FRANÇOIS RABELAIS

Traduzione di
GILDO PASSINI

CAPP. XVI -

CAPITOLO XVI.



Dei costumi e condizioni di Panurgo.





Panurgo era di statura media, né troppo grande né troppo piccolo. Aveva il naso un po' aquilino, fatto a manico di rasoio, ed era allora sull'età di trentacinque anni circa, così fino da indorare... come una daga di piombo, elegante di persona, ma era alquanto porcaccione e soggetto per natura a una malattia che in quel tempo si chiamava



Manca danaro: dolor senza pari.



Tuttavia possedeva sessantatre maniere di procurarsene sempre, secondo il bisogno, delle quali la più onorevole e comune era per via di ladrocinio furtivamente compiuto. Malefico, imbroglione, bevitore, vagabondo, arraffatore se uno ve n'era a Parigi:



Quanto al resto una perla di figliuolo.



E sempre macchinava qualche trappola contro gendarmi e contro la ronda.

Una volta riuniva tre o quattro buoni villani, li faceva bere a sera come templari, poi li conduceva sotto Santa Genoveffa o presso il collegio di Navarra e all'ora che la ronda montava di là (se n'accorgeva mettendo la spada sul selciato e l'orecchio presso; quando udiva la spada vibrare era segno infallibile che la ronda s'avvicinava) allora dunque egli e i compagni prendevano un carretto, gli davano la spinta rotolandolo con gran forza a valle e buttavano così la povera ronda a terra come porci, ed essi fuggivano dall'altra parte; poiché in meno di due giorni egli conosceva tutte le vie, vicoli e traverse di Parigi come il suo Deus det. Un'altra volta preparava in qualche bel posto dove la ronda doveva passare, una striscia di polvere da cannone e, quando giungeva, vi dava fuoco e se la godeva a vedere con quale buona grazia se la davano a gambe pensando aver il fuoco di Sant'Antonio alle calcagna.

Più di tutti gli altri perseguitava i mastri d'arte e i teologi. Quando ne incontrava qualcuno per la strada non mancava mai di far loro qualche tiro birbone; talora mettendo loro uno stronzo nel cappuccio dottorale, talora appiccicando loro dietro piccole code di volpe od orecchie di lepri o qualche altro accidente.

Un giorno che tutti i teologi erano convocati alla Sorbona per esaminare articoli di fede, fece una torta composta di molto aglio, di galbanum, d'assa fetida, di castoreum e di stronzi caldi e la stemprò entro la marcia dei bubboni cancerosi, poi, di mattina presto ne impiastricciò e unse teologalmente tutti i cancelli della Sorbona in modo che neanche il diavolo avrebbe potuto durarci.

Tutti i convenuti vomitavano le budella davanti al pubblico e ne morirono dieci o dodici di peste, quattordici ne ebbero la lebbra, diciotto si buscarono la rogna e più di ventisette lo scolo; ma egli non vi badava.

Portava di solito, un frustino sotto la veste, col quale frustava senza remissione i garzoni che portavano il vino ai loro maestri, per farli sgambettare.

Nel suo saio teneva più di ventisei borsette e sacchette sempre piene l'una di un po' di acqua di piombo e d'un coltellino affilato come ago di pelattiere col quale tagliava le borse, l'altra d'aceto da gettar negli occhi a chi trovava, un'altra di lippole attaccate a piume d'oca o di cappone, che lanciava sui vestiti e sui berretti della brava gente, e spesso appiccicava loro delle belle corna che portavano in giro per tutta la città. Talora vita natural durante. E anche alle donne talvolta ne appiccicava sui mantelli per di dietro, fatte a forma di membro virile; in un'altra teneva una quantità di cartoccetti pieni di pulci e di pidocchi che prendeva a prestito dagli accattoni di Sant'Innocenzo e li soffiava con cannuccie o penne da scrivere sui collari delle damigelle più sdolcinate che incontrasse; e specialmente in chiesa, dove mai non andava nel coro in fondo, ma sempre rimaneva nella navata, tra le donne, tanto a messa come a vespro ed alla predica.

In un'altra teneva provvista d'ami e uncini coi quali allacciava spesso uomini e donne quando per l'affollamento erano serrati e massimamente quelle che portavano vesti d'ermisino e quando volevano scostarsi strappavano tutte le vesti.

In un'altra un acciarino munito d'esca, di zolfanelli, pietra focaia e d'ogni altro apparecchio a ciò richiesto.

In un'altra due o tre specchietti ardenti coi quali talvolta faceva ammattire gli uomini e le donne e faceva loro perdere il contegno conveniente alla chiesa: poiché, diceva egli, non v'è che un antistrofe tra: femmina folle a la messa e femmina molle a la fessa.

In un'altra teneva provvista di filo e d'aghi con cui architettava mille piccole diavolerie.

Una volta, nella gran sala presso l'uscita del Tribunale, mentre un francescano stava per dire la messa ai magistrati, egli lo aiutò ad abbigliarsi, ma mentre gli metteva i paramenti gli cucì la cotta insieme colla sottana e la camicia e poi si ritirò quando i Signori della Corte vennero a sedersi per udire quella messa. Ma quando all'ite missa est il povero frate fece per levarsi la cotta si spogliò insieme sottana e camicia che erano ben cucite insieme, e si scoprì nudo fino alle spalle mostrando a tutta la gente il bischero che non era tanto piccolo senza dubbio. Il frate s'affannava a tirare ma tanto più tirava e tanto più su scopriva, finché uno dei Signori della Corte disse: "E che? il nostro bel padre vuol forse mostrarci l'ostensorio e farci baciare il culo? Che glielo baci il fuoco di Sant'Antonio!" Da quella volta fu ordinato che i poveri fraticelli non si spogliassero più davanti alla gente, ma in sacrestia, sopratutto considerata la presenza di donne, per evitare peccati di desiderio.

La gente domandava perché quei frati avessero coglioni così lunghi. Panurgo risolse assai bene il problema dicendo: "La ragione per cui le orecchie degli asini sono così lunghe è perché le loro madri non gli mettono cuffie sulla testa, come dice D'Alliaco nelle sue Suppositiones. Parimenti ciò che fa i coglioni dei frati sì lunghi è che essi non portano brache con fondo e i loro poveri membri si stendono a briglia sciolta in libertà e vanno loro spenzolando sui ginocchi come fanno i rosari alle donne. Ma la causa per cui l'avevano grosso in equipollente proporzione si è perché nel detto spenzolamento gli umori del corpo scendono al detto membro, poiché, secondo i legisti, agitazione e movimento continuo son causa d'attrazione".

Item egli aveva un'altra borsa piena d'allume che gettava giù per la schiena alle donne più agghindate; e si vedevan talune spogliarsi davanti a tutta la gente, altre ballare come galletti o bilie su tamburi, altre correr per le strade e lui correr loro dietro e a quelle che si spogliavano metteva addosso il suo mantello come uomo cortese e grazioso.

Item in un'altra borsa teneva una piccola fialetta piena di vecchio olio e quando incontrava uomo o donna che avesse un bel vestito glielo ungeva e sciupava nei più bei posti, sotto pretesto di palpar la stoffa, e diceva: "Questa sì che è buona stoffa, questo è buon raso, bon taffetà, Signora; Dio vi dia ciò che desidera il vostro nobile cuore: voi indossate vestito nuovo, e nuovo amico, e Dio ve li conservi!" Così dicendo metteva loro la mano sul collare e la mala macchia vi restava perpetuamente



Sì enorme ed indelebile

Sul nome il corpo e l'anima

Che non la lava il diavolo.



Poi alla fine diceva loro: "Attenta, Signora, a non cadere, c'è qui una gran brutta buca sulla vostra strada".

Un'altra era piena d'euforbo polverizzato finissimo, e là dentro metteva un fazzoletto bello e ben ricamato, che aveva rubato alla bella guardorobiera del Tribunale, levandole di sul seno un pidocchio che tuttavia lui stesso vi avea gettato. E quando si trovava in compagnia di buone dame tirava il discorso sulla biancheria e metteva loro la mano sul seno dicendo: "Questo lavoro è di Fiandria o di Haynault?" Poi estraeva il suo fazzoletto dicendo: "Tenete, tenete, vedete qui che lavoro, opera di Fottignano o di Fottarabia". E lo agitava ben forte sotto il loro naso facendole sternutare per quattr'ore senza sosta. Intanto peteggiava come un ronzino e le donne scoppiavano a ridere dicendo: "Come mai? Voi scorreggiate, Panurgo ?"

- Niente affatto, Madama, non faccio che intonarmi a contrappunto colla musica del vostro naso.

In un'altra una pinza, una tenaglia, un grimaldello e altri ferri coi quali non v'era porta né cassa ch'egli non scassinasse.

Un'altra era piena di piccoli bussolotti coi quali eseguiva giochi mirabili; poiché aveva dita degne di Minerva e di Aracne, e una volta aveva fatto il ciarlatano. E quando andava a cambiare, un testone o altra moneta, colui che cambiava, fosse anche stato più furbo di Mastro Mosca, non c'era verso che Panurgo non gli facesse sparire sotto il naso visibilmente, apertamente, manifestamente, cinque o sei gran bianchi ogni volta, senza lesione o ferita alcuna, ed era molto se il cambiatore ne sentisse vento.





CAPITOLO XVII.



Come qualmente Panurgo si guadagnava i perdoni e maritava le vecchie, e dei processi che ebbe a Parigi.





Un giorno incontrai Panurgo un po' scornato e taciturno: non ha danaro, pensai, e gli dissi: Vedo dalla vostra cera che siete malato, Panurgo, e il vostro male se bene immagino, è flusso di borsa; ma non preoccupatevi,



posseggo ancora sei soldoni e spiccioli

che non conobber mai padre né madre



non vi mancheranno mai come lo scolo, in caso di necessità.

- Merda al danaro! rispose Panurgo, un giorno o l'altro non ne avrò che troppo; possiedo una pietra filosofale che mi attira il danaro delle borse come la calamita il ferro. Volete venire a guadagnarvi perdoni?

- In fede mia, gli rispondo, non sono gran perdonatore io, in questo mondo; non so se lo sarò nell'altro. Ma andiamo pure, nel nome di Dio, fino a un danaro ci sto, né più, né meno.

- Ma, diss'egli, prestatemi dunque un danaro a interesse.

- Niente, niente, dissi, ve lo regalo di buon cuore.

- Grates vobis dominos, diss'egli.

Così andammo e cominciammo dalla chiesa di San Gervasio; io mi guadagno i miei perdoni al primo tronco solamente, che mi contento di poco in questa materia, poi mi metto a recitare le preghiere e orazioni a Santa Brigida. Ma lui andò a cercare perdoni a tutti i tronchi e ogni volta dava danaro a ciascuno dei venditori d'indulgenza. Di là passammo a Notre Dame, a San Giovanni, a Sant'Antonio e così ad altre chiese ove era il forum indulgentiarum. Per mio conto io non ne compravo più; ma lui ad ogni cassetta baciava le reliquie e ad ogni venditore di perdoni dava denaro. Breve, quando tornammo mi condusse a bere all'Osteria del Castello e mi mostrò dieci o dodici delle sue borsette piene di denaro. Mi feci il segno della croce e dissi:

- Come avete fatto tanto danaro in così poco tempo?

Ed egli rispose che l'aveva preso nei bacili delle indulgenze: "poiché, offrendo il primo danaro lo posi sì destramente da far credere fosse un gran bianco intanto con una mano ritiravo dodici danari, o magari dodici liardi o doppie per lo meno, e coll'altra tre o quattro dozzine; e così in tutte le chiese dove siamo stati".

- Ma, diss'io, voi vi dannate come un serpente, siete ladro e sacrilego.

- Sembra a voi, forse, ma non a me. Poiché gl'indulgenzieri me lo danno loro il denaro quando mi fanno baciare le reliquie dicendo: centuplum accipies, cioè per un danaro prendine cento. Infatti accipies s'ha da intendere secondo la maniera degli Ebrei che usano il futuro in luogo dell'imperativo, come nella Legge: Dominum deum tuum adorabis et illi soli servies; Diliges proximum tuum. Così quando l'indulgenzigero mi dice: centuplum accipies vuol dire: centum accipe e allo stesso modo interpretano il rabbino Kimy, il rabbino Aben Ezra e tutti i volgarizzatori e ibi Bartolus. Inoltre papa Sisto mi regalò millecinquecento lire di rendita sul suo dominio e tesoro ecclesiastico per avergli guarito un tumore canceroso da cui era tanto tormentato che temeva diventar zoppo per tutta la vita. Così mi pago da me colle mie mani, ché nulla val meglio, sul detto tesoro ecclesiastico. Oh, amico mio, diceva egli, se tu sapessi come ho sganasciato alla crociata ne saresti stupefatto: m'ha reso più di sei mila fiorini.

- E dove diavolo son finiti? dissi, se ora non hai più un quattrino.

- Là dond'erano venuti, rispose; non fecero che cambiar di padrone. Ben tremila ne impiegai a maritare, non ragazze, ché mariti ne trovano anche troppo, ma vecchione sempiternose senza più denti in bocca. Queste buone vecchie, ragionavo, hanno utilizzato assai bene il loro tempo in giovinezza giocando a stringichiappe col culo in alto a tutto spiano finché hanno potuto, ebbene per Dio, io le farò sballottare ancora una volta prima di morire. Così regalavo ad una cento fiorini a un'altra centoventi a un'altra trecento quanto più fossero infami, detestabili e abominevoli. Poiché quanto più erano orribili ed esecrabili tanto più conveniva regalare, altrimenti neanche il diavolo avrebbe voluto biscottarle. Poi andavo subito a cercare qualche grosso e grasso facchino e combinavo io stesso le nozze. Ma prima di mostrargli le vecchie gli mostravo gli scudi dicendo: "Compare, ecco qua, questi suon tuoi se vuoi imbiricoccolare un buon colpo". Da quel momento i poveri marcantoni s'impennavano come vecchi muli; poi facevo preparar loro un buon banchetto con vino del migliore e molte droghe per eccitar le vecchie e metterle in calore. E alla fine essi ci davano dentro come bravi figlioli, senonché quelle orribilmente brutte e sfatte le facevo coprire con un sacco sul viso.

Inoltre, continuò Panurgo, molto ho perduto in processi.

- E quali processi hai potuto avere? osservai. Tu non hai né terre né casa.

- Amico mio, egli disse, le damigelle di questa città avevano trovato, per istigazione del diavolo d'inferno, una foggia di collari alti che nascondevano loro il collo e le poppe, talché non ci si poteva più ficcar la mano dentro, l'abbottonatura essendo dietro mentre davanti erano tutti chiusi; onde i poveri amatori dolenti e contemplativi non erano contenti. Un bel giorno, un martedì, inoltrai citazione alla Corte, presentandomi come parte lesa contro le dette damigelle, dimostrando i gravi danni che ne subivo e protestando che se la Corte non avesse provveduto, per rappresaglia io mi sarei fatto cucire la braghetta sul di dietro. Per farla corta le damigelle si costituirono in sindacato, fecero vedere i loro argomenti e passarono procura al difensore della causa; ma io le perseguii in giudizio così vigorosamente che per decreto della Corte fu ordinato che quei collari non si portassero più se non un pocolino fessi per davanti, ma, ohe! mi costò assai.

Intentai un altro processo ben lurido e sporco contro mastro Fifi e i suoi aiutanti affinché non avessero a compulsare i loro volumi: il Mastello, la Botte o il Secchio, clandestinamente di notte bensì di pieno giorno e nelle aule della Sorbona, sotto il naso di tutti i teologi; ma qui fui condannato alle spese per qualche negligenza di forma nella relazione del cancelliere.

Un'altra volta sporsi querela contro le mule dei presidenti, consiglieri e altri, affinché quando le mettono nel cortile a rosicchiare il morso, i consiglieri facciano far loro delle belle bavarole per impedire che la loro bava insudici il lastricato, in modo che i paggi del Tribunale possano giocarvi comodamente ai dadi o a rinnegabio, senza sciupare le loro calze ai ginocchi. E qui ebbi sentenza favorevole; ma mi costò cara.

A queste spese aggiungete quanto mi costano gli spuntini offerti ai paggi del Tribunale quasi ogni giorno.

- Ma a che scopo? dissi.

- Amico mio, rispose, tu non hai nessun passatempo al mondo. Io ne ho più che il Re. E se tu volessi associarti a me faremmo il diavolo.

- Ah, no no, per Sant'Adauras, diss'io, poiché un giorno o l'altro tu sarai impiccato.

- E tu sarai un giorno o l'altro seppellito, diss'egli. Quale delle due è più onorevole: in aria o sotterra? Ah, bestione! Gesù Cristo non fu appeso in aria? Ma tornando a noi, mentre i paggi banchettano io faccio la guardia alle mule e taglio le cinghie delle staffe dalla parte che si monta in maniera che restano appese a malappena per un filo. Quando i grossi o gonfi consiglieri, o altri, prendono la spinta per montar su, piombano lunghi distesi come porci, davanti a tutta la gente e c'è da ridere per più di cento franchi. Ma io me la rido anche più degli altri perché arrivati essi a casa fanno frustare il signor paggio come baccalà; e così non rimpiango la spesa dello spuntino.

Insomma egli aveva, come ho detto sopra, sessantatre maniere per guadagnar danaro; ma ne aveva duecentoquattordici per spenderlo, non contando le provvigioni subnasali.





CAPITOLO XVIII.



Come qualmente un gran dotto d'Inghilterra volendo discutere contro Pantagruele, fu vinto da Panurgo.





In quei giorni un grandissimo dotto chiamato Thaumaste udendo la voce e fama del sapere incomparabile di Pantagruele, venne dal paese d'Inghilterra con la sola intenzione di vedere questo Pantagruele e conoscerlo, e provare se il suo sapere fosse veramente tale quale la rinomanza. Infatti, giunto a Parigi, si recò dal detto Pantagruele che abitava nel palazzo San Dionigi e in quel momento passeggiava pel giardino con Panurgo filosofando alla maniera de' Peripatetici. Entrando trasalì tutto di paura in vederlo così grande e grosso; poi lo salutò cortesemente secondo l'uso e disse:

- Ben è vero ciò che dice Platone, principe de' filosofi, che se l'immagine della scienza e sapienza fosse corporale e visibile agli occhi degli umani, essa inciterebbe tutto il mondo all'ammirazione. Poiché solo la fama di lei diffusa per l'aria se è ricevuta dalle orecchie degli studiosi ed amatori di lei, chiamati filosofi, non li lascia più dormire o riposare a loro agio, tanto li stimola e infiamma ad accorrere nel luogo e a vedere la persona nella quale si dice avere detta scienza stabilito il suo tempio e pronunziare oracoli. Ciò fu manifestamente addimostrato dalla regina di Saba che venne fin dai limiti d'Oriente e del Mar Persico per veder l'ordine della casa del saggio Salomone e udire la sua sapienza; da Anacarsi che dalla Scizia andò fino ad Atene per vedere Solone; da Pitagora che visitò i vaticinatori di Menfi; da Platone che visitò i magi dell'Egitto e Archita di Taranto; da Apollonio Tianeo che andò fino al monte Camaso, passò gli Sciti, i Massageti, gl'Indiani, navigò il gran fiume Fisone fino ai Brachmani per vedere Hiarchas; e poi fu in Babilonia, Caldea, Media, Assiria, Partia, Siria, Fenicia, Arabia, Palestina, Alessandria e fino in Etiopia per vedere i Gimnosofisti. Lo stesso accadde a Tito Livio per vedere e udire il quale parecchi studiosi vennero a Roma dai confini limitrofi della Gallia e della Spagna.

Io non oso considerarmi nel novero e ordine di persone tanto perfette; ma ben io voglio esser detto studioso e amatore delle lettere non solo, ma anche de' letterati. E infatti, udendo la fama del tuo sapere tanto inestimabile, ho lasciato patria, parenti, casa e mi sono qui condotto non badando alla lunghezza del viaggio, al disagio del mare, alla novità delle contrade, per te vedere, e con te conferire d'alcuni passi di filosofia, geomanzia e cabala, su cui ho qualche dubbio che tiene il mio spirito insoddisfatto. I quali se tu mi saprai chiarire, mi rendo fin da oggi tuo schiavo, io e tutta la mia posterità, ché altro dono non ho ch'io stimi bastante per la ricompensa. Questi dubbi redigerò per iscritto e lo farò sapere a tutti i sapienti della città affinché davanti ad essi domani pubblicamente ne disputiamo. Ed ecco la maniera com'io vorrei si disputasse: io non voglio discutere pro e contra come fanno i folli sofisti di questa città e d'altrove. Similmente non voglio discutere alla maniera degli Academici, per declamazione, e neanche per numeri come faceva Pitagora e come volle fare Pico della Mirandola a Roma; voglio disputare solo per segni, senza parlare; poiché le materie son tanto ardue che le parole umane non sarebbero atte a chiarirle a mio piacere. Piaccia perciò alla Magnificenza Vostra trovarsi domani alle sette del mattino nella grande sala di Navarra".

Questo discorso finito, Pantagruele gli disse onorevolmente:

"Signore, delle grazie che Dio m'ha concesso vorrei, per quanto è in mio potere che a nessuno fosse negato il beneficio; poiché tutto viene da lui ed è sua volontà che la celeste manna dell'onesto sapere sia moltiplicata quando si trovino persone degne e idonee a riceverla. E poiché nel novero di queste, tu tieni nel tempo nostro, come ben m'accorgo, il primo posto, ti notifico che a qualunque ora mi troverai pronto a soddisfare, secondo le mie deboli forze, le tue richieste, quantunque dovrei apprendere più io da te che tu da me. Ma, come hai proposto, noi conferiremo insieme di tutti i dubbi e ne cercheremo la soluzione fino in fondo al pozzo inesauribile nel quale diceva Eraclito esser la verità celata. E lodo grandemente la maniera di discussione da te proposta, cioè per segni, senza parlare; poiché ciò facendo tu ed io intenderemo e saremo salvi dai battimani che soglion fare i sciocchi sofisti quando si discute e nel forte della discussione. Domani dunque non mancherò di trovarmi nel luogo e all'ora assegnati; ma ti prego che tra noi non sia conflitto, né tumulto, e che non cerchiamo né onore, né applausi, ma la verità sola".

A lui rispose Thaumaste: "Dio vi conservi, e vi sia propizio, o Signore, io Vi ringrazio che la Vostra Alta Magnificenza abbia consentito a scendere fino alla mia umiltà. Ed ora addio fino a domani".

- Addio, disse Pantagruele.

O voi, signori che leggete questo scritto, non pensate che mai al mondo alcuno sia stato acceso ed eccitato nel pensiero quanto furono quella notte sia Thaumaste e sia Pantagruele. Thaumaste disse al portiere di Cluny, dove alloggiava, che in vita sua non s'era mai sentito sì gran turbamento come quella notte. "Mi pare, diceva egli, che Pantagruele mi tenga per la gola; provvedete da bere, vi prego, e fate che non manchi l'acqua fresca per gargarizzarmi il palato".

Dall'altro lato Pantagruele entrò in alta combustione e tutta la notte non fece che fantasticare su:



il libro di Beda: De Numeris et signis;

il libro di Plotino: De Inenarrabilibus;

il libro di Proclo: De magia;

i libri di Artemidoro: Peri Oneirocriticon;

di Anassagora: Peri semion;

d'Ynario: Peri Aphaton;

i libri di Philistion;

quello d'Ipponax: Peri Anecphoneton,



e un mucchio d'altri libri, tanto che Panurgo gli disse:

- Signore, lasciate tutti questi pensieri e andate a coricarvi; vi sento tanto agitato di spirito che ben presto vi piglierebbe una febbre efimera per eccesso di pensamento. Ritiratevi e dormite tranquillamente non senza prima aver bevuto venticinque o trenta buoni bicchieri, e domattina non ci pensate, risponderò io e discuterò io contro Signor l'Inglese e dite male di me se non lo metterò ad metam non loqui.

- Ma, veramente, Panurgo, amico mio, bada che è sapientissimo; come potrai competergli?

- Magnificamente, rispose Panurgo, ma non ne parliamo più, vi prego, e lasciate fare a me; v'è uomo sapiente come i diavoli?

- No davvero, disse Pantagruele, salvo una speciale grazia divina.

- E tuttavia, disse Panurgo, mille volte ho discusso contro loro e li ho insaccati e glie l'ho messo nell'organo. E quanto a questo vanitoso Inglese state tranquillo, domani ve lo faccio cacare aceto davanti a tutto l'uditorio.

Così Panurgo passò tutta la notte a tracannare coi paggi e a giocarsi tutte le fibbiette delle sue brache a primus e secundus e a la verghetta. E giunta l'ora condusse il suo padrone Pantagruele al luogo stabilito.

Credete pure francamente che nessuno a Parigi, né grande, né piccolo vi mancò, giacché pensavano: "Questo diavolo di Pantagruele che ha sbaragliato tutti i sorbonicoli, ora ha trovato pane pei suoi denti; questo Inglese è un altro diavolo di Valverde, vedremo chi la vincerà".

Mentre tutta la gente s'affollava, Thaumaste li attendeva. Ed ecco, quando arrivano nella sala Pantagruele e Panurgo tutti gli scolari e studenti delle arti e i professori cominciano a battere le mani com'è loro sciocca usanza.

Ma Pantagruele gridò con voce sì alta che parvero cannonate: "Silenzio in nome del diavolo! Silenzio per Dio, bricconi! Se mi rompete qui le scatole vi taglio la testa a tutti quanti". Alle quali parole tutti restarono sbalorditi come anitre e non osavano tossire neanche se avessero ingoiato quindici libbre di piume. Furono tanto turbati dalla sola voce che tiravano la lingua fuori dalla bocca un buon mezzo piede come se Pantagruele avesse loro salato la gola. Allora Panurgo incominciò a parlare volto all'Inglese:

- Signore, sei tu venuto qui per disputare in contraddittorio sulle proposizioni che hai presentate, oppure per apprendere e sapere la verità?

- Altro non mi conduce, rispose Thaumaste, se non il buon desiderio di apprendere e sapere ciò di cui ho dubitato tutta la vita, senza aver mai trovato né libro né uomo che mi soddisfacesse nella soluzione dei dubbi proposti. Quanto al discutere in contraddittorio, non io voglio questo troppo vile esercizio, lo lascio a quei furfanti sofisti sorbillanti, sorbonagri, sorbonigeni, sorbonicoli, sorboniformi, sorbonisequi, niborcisanti, sorbonizzanti, saniborsanti, i quali nelle loro dispute non cercano verità, ma contraddizione e controversia.

- Dunque, disse Panurgo, se io che sono un discepoluccio del mio maestro Signor Pantagruele, posso contentarti e soddisfarti, sarebbe cosa indegna disturbare il maestro; perciò sarà meglio che egli presieda e giudichi de' nostri argomenti e ti risponda tutt'al più se io non avrò soddisfatto il tuo studioso desiderio.

- Veramente hai ben detto, disse Thaumaste.

- Comincia dunque.

Notate bene che Panurgo aveva messo a un capo della sua braghetta un bel fiocco di seta rossa, bianca, verde e celeste, e dentro vi aveva messo una bell'arancia.





CAPITOLO XIX.



Come qualmente Panurgo mise nel sacco l'Inglese che argomentava per segni.





Mentre dunque tutti i presenti stavano silenziosi in ascolto l'Inglese alzò alto nell'aria le due mani separate stringendo tutte le estremità delle dita a cul di gallina, come si dice a Chinon, e le battè l'una contro l'altra, per le unghie, quattro volte; poi le dischiuse e le battè piatte l'una contro l'altra con suono stridente, una volta le richiuse come prima e battè due volte; le riaprì e battè quattro volte. Poi, distese, le congiunse l'una contro l'altra come se pregasse Dio devotamente.

Panurgo immediatamente levò in aria la mano destra, poi introdusse il pollice destro nella narice destra, tenendo le altre quattro dita distese e unite nel loro ordine in linea parallela alla pinna nasale, chiudendo nello stesso tempo l'occhio sinistro e ghignando col destro con profonda depressione del sopracciglio e della palpebra. Poi levò in alto la sinistra con forte chiusura ed estensione delle quattro dita ed elevazione del pollice, e la teneva in linea perfettamente corrispondente alla posizione della destra con distanza tra l'una e l'altra d'un cubito e mezzo. Ciò fatto, abbassò verso terra allo stesso modo ambo le mani; finalmente le tenne nel mezzo come mirando dritto al naso dell'Inglese.

- E se Mercurio ?... disse l'Inglese; ma Panurgo l'interruppe dicendo:

- Voi avete parlato, mascherotto.

L'Inglese allora fece il segno seguente: levò alto in aria la mano sinistra del tutto aperta, poi chiuse a pugno le quattro dita appoggiando il pollice disteso alla pinna del naso. Subito dopo alzò la destra tutta aperta e aperta l'abbassò congiungendo il pollice alla chiusura del mignolo della sinistra e movendo le quattro dita di questa lentamente nell'aria.

Poi, a vicenda, fece colla destra quello che aveva fatto con la sinistra e con la sinistra ciò che aveva fatto con la destra. Panurgo, punto stupito di ciò, colla sinistra sollevò in aria la sua trimegista braghetta e colla destra ne estrasse una fetta di costola bovina bianca e due pezzi di legno di forma eguale, l'uno di ebano nero, l'altro di brasile incarnato e se li mise tra le dita della destra in buona simmetria; e sbattendoli insieme produceva un rumore somigliante a quello che fanno i lebbrosi di Bretagna colle raganelle, ma alquanto più sonoro ed armonioso; e colla lingua contratta canticchiava allegramente sempre guardando l'Inglese.

I teologi, medici e chirurghi pensarono che, con questo segno egli inferisse esser l'Inglese un lebbroso. I consiglieri, legisti, e decretisti pensavano che, ciò facendo, volesse concludere che una specie di felicità umana era nello stato di lebbroso, come già affermò anche il Signore.

L'Inglese non si spaventò per questo e alzando ambo le mani le tenne in maniera che le tre dita più lunghe stavan chiuse a pugno, i due pollici s'introducevano tra l'indice e il medio e i due mignoli restavano distesi; e così li presentava a Panurgo; poi li combinò in modo che il pollice destro toccava il sinistro e parimenti i due mignoli.

Allora Panurgo, senza dir parola, alzò le mani e compose il segno seguente: congiunse le unghie dell'indice e del pollice della mano sinistra formando una specie di anello e chiuse a pugno le dita della destra meno l'indice che metteva spesso dentro e fuori del detto anello della sinistra, poi colla destra stese il medio e l'indice divaricandoli quanto poté e dirigendoli verso Thaumaste; quindi mise il pollice della mano sinistra all'angolo dell'occhio sinistro, stendendo tutta la mano come ala d'uccello o pinna di pesce e movendola graziosamente qua e là e del pari la destra all'angolo dell'occhio destro.

Thaumaste incominciò a impallidire e a tremare e gli rispose col segno seguente: battè il dito medio della mano destra contro il muscolo della palma che è sotto il pollice, poi mise l'indice della destra nell'anello della sinistra, ma lo mise per di sotto non per di sopra come faceva Panurgo.

Allora Panurgo picchia le mani l'una contro l'altra e soffia sulla palma; ciò fatto rimette l'indice della destra nell'anello della sinistra tirandolo spesso dentro e fuori, poi allunga il mento fissando attentamente Thaumaste.

La gente che non capiva niente ai segni, intese che con quest'ultimo Panurgo, senza dir parola, domandava a Thaumaste: "Che volete dire con ciò?"

Infatti Thaumaste cominciò a sudare a goccioloni e aveva l'aspetto d'uno che fosse rapito in alta contemplazione. Poi si ravvide e mise tutte le unghie della sinistra contro quelle della destra aprendo le dita come fossero state mezzicerchi ed inalzò questo segno quanto più poté.

Subito Panurgo tenendo il pollice della destra sotto la mandibola introdusse il mignolo della destra nell'anello della sinistra facendo risonare i denti ben melodiosamente, gl'inferiori contro i superiori.

Thaumaste si alzò affannosamente; ma alzandosi gli scappò una scorreggia da fornaio, di quelle cui segue la cacarella, e pisciò aceto ben forte, con una puzza di tutti i diavoli. I presenti cominciarono a turarsi il naso, poiché egli per l'angoscia si sconcacava tutto; tuttavia levò la mano destra chiudendola in modo da riunire tutte le punte delle dita insieme e posò sul petto la sinistra distesa.

Allora Panurgo tirò la sua lunga braghetta col fiocco e la stese per un cubito e mezzo tenendola sollevata con la mano sinistra; con la destra prese l'arancia e la gettò in aria sette volte; all'ottava la chiuse nella destra tenendola ferma in alto, poi cominciò a scuotere la sua bella braghetta mostrandola a Thaumaste.

Visto ciò Thaumaste cominciò a gonfiar le guancie come un zampognaro e a soffiare come se gonfiasse vesciche di maiale.

Panurgo mise un dito della sinistra al buco del culo e colla bocca aspirava l'aria come quando si mangian ostriche o si sorbe la minestra; ciò fatto, apre un po' la bocca e vi batte su il palmo della destra facendo così un suono forte e profondo come se venisse dalla superficie del diaframma per l'arteria trachea, e ciò fece sedici volte. Ma Thaumaste soffíava sempre come un'oca. Allora Panurgo mise l'indice della destra in bocca serrandolo ben forte coi muscoli della bocca, poi l'estraeva, e traendolo faceva gran rumore come quando i ragazzi sparano con una canna di sambuco pallottole di rapa e ciò fece per nove volte.

Allora Thaumaste gridò:

- Ah, signori, il gran segreto! vi ha messo la mano fino al gomito. Ed estrasse un pugnale tenendolo colla punta rivolta in basso.

Allora Panurgo sbattè quanto poté la sua lunga braghetta sulle coscie; poi mise le mani congiunte in forma di pettine sulla testa, tirando fuori la lingua quanto poté e stralunando gli occhi nella testa come capra agli estremi.

- Ah, intendo, disse Thaumaste, ma che? E appoggiò sul petto il manico del pugnale mettendo sulla punta la palma della mano colle punte delle dita alcun poco ricurve.

Panurgo abbassò la testa dal lato sinistro e mise il dito medio nell'orecchia destra, elevando il pollice in alto. Poi incrociò le braccia sul petto tossendo cinque volte e alla quinta battendo il piede destro in terra; poi levò il braccio sinistro e serrando quattro dita a pugno teneva il pollice contro la fronte, e si battè colla destra il petto sei volte. Ma Thaumaste, non contento di ciò, mise il pollice della sinistra sulla punta del naso chiudendo le altre dita. Panurgo mise le due dita più lunghe ai lati della bocca tirandola quanto poté e mostrando tutti i denti, e coi pollici abbassava le palpebre degli occhi ben profondamente, facendo un'assai brutta smorfia a quanto sembrava ai presenti.





CAPITOLO XX.



Come qualmente Thaumaste loda le virtù e il sapere di Panurgo.





Allora Thaumaste si alzò e, levandosi il berretto ringraziò Panurgo garbatamente; poi disse ad alta voce rivolto ai presenti:

- Signori, posso ben ripetere che la parola evangelica: Et ecce plusquam Salomon hic. Voi avete qui alla vostra presenza un tesoro incomparabile, il signor Pantagruele. La rinomanza di lui mi aveva attratto fin qui dal fondo estremo dell'Inghilterra per conferire con lui sui problemi insolubili tanto di magia, alchimia, cabala, geomanzia, astrologia, quanto di filosofia, che mi tormentavano lo spirito. Ma ora mi adiro contro la fama la quale sembra essere invidiosa di lui non riferendo che la millesima parte della verità.

Voi avete visto come un semplice discepolo mi ha soddisfatto rispondendo più che non domandassi; e per giunta mi ha chiariti e risolti altri dubbi inestimabili. Posso poi assicurarvi che m'ha aperto il vero pozzo e gli abissi dell'enciclopedia, (mentre io pensava non poter trovare uomo che ne sapesse solo i primi elementi) quando abbiamo discusso per segni senza dire parola né mezza. Ma, a suo tempo, io redigerò per iscritto ciò che abbiamo detto e risolto, affinché non si pensi sia stata una canzonatura, e lo farò stampare affinché ciascuno apprenda, com'io ho appreso. Potete dunque argomentare ciò che avrebbe detto il maestro, se il discepolo ha compiuto prodezza tale, poiché: non est discipulus super magistrum. In ogni caso Dio sia lodato! E ben umilmente vi ringrazio dell'onore che ci avete fatto assistendo. Dio ve ne rimeriterà eternamente !

Simili ringraziamenti rivolse Pantagruele a tutto l'uditorio e uscendo di là accompagnò Thaumaste a pranzo con sé; e non mi chiedete se bevvero a ventre sbottonato (poiché in quel tempo là si chiudevano i ventri coi bottoni come ora i collari) fino a dire: Ma voi di dove venite? Madonna santa, come ci tiravano dentro! e le bottiglie correvano ed essi a gridare:

- Tira!

- Da' qui!

- Vino, garzone!

- Versa, per l'anima del diavolo, versa!

Non vi fu alcuno che non bevesse venticinque o trenta brente. E sapete come? sicut terra sine aqua, poiché faceva caldo ed erano assetati anche di più.

Quanto all'esposizione delle proposizioni presentate da Thaumaste e al significato dei segni che furono adoperati nella disputa, ve li esporrei io secondo il nesso logico dell'uno coll'altro; ma m'han detto che Thaumaste ne ha composto un gran libro stampato a Londra nel quale dichiara tutto senza nulla tralasciare. Perciò me ne dispenso, per ora.





CAPITOLO XXI.



Come qualmente Panurgo s'innamorò di una gran dama di Parigi.





Panurgo cominciò ad acquistar riputazione nella città di Parigi per la discussione avuta coll'Inglese e da allora mise in maggior rilievo il valore della sua braghetta facendosela ricamare alla romana. La gente lo lodava pubblicamente e ne fu composta una canzone che cantavano i ragazzetti andando a comprar mostarda. Egli era il ben venuto nelle compagnie delle dame e damigelle e ne divenne vanitoso talchè mosse all'assalto d'una delle grandi dame della città.

Infatti lasciando da parte un mucchio di lunghi preamboli e dichiarazioni che sogliono fare quei dolenti contemplativi innamorati da quaresima che non toccano carne, un giorno le disse:

- Signora, sarebbe cosa a tutta la repubblica utilissima, a voi dilettevole, decorosa al vostro casato e a me necessaria che voi foste coperta dalla mia razza; credetelo, poichè l'esperimento ve lo proverà.

La dama a queste parole, lo respinse a più di cento leghe dicendo:

- Brutto matto, chi vi dà il diritto di tenere simili discorsi? A chi pensate voi di parlare? Andatevene e non vi trovate mai più sulla mia strada; ancora un po' e vi farei tagliare braccia e gambe.

- Che cosa m'importerebbe di gambe e braccia tagliate, purchè facessimo, voi ed io, un'oncia di baldoria insieme, accordando i nostri strumenti? Ci ho qui, guardate, (e mostrava la braghetta) ci ho qui l'amico giannettone, che vi suonerebbe un ballo di cui sentireste l'armonia fino al midollo delle ossa. Egli è galante e vi sa così ben scovare tutti gli alibi del foro e i bruscoli della filiberta che dov'è passato lui non c'è più nulla da spazzolare.

- Andate, cattivo soggetto, andate, rispose la dama. Se aggiungete parola chiamo gente e vi fo tempestare di botte.

- Ah no, diss'egli, voi non siete tanto cattiva, quanto volete far credere; no, sicuramente se non m'inganna la vostra fisonomia; è più facile che la terra salga ai cieli e gli alti cieli discendano agli abissi e ogni ordine di natura sia pervertito, che in una sì grande bellezza ed eleganza come la vostra sia una goccia di fiele o di malizia. Si suol dire è vero che a gran pena:



Mai si vide donna bella

Che non fosse anche rubella.



Ma ciò è detto delle bellezze volgari. La vostra è tanto eccelsa e singolare e celeste che io credo natura l'abbia messa in voi come un modello per mostrarci a qual grado possa giungere quando proprio ci si mette con ogni sua potenza e sapere. Tutto in voi non è che miele e zucchero e manna celeste. A voi, a voi, non già a Venere, nè a Giunone, nè a Minerva, doveva Paride accordare il pomo d'oro; poichè non è nè tanta magnificenza in Giunone, nè tanta saviezza in Minerva, nè tanta eleganza in Venere, quant'è in voi. O dei, o dei celesti! Quanto felice sarà colui al quale concederete la grazia di abbracciare costei e baciarla e sfregare il suo lardo secolei! Per Dio, sono io, lo vedo bene, son io quel desso perchè già ella mi ama smisuratamente, me ne accorgo, a ciò mi destinarono le fate, orsù dunque guadagnamo tempo, dagli, spingi, addosso!

E la voleva baciare, ma ella fece finta di correre alla finestra e chiamare i vicini in aiuto. Allora Panurgo uscì alla svelta e le disse fuggendo:

- Signora, attendetemi qui, li vado a cercare io stesso, non disturbatevi.

E se ne andò senza troppo preoccuparsi della ripulsa, nè perdè l'appetito per questo. L'indomani si trovò in chiesa nell'ora che ella andava alla messa e all'entrata le offrì l'acqua benedetta inchinandosi profondamente davanti a lei; poi s'inginocchiò vicino a lei famigliarmente e le disse:

- Signora mia, sappiate che io sono tanto innamorato di voi che non posso più nè pisciare, nè andar di corpo; io non so che intenzione abbiate, ma se mi capitasse qualche malanno che ne avverrebbe?

- Andate via, andate via, non me ne importa, diss'ella; lasciatemi pregar Dio.

- Ma, diss'egli, equivocate vi prego su questa frase Apelle botte il mazzo conta.

- Non saprei, diss'ella.

- Ecco qua, diss'egli: A belle potte il cazzo monta. E intanto pregate Dio che mi conceda ciò che il vostro cuore desidera, e regalatemi di grazia quel rosario.

- Prendete, diss'ella, e non seccatemi più.

Ciò detto voleva estrarre i grani del rosario che erano di cedro intercalati da grossi grani d'oro; ma Panurgo trasse prontamente uno de' suoi coltelli, tagliò il filo agevolmente e raccolse i grani per portarli al rigattiere. Poi:

- Volete, disse, questo mio coltello?

- No, no, diss'ella.

- Ma, diss'egli, a proposito, è ai vostri comandi, corpo e beni, trippe e budella.

La dama tuttavia non era molto contenta d'aver dato il suo rosario poichè recitarlo era una delle sue occupazioni in chiesa, e pensava:

“Questo chiacchierone è qualche matto forestiero: io non riavrò mai più il rosario; che dirà mio marito? Si arrabbierà con me; ma io gli dirò che un ladro me l'ha tagliato in chiesa ed egli lo crederà facilmente vedendo ancora il brandello di nastro alla mia cintura”.

Dopo desinare Panurgo andò a visitarla portando nella manica una gran borsa piena di scudi da burla e di gettoni e comiò a dirle:

- Quale dei due ama più l'altro? Voi me, o io voi?

- Quanto a me non vi odio punto, poichè, come Dio comanda, amo tutto il prossimo.

- Ma non siete innamorata di me?

- Vi ho già detto tante volte, ella rispose, che non mi teniate di tali discorsi; se me ne parlate ancora, vi mostrerò che non son io quella a cui dovete parlar di cose disonorevoli. Andatevene e restituitemi il rosario che mio marito non me lo domandi.

- Come il vostro rosario? diss'egli. Non lo restituirò mai, ne fo giuramento. Ma ve ne regalerò ben altri. Ne preferireste uno coi grani d'oro smaltato in forme di grosse sfere, o di bei nodi d'amore, oppure massicci come grosse verghe, oppure di grani d'ebano? o di giacinti, o di grosse granate sfaccettate, intercalate di fini turchesi? o di bei topazi intercalati di fini zaffiri, o di bei rubini balasci intercalati di grossi diamanti a ventotto faccette? No, no, son miserie. So d'un bel rosario di fini smeraldi intercalati d'ambre grigie arrotondate e all'anello una unione persiana grossa come un'arancia; non costano che venticinque mila ducati, e voglio farvene un regalo, che mi darà piacere.

E ciò detto faceva tintinnire i suoi gettoni come fossero scudi buoni.

- Volete una pezza di velluto violetto cremisi, tinto di granata oppure una pezza di raso broccato, o cremisino. Volete catene, gioielli d'oro, tempiette, anelli? Non avete che dirlo. Fino a cinquanta mila ducati non mi fa nulla.

E con queste chiacchiere le aveva fatto venire l'acquolina alla bocca. Tuttavia ella gli disse:

- No, vi ringrazio, nulla voglio da voi.

- Per Dio, diss'egli, ma io sì, da voi, ed è cosa che non vi costerà nulla e nulla ci perderete. Vedete (e mostrava la lunga braghetta) ecco qui giannettone che vi domanda alloggio.

E la voleva abbracciare. Ma ella cominciò a gridare, tuttavia non troppo forte. Allora si levò la maschera e le disse:

- Ah, non volete la fattura? Merda a voi! Non meritate il gran piacere e onore di avermi; ma, per Dio, vi farò montare dai cani.

E ciò detto, scappò alla svelta per paura delle botte delle quali, per sua indole naturale, avea timore.





CAPITOLO XXII.



Come qualmente Panurgo giocò alla dama parigina un tiro che non le recò vantaggio.





Notate che l'indomani era la festa del Corpus Domini per la quale tutte le donne si agghindano in pompa magna; e per l'occasione la nostra dama s'era abbigliata d'una bella gonna di raso cremisino e d'una cotta di velluto bianco preziosissimo.

La vigilia Panurgo si diede a cercare da ogni parte finchè trovò una cagna in calore. La legò colla sua cintura, e la condusse nella sua camera nutrendola bene per quel giorno e la notte.

Al mattino la uccise e ne prese ciò che ben sanno i geomanti greci facendone minutissimi pezzettini che portò seco nascosti, e andò alla chiesa dove la dama doveva recarsi per seguire la processione come usa in quella festa. Quand'ella entrò Panurgo le porse l'acqua benedetta salutandola con grande cortesia e poco dopo ch'ella ebbe detto le sue preghiere, s'accostò a lei nel suo banco e le diede un rondò scritto nella forma che segue:



Rondò



Quella volta che a voi, Signora bella,

Dissi il cuor mio, troppo foste rubella

Cacciandomi senz'ombra di pietà.

Pur non usai con voi austerità

Nè in mente o in atto, in scritto od in favella

Se vi spiacea l'ardor che mi arrovella

Dir si potea, senz'esser tanto fella:

- Ti prego, amico, vattene di qua,

Per questa volta.



Non vi fo torto, se il mio cuor scodella

E mostra come l'arde la facella

Di quella che vi adorna gran beltà:

Null'altro chiedo, se non facoltà

Di cavalcare sulla vostra sella,

Per questa volta.



E mentre ella apriva la carta per vedere che era, Panurgo prontamente cosparse la droga che avea seco, su di lei in diversi luoghi e massimamente nelle pieghe delle maniche e della veste, poi le disse:

I poveri innamorati, signora mia, non hanno sempre fortuna. Quanto a me spero che



le notti insonni

i travagli e le afflizioni



che soffro per l'amore di voi mi saranno dedotti per altrettanto dalle pene del purgatorio. Pregate almeno Dio che mi dia nel mio male pazienza.

Panurgo non aveva finito queste parole che attratti dall'odore delle droghe, accorsero alla dama, tutti i cani ch'erano in chiesa. Piccoli e grandi, grossi e sottili tutti venivano sguainando il membro, fiutando e pisciando su lei: era la più gran villania del mondo.

Panurgo li scacciò alcun poco, poi si congedò da lei e si ritrasse in una cappella per godere lo spettacolo: i sozzi cani scompisciavano tutti i suoi vestiti; un gran levriere le pisciò sulla testa, altri sulle maniche, altri nella schiena, e i piccoli sui calzari. Tutte le donne là intorno avevano un bel da fare per salvarla. E Panurgo a ridere. E disse a qualcuno dei signori della città: “Credo che quella dama sia in calore o che qualche levriere l'abbia coperta di fresco”. E quando vide che tutti i cani ringhiavano a dovere intorno a lei come fanno a una cagna in foia, se ne partì e andò a cercare Pantagruele. Tutti i cani che trovava per le strade gli allungava una pedata dicendo: “E non andate coi vostri compagni a nozze? Andate, andate, in nome del diavolo, andate!”

E arrivato a casa disse a Pantagruele:

- Venite, Maestro, vi prego, venite a vedere tutti i cani del paese che fanno ressa intorno alla più bella dama della città e vogliono bischerarla.

Consentì volentieri Pantagruele e vide il mistero che trovò assai bello e nuovo.

Ma il meglio fu alla processione, dove furono visti intorno a lei più di seicentomila e quattordici cani, i quali le facevano mille diavolerie; e dappertutto dov'ella passava i cani arrivati allora la seguivano alla pista pisciando là dove le sue vesti avevano toccato. Tutte la gente si fermava allo spettacolo considerando l'ammattire dei cani che le montavano fin sul collo e le sciuparono tutti i suoi belli ornamenti onde ella non seppe trovar altro rimedio che ritrarsi in casa. E i cani dietro, ed ella a nascondersi e le cameriere a ridere.

Ed anche entrata e chiusa la porta, i cani continuavano a venire da mezza lega e scompisciarono la porta in tal modo che dalle loro urine derivò un ruscello ove le anitre avrebbero potuto nuotare benissimo. Ed è appunto il ruscello che ora passa per San Vittore nel quale Gobelin opera la tintura di scarlatto per la virtù di quel piscio di cane come un giorno predicò pubblicamente il nostro maestro Doribus. E così, che Dio v'aiuti, un mulino vi avrebbe potuto macinare. Non così grande tuttavia come quelli di Bazacle a Tolosa.





CAPITOLO XXIII.



Come qualmente Pantagruele partì da Parigi, udendo novelle che i Dipsodi invadevano il paese degli Amauroti, e la causa per cui le leghe sono tanto piccole in Francia.





Poco tempo dopo, Pantagruele ricevè notizia che suo padre Gargantua si era trasferito nel paese di Fata Morgana, come già un tempo Ozieri e Artù, e che i Dipsodi saputolo avevano sconfinato e saccheggiato una grande regione di Utopia e tenevano intanto assediata la capitale degli Amauroti. Partì dunque da Parigi senza dir addio a nessuno perchè la faccenda premeva e venne a Rouen.

Mentr'era in cammino, vedendo Pantagruele che le leghe di Francia erano molto più piccole di quelle degli altri paesi ne domandò la causa e ragione a Panurgo il quale gli raccontò una storia ricordata anche dal monaco Marotus del Lago, nelle Geste del re delle Canarie e disse:

“In antico il paese non era diviso in leghe, miglia, stadii, o parasanghe; ciò durò fino al tempo del re Faramondo, il quale stabilì lui le divisioni, nella maniera che segue: prese cento giovani compagnoni di Parigi, belli, gentili e in gamba e cento belle ragazze picarde, li fece ben nutrire e curare per otto giorni poi li chiamò a sè, affidò a ciascuno la sua brava ragazza con molto danaro per le spese e fece comandamento che tutti andassero in direzioni diverse qua e là, e che in ogni punto dove avrebbero bischerato la loro ragazza, mettessero una pietra che doveva segnare una lega. Così i compagnoni partirono allegramente ed essendo freschi e riposati si baricucolavano ad ogni fine di campo. Ecco perchè le leghe di Francia son tanto corte.

Ma quando ebbero percorso lungo cammino ed erano già sfatti come poveri diavoli, non essendo più olio nella lampada, non montavano più così spesso e si contentavano (gli uomini intendo) d'una meschina e porca botta al giorno. Ed ecco perchè le leghe di Bretagna, della Lande, di Allemagna e d'altri paesi più lontani sono così lunghe. Altri adducono ragioni diverse ma la migliore mi par questa”.

E così parve di buon grado anche a Pantagruele.

Partendo da Rouen arrivarono a Hommefleur dove Pantagruele s'imbarcò con Panurgo, Epistemone, Eustene e Carpalim. Mentre attendevano il vento propizio e impegolavano la loro nave, Pantagruele ricevette da una dama di Parigi colla quale aveva avuto relazione per buono spazio di tempo, una lettera sulla quale era scritto:



Al più amato dalle belle, al meno leale dei prodi,



P. N. T. G. R. L.





CAPITOLO XXIV.



Lettera di una dama di Parigi, che un messaggero portò a Pantagruele e dichiarazione d'un motto inciso in un anello d'oro.





Quando Pantagruele ebbe letto l'indirizzo, rimase stupefatto e domandando al messaggero il nome di colei che l'aveva inviato, aprì la lettera e nulla vi trovò dentro di scritto, ma solamente un anello d'oro con un diamante liscio. Allora chiamò Panurgo e gli espose il caso. E Panurgo gli disse che il foglio di carta doveva essere scritto, ma con qualche sotterfugio da non vedersi la scrittura. E volendo scoprirla accostò il foglio al fuoco per vedere se la scrittura fosse di sale ammoniaco stemperato in acqua. Poi lo mise dentro l'acqua per sapere se la lettera era scritta con sugo di titimalo. Poi l'avvicinò a una candela se per avventura fosse scritta con sugo di cipolla bianca.

Poi ne strofinò una parte con olio di noce per vedere se fosse scritta con lissiva di fico; un'altra parte ne strofinò con latte di donna allattante figlia primogenita, per vedere se fosse scritta con sangue di rospo. Ne strofinò un cantuccio con cenere di nido di rondini, per vedere se fosse scritta con la rugiada che si trova dentro i frutti di halicacabus. Un altro cantuccio ne strofinò col cerume delle orecchie per vedere se fosse stata scritta con fiele di corvo. Poi la inzuppò d'aceto per vedere se fosse stata scritta con latte di catapuzza. Poi la unse con strutto di pipistrello, per vedere se fosse scritta con sperma di balena, chiamato ambra grigia. Poi la mise pian piano in un catino d'acqua fresca e ne la estrasse di botto per vedere se fosse stata scritta con allume. E non venendo a capo di nulla, chiamò il messaggero e gli disse:

- Amico, la dama che t'ha inviato qui non t'ha mica dato un bastone da portare? Poichè egli pensava si trattasse della finezza accennata da Aulo Gellio.

- Nossignore, rispose il messaggero.

Panurgo voleva fargli radere i capelli per vedere se la dama avesse fatto scrivere con inchiostro sulla sua testa rasa, ciò ch'ella voleva significare, ma poichè i capelli dei messaggero erano assai lunghi, desistè considerando che in così poco tempo non avrebbero potuto crescere tanto.

Allora disse a Pantagruele:

- Maestro, non so che fare nè dire. Ho sperimentato, per conoscere se nulla fosse scritto qui, una parte dei mezzi suggeriti da Francesco di Nianto toscano, che ha scritto la maniera di legger criptografie, e di ciò che ha scritto Zoroastro: Peri Grammaton ácriton, e Calfurnio Basso: De litteris illegibilibus; ma non ci vedo nulla e credo non resti che considerar l'anello, vediamolo.

E guardando vi trovarono scritto all'interno in caratteri ebraici Lamah Sabacthani e chiamarono Epistemone domandandogli che significasse. E quegli rispose trattarsi di parole ebraiche che volevano dire: “Perchè mi hai abbandonato?”.

- Intendo, disse Panurgo illuminato da un lampo, vedete questo diamante? È falso. Ed ecco ciò che vuol dire la dama Di' amante falso, perchè m'hai lasciato?

Incontinente capì questa spiegazione Pantagruele che si ricordò di non aver detto addio alla dama partendo e se n'attristava e avrebbe voluto tornare a Parigi per far pace con lei. Ma Epistemone gli richiamò alla mente il distacco di Enea da Didone e la sentenza di Eraclide Tarantino: che a naviglio ancorato, quando prema necessità, bisogna tagliar la corda anzichè perder tempo a slegarlo; onde conveniva lasciare ogni altro pensiero per accorrere alla città natale, in pericolo.

Infatti, un'ora dopo si levò il vento chiamato nord-nordovest, al quale diedero le vele prendendo l'alto mare e in brevi giorni passando per Porto Santo e Madera fecero scalo alle isole Canarie. Di là passarono pel Capo Bianco, il Senegal, il Capo Verde, Cambra, Sagres, Mellì, doppiarono il capo di Buona Speranza e fecero scalo al reame di Melindo.

Quindi partirono con vento di tramontana e, passando per Meden, Ubi, Uden, Gelasim, per le isole delle Fate, e il reame di Arcoria, arrivarono finalmente al porto di Utopia, distante dalla capitale degli Amauroti tre leghe, poco più.

Quando furono a terra e un po' riposati, Pantagruele disse:

- Ragazzi, la città non è lontana, ma prima d'avanzar oltre converrebbe deliberare il da farsi per non far come gli Ateniesi, i quali non si consigliavano mai se non a cose compiute. Siete pronti a vivere e morire con me?

- Sì, o Signore, risposero tutti, siate sicuro di noi come delle vostre dita.

- Ora, diss'egli, non c'è che un punto che tenga l'animo mio sospeso e dubbioso: non sapere l'ordine e il numero dei nemici che assediano la città; quando lo sapessi m'avvierei colla più grande sicurezza. Studiamo dunque insieme in qual modo informarci.

- Lasciateci andare a vedere, dissero tutti insieme, attendeteci qui; dentr'oggi porteremo notizie certe.

- Io mi assumo, disse Panurgo, d'entrare nel loro accampamento passando tra le guardie e le scolte e banchettare con loro e bischerare a loro spese senz'essere conosciuto da nessuno; di visitare l'artiglieria, le tende di tutti i capitani, fare il comodo mio tra le schiere senza essere scoperto; non ho nulla da imparare dal diavolo; sono della razza di Zopiro.

- Io, disse Epistemone, conosco tutti gli stratagemmi e prodezze di capitani e campioni valenti del tempo passato, e tutte le astuzie e accorgimenti dell'arte militare; andrò, e anche fossi colto e scoperto me la caverei facendo loro credere di voi tutto ciò che mi parrà, poichè sono della razza di Sinone.

- Io, disse Eustene, entrerò attraverso le loro trincee malgrado tutte le guardie e sentinelle e passerò loro sul ventre e fracasserò loro braccia e gambe fossero forti quanto il diavolo, poichè sono della razza di Ercole.

- Se c'entrano uccelli c'entro anch'io, disse Carpalim, ho membra sì allegre che avrò saltato trincee e attraversato l'accampamento intero prima che m'abbian visto. E non temo nè dardo, nè freccia, nè cavallo per quanto leggero, e fosse pure Pegaso di Perseo, o Pacoletto, scapperei loro salvo e gagliardo. Posso, volendo, scorrere sulle spighe del grano o sull'erbe dei prati senza farle piegare: son della razza di Camilla l'Amazzone.





CAPITOLO XXV



Come qualmente Panurgo, Carpalim, Eustene ed Epistemone, compagni di Pantagruele, sconfissero con sottile astuzia seicentosessanta cavalieri.





Mentre diceva così, avvistarono seicento sessanta cavalieri montati alla leggera che accorrevano verso loro per vedere che naviglio fosse approdato al porto e correvano a briglia sciolta per prenderli se avessero potuto.

- Ragazzi, disse Pantagruele, ritiratevi nella nave, ecco i nemici che giungono, ma io li ammazzerò come bestie, fossero dieci volte tanto; voi ritiratevi e divertitevi allo spettacolo.

- No, Signore, rispose Panurgo, non è giusto che così facciate, anzi ritiratevi voi sulla nave cogli altri, che da solo io ve li sconfiggo; ma non tardate, via.

- Panurgo ha ragione, signore, soggiunsero gli altri, ritiratevi voi mentre noi l'aiuteremo qui, vedrete ciò che sappiamo fare.

- E sia, disse Pantagruele; ma nel caso doveste cedere, contate su me.

Allora Panurgo trasse due gran corde dalla nave e legò i capi al mulinello sul cassero, e le svolse a terra formando due gran cerchi l'uno dentro l'altro. Poi disse a Epistemone:

- Salite sulla nave e quando darò avviso girate il mulinello sul cassero in fretta tirando a voi le due corde. Poi disse a Eustene e Carpalim: Voi, ragazzi, attendete qui e datevi ai nemici con franchezza e obbedite loro fingendo d'arrendervi, ma badate a non entrare nei cerchi delle corde, state sempre di fuori.

Poi subito salì sulla nave, prese un fascio di paglia e un barile di polvere da cannone e la sparse entro i cerchi delle corde e lui vi si mise vicino con una granata accesa. Rapidamente arrivarono i cavalieri con impeto, e i primi si spinsero fin presso alla nave precipitando nell'acqua per la riva scivolosa essi e i cavalli in numero di quarantaquattro. Gli altri s'avvicinarono credendo si facesse resistenza, ma Panurgo disse loro:

- Signori, v'è capitata, io credo, una disgrazia, ma, perdonateci, non ne abbiamo colpa, è stata la lubricità dell'acqua marina sempre untuosa. Noi ci arrendiamo a vostra discrezione.

E altrettanto dissero i suoi due compagni ed Epistemone che stava sul cassero. Intanto Panurgo si scostò e vedendo che tutti erano dentro il cerchio delle corde e che i suoi due compagni se n'erano allontanati dando luogo a tutti quei cavalieri che facevano ressa per vedere la nave, subito gridò a Epistemone.

- Tira, tira!

Allora Epistemone si diede a girare il mulinello e le due corde impacciandosi tra i cavalli, li rovesciavano a terra insieme coi cavalieri; ma quelli, ciò vedendo, sguainarono le spade per ucciderli, senonchè Panurgo diede fuoco alla polvere e li fece bruciare tutti come anime dannate, uomini e cavalli e perirono tutti quanti salvo un solo che montava un cavallo arabo e s'era dato alla fuga; ma quando Carpalim se n'accorse gli volò sopra con tal fretta e allegrezza che lo raggiunse in men di cento passi e balzando sulla groppa al cavallo l'afferrò per di dietro e lo trasse alla nave.

Pantagruele, lietissimo della piena vittoria, lodò fieramente l'ingegno dei compagni e li fece ristorare e ben refocillare sulla riva giocondamente e bere a gara, distesi pancia a terra; e il prigioniero con essi famigliarmente; ma il povero diavolo non era punto tranquillo pel timore che Pantagruele lo divorasse tutto intero, il che egli poteva fare colla stessa facilità, tanto larga aveva la gola, con che voi inghiottireste un pezzettino di confetto, e sarebbe contato nella bocca di lui non più d'un gran di miglio nella bocca d'un asino.





CAPITOLO XXVI



Come qualmente Pantagruele e i suoi compagni erano stanchi di mangiar carne salata, e come Carpalim andò a caccia per fornire selvaggina.





Mentre così banchettavano Carpalim disse

- Pel ventre di San Quenet, ma non mangeremo mai selvaggina? Questa carne salata mi fa morir di sete. Ora vado a prendervi una coscia dei cavalli bruciati, sarà bene arrostita.

Mentre si alzava scorse al margine del bosco un bellissimo capriolo che era uscito dal folto, se non mi sbaglio, per la vista della fiamma accesa da Panurgo. Incontinente gli fu addosso con tale veemenza che parve quadrello lanciato da balestra e l'afferrò di colpo, non senza afferrare colle mani per l'aria durante la corsa:

quattro grandi ottarde;

sette starne;

ventisette pernici grigie;

trentadue rosse;

sedici fagiani;

nove beccaccie;

diciannove aironi;

trentadue colombacci;

e non senza uccidere co' piedi dieci o dodici tra leprotti e conigli già grandetti;

diciotto ralli appaiati insieme;

quindici cinghialetti;

due tassi;

tre grandi volpi.

Uccise il capriolo colpendolo alla testa col suo coltello e intanto che lo portava, raccolse i suoi leprotti, ralli e cinghialetti. E da lungi, appena potè essere udito gridò:

- Panurgo, amico mio, aceto, aceto!

Pensò il buon Pantagruele che avesse mal di stomaco e ordinò gli si preparasse dell'aceto. Ma Panurgo ben capì che c'era odor di leprotto e infatti mostrò al nobile Pantagruele come portasse al collo un bel capriolo e tutta la cintura frangiata di leprotti.

Subito Epistemone fece, in onore delle nove muse, nove belli spiedi di legno all'antica. Eustene aiutava a scorticare e Panurgo acconciò due selle di cavalieri in modo che servissero da alari. Funzionò da rosticciere il prigioniero e al fuoco a cui bruciavano i cavalieri fecero arrostire la cacciagione. E poi giù bocconi e aceto e al diavolo chi stesse in ozio! Era un trionfo vederli sganasciare.

- Piacesse a Dio, disse allora Pantagruele, che ciascuno di voi avesse due paia di campanelli da sparviere al mento e ch'io avessi al mio le campane degli orologi di Rennes, di Poitiers, di Tours e di Cambray e vi so dir io la bella mattinata che suoneremmo col mulinar delle labbra.

- Ma, disse Panurgo, sarebbe meglio pensare un po' alle nostre faccende e per qual modo aver ragione dei nemici.

- Ben pensato, disse Pantagruele; e pertanto domandò al prigioniero:

- Amico mio, di' la verità e non mentire in un nulla se non vuoi essere scorticato vivo: bada, io son quello che mangia i bambini; contaci per filo e per segno l'ordine, il numero e la forza dell'esercito.

- Signore, rispose il prigioniero, sappiate per la verità, che sono nell'esercito trecento giganti tutti armati di pietra da taglio grandi a meraviglia, non tanto però come voi, eccetto uno che è il capo loro e ha nome Lupo Mannaro ed è tutto armato d'incudini ciclopiche; inoltre cento e sessantatremila fanti tutti armati di pelli di folletti, gente forte e coraggiosa; inoltre undicimila e quattrocento uomini d'arme a cavallo, tremila seicento cannoni doppi e spingarde senza numero, novantaquattromila pionieri, centocinquantamila puttane belle come dee...

- Quelle per me, disse Panurgo.

- Delle quali, continuò l'altro, alcune sono Amazzoni, altre Lionesi, altre Parigine, Turenesi, Angioine, del Poitou, Normanne e Alemanne: ve n'è d'ogni lingua e paese.

- Ma, chiese Pantagruele, c'è il re?

- Sì, sire, c'è in persona e noi lo chiamiamo Anarca, re dei Dipsodi ch'è quanto dire degli assetati, e non si vide mai gente tanto assetata e che beva più volentieri. La sua tenda è guardata dai giganti.

- Basta, disse Pantagruele, su ragazzi, siete decisi a venire con me?

- Dio confonda chi vi lascierà, disse Panurgo. Ho già pensato il modo d'ammazzarli tutti come porci che il diavolo non ne perderà manco un garretto. Ma c'è qualche cosa che mi preoccupa.

- Che cosa? chiese Pantagruele.

- Gli è, disse Panurgo, come possa giungere a pistolar tutte quelle puttane in questo pomeriggio sicchè non me ne scappi alcuna che io non infili in forma comune.

- Ah, ah, ah! fece Pantagruele.

E Carpalim disse:

- Al diavolo di tutti i diavoli! Qualcuna perdio, la imbottirò anch'io.

- Ed io dunque? disse Eustene, che non ho bischerato da quando partimmo da Rouen; sento la lancetta montare sulle dieci o undici ore; chè l'ho duro e forte come cento diavoli.

- Veramente, disse Panurgo, tu n'avrai delle più grasse e nutrite.

- Come? disse Epistemone, tutti cavalcheranno ed io menerò l'asino! Il diavolo lo porti chi si astiene! Useremo del diritto di guerra: qui potest capere capiat.

- No, no, disse Panurgo, attacca il tuo asino a un chiodo e cavalca come gli altri.

E intanto il buon Pantagruele rideva; poi disse loro:

- Voi fate i conti senza il nemico, ho una gran paura che mi toccherà vedervi avanti notte in condizione da non aver voglia di dar dentro e che vi cavalcheranno addosso a suon di picca e di lancia.

- Eh sì, disse Epistemone, ve li acconcio arrosto, allesso, in fricassata o in polpette. Non sono poi tanti, come quelli di Serse che aveva trecentomila combattenti, secondo Erodoto e Trogo Pomponio e tuttavia Temistocle con poca gente li sconfisse; non datevi pensiero, perdio!

- Merda, merda, disse Panurgo. La mia braghetta da sola spazzolerà via tutti gli uomini e San Tappabuchi che c'è dentro, striglierà tutte le donne.

- Su dunque, ragazzi, disse Pantagruele, in marcia!





CAPITOLO XVII



Come qualmente Pantagruele innalzò un trofeo in memoria della loro prodezza e Panurgo un altro in memoria dei leprotti. Come qualmente Pantagruele coi suoi peti generò gli omettini e colle vescie le donnettine. E come Panurgo ruppe un grosso bastone su due bicchieri.





- Prima di partire, disse Pantagruele, in memoria della prodezza che avete oggi compiuta, voglio erigere in questo luogo un bel trofeo.

Allora tutti insieme con gran letizia, cantando canzonette boschereccie innalzarono una grande antenna alla quale appesero una sella d'armi, una testiera di cavallo, delle gualdrappe, delle staffe, degli sproni, un usbergo, un'armatura d'acciaio, un'ascia, uno stocco, un guanto ferrato, una mazza, delle ascelliere, delle gambiere, una gorgiera e così ogni altro apparecchio necessario a un arco trionfale o trofeo. Poi a memoria imperitura Pantagruele scrisse l'epigrafe vittoriale come segue:



Rifulse in questo luogo la virtù

Di quattro prodi e valenti campioni

A cui presidio più dell'armi fu

La mente come a Fabio, e ai due Scipioni.

Ben seicento e sessanta piattoloni

Gran ribaldi, bruciar qual secca scorza.

Apprendan, duchi, re, torri, pedoni

Che ingegno vale molto più che forza:



Chè la vittoria,

(Cosa notoria)

Vien dal favore

Del concistoro

U'in alta gloria

Regna il Signore.



E va non al più forte od al maggiore

Ma, convien credere, a chi piace a Lui.

Ottien dunque ogni bene ed ogni onore

Sol chi ripone fede e speme in Lui.



Mentre Pantagruele scriveva questo carme, Panurgo inalberò sopra un gran palo le corna del capriolo, la sua pelle e il piede destro davanti, poi le orecchie di tre leprotti, il lombo di un coniglio, le mandibole d'una lepre, le ali di due starne, i piedi di quattro colombacci, un fiasco d'aceto, un corno dove mettevano il sale, i loro spiedi di legno, una lardiera, un calderoncino tutto sforacchiato, una brocca dove facevano la salsa, una saliera di terra, e un bicchierotto di Beauvais. E ad imitazione dei versi trionfali di Pantagruele scrisse ciò che segue:



In questo luogo posàro il sedere

Con gioia quattro gagliardi beoni,

Banchettando in onor del Dio del bere

Bevendo a lor piacer come carpioni.

Allor perdè suoi lombi e suoi gropponi

Ser Leprotto che ognuno addenta forte.

Sale ed aceto, come gli scorpioni

Lo perseguiano e questa fu sua sorte.



Rifugio vero

Del buon guerriero

Contro il calore,

Non è che bere,

Colmo il bicchiere,

E del migliore.



Ma leprotti mangiar è gran malore,

Se dell'aceto non avrai memoria,

Sta nell'aceto l'anima e il valore,

Tienlo a mente per norma perentoria.



Allora disse Pantagruele:

- Andiamo, ragazzi, anche troppo s'è qui goduto di vivande, e difficilmente accade che i gran banchettatori compiano belle imprese di guerra. Ma non v'è ombra migliore che di stendardi, nè fumar che di cavalli, nè tintinnio che di corazze.

Epistemone cominciò a sorridere e soggiunse

- Non v'è miglior ombra che di cucina, nè fumar di pasticci, nè tintinnio che di bicchieri.

E Panurgo corresse:

- Non c'è ombra migliore che di cortine, nè fumar che di tettine, nè tintinnio che di coglioni.

Poi levandosi fece un peto, un salto e un fischio e gridò allegramente:

- Viva sempre Pantagruele!

Ciò vedendo Pantagruele volle fare altrettanto ma fu tale il suo peto che fece tremar la terra nove leghe all'intorno e l'aria ne fu corrotta; e di quello generò più di cinquantatre mila omettini nani e mostruosi, e d'una vescia che fece generò altrettante donnettine, rattrappite come se ne vedono in molti luoghi, che mai non crescono se non come la coda delle vacche in altezza, o come le rape del Limosino in rotondità.

- Come? disse Panurgo, i vostri peti son tanto fruttuosi? Ecco, perdio delle belle ciabatte d'uomini e delle belle vescie di donne; bisogna sposarli insieme che faranno mosche bovine.

Così fece Pantagruele e li chiamò pigmei. E li mandò a vivere in un'isola lì vicino ove poi si sono assai moltiplicati.

Ma le gru fanno loro continuamente guerra; essi però si difendono coraggiosamente, poichè codesti mozziconi d'uomini (chiamati in Iscozia manichi di striglia) inclinano alla collera e c'è la sua ragione fisica, poichè hanno il cuore in prossimità della merda.

Intanto Panurgo prese due bicchieri che là erano, della stessa grandezza e li riempì d'acqua quanto potevano contenerne e ne mise uno sopra uno sgabello, il secondo sopra un altro, scostandoli la distanza di cinque piedi, poi prese l'asta d'un giavellotto lunga cinque piedi e mezzo e la posò su i due bicchieri in modo che le due estremità dell'asta toccavano giusto l'orlo dei bicchieri. Poi prese un grosso palo e disse a Pantagruele e agli altri:

- Considerate, signori, quanto facile vittoria avremo sui nemici. Poichè come io romperò quest'asta sui due bicchieri senza che i bicchieri siano rotti o spezzati e, ciò ch'è più, senza che se ne versi una goccia d'acqua, così romperemo la testa ai nostri bravi Dipsodi senza che alcuno di noi sia ferito e senza alcuna perdita delle nostre robe. Ma affinchè non pensiate vi sia incantesimo, tenete, disse a Eustene, colpite con questo palo nel mezzo con quanta forza avete.

Così fece Eustene e ruppe l'asta netto in due pezzi senza che una goccia d'acqua cadesse dai bicchieri. Poi disse:

- Ne so ben altre; ma andiamo via con animo sicuro.





CAPITOLO XXVIII



Come qualmente Pantagruele riportò vittoria ben strana sui Dipsodi e sui giganti.





Dopo tutti questi discorsi Pantagruele chiamò il prigioniero e lo liberò dicendo:

- Torna all'accampamento del tuo re e digli ciò che hai visto e che si disponga a farmi festa domani sul mezzodì poiché appena saran giunte domattina al più tardi le mie galere io gli proverò con diciotto centinaia di migliaia di combattenti e settemila giganti tutti più grandi di me, che follemente operò e contro ragione assalendo il mio paese.

Così fingeva Pantagruele di avere un'armata navale.

Ma il prigioniero rispose che si dichiarava suo schiavo e che era ben contento di non più tornarsene alle sue genti, preferiva anzi combattere con Pantagruele contro loro, che così permettesse nel nome di Dio.

Ma non volle consentire Pantagruele, anzi gli comandò che si partisse di là senz'altro e se n'andasse così come avea detto; e gli diede una scatola piena di euforbo e grani di coccognido cotti in acqua bollente a mo' di composta comandandogli di portarla al suo re e dirgli che se poteva mangiarne un'oncia senza bere avrebbe potuto resistergli senza paura.

Il prigioniero allora lo supplicò a mani giunte che nell'ora della battaglia avesse pietà di lui. A cui disse Pantagruele:

- Dopoché avrai tutto annunciato al tuo re, riponi ogni speranza in Dio ed egli non ti abbandonerà; io stesso, ancorché sia forte, come puoi vedere, ed abbia genti infinite in armi, tuttavia non spero nella forza, o nell'ingegno; tutta la mia fiducia è in Dio protettore, il quale mai non abbandona coloro che han messo ogni pensiero e ogni speranza in lui.

Dopo ciò il prigioniero gli chiese che quanto al riscatto volesse fargli prezzo ragionevole.

A cui rispose Pantagruele che l'intento suo non era di saccheggiare, né taglieggiare gli uomini, ma di arricchirli e restituirli in piena libertà:

- Vattene, disse, nella pace di Dio vivente, né seguire mai cattive compagnie, che non t'accada disgrazia.

Partito il prigioniero, Pantagruele disse ai suoi:

- Ragazzi, ho dato a intendere che abbiamo un'armata navale e che non daremo assalto fino a domani sul mezzodì affinché i nemici dubitando del grande arrivo delle mie genti si occupino questa notte a mettere in ordine e preparar difese; tuttavia è mia intenzione che li attacchiamo intorno all'ora del primo sonno.

Ma lasciamo qui Pantagruele e i suoi apostoli e parliamo del re Anarche e del suo esercito.

Quando il prigioniero fu arrivato, si presentò al re e gli contò com'era giunto un gran gigante chiamato Pantagruele, che aveva sconfitto e fatto arrostire crudelmente tutti i seicento e cinquantanove cavalieri e lui solo era scampato a recar la notizia. Inoltre aveva incarico dal detto gigante di dirgli che preparasse da pranzo l'indomani sul mezzodì, che in quell'ora aveva risoluto d'assalirlo. Poi gli consegnò la scatola della confettura. Ma subito appena il re n'ebbe ingollato un cucchiaio, gli prese un gran riscaldo di gola, con ulcerazione dell'ugola e la lingua gli si pelò. E per medicamenti che gli facessero non trovò sollievo alcuno se non bevendo senza remissione; e appena allontanava il bicchiere dalla bocca, la lingua gli bruciava. Onde non facevano che travasargli vino in gola con un imbuto. Ciò vedendo i capitani, i pascià e altri uomini di guardia assaggiarono anch'essi quella droga per provare se era tanto assetante; ma capitò loro come al re. E si misero a tracannare per tal modo che si sparse voce per tutto l'accampamento come il prigioniero fosse ritornato e che l'indomani seguirebbe l'assalto al quale già il re e i capitani insieme cogli uomini di guardia si preparavano bevendo a tutto spiano. Perciò tutti i soldati dell'esercito cominciarono a bere, tracannare, trincare del pari. Insomma tanto e tanto bevvero che s'addormentarono in disordine come porci per l'accampamento.

Torniamo ora al buon Pantagruele e raccontiamo come si condusse in questa faccenda.

Partendo dal luogo del trofeo, si prese a mo' di bordone l'albero della nave, mise dentro la coffa duecentotrentasette botti di vino bianco d'Angiò rimasto da Rouen, e riempita tutta la nave di sale se l'attaccò alla cintura così agevolmente come i lanzichenecchi portano le loro piccole bisaccie, poi si mise in cammino coi compagni. Quando fu presso l'accampamento dei nemici Panurgo gli disse:

- Signore, volete far cosa buona? Scaricate dalla coffa quel vino bianco d'Angiò e beviamo qui alla bretone.

Accondiscese volentieri Pantagruele e bevvero così sodo che delle duecentotrentasette botti non rimase una gocciola salvo un otre di cuoio bollito di Tours, che Panurgo riempì per sé e che chiamava il suo vade mecum, e qualche bottiglia di fondaccio per l'aceto.

Dopo che ebbero ben bevuto, Panurgo diede a Pantagruele da mangiare un accidente di droga composta di lithontripon, nefrocatarticon, codognata cantarizzata e altre spezie diuretiche.....

Ciò fatto, Pantagruele disse a Carpalim:

- Andate nella città arrampicandovi per la muraglia a mo' di sorcio, come ben sapete fare e dite agli assediati che facciano ora una sortita e piombino addosso ai nemici quanto più fieramente potranno, e, ciò detto, scendete e con una torcia accesa date fuoco alle tende e ai padiglioni dell'accampamento, poi griderete quanto più potrete, colla vostra gran voce ch'è più spaventevole di quella di Stentore che risonò piú forte del fracasso della battaglia di Troiani, e partitevi dall'accampamento.

- Ma non sarebbe opportuno, disse Carpalim, che inchiodassi tutte le loro artiglierie?

- No, no, disse Pantagruele, meglio dar fuoco alle loro polveri .

E a lui obbedendo, Carpalim partì subito, e come da Pantagruele era stato decretato fece, e tutti i combattenti che erano nella città fecero una sortita. E quando ebbe messo il fuoco alle tende e ai padiglioni passò leggermente sui nemici senza che nulla sentissero, tanto russavano e dormivano profondamente. Venne al luogo dov'era l'artiglieria e diede fuoco alle munizioni: ma non senza pericolo: il fuoco fu sì repentino che corse rischio di bruciare il povero Carpalim, e se non fosse stata la sua mirabile prestezza, restava fricassato come un maiale; ma egli scappò sì svelto che un quadrello di balestra non va di più.

Quando fu fuori delle trincee mandò un grido così spaventevole come se tutti i diavoli si fossero scatenati. Ne furono svegliati i nemici; ma sapete come? così storditi e insonnoliti com'è il primo canto di mattutino, che in quel di Lucon chiamano grattacoglioni.

Intanto Pantagruele cominciò a lanciare il sale della sua nave e poiché dormivano a gola spalancata e aperta ne riempì loro il gozzo tanto che i poveri diavoli squittivano come volpi e gridavano: "Ah, Pantagruele, Pantagruele, tu ci attizzi il fuoco!" A un tratto Pantagruele sentì bisogno di pisciare a causa delle droghe somministrategli da Panurgo e pisciò in mezzo all'accampamento sì bene e copiosamente che li annegò tutti e vi fu diluvio particolare per dieci leghe intorno. E dice la istoria che se la gran giumenta di suo padre vi fosse stata e avesse pisciato del pari, sarebbe seguito un diluvio più enorme di quello di Deucalione; poiché non pisciava una volta che non creasse un fiume più grande del Rodano e del Danubio.

Ciò vedendo quelli usciti dalla città dicevano: "Son tutti morti crudelmente, vedete quanto sangue scorre". Ma s'ingannavano pensando fosse sangue dei nemici l'urina di Pantagruele che vedevano ai riflessi del fuoco dei padiglioni e a un debole chiaror di luna.

I nemici, svegliatisi, vedendo da un lato il fuoco nell'accampamento e poi l'inondazione del diluvio urinario, non sapevano che dire o pensare. Alcuni dicevano che era la fine del mondo e il giudizio universale, che deve essere consumato per fuoco; altri che gli dei marini Nettuno, Proteo, Tritoni ecc. li perseguitavano, ché infatti era acqua di mare e salata.

Oh, chi potrà raccontare ora come si condusse Pantagruele contro i trecento giganti? Oh mia musa, mia Calliope, mia Talia, ispiratemi voi in questo momento! Rinforzate i miei spiriti poiché qui è il ponte dell'asino della logica, qui è il trabocchetto, qui la difficoltà di poter esprimere la terribile battaglia che avvenne.

Oh, piacesse a Dio che avessi a mia disposizione ora un boccale del miglior vino che bevvero mai quelli che leggeranno questa tanto veridica istoria!





CAPITOLO XXIX



Come qualmente Pantagruele sconfisse i trecento giganti armati di macigni e Lupomannaro capitano loro.





I giganti vedendo sommerso tutto l'accampamento si appesero il loro re Anarche al collo, e lo portarono, il meglio che poterono fuor di pericolo, come fece Enea con Anchise all'incendio di Troia. Quando Panurgo li vide disse a Pantagruele:

- Signore, vedete là i giganti che sono usciti, date addosso coll'albero e fate gagliardamente un po' di scherma all'antica, questo è il momento di mostrarsi valente. Da parte nostra vi daremo una mano e arditamente io ve n'ammazzerò un mucchio. E come no? David ammazzò bene Golia facilmente. Ed io che abbatterei dodici David (ché in quel tempo là non era che un piccolo cacone) non potrò buttarne giù una dozzina? E poi questo grosso porcone di Eustene, forte come quattro buoi, non si risparmierà. Coraggio dunque e picchiate a traverso, di punta e di taglio.

- Di coraggio, disse Pantagruele, ne ho per più di cinquanta franchi. Ma, ohe! Ercole non osò mai affrontar due insieme.

- Voi confrontarvi con Ercole! disse Panurgo; ma questo è un voler cacarmi sul naso. Voi avete, per Dio, più forza ai denti e più odore al culo di quanto Ercole n'avesse mai in tutto il corpo ed anima. Tanto val l'uomo quanto si stima.

E mentre così parlavano, ecco arrivare con tutti i suoi giganti Lupomannaro il quale vedendo Pantagruele tutto solo fu preso da temerità e oltracotanza sperando di uccidere il povero buon omarino. E disse ai suoi compagni giganti:

- Porconi di pianura, se, per Maom, alcuno di voi osa combattere contro costoro, vi farò morire crudelmente. Voglio che mi lasciate combattere solo e intanto avrete il vostro spasso a guardarci.

Allora tutti i giganti si ritirarono col loro re là vicino, dove si trovavano le bottiglie, e Panurgo e i suoi compagni anch'essi. Panurgo contraffaceva la paralisi dei sifilitici col torcer la bocca e rattrappir le dita e con voce rauca diceva loro:

- Noi non facciamo punto guerra, compagni, perbio! Dateci da mangiare con voi intanto che i nostri signori si battono.

Consentirono volentieri il re e i giganti e li fecero banchettare seco.

Intanto Panurgo raccontava loro le favole di Turpino, gli esempi di San Nicola e il racconto della cicogna.

Lupomannaro dunque si volse a Pantagruele con una mazza tutta d'acciaio pesante novemilasettecento quintali e due quartini, d'acciaio dei Calibi all'estremità della quale erano tredici punte di diamante, la più piccola delle quali era grossa come la più grande campana di Notre Dame di Parigi (c'era, forse, la differenza dello spessore d'un'unghia, o, al massimo, del dorso d'uno di quei coltelli che si chiamano mozzorecchi, senza aggiungervi un'idea né avanti né dietro) ed era fatata in maniera che mai non si poteva rompere, anzi per contro, frantumava incontinente quanto toccasse.

Così dunque, mentre s'avanzava con gran fierezza, Pantagruele, levando gli occhi al cielo si raccomandò a Dio di tutto cuore facendo voto con queste parole:

"Signore Iddio che sempre sei stato mio protettore e salvatore, tu vedi il pericolo nel quale ora mi trovo. Nulla qui mi conduce se non quel natural desiderio che Dio ha dato agli uomini di conservare e difendere sé, le proprie donne, i figlioli, la patria, la famiglia, tutto ciò insomma che non sia cosa tua propria, cioè la fede; poiché in questo caso tu non vuoi nessun aiuto se non la confessione cattolica e l'osservanza della tua parola; e ci hai proibito ogni arma e difesa essendo tu l'Onnipotente che in faccenda tua propria e quando la tua propria causa sia tratta in campo, ti puoi difendere assai meglio di quanto si creda, tu che hai mille migliaia di centinaia di milioni di legioni d'angeli, il minimo dei quali può uccidere tutti gli uomini e voltare il cielo e la terra a suo piacimento come già fu palese per l'esercito di Sennacherib. Dunque se ti piace soccorrermi in questo momento, ché in te solo è la mia piena fiducia e speranza, ti fo voto che per tutte le contrade tanto di questo paese di Utopia, che d'altrove, dove io abbia potenza e autorità, farò predicare il tuo Santo Vangelo puramente, semplicemente e integramente sicché gli abusi d'un branco d'ipocriti e di falsi profeti che con costituzioni umane e depravate invenzioni hanno avvelenato tutto il mondo siano intorno a me sterminati".

Allora fu udita una voce del cielo che disse: Hoc fac et vinces, cioè: "Fa' ciò e avrai la vittoria".

Poi vedendo Pantagruele che Lupomannaro s'avvicinava a gola spalancata, s'avanzò contro a lui arditamente e gridò quanto poté per fargli paura col suo grido spaventevole secondo la disciplina de' Lacedemoni:

- A morte, ribaldo, a morte!

Poi gli gettò addosso dalla barca che portava alla cintura più di diciotto barili e uno staio di sale riempiendogli gola e gozzo e naso ed occhi. Irritato di ciò Lupomannaro gli tirò un colpo della sua mazza volendo fracassargli il cervello ma Pantagruele fu lesto ed ebbe sempre buon piede e buon occhio; perciò spiccò col piede sinistro un passo indietro; ma non seppe fare in modo che il colpo non cadesse sulla nave che volò in quattromila e ottantasei pezzi versando il resto del sale a terra.

Ciò vedendo Pantagruele spiegò bravamente le braccia e maneggiando secondo l'arte dell'ascia il suo albero coll'estremità più grossa gli diè una botta di punta alla mammella poi ritirando il colpo a sinistra e mulinando lo colpì tra capo e collo; quindi avanzando il piè destro gli diede coll'altra estremità dell'albero una botta sui coglioni; ma ruppe la coffa versando quelle tre o quattro botti di vino che v'erano rimaste onde Lupomannaro pensò gli avesse fatto un'incisione alla vescica e che quel vino fosse l'urina che ne usciva.

Non contento Pantagruele voleva rinnovare un colpo di striscio ma Lupomannaro alzando la mazza s'avanzò su lui per avventarla con tutta la sua forza addosso a Pantagruele. E infatti piombò giù un colpo così rude che se Dio non avesse soccorso il buon Pantagruele l'avrebbe spaccato in due dalla cima del capo fino in fondo alla milza; ma il colpo, grazie a un brusco scarto di Pantagruele, declinò a destra e la mazza si sprofondò per più di settantatrè piedi in terra traversando una roccia donde sprizzò fuoco più grosso di novemila e sei botti.

Pantagruele, vedendo che l'altro perdeva tempo nell'estrarre la sua mazza incastrata in terra nella roccia, lo investe tentando abbattergli la testa di netto, ma il suo albero per mala sorte toccò un pochino il manico della mazza di Lupomannaro che era fatata (come abbiam detto sopra) perciò l'albero gli si spezzò a tre dita dall'impugnatura sicché ne rimase più stordito d'un fonditore di campane a cui si rompa lo stampo e gridò:

- Oh, Panurgo, dove sei tu?

Ciò udendo Panurgo disse al re e ai giganti:

- Perdio, qui finisce che si fanno del male se non andiamo a spartirli.

Ma i giganti se la godevano come se fossero a nozze. Allora Carpalim voleva levarsi e correre in aiuto del suo signore; ma un gigante gli disse:

- Per Gulfarino, nipote di Maom, se ti muovi di qui, ti caccio nel fondo delle mie brache come fossi un suppositorio, tanto più che sono stitico e non posso ben cagare se non a forza di digrignare i denti.

Pantagruele rimasto disarmato, riprese il mozzicone del suo albero picchiando all'impazzata sul gigante; ma non gli faceva più male di quello che fareste voi dando un buffetto sopra un'incudine di fabbro. Intanto Lupomannaro a forza di tirare avea estratta da terra la sua mazza e la menava per ferir Pantagruele, ma questi rapidissimo scansava tutti i colpi finché una volta mentre Lupomannaro lo minacciava dicendo: "O scellerato ora ti stritolo come una polpetta, e mai più asseterai la povera gente", Pantagruele gli scaraventò una pedata sì portentosa al ventre che lo rovesciò a gambe in aria e te lo strascinava così a scorticaculo per più d'un trar d'arco. Lupomannaro vomitando sangue per la bocca gridava:

- Maom! Maom! Maom!

A questo grido tutti i giganti si levarono per soccorrerlo. Ma Panurgo disse loro:

- Signori, date retta non ci andate perché il mio padrone è matto e picchia a dritto e traverso senza guardar dove. Ve ne capiterebbe male.

Ma i giganti vedendo che Pantagruele era disarmato non vi badarono.

Quando Pantagruele li vide avvicinarsi afferrò Lupomannaro pei piedi e levò il suo corpo come una picca in aria e con quello, ch'era armato d'incudine picchiava sui giganti corazzati di macigni e li abbatteva come un muratore le tegole e nessuno s'arrestava davanti a lui che non ruzzolasse a terra. E alle rotture di quelle corazze petrose si levò un sì orribile fracasso che mi venne a mente quando la grossa torre del burro che era a Santo Stefano di Bourges si liquefece al sole. Panurgo intanto insieme con Carpalim ed Eustene sgozzeggiavano quelli abbattuti a terra. Fate conto che non ne sfuggì un solo e Pantagruele sembrava a vedersi un falciatore che colla sua falce (era Lupomannaro) abbatteva l'erba d'un prato (cioè i giganti). Ma in questa scherma Lupomannaro ci perdè la testa e ciò fu quando Pantagruele abbattè un gigante che aveva nome Riflandouille, tutto corazzato d'arenaria, una scheggia della quale tagliò la gola netta a Epistemone; laddove la maggior parte dei giganti erano corazzati alla leggera cioè di pietra di tufo e altri di pietra ardesia. Finalmente, vedendo che erano tutti morti, Pantagruele gettò il corpo di Lupomannaro lontano quanto poté verso la città e quello cadde come un rannocchione a pancia larga nella piazza maggiore della città e uccise cadendo un gatto bruciato, una gatta bagnata, un'anitra scorreggiona e un'ochetta imbrigliata.





CAPITOLO XXX.



Come qualmente Epistemone che aveva la testa tagliata, fu guarito abilmente da Panurgo e informazioni sui diavoli e i dannati.





Terminata la sconfitta dei giganti, Pantagruele si ritirò nel luogo delle bottiglie e chiamò Panurgo e gli altri i quali tornarono a lui sani e salvi, eccetto Eustene che era stato sgraffiato al viso da uno dei giganti mentre lo sgozzettava, ed Epistemone che non comparve. Pantagruele ne fu sì attristato che voleva uccidersi, ma Panurgo gli disse:

- Attendete un po', Signore, per Diana, lo cercheremo tra i morti e vedremo come stanno le cose.

Mentre dunque lo cercavano, lo trovarono stecchito morto che si teneva la testa tutta insanguinata, tra le braccia. Allora Eustene gridò:

- Ah perfida Morte! Ci hai tolto il più perfetto degli uomini!

Alla qual voce Pantagruele si levò col più gran dolore che mai si vedesse al mondo e disse a Panurgo:

- Ah, amico mio, il vostro auspicio dei due bicchieri e dell'asta di giavellotto era ben fallace.

- Non piangete, ragazzi, disse Panurgo, è ancora tutto caldo e ve lo ristorerò sano quanto non fu mai.

Ciò dicendo prese la testa e la tenne al caldo sulla sua braghetta, affinché non soffrisse vento. Eustene e Carpalim portarono il corpo là dove avevano banchettato, non per speranza che mai guarisse, ma perché Pantagruele lo vedesse. Tuttavia Panurgo li confortava dicendo:

- Se non lo guarisco voglio perder la testa; (giuramento da matto) smettete di piangere e aiutatemi.

Gli lavò dunque accuratamente il troncone del collo, con bel vino bianco, poi la testa e li senapizzò con polvere di diamerdis che portava sempre in una delle sue borsette; poi li unse con non so quale unguento, quindi li accostò giusto giusto, vena contro vena, nervo contro nervo, vertebra contro vertebra, affinché non risultasse un collotorto, che tal gente egli odiava a morte. Ciò fatto cucì i margini in giro con quindici o sedici punti affinché la testa non si staccasse di nuovo e vi spalmò tutt'intorno un po' d'unguento ch'egli chiamava resuscitativo.

Subito Epistemone cominciò a respirare, poi ad aprire gli occhi e ad abbassarli poi a sternutare poi tirò una grossa scorreggia casalinga.

- Ecco, disse Panurgo, ormai, non c'è più dubbio è guarito. E gli porse a bere un bicchiere d'un vinaccio bianco con una caldarrosta candita. In questo modo Epistemone fu guarito abilmente, ma rimase un po' rauco per più di tre settimane, con una tosse secca di cui non poté mai guarire se non a forza di bere.

E là cominciò a parlare dicendo che aveva visto i diavoli, aveva parlato con Lucifero a tu per tu e fatto gran baldoria all'inferno e nei Campi Elisi. E garantiva a tutti che i diavoli erano buoni compagnoni. Quanto ai dannati, diceva esser bene afflitto che Panurgo l'avesse richiamato in vita, poiché ci aveva trovato un gusto matto a vederli.

- Come? esclamò Pantagruele.

- Non sono trattati male, rispose Epistemone, come si può pensare; ma la loro condizione è mutata in modo strano. Vidi Alessandro il Grande che rattoppava delle vecchie brache e guadagnava così la sua povera vita.

Serse era venditore ambulante di mostarda;

Romolo, venditore di sale;

Numa, venditore di chiodi;

Tarquinio, taccagno;

Pisone, contadino;

Silla, barcaiuolo;

Ciro era vaccaro;

Temistocle, vetraro;

Epaminonda, fabbricante di specchi;

Bruto e Cassio, agrimensori;

Demostene, vignarolo;

Cicerone, fochista;

Fabio, infilatore di rosarii;

Artaserse, cordaro;

Enea, mugnaio;

Achille, tignoso;

Agamennone, leccapadelle;

Ulisse, falciatore;

Nestore, minatore;

Dario, vuotacessi;

Anco Marzio calafato;

Camillo, fabbricante di galoscie;

Marcello, sbucciatore di fave;

Druso, tritamandorle;

Scipione Africano, vendeva feccia di vino in uno zoccolo;

Asdrubale era lanternaro;

Annibale, pollivendolo;

Priamo vendeva vecchia stoffa;

Lancilotto del Lago scorticava cavalli morti;

Tutti i cavalieri della Tavola Rotonda erano poveri lavoratori che, come i barcaiuoli di Lione e i gondolieri di Venezia remavano per passare i fiumi di Cocito, Flegetonte, Stige, Acheronte e Lete, quando i signori diavoli volevano darsi bel tempo sull'acqua. Ma per ogni traversata non ricevono che un buffetto sul naso e, alla sera, un tozzo di pane muffito.

I dodici pari di Francia stanno là senza far niente, a quanto ho visto; ma guadagnano la vita a sopportare schiaffi, buffetti, biscottoni sul naso e gran cazzotti ai denti.

Traiano, era pescatore di ranocchie;

Antonino, domestico;

Commodo, lavorante di giaietto;

Pertinace, sgusciatore di noci;

Lucullo, rosticcere;

Giustiniano, fabbricante di giocattoli;

Ettore era cuoco;

Paride era un povero cencioso;

Achille, imballatore di fieno;

Cambise, mulattiere;

Arteserse, schiumatore di pentole;

Nerone era suonatore di viola e aveva Fierabraccio per valletto; il quale gli faceva mille mali, obbligandolo a mangiare pan bigio e bere vino torbido, mentre lui mangiava e beveva del migliore;

Giulio Cesare e Pompeo erano incatramatori di navi.

Valentino e Orsone erano bagnini nei bagni dell'inferno e facevano massaggi.

Giglano e Gauvain erano poveri porcari.

Goffredo dal gran dente era venditore di zolfini;

Goffredo di Buglione incisore in legno;

Giasone era fabbriciere;

Don Pedro di Castiglia, questuante;

Morgante, birraio;

Huon di Bordeaux, cerchiatore di botti;

Pirro, sguattero;

Antioco, spazzacamino;

Romolo, ciabattino;

Ottaviano, raschiacarte;

Nerva, palafreniere;

Papa Giulio, venditore ambulante di pasticci ma non portava più la sua gran barba furfantesca;

Gian da Parigi, lustrascarpe;

Artù di Bretagna, smacchiatore di berretti;

Perceforest, portatore di corbe;

Bonifacio ottavo, papa, era schiumatore di pentole:

Nicola terzo papa, era cartaro;

Alessandro papa era cacciatore di topi;

Papa Sisto ungitore d'impestati.

- Come? disse Pantagruele, anche al di là impestati?

- Certo, disse Epistemone, e non ne vidi mai tanti; ce n'è più di cento milioni. Poiché credetelo, quelli che non hanno avuto peste in questo mondo, l'hanno nell'altro.

- Corpo di Dio, disse Panurgo, io sono a posto allora, poiché lo sono già stato fino allo stretto di Gibilterra e n'ho riempito le colonne d'Ercole.



Ozieri il Danese strofinava le corazze;

Il re Tigrane era copritore di tetti;

Galliano restaurato, cacciatore di talpe;

I quattro figli d'Aimone cavadenti;

Il papa Callisto era barbiere di fessa;

Il papa Urbano, sbafatore;

Melusina era sguattera;

Matabruna, lavandaia;

Cleopatra, rivenditrice di cipolle;

Elena, mezzana di cameriere;

Semiramide, spidocchiatrice di mendicanti;

Didone, vendeva funghi;

Pentesilea, il crescione;

Lucrezia, era infermiera;

Ortensia, filatrice;

Livia, raschiatrice di verderame.



In tal modo quelli ch'erano stati grandi signori in questo mondo si guadagnavano la loro povera, meschina e porca vita laggiù. Per contro i filosofi e gl'indigenti di questo mondo erano a loro volta gran signori in quello di là. Vidi Diogene che incedeva magnificamente, in una gran veste di porpora e uno scettro nella destra, e faceva arrabbiare Alessandro il Grande quando non aveva ben rammendato le sue brache ripagandolo a bastonate. Vidi Epitteto con eleganza alla francese, sotto un bel pergolato con molte damigelle, che si spassava, beveva, ballava, facendo baldoria e presso di lui mucchi di scudi del sole. Sotto i pampini erano scritti come sua divisa questi versi:



Saltar, ballare, girare a tondo,

E bere vino bianco e vermiglio,

Non far altro tutti i giorni

che contare scudi del sole.



Quando mi vide m'invitò a bere con lui cortesemente ed io accettai volentieri e tracannammo alla teologale. Intanto venne Ciro a chiedergli un danaro in onore di Mercurio, per comprarsi un po' di cipolle da cena.

- Niente, niente, disse Epitteto, non do danari; eccoti uno scudo, briccone, e fa il galantuomo.

Ciro fu ben contento d'aver trovato tanta bazza. Ma quei furfanti di re che sono laggiù, come Alessandro, Dario, e altri, lo derubarono durante la notte. Vidi Pathelin tesoriere di Radamanto che stava contrattando i pasticci di papa Giulio e gli chiedeva: Quanto alla dozzina?

- Tre bianchi, disse il papa.

- Meglio tre legnate! disse Pathelin, dà qui, villano, dà qui e vanne a cercar altri. E il povero papa se n'andò piangendo; quando fu davanti al pasticciere suo padrone gli disse che gli avevano portati via i pasticci e il pasticciere gli somministrò tal dose di staffilate che la sua pelle non avrebbe certo servito a far zampogne.

Vidi Mastro Gian de la Maire che contraffaceva il papa e si faceva baciare i piedi da tutti i poveri re e papi di questo mondo; e dandosi grandi arie, impartiva loro la benedizione dicendo: "Guadagnatevi le indulgenze, bricconi, guadagnatevele, sono a buon mercato. Vi assolvo dal pane e dalla zuppa e vi dispenso dall'aver mai qualsiasi valore". Poi chiamò Cailette e Triboulet dicendo: "Signori cardinali, sbrigate le loro bolle: a ciascuno una legnata sulle reni". E l'ordine fu subito eseguito.

Vidi mastro Francesco Villon che chiese a Serse:

- A quanto una tazza di mostarda?

- Un danaro, disse Serse.

- Ti pigli la quartana, canaglia! disse Villon; una scodella non vale che un quattrino, tu imbrogli qui sui viveri! E gli pisciò nel suo mastello come fanno i mostardieri a Parigi.

Vidi il franco arciere di Baignolet che funzionava da inquisitore degli eretici. Egli incontrò Perceforest che pisciava contro un muro su cui era dipinto il fuoco di Sant'Antonio. Lo dichiarò eretico e l'avrebbe fatto bruciar vivo se non c'era Morgante, che, come mancia e altri diritti accessori, gli diede nove moggi di birra.

- Ma, disse Pantagruele, riservaci questi bei racconti per un'altra volta; dimmi solo ora come son trattati gli usurai.

- Li vidi, disse Epistemone, tutti occupati a cercare spilli arrugginiti e vecchi chiodi pei rigagnoli delle vie, come fanno nel nostro mondo i disperati. Ma un quintale di quelle chincaglierie non vale che un tozzo di pane, cionostante c'è poca vendita e così i poveri diavoli stanno talvolta più di tre settimane senza mangiar boccone né briciola e lavorano giorno e notte attendendo la fiera prossima ventura; ma sono tanto attivi e maledetti che non badano al lavoro e alla sfortuna purché guadagnino a fin d'anno un meschino denaro.

- Ora, disse Pantagruele, facciamo un tantino di baldoria e beviamo, ragazzi, ve ne prego, ché fa buon bere tutto questo mese.

Allora sguainarono bottiglie a tutto spiano e colle provvigioni dell'accampamento fecero baldoria. Ma il povero re Anarche non poteva rallegrarsi. Onde Panurgo disse:

- Qual mestiere daremo qui al signor re affinché sia bene esperto dell'arte quando andrà nel mondo di là a tutti i diavoli?

- Veramente è faccenda che ti riguarda, fanne ciò che ti piace, te lo regalo, disse Pantagruele.

- Grazie tante, disse Panurgo; non è regalo da buttar via e da voi m'è accetto.





CAPITOLO XXXI.



Come qualmente Pantagruele entrò nella città degli Amauroti e come Panurgo diè moglie al re Anarche e lo fece rivenditore di salsa verde.





Dopo quella meravigliosa vittoria Pantagruele inviò Carpalim nella città degli Amauroti a dire e annunciare come il re Anarche era preso e tutti i loro nemici disfatti. Intesa la notizia uscirono incontro a lui tutti gli abitanti della città in buon ordine e in grande pompa trionfale e con divina letizia l'accompagnarono in città dove furono accesi bei fuochi di gioia e preparate per le vie belle tavole rotonde guarnite di grande quantità di viveri.

Fu il rinnovarsi del tempo di Saturno tanta era la festa.

Ma Pantagruele, riunito tutto il Senato, disse:

- Signori, bisogna battere il ferro finché è caldo; così prima di più oltre gozzovigliare voglio che andiamo a prendere d'assalto tutto il reame dei Dipsodi. Pertanto quelli che vorranno venire con me si preparino domani dopo bere che allora comincerò a marciare. Non che mi occorra molta gente per aiutarmi a conquistarlo giacché gli è come lo avessi in tasca; ma vedo che questa citta è tanto folta di abitanti che non possono rigirarsi per le strade; io li condurrò a colonizzare la Dipsodia e darò loro tutta la terra che è bella salubre fertile e amena più che ogni altra terra al mondo come ben sanno molti di voi che altra volta vi sono stati. Tutti quanti vorranno venirci s'apprestino come ho detto.

Questo consiglio e deliberazione fu divulgato per la città e l'indomani si trovarono sulla piazza davanti al palazzo in numero di un milione ottocento e cinquantasei mila senza contare donne e fanciulli. Così cominciarono a marciare verso la Dipsodia in sì buon ordine che sembravano i figli d'Israele quando partirono dall'Egitto per passare il Mar Rosso.

Ma prima di proseguire questa impresa voglio dire come Panurgo trattò il re Anarche suo prigioniero. Si ricordò di ciò che aveva raccontato Epistemone sul trattamento dei re e ricconi di questo mondo nei Campi Elisi e come essi si guadagnavano colà la vita con vili e bassi mestieri.

Pertanto un giorno vestì il suo re d'un bel giustacuorino di tela tutto frangiato come il berretto d'un albanese e di belle brache alla marinara; scarpe niente poiché diceva gli farebbero male alla vista; in testa un berretto perso, con una grande piuma di cappone. Sbaglio: mi sembra pensandoci che ce ne fossero due; infine una cintura di color perso e verde, dicendo che quei colori gli convenivano dacché era stato perverso.

Così acconciato lo condusse davanti a Pantagruele e gli disse:

- Conoscete questo villano?

- No certo, disse Pantagruele.

- È il signor re di tre cotte. Voglio farne un galantuomo: questi diavoli di re non sono altro che asini, nulla sanno, nulla valgono se non a fare del male ai poveri sudditi e a turbare tutto il mondo con guerre pei loro iniqui e detestabili capricci. Lo voglio mettere a mestiere e crearlo rivenditore ambulante di salsa verde. Orsù comincia a gridare: "Chi vuole salsa verde?" E il povero diavolo ripeteva il grido.

- Troppo piano disse Panurgo e lo prese per un orecchio dicendo: canta più forte in g, sol, re, ut. Così, diavolo! tu hai buona voce e non fosti mai tanto felice come a non esser più re.

Pantagruele se la godeva, poiché oso dire che era il miglior buon omettino che si potesse trovare da qui alla punta d'un bastone. Così dunque Anarche diventò buon rivenditore di salsa verde. Due giorni dopo Panurgo lo sposò con una vecchia sgualdrina e lui stesso celebrò le nozze a suon di belle teste di castrato, di buoni salsicciotti con mostarda e di buone braciole con aglio; delle quali inviò cinque some a Pantagruele che le mangiò tutte tanto le trovò appetitose. E da bere del buon terzanello e vino di corniole. E per farli ballare trovò a nolo un cieco che dava il suono colla sua viola. Dopo pranzo li condusse a palazzo e presentatili a Pantagruele gli disse indicando la sposa:

- Non c'è pericolo che scorreggi.

- Perché? chiese Pantagruele.

- Perché, disse Panurgo, ell'è ben fessa.

- Che parabola è questa? chiese Pantagruele.

- Non vedete, disse Panurgo, che quando s'arrostiscono al fuoco le castagne se sono intere peteggiano rabbiosamente e per impedire che peteggino si incidono? Così questa sposa novella già bene incisa dal basso non scorreggerà punto.

Pantagruele donò loro un alloggetto vicino alla strada bassa e un mortaio di pietra da pestar la salsa. E là i due sposi si stabilirono: lui fu il più gentil rivenditore di salsa verde che mai si vedesse in Utopia. Ma m'è stato detto poi che la moglie lo picchia come un baccalà e che il povero sciocco non osa difendersi tanto è imbecille.





CAPITOLO XXXII.



Come qualmente Pantagruele coprì colla sua lingua tutto un esercito e ciò che l'autore vide nella sua bocca.





Appena Pantagruele con la sua moltitudine entrò nelle terre dei Dipsodi tutta la gente ne fu lieta e incontinente si arresero a lui e di lor franca volontà gli portarono le chiavi d'ogni città dove passava. Solo gli Almirodi vollero resistergli e risposero ai suoi araldi che non si sarebbero arresi se non davanti a buone insegne.

- E che? disse Pantagruele, ne vorrebbero di meglio che le mie: mano al boccale e bicchiere in pugno? Orsù, mettiamoli a sacco.

Tutti si misero in ordine come deliberati di dar l'assalto. Ma mentre erano in marcia attraverso una gran campagna furono colti da un grosso rovescio di pioggia.

Ciò vedendo Pantagruele fece dire dai capitani che non era nulla e che colla testa sopra le nuvole egli vedeva bene non trattarsi che d'una spruzzatina rugiadosa; ma che ad ogni buon fine si mettessero in ordine che egli voleva coprirli. Così messisi in buon ordine e ben serrati, Pantagruele tirò fuori la lingua, ma solo a metà e là sotto li ricoverò come fa la chioccia coi suoi pulcini.

Intanto, io scrivente, che vi faccio questi veridici racconti, m'era nascosto sotto una foglia di bardana che non era meno larga che l'arco del ponte di Moustrible, ma quando li vidi sì ben coperti me n'andai a rifugiarmi con loro; però non ci stavo, tanto erano come si dice: (in fondo alla spanna manca la stoffa) giusti giusti. Allora il meglio che potei, m'arrampicai su e camminai per ben due leghe sulla lingua di Pantagruele finché entrai dentro la bocca. Ma, oh dei o dee, che vidi io là? Giove mi confonda colla sua folgore trisulca s'io mento. Mi avanzai là dentro come si fa in Santa Sofia a Costantinopoli e ci vidi delle roccie grandi come i monti Danesi; credo fossero i denti e dei gran prati, delle gran foreste, delle forti e vaste città non meno grandi di Lione o Poitiers.

Il primo cristiano che incontrai fu un buon uomo che piantava cavoli, e, stupefatto, gli domandai:

- Amico, che fai tu qui?

- Pianto cavoli, disse.

- E come? E perché?

- Eh, signor mio, disse, non tutti possono avere i coglioni pesanti come un mortaio e non possono essere tutti ricchi. Io, così mi guadagno il pane, e li porto a vendere al mercato nella città che è qui dentro.

- Gesù, dissi, ma c'è qui un nuovo mondo?

- Nuovo, no di certo, disse; ma ben mi si dice che fuori di qui c'è una terra nuova dove hanno e sole e luna e tutta piena di affari; però questa qui è più antica.

- Ma, amico mio, come si chiama codesta città dove porti a vendere i tuoi cavoli?

- Si chiama Aspharage e v'è gente cristiana e dabbene che vi farà gran festa.

Breve, deliberai d'andarvi.

Lungo il cammino trovai un galantuomo che tendeva le reti ai piccioni e gli domandai:

- Ohè là, amico, donde vengono questi piccioni?

- Vengono, Sire, dall'altro mondo.

Allora io pensai che quando Pantagruele sbadigliava i piccioni a gran branchi dovevano entrargli in bocca credendo fosse una colombaia. Poi entrai nella città che trovai bella e ben forte e ariosa; ma, sull'entrata, i portieri mi domandarono il certificato onde io, stupefatto, domandai:

- Signori, v'è qui pericolo di peste?

- Oh, signore, risposero, muore qui vicino tanta gente che i cani corrono per le strade a raccogliere i cadaveri.

Santo Dio! e dove?

Essi mi dissero che ciò avveniva in Laringe e Faringe due grosse città come Rouen e Nantes, ricche e di gran commercio. E la peste era stata causata da un'esalazione puzzolente e infetta uscita dagli abissi da non molto, per la quale son morti in otto giorni più di due milioni, duecentosessantamila e sedici persone.

Allora io rifletto e calcolo e trovo che dev'essere stato per un fiato puzzolente uscito dallo stomaco di Pantagruele quando mangiò tutta quell'agliata che abbian detto sopra.

Di là passai tra le roccie, che erano i suoi denti, e feci tanto che potei inerpicarmi su una dove trovai il più bel paese del mondo; belli e grandi giochi di pallone, belle gallerie, belle praterie, molti vigneti e un infinità di cascine alla moda italica, in mezzo a campi pieni di delizie. Vi rimasi ben quattro mesi e non stetti mai così bene come allora.

Poi discesi pei denti di dietro per venire alle mascelle; ma lungo il cammino fui derubato dai briganti in una grande foresta che è verso la parte delle orecchie; quindi trovai una borgata in declivio, non ricordo più il nome, ove me la passai anche meglio che mai e guadagnai un po' di danaro per vivere. E sapete come? Dormendo. Poiché là prendono le persone a giornata per dormire e guadagnano cinque o sei soldi al giorno; ma quelli che russano ben forte guadagnano fino a sette soldi e mezzo. Raccontai ai senatori come fossi stato derubato nella valle ed essi mi dissero che la gente al di là dei denti, per verità, erano malviventi e briganti di lor natura; onde io compresi che come noi abbiamo le contrade al di qua e al di là dei monti, così loro le hanno al di là e al di qua dei denti. Ma si sta molto meglio al di qua e vi spira miglior aria.

E là cominciai a pensare esser ben vero, come si dice, che la metà del mondo non sa come vive l'altra metà; poiché nessuno ancora aveva scritto nulla intorno a quel paese, che pur contiene più di venticinque reami abitati senza contare i deserti e un grosso braccio di mare; ma io ne ho composto un gran libro intitolato La storia dei Gorgiani, ché così li ho chiamati poiché dimorano nella gorgia del mio signore Pantagruele. Finalmente volli ritornare e traversando per la sua barba mi gettai sulle spalle e di là mi calai fino a terra e cado davanti a lui. Quando mi vide domandò:

- Donde vieni, Alcofribas?

- Dalla vostra bocca, signore.

- E da quando c'eri dentro?

- Da quando voi partiste contro gli Almirodi.

- Sono già più di sei mesi! E di che vivevi? Che mangiavi? Che bevevi?

- Lo stesso che voi, Signore; e dei più ghiotti bocconi che vi passavano per la bocca, io trattenevo il pedaggio.

- Ma, e dove andavi del corpo?

- Nella vostra bocca, signore.

- Ah, ah! Tu sei un gentil compagnone, diss'egli. Con la grazia di Dio abbiamo conquistato tutto il paese dei Dipsodi; a te dono la castellania di Salmigondin.

- Tante Grazie, signore; voi mi fate assai più bene di quanto abbiano meritato i miei servigi a voi.





CAPITOLO XXXIII.



Come qualmente Pantagruele fu malato e il modo come guarì.





Poco tempo dopo il buon Pantagruele cadde malato, e soffrì talmente di stomaco che non poteva né bere, né mangiare; e poiché un malanno non viene mai solo, gli prese una pisciacalda che lo tormentò più di quanto potete pensare. Ma i medici lo curarono molto bene e con una gran quantità di droghe lenitive e diuretiche gli fecero pisciare il male. La sua urina era così calda che da quel tempo non s'è ancora raffreddata. E ne resta ancora in Francia in diversi luoghi secondo il vario corso che seguì. Li chiamano bagni caldi come:

A Coderetz;

A Limons;

A Dast;

A Balleruc;

A Neric;

A Bourbonnensy e altrove;

E in Italia:

A Montegrotto;

Ad Abano;

A San Pietro di Padova;

A Sant'Elena;

A Casa Nova;

A San Bartolomeo;

Nel contado di Bologna, alla Porretta;

E in mille altri luoghi.

Io mi stupisco grandemente d'un branco di matti filosofi e medici che perdono il loro tempo a disputare donde venga il calore delle dette acque, e se dipenda da boràce, o da solfo, o da allume, o da salnitro, contenuti nelle miniere; essi non fanno che farneticare e sarebbe assai meglio che andassero a strofinarsi il culo sui cardi, che perdere il tempo a discutere su ciò di cui non sanno l'origine. Infatti la spiegazione è facile e non occorre andare a indagare più oltre dal momento che i detti bagni sono caldi perché derivati da una pisciata calda del buon Pantagruele. Ora per dirvi come guarì del suo male principale, (tralascio i commenti) egli prese come lassativo, quattro quintali di scamonea colofoniaca, centotrentotto carrettate di cassia, undicimila novecento libbre di rabarbaro senza contare gli altri ingredienti. Conviene, invece, che sappiate come per consiglio dei medici fu decretato si dovesse levargli ciò che gli faceva male allo stomaco. Furono a ciò fabbricate sedici grosse palle di rame più grosse di quella della guglia di Virgilio a Roma e fatte in modo che si aprivano e rinchiudevano per di dentro mediante una molla.

In una entrò un domestico con una lanterna e una fiaccola accesa. E Pantagruele l'ingoiò come una piccola pillola. In cinque altre entrarono alcuni grossi valletti ciascuno con una picca ad armacollo. In tre altre entrarono tre contadini ciascuno con una pala ad armacollo; nelle ultime sette entrarono sette portatori di corbe ciascuno con una cesta al collo; tutte le palle furono inghiottite come pillole.

Quando furono nello stomaco ciascuno fece scattare la molla e uscirono dalle loro capanne, primo colui che portava la lanterna e cercarono per più di mezza lega dove erano gli umori corrotti in un gorgo orribile puzzolente e infetto più che Mefitide o la palude Camarina o il fetente lago di Sorbona del quale parla Strabone. Per fortuna che s'erano bene antidotati il cuore, lo stomaco e il vaso da vino, che si chiama la zucca, se no sarebbero stati soffocati ed estinti da quei vapori abominevoli. Ah qual profumo! Qual vaporamento da immerdare le bautte delle cortigianelle galliche! Poi andando a tentoni e fiutando s'avvicinarono alla materia fecale e agli umori corrotti. Finalmente trovarono una montagna d'immondizia. Allora i picconieri vi picchiarono su per dirocciarla e gli altri colle loro pale ne riempirono le corbe e quando tutto fu ben ripulito ciascuno si ritirò nella sua palla.

Ciò fatto Pantagruele sforzandosi di vomitare li espulse facilmente; quelle sedici palle erano per la sua gola ciò che sarebbe un peto nella vostra e così uscirono fuori delle loro pillole allegramente. Mi fecero venir a mente i greci quando uscirono dal cavallo di Troia. Così Pantagruele fu guarito e ridotto alla prima convalescenza. Di quelle pillole di rame una si può vedere sul campanile della chiesa di Santa Croce a Orleans.





CAPITOLO XXXIV.



La conclusione del presente libro e la scusa dell'autore.





Ora signori avete udito un cominciamento della orrifica storia del mio padrone e signore Pantagruele. Qui porrò fine a questo primo libro perché mi duole un po' la testa e sento bene che i registri del mio cervello sono un po' offuscati da questi sughi settembrini. Il resto dell'istoria l'avrete più avanti per la prossima fiera di Francoforte e vedrete allora come Panurgo si sposò e fu becco a cominciare dal primo mese delle nozze; e come Pantagruele trovò la pietra filosofale, e la maniera di trovarla e di adoperarla; e come egli passò il monte Caspio e come navigò pel mare Atlantico e sconfisse i Cannibali e conquistò le isole di Perlas; come sposò la figlia del re dell'India detto Prete Giovanni; come combattè contro i diavoli e incendiò cinque camere dell'inferno saccheggiando la gran camera nera e come gettò Proserpina nel fuoco e ruppe quattro denti a Lucifero e un corno del culo; e come visitò le regioni della luna per sapere per davvero se la luna fosse intiera o piuttosto se le donne ne avessero tre quarti nella testa; e mille e mille altre allegrezze tutte autentiche. Sono insomma testi di vangelo, ma in francese. Buona sera, signori. Perdonate mi, e non pensate tanto ai miei falli quanto ai vostri.

Se mi dite: "Maestro e' parrebbe che non foste straordinariamente savio a scriverci queste frottole e piacevoli canzonature," io rispondo che voi non siete molto più savii divertendovi a leggerle. Tuttavia se per passatempo le leggete e per passare il tempo io le scrissi; voi ed io siamo più degni di perdono che un gran branco di saraboviti, bacchettoni, lumaconi, ipocriti, baciapile, beghini, tartufi e altre tali sette che si camuffano come maschere per ingannare il mondo. I quali fanno credere al popolino che ad altro non sono intesi se non a contemplazione e devozione, digiuni e macerazione della sensualità, per non altro che per sostentare e alimentare la loro umana fragilità; ma per contro fan la grassa vita, e Dio sa quale et Curios simulant, sed bacchanalia vivunt. Lo potete leggere a grosse lettere alluminate sui loro musi scarlatti e sui loro ventri a cotechino.

Quanto al loro studio, è volto tutto alla lettura di libri pantagruelici, non tanto per passare il tempo allegramente, quanto per nuocere malvagiamente a qualcuno; cioè articolando, monorticolando, collotortando, culattando, coglionettando e diavoliculando, vale a dire calunniando. Somigliano a quei bricconi di campagna che frugano e sparpagliano la merda dei bambini alla stagione delle ciliege e delle prugne, per trovarvi i noccioli da vendere ai droghieri che fabbricano l'olio di Maguelet. Fuggiteli, costoro, aborriteli, odiateli quanto fo io e ve ne troverete bene in fede mia. E se desiderate esser buoni pantagruelisti, cioè vivere in pace, gioia, salute, e far sempre buona vita, non vi fidate mai della gente che spia attraverso buchi.



Fine delle Croniche di Pantagruele re dei Dipsodi

restituite al naturale, colle sue gesta

e prodezze spaventevoli, composte

dal fu ALCOFRIBAS

astrattore di quinta

essenza.

CONTINUA VI