantarne il pregio vieppiù. Quale fu il risultato? Imponendogli anche la più gravosa delle taglie avremmo potuto esigere tirannicamente da lui due milioni di scudi e tenere in ostaggio i suoi figli maggiori: invece essi si son fatti spontaneamente tributari perpetui e obbligati a versarci ogni anno due milioni d'oro fino di ventiquattro carati. E il primo anno ce li pagarono qui, il secondo volontariamente ci pagarono due milioni e duecentomila scudi: il terzo due milioni e seicentomila, il quarto tre milioni, e tanto aumentano di loro buon grado la somma che saremo costretti a proibir loro di più nulla portarci. È la natura della gratuità. Che il tempo, il quale corrode e diminuisce ogni cosa, accresce invece il valore dei benefici, poiché una buona azione compiuta liberamente verso un uomo ragionevole è continuamente accresciuta da nobile pensiero e dalla rimembranza.

Non volendo io dunque degenerare dalla bontà ereditata dai parenti miei, ora vi lascio in libertà e vi rendo franchi e liberi come avanti. Inoltre, all'uscire dalle porte sarete pagati ciascuno per tre mesi affinché possiate ritirarvi nelle vostre case e famiglie e vi condurranno in sicurezza seicento cavalieri e ottomila fanti sotto la guida del mio scudiero Alessandro affinché non siate oltraggiati dai contadini. Dio sia con voi!

Duolmi di tutto cuore che qui non sia Picrocolo al quale avrei fatto intendere come a questa guerra fui tratto mio malgrado e senza alcuna intenzione di accrescere né i miei beni, né il mio nome. Ma poiché egli è perduto, né si sa dove né come sia sparito, voglio che il suo reame sia conservato intero a suo figlio, il quale, per essere in tenera età, poiché non ha anco compiuto i cinque anni, sarà allevato ed istruito dai vecchi principi e dai savii del reame. E poiché un reame così desolato, sarebbe facilmente rovinato se non s'infrenasse la cupidigia e avidità dei suoi amministratori, ordino e voglio che Ponocrate sovraintenda a tutti i governanti coll'autorità a ciò richiesta e assista il fanciullo finché lo riconosca idoneo a governare da sé.

Considero che una troppo molle e snervata facilità di perdono è occasione ai malfattori di nuovamente malfare per la perniciosa speranza di grazia. Considero che Mosè, il più dolce uomo che fosse sulla terra al tempo suo, puniva severamente gli insubordinati e i sediziosi del popolo di Israele. Considero Giulio Cesare, capitano mitissimo. Disse di lui Cicerone che la sua fortuna nulla ebbe di più sovrano se non il potere e la sua virtù nulla di migliore se non il voler sempre salvare e perdonare tutti. Cesare tuttavia in certi casi punì rigorosamente gli autori di ribellione.

A esempio di loro voglio che mi consegniate avanti di partire: anzitutto quel bel Marchetto che per la sua vana oltracotanza fu origine e causa prima di questa guerra: in secondo luogo i suoi compagni focacceri che trascurarono di correggere immediatamente la sua testa matta e infine tutti i consiglieri, capitani, ufficiali e famigliari di Picrocolo che lo abbiano incitato, lodato, e consigliato a esorbitare dai limiti per venire a disturbarci."





CAPITOLO LI.



Come qualmente i Gargantuisti vincitori furono ricompensati dopo la battaglia.





Dopo la concione di Gargantua furono consegnati i sediziosi da lui richiesti meno Spadaccino, Merdaglia, e Minutaglia i quali erano fuggiti sei ore prima della battaglia, l'uno di volata fino a Col d'agnello, l'altro fino a Val de Vire, il terzo fino a Logrono, senza mai voltarsi né prender fiato nella fuga, e meno due focacceri morti nella battaglia. Gargantua non fece loro alcun male, solo ordinò fossero adibiti a tirare le stampe nella tipografia impiantata di fresco.

Poi fece onorevolmente seppellire i morti nella valle delle Noirettes e nel campo di Brulevieille. I feriti li fece medicare e curare nel suo grande nosocomio. Poi pensò ai danni recati alla città e li fece rimborsare agli abitanti con tutti gli interessi basandosi sulla loro dichiarazione giurata.

Nella città fece costruire un forte castello e vi mise gente a guardia per meglio difenderla nell'avvenire contro le aggressioni improvvise.

Prima che partissero ringraziò con riconoscenza tutti i soldati delle sue legioni che avevano cooperato alla vittoria e li mandò a svernare nelle loro sedi e guarnigioni, eccetto alcuni della legione decumana che aveva visto nella giornata campale compiere prodezze, e insieme i capitani delle bande che condusse con sé alla presenza di Grangola.

Non sarebbe possibile descrivere quanto si rallegrò il buon uomo vedendoli arrivare. E diede loro un banchetto, il più magnifico e abbondante e delizioso che si fosse mai visto dal tempo del re Assuero. Al levar delle mense distribuì a ciascuno tutta la sua argenteria che pesava un milione ottocentomila e quattordici bisanti d'oro, tra gran vasi antichi, grandi crateri, navicelle, portafiori, portaconfetti, e altro simile vasellame, tutto d'oro massiccio, oltre le gemme, gli smalti e i lavori di oreficeria, il prezzo dei quali a stima di ognuno, superava quello stesso del metallo.

Inoltre fece loro contare dalle sue casse, un milione e duecentomila scudi ciascuno, e in più, a ciascuno, donò a perpetuità (salvo il caso che morissero senza eredi) i suoi castelli e terre vicini, secondo che erano a loro più comodi: a Ponocrate donò la Roche Clermault, a Ginnasta Coudray; a Eudemone, Montpensier; a Tolmero, Rivau; a Itibolo, Monsoreau; ad Acamas, Cande; a Chiranatto, Varennes; Gravot a Sebaste; Quinquenays ad Alessandro; Ligrè a Sofronio; e così dell'altre sue piazze.





CAPITOLO LII.



Come qualmente Gargantua fece costruire per il monaco l'abbazia di Teleme.





Restava da premiare il monaco. Gargantua voleva nominarlo abate di Seuilly, ma egli rifiutò. Gli volle dare l'abbazia di Bourgueil o quella di Saint-Florent, qual delle due più gli convenisse, o entrambe se gli piacesse; ma il monaco gli fece risposta perentoria che non voleva carico né governo di monaci.

- Poiché, diceva, come potrei governare altrui, io che non saprei governare me stesso? Se vi pare che vi abbia reso servizio gradito e che possa renderne altri in avvenire, concedetemi di fondare una abbazia di mia testa.

Piacque la domanda a Gargantua e gli offrì tutto il suo territorio di Teleme lungo la Loira, a due leghe dalla grande foresta di Port-Huan. Il monaco chiese poi a Gargantua che disciplinasse la sua regola in modo contrario a tutte le altre.

- Anzitutto, disse Gargantua, non bisognerà costruirvi muri all'intorno, poiché tutte le altre abbazie sono fieramente murate.

- Non senza ragione è questo, disse il monaco: dove c'è muro e davanti e di dietro, c'è molto murmurare, e invidia e mutua cospirazione.

Inoltre, poiché in certi conventi di questo mondo è usanza che se v'entra qualche donna (intendo le oneste e pudiche) si ripuliscono i luoghi dove son passate, così ordino che se un monaco o una monaca entrassero per caso nell'abbazia, si ripulissero accuratamente tutti i luoghi per dove fossero passati. E poiché negli ordini monastici di questo mondo tutto è misurato, limitato e regolato per ore, fu decretato che colà non fosse né orologio, né quadrante alcuno, ma che tutte le opere fossero distribuite secondo le occasioni e opportunità; poiché, diceva Gargantua, la maggior perdita di tempo che egli sapesse, era contar le ore (qual profitto ne viene?) e la più gran corbelleria di questo mondo governarsi al suon di una campana e non secondo i dettami del buon senso e dell'intelletto. Item, poiché in quel tempo non si facevano monache se non le donne che erano guercie, gobbe, brutte, deformi, folli, insensate, stregate, e magagnate e monaci gli uomini se non catarrosi, malnati, sciocchi, e di peso alla famiglia....

- A proposito, disse il monaco, una donna né bella né buona, a che serve?

- A metterla in convento, disse Gargantua.

- Ma anche, disse il monaco, a far camicie.

....così fu ordinato che là non sarebbero state ricevute se non donne belle, ben formate, e di buona natura e gli uomini belli, ben formati e di buona natura.

Item, poiché nei conventi di monache non entravano uomini se non di scappata e clandestinamente, fu decretato che colà non sarebbero ammesse donne se non vi fossero uomini, né uomini se non vi fossero donne.

Item, poiché tanto i monaci che le monache una volta entrati in un ordine, dopo l'anno di noviziato, erano forzati e costretti a restarvi perpetuamente per tutta la vita, fu stabilito che uomini e donne entrati colà avessero potuto uscirne francamente e completamente quando loro piacesse.

Item, poiché ordinariamente i monaci facevano tre voti: di castità, povertà e obbedienza, fu stabilito che colà si potessero maritare onorevolmente, che ciascuno fosse ricco e vivesse liberamente.

Quanto all'età legittima, le donne vi erano ammesse dai dieci fino ai quindici anni, gli uomini dai dodici fino ai diciotto.





CAPITOLO LIII.



Come qualmente fu costruita e dotata l'abbazia dei Telemiti.





Per la costruzione e l'ammobiliamento dell'abbazia, Gargantua fece consegnare in contanti due milioni e settecento mila ottocento e trentuno montoni di gran lana e assegnò per ogni anno, fino a compimento dell'opera, un milione seicento e sessantanovemila scudi del sole e altrettanti della chioccia, da esigere sulle entrate della Dive.

Per l'impianto e il mantenimento dell'abbazia fece donazione a perpetuità di due milioni trecento sessantanove mila cinquecento e quattordici nobili della rosa, netti da aggravi, liberi, e pagabili ogni anno alla porta dell'abbazia e ciò fu messo in atti e firmato in piena regola.

L'edificio fu costruito in forma esagonale; ai sei angoli corrisposero sei torrioni rotondi di sessanta passi di diametro e tutti eguali di grandezza e di aspetto.

La Loira scorreva sulla facciata di settentrione e là sorgeva una delle grosse torri chiamata Artica, l'altra volgendo a oriente era chiamata Calaer, l'altra Anatolia, l'altra Mesembrina, l'altra Esperia, e l'ultima Criera.

I lati fra torre e torre misuravano trecento e dodici passi. Tutto l'edificio era a sei piani contando per un piano le cantine sotterranee. Il secondo piano era tutto a volti in forma d'ansa di paniere; tutti gli altri soffitti erano a cassettoni e a cul di lampada in gesso di Fiandra; il tetto coperto d'ardesia fina, con il comignolo rivestito di piombo con figure d'ometti e animali ben eseguiti, combinati e dorati, coi doccioni che sporgevano dalla muraglia tra un finestrone e l'altro e i tubi, dipinti con disegni diagonali d'oro e d'azzurro, che scendevano sino a terra dove finivano in grandi canali sotterranei che mettevano nel fiume.

L'edificio era cento volte più magnifico dei castelli di Bonivet, di Chambord e di Chantilly, poiché conteneva novemila trecento e trentadue camere, ciascuna fornita d'anticamera, gabinetto, guardaroba, cappella, e con uscita in una grande sala. Nell'interno di ciascuna torre era una scala a chiocciola con pianerottoli, i gradini della quale erano o di porfirio, o di marmo rosso di Numidia, o di marmo serpentino, lunghi ventidue piedi; la loro grossezza era di tre dita ed ogni ramo di scala ne aveva dodici tra un pianerottolo e l'altro. Ogni pianerottolo era illuminato di due belle finestre arcate all'antica, ed essi mettevano sopra una loggetta della larghezza della scala. La scala saliva fino al tetto e là finiva a padiglione e da ogni lato di essa si entrava in una grande sala e dalle sale nelle camere.

Dalla torre Artica alla Criera erano belle e grandi biblioteche di libri greci, latini, ebraici, francesi, toscani e spagnoli, una lingua per ogni piano.

Nel mezzo dell'edificio, dalla parte del fiume era una scalea a chiocciola, mirabile, l'entrata della quale era esterna sotto un'arcata larga sei tese ed era costruita in tale forma e dimensione che sei cavalieri colla lancia sulla coscia potevano salire insieme, di fronte, fino al sommo dell'edificio.

Dalla torre Anatolia alla Mesembrina erano belle e grandi gallerie tutte affrescate di antiche geste, di fatti storici e descrizioni della terra. Tra le due torri era un'altra scalea come quella sopradetta dalla parte del fiume. Sulla porta era scritto in lettere romane ciò che segue.





CAPITOLO LIV.



Iscrizione messa sul portale di Teleme.





Qui non entrate voi, ipocriti, bigotti,

Vecchie bertucce, sguatteri gonfioni,

Torcicolli, sciocchi da disgradarne i Goti

E gli Ostrogoti, precursori dei macacchi;

Accattoni, lebbrosi, mangiamoccoli impantofolati,

Straccioni imbacuccati, porcaccioni scornacchiati,

Beffati, tumefatti, accattabrighe;

Tirate via a vendere altrove i vostri imbrogli.



I vostri mali imbrogli

Invaderebbero i miei campi

Di cattiveria;

E per loro falsità

Turberebbero i miei canti

I vostri mali imbrogli.



Qui non entrate voi o legulei mangiafieno,

Scribacchini, curiali, divoratori di popolo,

Coadiutori, scribi e farisei,

Giudici antichi che ai buoni parrocchiani

Siccome a cani mettete il guinzaglio.

Sia vostra mercede il patibolo.

Andate là a ragliare; qui non si commette eccessi,

Onde alle vostre corti movansi processi.



Processi e dispute

Han poco da stare allegri qui,

Dove si viene a spassarsela.

Su voi per litigare

Si rovescino a cestoni

Processi e discussioni.



Qui non entrate voi, usurai spilorci,

Ghiottoni leccapiatti, che sempre ammassate,

Acchiappagatti, ingoiatori di nebbia,

Curvi, camusi, che nelle vostre pentole

Non avete mai abbastanza migliaia di marchi.

Non fate smorfie quando incassate

E accumulate, poltroni dall'avara faccia;

Che mala morte d'un colpo vi disfaccia.



La faccia non umana

Di tal gente si porti

A ridere altrove; qui dentro

Non sarebbe decente;

Via da questo territorio

Facce non umane.



Qui non entrate voi, o deliranti mastini

Né a sera né a mattino, vecchi malinconici e gelosi,

Né voi faziosi e rivoltosi,

Fantasmi, folletti, spioni dei mariti,

Greci e Latini più pericolosi dei lupi;

Né voi rognosi impestati fino all'osso;

Andate altrove a far mostra d'ulceri,

Infranciosati carichi di disonore.



Onore, lode, letizia

Son qui dentro convenuti

In accordo giocondo;

Tutti son qui sani di corpo.

Perciò ben qui s'addice

Onore, lode, letizia.



Qui entrate e siate i benvenuti

E benarrivati voi tutti, nobili cavalieri

Questo è il luogo ove son copiose

E giuste rendite, affinché ospitati

Siate tutti, grandi e piccoli a migliaia.

Miei familiari, miei intimi sarete

O freschi, giocondi, allegri, piacevoli, graziosi;

E tutti in generale gentili compagnoni.



Compagnoni gentili

Sereni e sottili

Alieni da bassezza,

Di cortesia

Qui sono gli strumenti,

O compagnoni gentili.



Qui entrate voi che l'evangelio santo

Vivacemente propagate, checché si gridi.

Qui dentro avete rifugio e fortezza

Contro l'errore dei nemici, che tanto procura

Avvelenare il mondo con sua falsità:

Entrate, e qui si fondi la profonda fede;

Poi si confondano e a voce e per iscritto

I nemici della santa parola.



La parola santa

Non sia mai estinta

In questo luogo santissimo.

Ciascun ne sia cinto

Ciascuno incinto sia

Dalla parola santa.



Qui entrate voi, dame d'alta stirpe,

Con franco cuore e lietamente entrate,

Fiori di bellezza dal viso celeste,

Dal corpo snello, dal fare onesto e saggio.

In questo luogo ha sede l'onore.

L'alto signore donatore del luogo

E compensatore, per voi l'ha ordinato

E per ogni spesa ha molto or donato.



Or donato per dono

Ordina perdono

A chi lo dona:

E ben guiderdona

Ogni mortal galantuomo

Or donato per dono.





CAPITOLO LV.



Come qualmente era il maniero dei Telemiti.





In mezzo al cortile era una fontana magnifica di bello alabastro, sopravi le tre Grazie colle cornucopie e zampillanti getti d'acqua dalle mammelle, dalla bocca, dalle orecchie, dagli occhi e da altre aperture del corpo.

L'interno dell'edificio sul detto cortile era tutto a portici con grossi pilastri di calcedonio e porfirio e a belle arcate romaniche. Là erano belle e lunghe e ampie gallerie adorne di affreschi e trofei di corna di cervo, di liocorni, di rinoceronti, di ippopotami, di denti d'elefante e altre curiosità.

La parte dalla torre Artica alla Mesembrina era adibita alle dame. Gli uomini occupavano il resto. Davanti agli appartamenti delle dame, perché avessero una distrazione, tra le due prime torri, esternamente, erano le lizze, l'ippodromo, il teatro, le vasche natatorie con bagni mirifici a tre gradini, ben forniti di ogni comodo e acqua di mirto a volontà.

Prospicente il fiume era il bel giardino e in mezzo ad esso il bel labirinto. Fra le altre due torri erano il gioco della pallacorda e del pallone. Dal lato della torre Criera era il verziere pieno di ogni specie d'alberi fruttiferi tutti ordinati a quinconce. In fondo ad esso era il gran parco pullulante d'ogni genere di selvaggina.

Tra le terze torri erano i bersagli pei tiri d'archibugio, d'arco e di balestra; i servizi erano esternamente alla torre Esperia, a un solo piano; la scuderia, dopo i servizi, la falconeria dopo la scuderia, ed era governata da falconieri ben esperti dell'arte e rifornita ogni anno da Candioti, Veneziani e Sarmati, de' migliori campioni di ogni specie d'uccelli: aquile, girifalchi, avoltoi, sacri, lanieri, falconi, sparvieri smerigli, tanto bene addestrati e addomesticati che spiccando il volo dal castello per divertirsi ai campi prendevano tutto ciò che incontravano. I canili erano un po' più lontano volgendo verso il parco.

Tutte le sale, camere e gabinetti erano tappezzati in diverse maniere secondo le stagioni dell'anno. Tutto il pavimento era coperto di un tappeto verde. I letti erano tutti un ricamo. In ogni retrocamera era uno specchio di cristallo, incorniciato d'oro fino, guernito intorno di perle e di tal grandezza da specchiare nitidamente tutta la persona. All'uscita delle sale degli appartamenti femminili erano i profumieri e i parrucchieri per le mani dei quali passavano gli uomini quando andavano a visitare le dame. I profumatori fornivano ogni mattina le camere femminili d'acqua di rosa, acqua di arancio e acqua d'angelo, e mettevano in ciascuna la preziosa cassoletta vaporante ogni sorta di aromi.





CAPITOLO LVI.



Come qualmente erano vestiti i monaci e le monache di Teleme.





Le dame sul principio dell'istituzione si vestivano a loro piacere e arbitrio. Poi di lor franca volontà adottarono la seguente riforma:

Portavano calze scarlatte o color granata alle tre dita giuste sopra il ginocchio; l'orlatura delle quali era ricamata e dentellata. Le giarrettiere erano del colore dei loro braccialetti e contornavano il ginocchio sopra e sotto. Gli stivaletti, scarpine e pantofole erano di velluto cremisi, rosso, o violetto, con striscioline a barba di gambero.

Sulla camicia vestivano la bella baschina di qualche bel tessuto di seta e sopra essa la crinolina di taffetà bianco, rosso, lionato, grigio ecc. Al di sopra mettevano la cotta di taffetà d'argento (con ricami d'oro fino eseguiti coll'ago) o come loro piacesse e secondo le disposizioni dell'aria, di satin, di damasco, o velluto, di color aranciato, lionato, verde, cenerino, blu, giallo chiaro, rosso cremisi, bianco, dorato, tela d'argento, di canutiglia, di pizzi, secondo le feste.

Le sottane secondo la stagione, di tela d'oro a fregi e ricci d'argento, di raso rosso coperto di canutiglia d'oro, di taffetà bianco, blu, nero, lionato, sargia di seta, cambellotto di seta, velluto, stoffa d'argento, tela d'argento, fili d'oro, velluto o raso filato d'oro a disegni diversi. D'estate, qualche giorno, invece di sottana portavano belle tuniche delle stoffe suddette, o bernie alla moresca di velluto violetto con fregi d'oro su canutiglia d'argento, o a cordoncini d'oro guerniti ai nodi di piccole perle indiane. E sempre il bel pennacchio accordato col colore dei manicotti e ben guernito di farfalline d'oro. D'inverno vesti di taffetà dei colori sopra indicati e foderate di pelli di lupo cerviero, di gatto selvatico nero, di martore di Calabria, di zibellini e altre pelliccie preziose.

I rosari, anelli, catenelle e collane erano di gemme: carbonchi, rubini, balasci, diamanti, zaffiri, smeraldi, turchesi, granate, agate, berilli, perle e unioni rarissime.

L'acconciatura della testa variava secondo la stagione: d'inverno alla moda francese, di primavera alla spagnola, d'estate alla toscana; i giorni di festa e le domeniche portavano l'acconciatura francese, più onorevole e consentanea alla pudicizia matronale.

Gli uomini erano abbigliati alla moda loro: calze di stamigna, o di saia tessuta, di color scarlatto, o granata, o bianco, o nero; le brache di velluto del color delle calze, o pressapoco, ricamate e frangiate a loro gusto: il giustacuore di tessuto d'oro, d'argento, di velluto, raso, damasco, taffetà degli stessi colori, frangiato, ricamato e acconciato a meraviglia. I cordoncini erano di seta dello stesso colore, i puntali d'oro e bello smalto; i sai e le zimarre di tessuto d'oro, tela d'oro, tessuto d'argento, velluto, frangiati a piacere; le tuniche non meno preziose di quelle delle dame, le cinture di seta del color del giustacuore. Ciascuno aveva una bella spada al fianco, l'impugnatura dorata, il fodero di velluto del color delle brache con punta d'oro lavorato; lo stesso dicasi del pugnale; il berretto di velluto nero guernito di molte bacche e bottoni d'oro; sopra era la piuma bianca, graziosamente ornata di pagliuzze d'oro, all'estremità delle quali splendevano, a mò di pendagli bei rubini, smeraldi ecc.

Ma tanta simpatia era tra gli uomini e le dame che ogni giorno erano vestiti in modo simile e per non mancare a ciò certi gentiluomini erano incaricati di indicare agli uomini ogni mattina quali vesti le dame desideravano indossare per quella giornata e tutto era fatto secondo il piacere delle dame.

Non è a credere tuttavia che gli uni e le altre perdessero tempo a quei vestiti così belli, a quelle acconciature tanto ricche, poiché i mastri delle guardarobe tenevano ogni costume preparato ogni mattina, e le cameriere erano tanto esperte, che in un momento erano pronti e abbigliati da capo a piedi.

E per aver sottomano quei costumi intorno al bosco di Teleme v'era un gran caseggiato lungo mezza lega, ben chiaro e comodo nel quale dimoravano orefici, lapidari, ricamatori, sarti, filatori d'oro, vellutai, tappezzieri e ciascuno vi attendeva al suo mestiere, tutti per i monaci e le monache. Essi erano riforniti di materia prima e di stoffa per cura del signor Nausicleto, il quale inviava loro ogni anno dalle isole Perlas e dei Cannibali sette navi cariche di verghe d'oro, di seta cruda, di perle e di gemme. Se qualche grossa perla tendendo a vetustà perdeva la nativa nitidezza, glie la rinnovavano dandola a inghiottire a qualche bel gallo come si dà la piumata ai falconi.





CAPlTOLO LVII.



La regola dei Telemiti e loro maniera di vivere.





La loro vita non era governata da leggi, statuti o regole, ma secondo il loro volere e franco arbitrio. Si levavano da letto quando loro piacesse; bevevano, mangiavano, lavoravano, dormivano quando ne aveano voglia; nessuno li svegliava, nessuno li forzava né a bere, né a mangiare, né a qualsiasi altra cosa. Così aveva stabilito Gargantua. La loro regola era tutta in un articolo:



Fa ciò che vorrai



Poiché gli uomini liberi, ben nati, bene educati, avvezzi a compagnie oneste hanno per natura un istinto e stimolo che chiamano onore, il quale sempre li spinge a opere virtuose e li allontana dal vizio. Coloro i quali con vile soggezione e costrizione sono oppressi ed asserviti volgono a scuotere e a infrangere il giogo di schiavitù i nobili sentimenti onde a virtù liberamente tendevano; poiché noi incliniamo sempre alle cose proibite e bramiamo ciò che ci è negato.

Grazie a quella libertà invece, erano presi da emulazione di fare tutti ciò che ad uno vedevano piacere. Se alcuno o alcuna diceva: beviamo! tutti bevevano. Se alcuno diceva: giochiamo! tutti giocavano. Se alcuno diceva: andiamo pei campi a divertirci! tutti vi andavano. Se dovevano cacciare al volo o coi cani, le dame montate sulle loro chinee o sul loro baldo palafreno bardato recavano ciascuna sul pugno graziosamente inguantato o uno sparviero, o un lanieretto, o uno smeriglio; gli uomini portavano gli altri uccelli.

Erano tanto nobilmente istruiti che non si trovava fra loro né alcuno, né alcuna che non sapesse leggere, scrivere, cantare, suonare stromenti armoniosi, parlare cinque o sei lingue e comporre in ciascuna sia versi che prosa. Mai non furono visti cavalieri sì prodi e galanti e destri, a piedi e a cavallo, sì vigorosi, sì rapidi, sì esperti di tutte le armi. Mai non furono viste dame tanto pulite, tanto graziose, meno noiose e più valenti a ogni lavoro di mano, d'ago, ad ogni arte muliebre onesta e libera. Per questa ragione quando era venuto il tempo che alcuno volesse uscire dall'abbazia, o per richiesta dei parenti, o per altre cause, conduceva con sé una delle dame, quella che l'aveva accetto come suo devoto e si sposavano. E se erano vissuti a Teleme in affettuoso rispetto e amicizia, anche meglio la conservavano nel matrimonio e tanto si amavano alla fine de' lor giorni quanto il primo delle nozze.

Ma non voglio dimenticare di trascrivervi un enigma che fu trovato nei fondamenti dell'abbazia inciso sopra una grande lastra di bronzo. Si esprimeva così come segue:





CAPITOLO LVIII.



Enigma trovato nei fondamenti dell'abbazia dei Telemiti.





Poveri umani, che felicità aspettate,

In alto i cuori, le mie parole ascoltate.

Se è permesso di credere fermamente

Che dagli astri del ciel l'umana mente

Possa congetturar cose venture,

O se è possibil per divinazione

Aver conoscenza della sorte futura,

Tanto da poter annunciare con discorso certo

Il destino e il corso degli anni lontani,

Io fo sapere a chi lo vuole intendere

Che il prossimo inverno senza oltre attendere

E anche prima, qui, dove siamo,

Uscirà una maniera d'uomini

Stanchi di riposo, insofferenti di quiete

Che andranno francamente, di pieno giorno

A subornare gente d'ogni qualità

Incitandola alle fazioni e al parteggiare.

E chi presterà loro fede e ascolto,

(Checché ne segua o costi)

Indurranno a liti manifeste:

Persino gli amici tra loro e i prossimi parenti:

Il figlio, ardito, non temerà lo scandalo

Di schierarsi contro il suo stesso padre;

Anche i grandi di nobile lignaggio

Si vedranno assaliti dai loro sudditi

E il dovere d'onore e riverenza

Non terrà più conto di distinzioni e differenze di grado,

Poiché diranno che ciascuno a sua volta

Deve salire in alto e poi discendere.

E per questa vicenda vi saranno tante mischie,

Tante discordie e andate e venute,

Che nessuna istoria, dove sono le grandi meraviglie,

Ha raccontato simili commovimenti. Allora si vedranno molti uomini valorosi

Per stimolo e calor di giovinezza,

Per troppo abbandonarsi alle fervide brame,

Morire in fiore e vivere ben poco.

E nessuno potrà lasciar l'impresa,

Una volta che l'abbia presa a cuore,

Senza aver riempito, per dispute e contese,

Di grida il cielo, di passi la terra.

Allora uomini senza fede non avranno

Minore autorità di quelli che professano verità,

Poiché tutti seguiranno l'avviso e le passioni

Dell'ignorante e sciocca moltitudine,

E il più balordo sarà assunto giudice.

Oh dannoso e penoso diluvio!

Diluvio, dico, a buon diritto,

Poiché questo travaglio non cesserà

E non ne sarà liberata la terra.

Fintanto che non sgorghino rapide

Acque improvvise, onde anche i più tardi

Nel combattere, saranno colti e inzuppati;

E giustamente, giacché il loro cuore,

Assorto in questo combattimento, non avrà risparmiato

Neanche i greggi delle bestie innocue;

E i nervi loro e le loro vili budelle

Saranno usate non già pel sacrificio degli Dei,

Ma pei comuni servigi dei mortali.

Ora io vi lascio pensare intanto

Come procederà tutto questo parapiglia

E qual riposo, in lotta sì profonda,

Avrà il corpo della macchina rotonda.

I più fortunati, quelli che più la terranno,

Meno degli altri si asterranno dal guastarla e rovinarla

E in mille modi procureranno

Di asservirsela e tenerla prigioniera

In luogo tale, che la poveretta, disfatta,

Non troverà riparo se non da colui che l'ha fatta.

E, ciò ch'è peggio, nella sua disgrazia

Il chiaro sole, anche prima di giungere all'occaso

Lascierà cadere l'oscurità su lei

Più che di ecclissi o di notte naturale,

Onde perderà a un tratto e libertà

E il favore e la luce dell'alto cielo,

O per lo meno resterà abbandonata.

Ma prima di questa rovina

Essa avrà subito a lungo, ostensibilmente,

Un violento e sì grande sussulto

Che non più agitato fu l'Etna quando

Fu lanciato sopra un figlio di Titano

Né più improvviso dev'essere stimato

Il movimento che fece Inarime

Quando Tifeo sì forte s'irritò

Che i monti in mar precipitò.

Così sarà in breve ridotta

In triste stato e sì spesso cambiata,

Che anche quelli che la tenevano,

La lasceranno occupare ai sopraggiunti

S'avvicinerà allora il momento buono e propizio

Di por fine a sì lungo esercizio,

Che le grandi acque di che udiste parlare,

Fanno sì che ciascuno pensi alla ritirata.

Ma tuttavia prima di partirsi

Si potrà veder nell'aria apertamente

L'aspro calor di una gran fiamma accesa

Per metter fine all'acque ed all'impresa

Al termine di tutte queste peripezie

Resterà che gli eletti, lietamente ristorati

Di tutti i beni e di celeste manna,

Saranno per giunta arricchiti d'onesta ricompensa,

E gli altri alla fine saranno immiseriti.

Così è giusto sia, affinché cessato il travaglio

Tocchi a ciascuno la sua sorte predestinata

Tale era l'accordo. Oh quanto è da onorare

Colui che fino all'ultimo poté perseverare!



Finita la lettura del documento, Gargantua sospirò profondamente e disse ai presenti:

- Non è da ora che i seguaci della credenza evangelica sono perseguitati; ma ben felice colui che non sarà scandalizzato e tenderà sempre al fine che Dio, mediante il suo caro Figliuolo, ci ha prefisso, senza essere distratto, né deviato da passioni carnali.

- Che cosa pensate voi nel vostro intelletto, disse il monaco, che indichi e significhi questo enigma?

- Che significa? disse Gargantua: il corso e il trionfo della verità divina.

- Per San Goderano! disse iI monaco, la mia interpretazione non corrisponde alla vostra: questo è lo stile di Merlino il Profeta. Trovateci le allegorie e le gravi significazioni che vi piaccia e scervellatevi voi e tutto il mondo fin che vorrete. Per mio conto non ci vedo altro senso che una descrizione, sotto oscure parole, del gioco del pallone.

I subornati non sono che i giocatori delle partite che sono generalmente amici; dopo fatte le due caccie esce dal gioco colui che c'era e vi entra un altro; colui che primo dice se la palla è sopra o sotto la corda è creduto. Le acque sono il sudore, le corde delle rachette sono fatte di budelle di pecora o di capra; la macchina rotonda è la palla o pallone. Dopo il gioco si ristorano davanti a un bel fuoco, si cambiano la camicia e si banchetta volentieri; ma più allegramente quelli che hanno vinto.

E allegria!

FINE DEL VOLUME PRIM

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