FRANÇOIS RABELAIS

Traduzione di
GILDO PASSINI


IL TERZO LIBRO

DEI FATTI E DETTI EROICI DEL BUON PANTAGRUELE

COMPOSTO DA MASTRO FRANCESCO RABELAIS

DOTTORE IN MEDIClNA E CALLOIER DELLE ISOLE HIÈRES


L’AUTORE SOPRADDETTO SUPPLICA I BENEVOLI LETTORI

DI RISERVARSI A RIDERE AL SETTANTOTTESlMO LIBRO



FRANCESCO RABELAIS

ALLO SPIRITO DELLA REGINA DI NAVARRA

Spirito assorto in rapimento estatico,

Che frequentando il ciel, tua patria vera,

Lasciasti il corpo, tuo soggiorno e viatico,

Che tanto a' tuoi voleri s'ammaniera

In questa nostra vita passeggera,

Tu, senza sensi, né passion molesta,

Oh non vorresti ritornare in questa

Terra, dal tuo celestiale ostello,

E il terzo libro delle allegre gesta

Veder quaggiù, del buon Pantagruello?







PROLOGO DEL TERZO LIBRO



Buona gente, beoni lustrissimi, e voi gottosi preziosissimi, vedeste mai Diogene, il filosofo cinico? Se l'avete veduto è segno che non avevate perduto la vista, o io son davvero fuor di senno e fuor di senso logico. Bella cosa veder la luce del (vino e scudi) sole! Me ne rimetto al cieco nato tanto famoso della sacra bibbia, il quale, concessogli di chiedere ciò che più desiderava dall'Onnipotente il cui verbo in un momento si traduce in atto, null'altro dimandò se non vedere.

Voi item, non siete giovani ed è questa qualità competente per filosofar più che fisicamente in vino, e non invano, ed essere ormai del consiglio bacchico e discorrere a tavola della sostanza, colore, odore, eccellenza, eminenza, proprietà, facoltà, virtù, effetto e dignità del benedetto e desiderato liquore.

Se poi non l'avete visto, Diogene, (come facilmente inclino a credere) avrete almeno udito parlare di lui; poiché in tutta quest'aria e questo cielo la sua fama e il nome sono rimasti fino ad oggi abbastanza memorabili e celebri. Eppoi voi siete tutti, s'io non m'inganno, di sangue frigio. E, se non avete tutti gli scudi del re Mida, avete bene di lui quel non so che, che più lodavano i Persiani nei loro otacusti e che più desiderava l'imperatore Antonino; onde poi la Bocca del leone di Rohan fu soprannominata: Bell'orecchio.

E se non ne avete udito parlare, voglio ora narrarvi una storia di lui per entrare in vino (bevete dunque!) e in argomento (ascoltate dunque!), avvertendovi (affinché non siate mistificati per la vostra ingenuità, come gente malfidente) che fu al tempo suo filosofo raro e giocondo quant'altri mai. Se avea qualche difetto, e voi non ne avete? E non ne abbiamo noi?

Nessuno è perfetto, eccetto Dio. Fatto è che Alessandro il Grande, con tutto che gli fosse precettore e famigliare Aristotele, aveva tale stima di Diogene, che si augurava, se non fosse stato Alessandro, di esser Diogene di Sinope.

Quando Filippo, re di Macedonia, disegnò di assediare e rovinare Corinto, i Corinzii, avvertiti dai loro esploratori che moveva contr'essi in gran forze e con esercito numeroso, tutti ne furono non a torto spaventati e si diedero attorno accuratamente per mettersi ciascuno in dovere e stato di resistere ai suoi assalti e difendere la città. Gli uni traevano dai campi alle fortezze mobili, bestiame, grano, vino, frutta, vettovaglie, e le munizioni necessarie. Gli altri fortificavano mura, costruivano bastioni, squadravano rivellini, scavavano fossati, nettavano le contromine, gabbionavano ripari, spianavano piattaforme, vuotavano casematte, imbottivano false brache, erigevano cavalieri, riparavano controscarpe, intonacavano cortine, sporgevano monachette, puntellavano parapetti, inchiavavano barbacani, rinforzavano petriere, rimettevano erpici, saracinesche e cataratte, ponevano sentinelle, mandavano fuori pattuglie in ricognizione. Ciascuno stava all'erta, ciascuno portava la gerla.

Gli uni forbivano corsaletti, lucidavano corazze, ripulivano bardature, frontali, cotte, brigantine, celate, baviere, cappelline, bipenni, elmi, morioni, maglie, cotte, bracciali, cosciali, ascellette, gorgerine, gambali, pettorali laminati, usberghi, palvesi, scudi, calzari, gambiere, solerette, sproni. Gli altri apprestavano archi, fionde, balestre, proiettili, catapulte, falariche, granate, recipienti, cerchi e lanciafuochi, baliste, scorpioni, e altre macchine belliche per respingere e distruggere le torri d'assedio; aguzzavano ronche, picche, rampiconi, alabarde, ramponi, lancie e zagaglie, forconi ferrati, partigiane, clave, azze, dardi, dardelli, giavelline, giavellotti, spiedi; affilavano scimitarre, spadoni, pafurti, spade, verdunesi, stocchi, pistole, aste, daghe, mendozine, pugnali, coltelli, lame, verrettoni. Tutti esercitavano i membri, ciascuno srugginiva il suo brando. Non v'era donna per quanto ritrosa o vecchia che non sfregasse il suo arnese, poiché, come sapete, le antiche Corinzie erano coraggiose nei combattimenti.

Diogene, vedendo tutto quel fervido trambusto e non essendo adibito dai magistrati a nessuna occupazione, contemplò per qualche giorno il lavoro degli altri senza dir parola, poi, come eccitato da spirito marziale, cinse a tracolla il suo pallio, rimboccò le maniche fino ai gomiti, s'acconciò come un coglitore di pomi, affidò a un vecchio amico la sua bisaccia, i suoi libri, e i suoi opistografi, preparò, fuor di città, dalla parte del Cranico (collina e promontorio presso Corinto) una bella spianata, vi rotolò la botte fittile che gli serviva di casa contro le ingiurie del cielo, e lì con gran veemenza d'animo, dimenando le braccia la girava, voltava, imbrogliava, insudiciava, rizzava, riversava, rovesciava, stuoiava, grattava, accarezzava, barattava, batteva, buttava, tarabiscolava, capitombolava, tripudiava, bagnava, picchiava, timpanava, ristoppava, distoppava, disturbava, immagliava, intrugliava, batteva, scoteva, spingeva, tempestava, scrollava, agitava, levava, lavava, inchiavava, intravava, braccava, imbroccava, bloccava, squassava, tartassava, fricassava, affettava, affustava, batuffolava, inchiodava, adescava, incatramava, fasciava, tastava, baloccava, impilaccherava, atterrava, stagliuzzava, piallonava, scialuppava, incantava, armava, manharava, bardava, impennacchiava, gualdrappava, la ruzzolava da monte a valle e la precipitava giù pel Cranico; poi la risospingeva da valle a monte come Sisifo col suo macigno, talché poco mancò non la sfondasse. Ciò vedendo uno de' suoi amici gli domandò per qual ragione, e corpo, e anima, e botte così tormentasse. Il filosofo gli rispose che non avendolo la repubblica occupato a nessun officio, egli a quel modo la sua botte tempestava per non esser visto solo inattivo e ozioso in mezzo a quel popolo tutto fervido e operoso.

Così io, pur essendo senza timore, non sono tuttavia senza rammarico vedendo che non mi si tiene in alcun conto e considerando che in tutto questo nobile reame di Francia di qua e di là dai monti ciascuno oggi si tiene in esercizio e lavora chi a fortificare la patria, e difenderla, chi a respingere i nemici e offenderli e tutto con sì bella concordia e sì mirabile ordine, a profitto così evidente dell'avvenire, (poiché la Francia avrà d'ora innanzi, sì superbi confini e i Francesi così sicura tranquillità) che per poco non accedo all'opinione del buon Eraclito il quale affermava la guerra generare ogni bene; e credo che la guerra sia chiamata in latino bellum non già per antifrasi come hanno creduto certi rabberciatori di vecchie ferraglie latine, che nella guerra quasi bellezza non vedono, ma assolutamente e semplicemente per la ragione che in guerra appare ogni specie di bene e di bello e scompare ogni sorta di male e di brutto. Tanto è vero che il saggio e pacifico re Salomone non ha meglio saputo rappresentarci la indicibile perfezione della sapienza divina se non comparandola all'ordinamento di un esercito in campo.

Non essendo stato dunque iscritto e schierato coi nostri della parte offensiva, i quali m'hanno stimato troppo debole e impotente, e non essendo stato nullamente utilizzato per l'opera difensiva sia pure portando gerla, sgombrando mota, curvando ruota, e rompendo piota, ciò m'era tutt'uno, ho reputato onta più che mediocre apparire spettatore ozioso di tanti valenti, diserti e cavallereschi personaggi che in presenza e al cospetto di tutta Europa rappresentano questa insigne favola e tragica commedia, senza rendermi utile invece da me, offrendo questo nulla, mio tutto, che mi restava. Ben poca gloria infatti, mi sembra ridondare a coloro che occupano solamente gli occhi, e sparagnano poi le forze, celano i loro scudi, nascondono il danaro, si grattano la testa con un dito come fannulloni disgustati, sbadigliano alle mosche come i vitelli della decima, scrollano le orecchie come asini d'Arcadia al canto dei musici, e in silenzio, con moine mostrano di consentire alla rappresentazione.

Presa la mia determinazione, ho pensato compiere opera non inutile, non inopportuna, movendo la mia botte diogenica, sola rimastami dal naufragio subito in passato al faro di malavventura. Questo mio tartassamento di botte che cosa credete abbia a essere a vostra idea? Per la madonna che alza la gonna, ancora non lo so. Aspettate un po' che tracanni qualche sorso di questa bottiglia, ch'è il mio vero e solo Elicona, la mia fonte Pegasina, la mia unica ispirazione. Qui, bevendo, io delibero, discorro, risolvo, concludo. Dopo l'epilogo io rido, scrivo, compongo, bevo. Ennio bevendo scriveva, scrivendo beveva. Eschilo, se date fede a Plutarco (in Symposiacis) beveva componendo, bevendo componeva. Omero non scrisse mai a digiuno. Catone mai non scrisse che dopo bere. Ciò sia detto perché non veniate ad accusarmi che non seguo l'esempio dei più lodati e meglio apprezzati. È buono e fresco abbastanza, e, come voi direste, sul principio del secondo grado. Che Dio ne sia eternamente lodato! il Dio Sabbaoth, intendo, quello degli eserciti. Se anche voialtri ne berrete una grande, oppure due piccole sorsate di quelle buone, io non vi trovo nulla a ridire, purché Dio ne sia lodato un pocolino.

Poiché dunque tale è la mia sorte, o il mio destino, (non a tutti essendo concesso entrare e abitare in Corinto) è mio disegno non solo non restare inattivo ed inutile, ma anzi servire e agli uni e agli altri: pei manovali, zappatori e fortificatori io farò ciò che fecero Nettuno e Apollo in Troia sotto Laomedonte, ciò che fece Rinaldo di Montalbano nei suoi vecchi giorni; servirò i muratori, farò bollir la pentola pei muratori e, terminato il pasto, suonerò la cornamusa per batter la misura alla musica dei musicoli. Così Anfione, suonando la lira, fondò, costrusse, edificò la grande e celebre città di Tebe.

Pei guerrieri poi spillerò di nuovo la mia botte, e grazie al vino estratto (che vi sarebbe abbastanza noto per due precedenti volumi, se l'impostura degli stampatori non li avesse pervertiti e intorbidati) riempirò loro col fondo de' miei passatempi epicenari un galante terzino e in seguito un allegro quartino di sentenze pantagrueliche, che vi darò licenza di chiamare diogeniche. Così i guerrieri non potendomi avere per compagno, avranno in me un leale maggiordomo, che li ristorerà secondo le sue deboli forze, quando tornano dai combattimenti, avranno un lodatore infaticabile delle loro prodezze e gloriose battaglie. Io non mancherò, per lapathium acutum di nostro Signore, se marzo non manca a quaresime; ma se ne guarderà bene il porcaccione.

Mi ricordo tuttavia d'aver letto che Tolomeo, figlio di Lago, un giorno presentò agli Egiziani in pieno teatro, fra l’altre spoglie del bottino di guerra, un cammello battriano tutto nero e uno schiavo tutto screziato in modo che sul suo corpo si alternavano il bianco e il nero, ma non a striscie orizzontali secondo il diaframma, come quella donna votata alla Venere Indiana che fu vista dal filosofo di Tyana tra il fiume Idaspe e il monte Caucaso, bensì in striscie perpendicolari. Tali singolarità non essendo ancora state viste in Egitto, egli sperava, offrendo novità, di accrescere l'amore del popolo verso di lui. Che ne seguì? All'apparire del cammello tutti furono spaventati e indignati; alla vista dell'uomo screziato alcuni lo canzonarono, altri l'abominarono come mostro infame creato per error di natura. Insomma la speranza che aveva di compiacere i suoi Egiziani, e di far crescere l'affetto, che essi avevano naturalmente per lui, gli sfuggì di mano. E intese come più si compiacessero e dilettassero di cose belle, eleganti e perfette che di cose ridicole e mostruose onde poi tenne in dispregio tanto lo schiavo che il cammello sì che ben presto per negligenza e mancanza del nutrimento ordinario passarono da vita a morte.

Questo esempio mi fa esitare tra speranza e timore dubitando che invece della soddisfazione attesa, mi capiti ciò che aborro, e il mio tesoro si riduca a carboni e invece di Venere m'esca il can barbone, e in luogo di contentarli, li fastidisca; in luogo di divertirli li offenda, dispiaccia invece di piacere e mi capiti quel che capitò al gallo di Euclione tanto celebrato da Plauto nell'Aulularia e da Ausonio nel suo Eryphon e altrove; il quale per aver scoperto, raspando, il tesoro, n'ebbe la taglia golata. Se ciò avvenisse non sarebbe il caso d'arrabbiarsi. È accaduto altra volta, può accadere ancora.

Ah, ma no, per Ercole! Io riconosco in tutti quei guerrieri una tempra specifica e una facoltà individuale che i nostri maggiori chiamavano Pantagruelismo, grazie alla quale mai non s'avranno a male di azione nessuna che conoscano sorgere da buono, franco e leale cuore. Comunemente li ho visti prendere il buon volere in pagamento e di quello contentarsi quando il potere non vi corrisponda.

Intesi su questo punto, torno alla mia botte. Su, onore a questo vino, compagni! Bevete a crepapelle, figlioli! E se non vi paresse buono, piantatelo. Non io sono di quegli importuni lifrelofri che per forza, insistenza e violenza costringono lanzi e compagni a trincare e, ciò ch'è peggio, a ribere e ritrincare. Tutti gli onesti beoni, tutti gli onesti gottosi, assetati, che vengono a questa mia botte, se non ne han voglia non bevono: se ne han voglia e il vino è di quello che gusta alla Signoria delle lor Signorie, allora, giù, bevano francamente, liberamente, arditamente, senza nulla pagare e senza economia. Così ho decretato. E non abbiate paura che il vino manchi come accadde alle nozze di Cana in Galilea. Tanto ne spillerete per la cannella, altrettanto ne imbotto pel cocchiume e resterà la botte per tal modo inesauribile, sorgente viva, vino perpetuo, quale era il liquore contenuto entro la coppa di Tantalo, rappresentata figurativamente tra i saggi Bramini, quale era in Iberia la montagna di sale tanto celebrata da Catone, quale era il ramo d'oro consacrato alla dea sotterranea, tanto decantato da Virgilio. Il mio libro è una vera cornucopia d'allegria e di canzontura. Se talora vi sembri esaurita fino al fondo, non per questo sarà disseccata. Nel fondo sta la speranza, come nel vaso di Pandora, e non la disperazione come nella botte delle Danaidi.

Tenete bene a mente ciò che ho detto e a qual sorta di persone si volge il mio invito e che alcuno non s'inganni. Sull'esempio di Lucilio, il quale dichiarava di non scrivere che pei suoi Tarantini e Cosentini, io non ho forato la mia botte che per voi, galantuomini, per voi, bevitori del primo tino, per voi gottosi, gocciofili, e sorseggiatori di buona lega. I Giganti dorifagi, ingollatori di brina, hanno abbastanza al cul passioni e carniere per cacciare; badino ai fatti loro, ma non cerchino qui la loro selvaggina. Dei cervelli dottorali, dei lambiccatori di correzioni, non me ne parlate per carità, in nome e per riverenza delle quattro natiche che vi hanno messo al mondo e del vivificante piuolo che le congiunse. Degl'ipocriti ancora meno, benché siano tutti beoni superlativi, tutti blenorragici e impestati, guarniti di sete inestinguibile e di fame insaziabile. E perché? Perché non sono gente dabbene, anzi da male, di quel male da cui preghiamo quotidianamente che Dio ci liberi. Non importa che essi contraffacciano talora i penitenti. Mai vecchia scimmia non fece bella smorfia.

Indietro mastini! Fuori dal mio recinto! Non levavemi il sole. Al diavolo canaglie! Ah, voi venite per fiutar come cani il culo al mio vino e scompisciare la mia botte? Ma ecco qui il bastone che Diogene ordinò in testamento gli si ponesse al fianco dopo morte per cacciare e stroncare le larve della combustione e i mastini cerberizzanti. Indietro dunque, bacchettoni! Dietro il gregge, mastini! Fuori di qui ipocriti! Per tutti i diavoli, via! Siete ancora qui? Rinuncio alla mia parte di papimania se vi addento. GZZ, GZZZ, GZZZZZZ. Via! Via! Se ne andranno una buona volta? Mai non possiate andar di corpo che a suon di staffilate, mai pisciare che a tratti di corda, mai riscaldarvi che a suon di legnate!





CAPITOLO I.



Come qualmente Pantagruele trasportò una colonia di Utopiani in Dipsodia.



Pantagruele dopo aver interamente conquistato il paese di Dipsodia, vi trasportò una colonia di Utopiani in numero di 9,876,543,210 uomini, senza contare le donne e i bambini. Recava seco artigiani d'ogni mestiere, e specialisti d'ogni scienza liberale per ristorare, popolare e adornare quel territorio prima mal abitato e in gran parte deserto. Questa colonia non fu trasportata a causa dell'eccessiva popolazione di maschi e femmine che si moltiplicavano in Utopia come le locuste. Voi comprendete, e non è necessario spiegarlo di più, che gli Utopiani possedevano genitali tanto fecondi, e le Utopiane matrici così ampie, ghiotte, tenaci e in così buona architettura cellulate, che ogni nove mesi nascevano almeno sette figlioli, tra maschi e femmine, per ciascun matrimonio, come accadeva del popolo giudaico in Egitto, se De Lira non delira. Né lo moveva la fertilità del suolo, la salubrità dell'aria, o la comodità del paese di Dipsodia, quanto l'opportunità di tenere quel popolo al dovere e all'obbedienza insediandovi i suoi antichi e fedeli sudditi. Essi a memoria d'uomo non avevano mai conosciuto, riconosciuto, accettato e servito altro signore all'infuori di lui e da quando eran nati ed entrati nel mondo avevano succhiato insieme col latte delle loro madri nutrici, la dolcezza e bontà del suo regno, e in quella erano stati sempre allevati e cresciuti. Ciò dava certa speranza che in qualunque luogo fossero sparsi e trasportati avrebbero rinunciato alla vita corporale piuttosto che mancare alla fedeltà dovuta naturalmente al loro principe e che non solamente tali sarebbero rimasti essi e i figlioli nati successivamente di loro, ma avrebbero tratto e mantenuto nella stessa fedeltà e obbedienza le nazioni di fresco aggiunte al suo dominio. Ciò avvenne infatti, onde non fu vana la sua deliberazione. Poiché se gli Utopiani prima di quella migrazione erano stati fedeli e leali, i Dipsodi dopo aver vissuto solo pochi giorni con loro, lo furono anche di più per non so qual fervore naturale in tutti gli uomini sul principio di ogni azione che sia loro gradita. Solo si lagnavano e lo giuravano pel Cielo e le Intelligenze motrici, che non fosse venuta prima a loro conoscenza la fama del buon Pantagruele.

Notate dunque qui, o beoni, che la miglior maniera di governare e conservare paesi di fresco conquistati non è (come fu opinione erronea di certi spiriti tirannici, a loro danno e disonore) non è col saccheggiare le popolazioni, violentarle, angariarle, rovinarle, maltrattarle e tenerle con verga di ferro, facendo insomma i lupi e divorando i popoli, al modo di quel re iniquo che Omero chiama Demovoro, cioè mangiatore di popoli. Io non vi citerò a questo proposito le antiche istorie; solo richiamerò alla vostra memoria ciò che hanno visto i padri vostri e avrete visto voi stessi se non siete troppo giovani. I popoli, come bimbi neonati bisogna allattarli, cullarli, rallegrarli, come piante di fresco piantate bisogna appoggiarli, dar loro sicurezza e difesa contro ogni violenza, ingiuria e calamità. Come persone uscite di lunga e grave malattia e convalescenti, bisogna accarezzarli, risparmiarli, ristorarli, per modo che, (se così trattati) concepiscono in sé questa opinione: non esservi al mondo re, né principe meno da desiderarsi come nemico e più da augurarsi come amico.

Così Osiride, il gran re degli Egiziani, conquistò tutta la terra non tanto per forza d'armi quanto perché sollevava dalle angarie, insegnava a vivere bene e sanamente, recava leggi comode, gentilezze, benefici. Perciò la gente lo soprannominò il gran re Evergete, vale a dire benefattore, pel comando fatto da Giove a Pamila. Infatti Esiodo, nella sua Hierarchia, colloca i buoni demoni, (chiamateli angeli, o genii, se volete) come intermediarii e mediatori tra gli dei e gli uomini, superiori agli uomini, inferiori agli dei. E poiché dalle loro mani ci derivano le ricchezze e i beni del cielo, ed essi sono costantemente benefici verso noi e sempre ci preservano dal male, egli dice che fanno ufficio di re essendo opera unicamente regale compiere sempre il bene e mai il male.

E così fu l'imperatore dell'universo Alessandro il Macedone. E così Ercole, che tutto il continente conquistò, liberando gli uomini dai mostri, dalle oppressioni, vessazioni e tirannie, governandoli con buon trattamento, tenendoli con equità e giustizia, avvezzandoli a benigno reggimento, e con leggi convenienti alla condizione del territorio, provvedendo a ciò che mancava, crescendo valore a ciò che sovrabbondava e perdonando tutto il passato con oblio eterno di tutte le offese precedenti. Di questa natura fu l'amnistia agli Ateniesi quando per la prodezza e abilità di Trasibulo furono sterminati i tiranni; lodata poi da Cicerone e quindi dall'imperatore Aureliano a Roma.

Questi sono i filtri, i sortilegi, gli allettamenti d'amore mediante i quali si conserva in pace ciò che penosamente era stato conquistato. Né più felicemente può regnare il conquistatore, sia re, sia principe, o filosofo, che facendo seguire la giustizia al valore. Il suo valore fu messo in mostra dalla vittoria e conquista. La sua giustizia sarà dimostrata da ciò: che per la volontà e affezione del popolo darà leggi, pubblicherà editti, stabilirà le religioni, riconoscerà il diritto di ciascuno, come dice il nobile poeta Marone di Ottaviano Augusto:



Ei vincitore, per voler de’ vinti

Facea valer le leggi...



Per questo Omero nell’Iliade chiama i buoni principi e grandi re kosmetoras laòn, vale a dire ornatori di popoli. Tale era anche il pensare di Numa Pompilio secondo re dei Romani, giusto, buon governante e filosofo, quando ordinò che al Dio Termine, nel giorno della sua festa, chiamata Terminale, nulla fosse sacrificato che avesse toccato morti, insegnandoci in tal modo che i termini, confini e le annessioni d’un reame conviene conservarli e governarli in pace, amore e bontà senza insozzare le proprie mani di sangue e di saccheggi. Chi opera altrimenti non solamente perderà le conquiste, ma soffrirà questo scandalo e obbrobrio che per essergli la conquista sfuggita di mano, sarà stimata iniqua e ingiustamente compiuta, ché le cose male acquistate male periscono. E quando pure n'abbia avuto durante la vita pacifico godimento, se tuttavia la conquista è perduta dagli eredi, l'infamia cadrà parimenti sul defunto e la sua memoria sarà maledetta come di conquistatore iniquo. Infatti si dice in comune proverbio: Di cose mal tolte non godrà il terzo erede.

Notate anche, a questo proposito, gottosi matricolati, come Pantagruele, colla sua colonia, di un angelo solo ne fece due, contrariamente a Carlomagno il quale d'un diavolo ne fece due quando trasportò i Sassoni nelle Fiandre e i Fiamminghi in Sassonia. Infatti non potendo tenere in soggezione i Sassoni annessi da lui all'Impero, per impedire che ogni momento si ribellassero, se per avventura fosse distratto in Ispagna o altre terre lontane, li trasportò nelle Fiandre, paese a lui fedele e obbediente per natura: e gli Annoveresi e Fiamminghi suoi sudditi naturali, trasportò in Sassonia non dubitando della loro fedeltà ancorché trasmigrassero in regioni straniere. Ma avvenne che i Sassoni continuarono nella loro ribellione e ostilità primitiva, e i Fiamminghi, abitando in Sassonia, assorbirono i costumi e l'irrequietezza dei Sassoni.





CAPITOLO II



Come qualmente Panurgo fu fatto castellano del Salmigondino in Dipsodia e come mangiasse il suo grano in erba.



Pantagruele dando ordine al governo di tutta la Dipsodia assegnò a Panurgo la castellania di Salmigondino che rendeva annualmente 6,789,106,789 reali in danaro certo, non contando la rendita incerta dei maggiolini e delle conchiglie ammontante in media da 2,435,768 a 2,435,679 agnelli di gran lana. Qualche volta la rendita saliva a 1,234,554,321 serafi, quando capitava una buona annata di conchiglie e maggiolini di prima qualità; ma ciò non accadeva tutti gli anni.

Si condusse così bene e prudentemente il signor nuovo castellano che in meno di quattordici giorni dilapidò la rendita certa e incerta della sua castellania per tre anni. Non, propriamente, dilapidò come potreste dire, in fondazione di monasteri, erezione di templi, costruzione di collegi o ospedali, o gettando il lardo ai cani, ma il tutto spese in mille piccoli banchetti e allegri festini offerti a chi volesse, massimamente a tutti i buoni amiconi, alle giovani ragazze e alle graziose galle. Inoltre tagliò boschi bruciando i grossi ceppi per vender cenere, riscosse danaro in anticipo, comprò caro, vendette a buon mercato e mangiò il suo grano in erba.

Pantagruele, avvertito della faccenda, non ne fu dentro sé affatto indignato, né irritato, né afflitto. Vi ho già detto e vi ridico ancora che egli era il migliore piccolo e grande buon ometto che mai cingesse spada. Tutto prendeva nel miglior senso, a ogni atto dava interpretazione buona, mai non si tormentava, mai non si scandalizzava. Così egli sarebbe fuoruscito del deifico maniero della ragione se altrimenti si fosse contristato e turbato. Infatti tutti i beni che il cielo copre e che la terra contiene in tutte le sue dimensioni di altezza, profondità, longitudine e latitudine non sono degni di eccitare i nostri affetti e turbare i nostri sensi e sentimenti. Solamente trasse Panurgo in disparte e dolcemente gli fece capire che se avesse voluto continuare a vivere così, e a non mostrarsi invece più economo, sarebbe stato impossibile, o almeno assai difficile farlo mai ricco.

- Ricco? rispose Panurgo, v'eravate messo in testa quest'idea? Avevate assunto la cura di farmi ricco in questo mondo? Oh, pensate a vivere allegramente, in nome del buon Dio e dei buoni uomini! Altra cura e altra preoccupazione non penetri nel sacrosanto domicilio del vostro celeste cervello. La sua serenità non sia mai turbata da qualsiasi nuvola di pensamenti screziati di afflizione o di irritazione. Se vivrete allegro, gagliardo, di buon umore, sarò anche troppo ricco. Tutti gridano: economia, economia! ma spesso parla d'economia chi non sa che sia.

Da me bisogna prendere consiglio, ed io vi avverto, intanto, che quanto m'è imputato a vizio non è che imitazione della Università e del Parlamento di Parigi, luoghi nei quali ha sede la vera sorgente e l'idea viva della panteologia, ed anche di ogni giustizia. Eretico colui che ne dubita e non lo crede fermamente. Essi mangiano in un giorno il loro vescovo, (o la rendita del vescovado, ch'è tutt'uno) per un anno e anche per due qualche volta. E, precisamente, il giorno della sua consacrazione. E non v'è scusa che tenga se non vuol esser lapidato sul momento.

Ma, inoltre, operando come ho operato, mi sono conformato alle quattro virtù principali:

Primo: Prudenza, riscotendo danaro in anticipo; poiché non si sa mai chi more o chi va in malora. Chi sa se il mondo durerà ancora tre anni? E anche se durasse più, chi oserebbe promettersi di vivere tre anni?

Nessuno tien gli dei nelle sue mani

Sì da dir d'esser vivo l'indomani.

Secondo: Giustizia. Giustizia commutativa, comprando caro, e cioè a credito, vendendo a buon mercato, cioè a contanti. Che dice Catone nel suo De oeconomia, su questo argomento? Bisogna, dice, che il paterfamilias sia venditore perpetuo. In questo modo è impossibile che alfine non diventi ricco, se dura sempre il negozio.

Giustizia distributiva dando banchetti ai buoni (notate, buoni) e gentili amiconi, che la fortuna aveva gettati come Ulisse sullo scoglio del buon appetito senza provvista di cibo, e alle buone (notate, buone) e giovani (notate, giovani) ragazze galliche poiché secondo la sentenza d'Ippocrate, giovinezza è insofferenza di fame, massimamente se è vivace, allegra, acerba, irrequieta, volteggiante. Le quali gallettine volentieri e di buon cuore fanno favori alla gente dabbene e sono platoniche e ciceroniane fino al punto che si credono venute al mondo non per sé solamente, ma anzi delle loro proprie persone danno parte alla patria, parte ai loro amici.

Terzo: Forza. Abbattendo i grossi alberi, sono stato un secondo Milone e ho distrutto le oscure foreste, tane di lupi, di cinghiali, di volpi, ricettacolo di briganti e malandrini, caverne d'assassini, officine di falsi monetari, rifugio d'eretici; e spianandole in chiare lande e belle brughiere, e suonando l'oboe e la cornamusa ho preparato la sede per il giudizio universale.

Quarto: Temperanza. Mangiando il grano in erba, come un eremita che vive d'insalata e radici, mi sono emancipato dagli appetiti sensuali ed ho fatto economia per gli storpi e i miserabili. Infatti, ciò facendo, risparmio i sarchiatori che costano denaro, i mietitori che bevono volentieri e senz'acqua; gli spigolatori ai quali bisogna dar focaccia, i trebbiatori che non rispettano aglio, cipolle e cipolline negli orti, secondo l'esempio della Testili virgiliana, i mugnai che son di solito ladroni, e i fornai che non valgono nulla più. Ci dite poco? Senza contare la calamità dei topi, rovina dei granai, e la mangiatura dei punteruoli e altri insetti.

Del grano in erba si può fare salsa verde, di leggera concozione, di facile digestione, la quale vi spalanca il cervello, imbaldanzisce gli spiriti animali, rallegra la vista, stimola l'appetito, diletta il gusto, irrobustisce il cuore, solletica la lingua, schiarisce la carnagione, fortifica i muscoli, tempera il sangue, rallegra il diaframma, rinfresca il fegato, dischiude la milza, solleva i rognoni, ammorbidisce i reni, diruggina le vertebre, sgombra l'uretra, dilata i vasi spermatici, abbrevia i cremasteri, spurga la vescica, gonfia i genitali, corregge il prepuzio, incrosta il glande, rettifica il membro; vi fa buon ventre e ben ruttare, ben sloffare, ben petare, cacare, urinare, sternutare, singhiozzare, tossire, sputare, vomitare, sbadigliare, moccicare, anelare, inspirare, respirare, russare, sudare, rizzar l'uccello e mille altri vari vantaggi.

- Intendo bene, disse Pantagruele; e voi ne inferite che i poveri d'intelletto non saprebbero spender molto in breve tempo. Non siete il primo a concepire quest'eresia. La sosteneva anche Nerone e ammirava su tutti gli uomini Caio Caligola suo zio, il quale in pochi giorni aveva con invenzione mirifica, dissipato tutto l'avere e patrimonio che Tiberio gli avea lasciato.

Ma, invece di conservare e osservare le leggi cenarie e suntuarie dei Romani: la Orchia, la Fannia, la Didia, la Licinia, la Cornelia, la Lepidiana, la Anzia, e quelle dei Corinzii, per le quali era proibito a chichessia spender più della propria rendita annua, voi avete fatto protervia, che era presso i Romani sacrificio corrispondente a quello dell'agnello pasquale presso gli Ebrei, nel quale conveniva mangiar tutto, gettar gli avanzi al fuoco e nulla conservare per l'indomani. Io posso dire acconciamente di voi ciò che dice Catone di Albidio il quale avendo con spese eccessive mangiato tutto ciò che possedeva, e non restandogli più che una casa, la incendiò per poter dire: Consummatum est, come disse dipoi San Tommaso d'Aquino quando ebbe finito di mangiare tutta la lampreda. Ma non è indispensabile.





CAPITOLO III.



Come qualmente Panurgo loda i debitori e i prestatori.



- Ma, domandò Pantagruele, quando potrete liberarvi dai debiti?

- Alle calende greche, rispose Panurgo, quando tutti saranno contenti, e voi sarete erede di voi stesso. Dio mi guardi dal liberarmene! Non troverei più un cane che mi facesse credito. Chi non lascia lievito la sera, non troverà pastone lievitato al mattino.

Se voi sarete sempre debitore di qualcuno, questo qualcuno pregherà costantemente Dio di darvi buona, lunga e felice vita, per paura di perdere il suo credito; sempre dirà bene di voi in tutte le brigate; sempre nuovi creditori vi procurerà, affinché, grazie a questi, gli facciate versamento e con la terra d'altrui colmiate il suo fossato. Era costume druidico una volta, nella Gallia, che schiavi, valletti e domestici fossero bruciati vivi alle esequie funebri dei loro padroni e signori. Immaginate la loro bella paura che i detti padroni e signori morissero, dovendo essi morire con loro! E come pregavano continuamente il loro gran dio Mercurio e Dite, padre degli scudi, che lungamente sani li conservassero! E come avevano cura di ben trattarli e servirli! Poiché almeno potevano prolungare la propria vita fino alla loro morte. Ebbene, con anche più fervida devozione i creditori vostri pregheranno Dio perché viviate, e temeranno che moriate, tanto più che essi amano maggiormente la manica che il braccio, il danaro più che la vita. Prova ne siano gli usurai di Landerousse, i quali or non è molto s'impiccarono vedendo rinvilire il prezzo del grano e del vino e tornare il tempo del buon mercato.

Nulla rispondendo Pantagruele, Panurgo continuò:

Corpo d'un rospo! quando ci rifletto voi mi sconvolgete il ben dell'intelletto rimproverandomi i miei debiti e i miei creditori. Per una sola qualità perdio, mi reputavo augusto, reverendo e formidabile, perché, contro l'opinione di tutti i filosofi (i quali dicono nulla potersi creare dal nulla) io nulla possedendo, né materia prima, né altro, divenni fattore e creatore. Creatore di che?... Ma di tanti belli e buoni creditori! I creditori sono (e lo sostengo fino alla pena del fuoco, esclusa) sono belle e buone creature. Chi nulla presta è creatura brutta e cattiva, creatura del gran diavolaccio d'inferno. E fattore di che? Ma fattore di debiti! O cosa rara e antichissima! Ma debiti, intendo, in misura eccedente il numero delle sillabe risultanti dalla combinazione di tutte le consonanti con tutte le vocali, secondo il conto già studiato e operato del nobile Senocrate. Voi non commetterete errore di aritmetica pratica, commisurando la perfezione dei debitori al gran numero dei creditori. Ma credete che mi senta poco bene quando, tutte le mattine, vedo intorno a me questi cari creditori, tanto umili, servizievoli e prodighi di riverenze? E quando osservo che mostrando viso aperto e miglior cera all'un d'essi più che agli altri, quel brutto porcaccione pensa aver la restituzione per primo, esser il primo in data, e prende il mio sorriso per danaro contante? Mi pare di rappresentare ancora la parte di Dio nella Passione di Saumur, contornato da tutti i suoi angeli e cherubini. Ah, i miei creditori sono i miei candidati, i miei parassiti, i miei salutatori, i miei auguratori di buon giorno, i miei oratori perpetui.

Avrete inteso parlare della montagna della virtù eroica descritta da Esiodo. Io pensava che quella montagna simboleggiasse i debiti, nella scienza de' quali io sono addottorato in primo grado. A quella sommità sembrano tendere e aspirare tutti gli uomini, ma pochi la raggiungono per la difficoltà del cammino, poiché oggi tutti sentono desiderio e stridente appetito di far debiti e crearsi nuovi creditori. Ma non riesce a esser debitore chiunque voglia, non riesce a far creditori chiunque voglia. E voi vorreste privarmi di questa felicità sublime? Voi mi domandate quando mi sarò liberato dai debiti?

Ma c'è di più: io mi consacro a San Babolino il buon santo, se non è vero che tutta la mia vita ho considerato i debiti come una connessione e collegamento dei cieli colla terra, un sostentamento unico dell'umano lignaggio senza il quale ben presto sarebbe estinta la razza.

Essi, i debiti, sono forse quella grande anima dell'universo; la quale, secondo i platonici, vivifica ogni cosa.

Ne volete una prova? Immaginate in ispirito sereno l'idea e forma di qualche mondo nel quale non sia debitore e creditore alcuno. (Prendete, se vi piace, il trentesimo di quelli immaginati da Metrodoro o il settantottesimo di quelli immaginati da Petronio). Un mondo senza debiti! Là nessuna regola al corso degli astri. Tutti saranno in disaccordo. Giove non stimandosi debitore di Saturno lo esproprierà della sua sfera e colla sua catena omerica sospenderà tutte le intelligenze, Dei, Cieli, Demoni, Geni, Eroi, Diavoli, Terra, Mare, e tutti gli Elementi. Saturno farà alleanza con Marte e perturberanno tutto quel mondo. Mercurio non vorrà più star soggetto agli altri, più non sarà il loro camillo, come era chiamato in lingua etrusca, poiché di nulla sarebbe loro debitore. Venere non sarà venerata, perché nulla avrà prestato. La luna resterà sanguigna e tenebrosa. Perché il sole dovrebbe prestarle la sua luce? Nulla lo obbliga a ciò. Il sole non risplenderà sulla terra, gli astri non vi spanderanno buoni influssi poiché la terra (dal canto suo) mancherebbe dal prestar loro nutrimento di vapori e d'esalazioni, dalle quali sono alimentate le stelle come diceva Eraclito, dimostravano gli Stoici, confermava Cicerone.

Tra gli elementi non sarà né simbolizzazione, né alternazione, né trasmutazione alcuna, poiché l'uno non si reputerà debitore verso l'altro, né gli avrà nulla prestato. La Terra non farà Acqua, l'Acqua non sarà mutata in Aria, l'Aria non darà il Fuoco, il Fuoco non scalderà la Terra. Questa non produrrà che mostri, titani, aloidi, giganti, non pioverà pioggia, non lucerà luce, non venterà vento, non sarà né estate, né autunno. Lucifero si slegherà e scappando dal profondo dell'inferno con le Furie, le Pene, e i diavoli cornuti vorrà snidare dai cieli tutti gli dei tanto de' popoli maggiori che minori.

Tutto il mondo, non vi essendo prestiti, non sarà che una cagnara, una briga più anomala di quella del rettore di Parigi, una diavoleria più confusa di quella dei giochi di Douai. Nessun uomo salverà l'altro: si avrà un bel gridare: aiuto! al fuoco! all'acqua! all'assassinio! Nessuno andrà in soccorso. Perché? A chi non ha prestato nulla è dovuto. A nessuno importa del suo incendio, del suo naufragio, della sua rovina, della sua morte. Poiché egli non avrà prestato, niente sarà prestato a lui. Insomma saranno bandite da questo mondo Fede, Speranza, Carità; poiché gli uomini son nati per aiutarsi e soccorrersi vicendevolmente. E invece di quelle verranno Diffidenza, Disprezzo, Rancore, insieme con la coorte di tutti i malanni, le maledizioni, le miserie. Voi penserete in verità che in quel mondo Pandora abbia versato il suo vaso. L'uomo sarà lupo all'uomo, lupo mannaro e spirito folletto, come furono Licaone, Bellerofonte, Nabucodonosor; briganti, assassini, avvelenatori, malfattori, malpensanti, malvolenti, pieni d'odio ciascuno contro tutti, come Ismaele, Metabus, Timone d'Atene, il quale perciò fu detto il misantropo. Onde più facil cosa sarebbe in natura che i pesci vivessero nell'aria, e i cervi pascolassero in fondo all'oceano, che poter sopportare quella schifezza di mondo nulla prestante. In fede mia quanto l'odio!

E se a somiglianza di tale triste e insopportabile mondo nulla prestante, vi figurate quell'altro piccolo mondo che è l'uomo, vi troverete un terribile sconvolgimento. La testa non vorrà prestare la vista de' suoi occhi per guidare i piedi e le mani. I piedi non degneranno portarla, le mani cesseranno di lavorare per lei. Il cuore si stancherà di darsi tanto da fare per far battere il polso alle membra e non presterà loro più.

Il polmone non gli presterà più i suoi soffietti. Il fegato non gli manderà sangue per alimentarlo. La vescica non vorrà esser debitrice ai rognoni, l'urina sarà soppressa. Il cervello considerando quel procedere fuor di natura, si metterà a farneticare e non fornirà più senso ai nervi, né movimento ai muscoli. Insomma in tal mondo sregolato, nulla dovendo, nulla prestando, nulla prendendo a prestito, vedreste una sollevazione più perniciosa di quella rappresentata da Esopo nel suo apologo.

E l'uomo perirà senza dubbio: e non solo perirà, ma perirà ben presto, fosse Esculapio in persona. E il corpo andrà subito in putrefazione e l'anima indignatissima andrà di gran corsa a tutti i diavoli, dietro il mio danaro.





CAPITOLO IV.



Continuazione del discorso di Panurgo in lode dei prestatori e dei debitori.



Immaginate per contro un mondo diverso nel quale ciascuno presti, nel quale ciascuno deva; tutti siano debitori, tutti prestatori. Oh quale armonia sarà nei regolari movimenti dei cieli! Mi pare già di sentirla meglio che mai non l’udisse Platone. Quale simpatia tra gli Elementi! Ah come la natura avrà diletto nel suo operare e nel suo produrre!: Cerere, incaricata delle biade, Bacco del vino, Flora dei fiori, Pomona dei frutti, Giunone, nel suo aere sereno, serena, salubre, piacente. Io mi smarrisco in questa contemplazione. Tra gli uomini pace, amore, affetto, fedeltà, tranquillità, banchetti, festini, gioia, letizia, oro, argento, moneta spicciola, catenelle, anelli, mercanzie trotteranno da una mano all’altra. Niente processi, niente guerre, niente dispute, non vi saranno usurai, non ingordi, non avari, non gente che rifiuta. Dio degli dei, non sarà questa l’età dell'oro, il regno di Saturno, l’immagine delle regioni olimpiche nelle quali si ritrae ogni altra virtù, solo Carità regna, governa, domina, trionfa? Tutti saranno buoni, tutti saranno belli, tutti saranno giusti. Oh, mondo felice! Oh felice la gente di tal mondo! Oh beati tre e quattro volte! Mi par già d’esserci. Io vi giuro, perdio, che se un tal mondo, un così beato mondo, che a tutti presta, nulla rifiuta, avesse papa abbondevole in cardinali e in armonia col suo sacro collegio, in pochi anni ci vedreste i santi più duri, diventar arcimiracolifici e più invocati, più tempestati di voti, di croci, di candele, che tutti quelli dei nove vescovadi di Bretagna eccetto solamente Sant'Ivo.

Considerate, vi prego, come il nobile Patelin, volendo deificare e con divine lodi levare fino al terzo cielo il padre di Guglielmo Jousseaulme null'altro disse che questo:

..... Et si prestoit

Ses denrées à qui en vouloit.

Oh la bella frase! E su questo stampo immaginate il nostro microcosmo (id est piccolo mondo, cioè l'uomo) con tutte le sue membra che prestano, prendono a prestito, e devono, vale a dire funzionanti secondo natura. Poiché la natura non ha creato l’uomo che per prestare e prendere a prestito. Non è più grande di quest'ordine l’armonia de' cieli. L'intenzione del fondatore di questo microcosmo è di mantenervi la vita e l'anima, che vi ha messa come ospite. La vita consiste in sangue. Il sangue è la sede dell'anima; questo mondo pertanto è travagliato da un solo lavoro: fabbricar sangue continuamente. In questa operazione tutte le membra hanno una propria funzione e son regolate per gerarchia tale, che senza tregua l'uno prende a prestito dall’altro, l'uno presta all'altro, l’uno è dell'altro debitore. La materia e metallo acconci a esser convertiti in sangue son forniti dalla natura: pane e vino. In questi due son comprese tutte le specie di alimenti, i quali per ciò in Linguadoca son chiamati companatico. Per trovarli, prepararli, cuocerli, lavorano le mani, i piedi camminano e portano tutta la macchina, gli occhi guidano tutto. L'appetito, all'orifizio dello stomaco, inacidito con un po' di melancolia, trasmessagli dalla milza, avverte d'infornare vivande. La lingua ne fa l’assaggio, i denti le masticano, lo stomaco le riceve, digerisce e chilifica. Le vene mesenteriche ne suggono ciò ch’è buono e idoneo, (abbandonando gli escrementi, i quali, per virtù espulsiva son espressi fuori per condotti appositi) e lo recano al fegato il quale compie una nuova modificazione e ne fa il sangue. Immaginate con qual gioia quegli ufficiali vedono questo ruscello aureo che è il loro solo sostentamento. Non è maggiore la gioia degli alchimisti quando, dopo lunghi lavori, grandi cure e spese, vedono i metalli trasmutarsi nei loro crogiuoli.

Tutte le membra poi si preparano e adoperano a purificare di nuovo e affinare quel tesoro. I rognoni, per le vene emulgenti ne traggono l’acquosità, che voi chiamate urina e, la scolano giù nell’uretra. Più basso trova un ricettacolo apposito, la vescica, che a tempo opportuno, la versa fuori. La milza sottrae al sangue la parte terrestre o feccia, che voi chiamate melancolia. Il ricettacolo del fiele ne sottrae la bile superflua. Poi il sangue per esser meglio affinato, è trasportato in un altro laboratorio, il cuore, il quale coi suoi movimenti di diastole e sistole lo purifica e infiamma talmente che per il ventricolo destro, ridottolo a perfezione, lo invia per le vene a tutti gli organi. Ogni organo l’attrae a sé e se ne alimenta a sua posta: piedi, mani, occhi, tutto; e allora essi che erano prima creditori, diventano debitori. Nel ventricolo sinistro il sangue si purifica a tal punto che si chiama spirituale e attraverso le arterie è inviato a tutte le membra per riscaldare e aereare l’altro sangue delle vene. Il polmone non cessa mai con suoi lobi e soffietti di ristorarlo e per riconoscenza di questo beneficio il cuore gli comparte il meglio per la vena arteriale. Alla fine tanto è affinato dentro il reticolato meraviglioso, che ne risultano poi gli spiriti animali mediante i quali la mente immagina, discorre, giudica, risolve, delibera, ragiona e ricorda. Virtù di Dio! Io mi annego, mi perdo, mi smarrisco, quando entro nel profondo abisso di questo mondo sì riboccante di prestiti e debiti. Oh, credete, divina cosa è prestare, virtù eroica esser indebitato.

Ma non è tutto. Questo mondo che presta, che deve, che prende a prestito, è così buono, che, finita l'alimentazione, pensa già a prestare a quelli che non sono ancora nati, e a perpetuarsi coi prestiti, se può, e a moltiplicarsi in immagini a sé somiglianti, ciò sono i figliuoli. A tal uopo ogni membro spreme e rilascia una porzione del suo più prezioso nutrimento e la manda in basso; natura ha preparato vasi e ricettacoli opportuni per i quali discendendo nei genitali per lunghi giri e flessuosità, riceve forma competente e trova luoghi idonei, tanto nell'uomo come nella donna, per conservare e perpetuare il genere umano. Tutto ciò avviene mediante prestiti e debiti dell'uno all'altro; onde si dice il Debito coniugale. A chi rifiuta la natura infligge pene interminabili, acre agitazione delle membra e furia dei sensi; a chi presta, concede in premio piacere, allegrezza e voluttà.





CAPITOLO V.



Come qualmente Pantagruele detesta i debitori e cercatori di prestiti.



- Intendo, rispose Pantagruele, e davvero mi parete buon argomentatore e affezionato alla vostra causa. Ma potete predicare e patrocinare fino alla Pentecoste e rimarrete sbalordito di non avermi persuaso; con tutto il vostro bel parlare non m'indurrete a indebitarmi. Nulla dobbiate a nessuno, dice il Santo Inviato, se non amore e affetto reciproco. Voi mi adoperate di belle immagini e diatiposi, e mi piacciono assai. Ma io vi dico che se immaginate uno sfrontato stoccatore e un importuno cercatore di prestiti che entri per la prima volta in una città già edotta de' suoi costumi, voi troverete che al suo entrare i cittadini saranno più sgomenti e trepidanti che se v'entrasse la peste travestita come la trovò il filosofo Tianiano in Efeso. E son d'avviso che non errassero i Persiani stimando secondo vizio il mentire, primo il far debiti. Poiché debiti e menzogne vanno ordinariamente insieme.

Non voglio tuttavia inferire che mai non si debba aver debito, mai si debba prestare. Non è alcuno per quanto ricco, che talora non abbia qualche debito, e non v'è alcuno per quanto povero dal quale non si possa talora prendere a prestito. La buona regola la insegna Platone nelle sue Leggi, quando ordina non si permetta ai vicini di attingere acqua nei pozzi propri se prima non abbiano scavato e zappato nei loro pascoli fino a trovare quella specie di terra che si chiama ceramita (cioè terra da vasi) e non vi abbiano trovato sorgente o scolo d'acqua. Quella terra infatti, per la sua sostanza che è grassa, forte, liscia e densa, trattiene l'umidità e non la lascia facilmente esalare. Ed è gran vergogna chieder a prestito sempre e dovunque e da chiunque, piuttosto che lavorare e guadagnare. Allora solamente, a mio giudizio, si dovrebbe prestare, quando una persona lavorando, non ha potuto guadagnare colla sua fatica, o quando improvvisamente abbia la disgrazia inopinata di perdere i suoi beni. Lasciamo dunque questo argomento e d'ora innanzi non vi fate creditori. Del passato vi assolvo.

- Il meno ch'io possa fare, disse Panurgo, in questa faccenda, sarà di ringraziarvi; e se i ringraziamenti devono essere commisurati all'affetto dei benefattori, vi ringrazierò infinitamente, sempiternamente; poiché l'amore che, grazia vostra, avete per me è inestimabile, trascende ogni peso, numero e misura: è infinito, sempiterno. Ma, commisurando il beneficio al calibro dell'utilità e della soddisfazione di chi lo riceve, dovrò ringraziarvi piuttosto fiaccamente. Voi molto mi beneficate, e bisogna pur che lo confessi, assai più che non mi tocchi, assai più dei servigi resivi, assai più che non comportino i miei meriti, ma non tanto in questo articolo debitoriale, quanto pensate. Oh, non è lì il mio male, non è lì il mio affanno, non è lì il prurito. E d'ora innanzi, sdebitato come sono, qual contegno tenere? Non ci sono avvezzo, che, non ci fui allevato, e i primi mesi, credete, temo assai che non ci farò bella figura.

Inoltre non nascerà scorreggia ormai, in tutto il territorio dei Salmigondini che non sia indirizzata al mio naso. Infatti tutti gli scorreggioni del mondo alzando la gamba dicono: Buona pei senza debiti! Oh non avrò vita lunga, lo prevedo. Vi raccomando l'epitaffio. E morirò appestato di scorreggie. Se un giorno come ricetta da far scorreggiare le buone donne afflitte da estrema passione di colica ventosa, i medici non ne avranno abbastanza delle medicine ordinarie, la mummia del mio porco e scorreggiato corpo verrà loro in buon punto. Per quanto poco ne prendano, scorreggeranno più che esse non vogliano. Onde vi pregherei che mi lasciaste almeno qualche centuria di debiti, come Luigi undecimo, avendo liberato da tutti i suoi processi Miles d'Illiers vescovo di Chartres, fu da lui sollecitato affinché gliene lasciasse almeno qualcuno per tenersi in esercizio. Preferisco rinunciar piuttosto a tutta la mia conchiglieria e insieme al mio maggiolinato, nulla togliendo tuttavia al patrimonio principale.

- Lasciamo quest'argomento, disse Pantagruele, ve l'ho già detto una volta.





CAPITOLO VI.



Perché gli sposi novelli erano esonerati dalla guerra.



- Ma, domandò Panurgo, in quale legge era ordinato e stabilito che fossero esonerati dall'andare in guerra pel primo anno coloro che avessero piantato di fresco un vigneto, coloro che avessero costruito casa nuova e gli sposi novelli?

- Nella legge di Mosè, rispose Pantagruele.

- E perché gli sposi novelli? domandò Panurgo. De' piantatori di vigneti non mi curo, son troppo vecchio; ammetto le preoccupazioni dei vendemmiatori; e quanto ai nuovi costruttori di pietre morte, essi non sono scritti nel mio libro di vita. Io non costruisco che pietre vive, cioè uomini.

- A mio giudizio, rispose Pantagruele, la ragione è questa: perché nel primo anno godessero dei loro amori a piacere, attendessero alla continuazione della stirpe, e facessero provvista d'eredi. Così almeno, se nel secondo anno fossero stati uccisi in guerra il nome e il blasone sarebbero rimasti ai loro figlioli. Inoltre si sarebbe conosciuto in modo certo se le spose erano sterili o feconde (la prova d'un anno sembrava loro sufficiente data l'età delle nozze) per meglio collocarle, dopo la morte de' primi mariti a seconde nozze: le feconde a coloro che volessero moltiplicazione di figli, le sterili a coloro che non ne desiderassero, che le volessero sposare per la loro virtù, sapere, buona grazia e solo per consolazione famigliare e per la cura della casa.

- I predicatori di Varennes, disse Panurgo, biasimano le seconde nozze come folli e disonorevoli.

- Le loro fiere febbri quartane! disse Pantagruele.

- Dello stesso avviso, disse Panurgo, era anche Frate Invaginante, il quale, predicando a Parillé e biasimando le seconde nozze, giurava di votarsi al più grosso diavolo d'inferno se non preferisse spulzellare cento vergini piuttosto che bischerare una vedova. Comunque la vostra ragione mi par buona e ben fondata. Ma non potrebbe darsi anche che l'esenzione fosse loro accordata per un'altra ragione? Cioè che i mariti durante quel primo anno s'abbandonavano (come il dovere e la giustizia volevano) a una tal bischerazione delle loro nuove spose e a un tale esaurimento dei vasi spermatici, da restarne tutti allampanati, smascolinati, snervati e sfiniti? In quello stato, il giorno della battaglia più facilmente eran disposti a tuffarsi come anitre, e a nascondersi tra i bagagli che a slanciarsi tra i combattenti e i valenti campioni, là dove Bellona muove il cozzo e dove fioccano i colpi. E quali colpi potevano menare sotto lo stendardo di Marte se i più gran colpi avevano tempestato sotto le cortine di Venere loro amica?

M'induce a credere così anche il fatto che, tra le altre reliquie e monumenti d'antichità, s'usa ancora nelle buone famiglie mandare i giovani mariti, dopo non so quanti giorni, a trovare lo zio, tanto per allontanarli dalle loro spose affinché si riposino e facciano provvista di nuove vettovaglie per meglio combattere al ritorno. E ciò pur non avendo né zio né zia. In simil guisa il re Petone, dopo la battaglia di Coinabons, non ci cacciò via propriamente, parlo di me e di Courcaillet, ma ci mandò a ristorarci nelle nostre case. Courcaillet sta ancora cercando la sua!

La madrina di mio nonno mi diceva quand'ero piccolo che:



Paternostro ed orazione

Buon prò a quelli che gl'infornano.

Un piffero che va alla fienagione,

Vale più di due che tornano.



M’induce a questa opinione il fatto che i piantatori di viti difficilmente assaggiavano uva, o bevevan vino di loro produzione, durante il primo anno; e i costruttori di case non le abitavano il primo anno quand’eran fresche sotto pena di morirvi soffocati per difetto d’aria, come dottamente ebbe a notare Galeno (lib. II. Intorno alla difficoltà di respirare). Tutto ciò non ho chiesto, senza causa ben causata, vi prego di credermi, né senza ragion ben ragionante e risonante, se non vi spiace.





CAPITOLO VII.



Come qualmente Panurgo aveva la pulce nell'orecchio e cessò di portare la sua magnifica braghetta.



L'indomani Panurgo si fece forare l’orecchio destro alla giudia e vi appese un anellino d'oro intarsiato con incastonatavi dentro una pulce.

Detta pulce, a scanso di equivoci, era nera. Gran bella cosa esser in ogni caso bene informati. La spesa pel mantenimento, iscritta a bilancio, non ammontava per trimestre niente più di quanto costi il matrimonio d'una tigre Ircana, vale a dire 600.000 maravedi. Di quella spesa così eccessiva si sdegnò, quando fu senza debiti e in seguito la nutrì come si nutrono tiranni e avvocati: del sudore e del sangue dei sudditi. Prese quattro braccia di bigello, se ne vestì come d'una tonaca lunga a semplice cucitura, cessò di portar le brache e attaccò un paio d'occhiali al suo berretto. Così acconciato si presentò a Pantagruele il quale trovò strano il trasvestimento, massimamente il non veder più la sua bella e magnifica braghetta che considerava, quasi ancora sacra, l’ultimo rifugio contro tutti i naufragi d'avversità.

Non comprendendo Pantagruele il mistero, lo interrogò, chiedendo che significasse quella nuova prosopopea.

- Ho la pulce all'orecchio, rispose Panurgo, voglio prender moglie.

- Oh, finalmente! disse Pantagruele. Ecco una notizia che mi fa piacere. Piacere così grande non mi darebbe tenere in mano un ferro rovente. Ma non è moda d'innamorati aver calate le brache e lasciar spenzolare la camicia sulle ginocchia senza braghetta! con una lunga tonaca di bigello di colore inusitato per tonache talari tra persone dabbene e virtuose. Se alcuni eretici e certe sette l'hanno adottate un tempo, benché molti l'abbiano attribuito a ciarlataneria, impostura e affettazione di dominio sul rozzo popolino, io non voglio tuttavia biasimarli e dar di ciò giudizio sinistro. Ciascuno esagera nel proprio senso, massimamente in cose superficiali, esterne e indifferenti; le quali di per sé non son buone né cattive, poiché non emanano dal nostro cuore o dal nostro pensiero, dov'è l'officina di ogni bene e di ogni male. Ed è bene se l'affezione è buona e regolata dallo spirito puro, male se l'affezione è fuor di giustizia, e depravata dallo spirito maligno. Solo mi spiace l'amor di novità e il dispregio dell'uso comune.

- Il colore, rispose Panurgo, è a proposito, questo è il mio ufficio che d'ora in avanti conserverò per sorvegliar da vicino i miei affari. Dal momento che sono sdebitato, non vedrete mai uomo sì poco piacevole quanto me, se Dio non m'aiuta. Ecco qua i miei occhiali. A vedermi di lontano mi prendereste propriamente per frate Jean Bourgeois. Credo che l'anno venturo predicherò una nuova crociata. Dio protegga da male le palle! Vedete questo bigello? Esso possiede, credete, proprietà occulte che pochi conoscono. L'ho indossato stamane per la prima volta e già mi struggo, guizzo, sfavillo, dall'uzzolo d'aver moglie e di darci dentro come un diavolo bigio addosso a mia moglie senza paura di legnate. Oh il gran uomo di casa che sarò! Mi faran bruciare, dopo morto, su rogo onorifico per aver le mie ceneri in memoria ed esempio dell'uomo di casa perfetto. Perdio! Che in questa mia tonaca-ufficio il mio cassiere non s'attenti a imbrogliare i conti che buoni cazzotti gli trotterebbero sul muso. Guardatemi davanti e di dietro: è la forma d'una toga, l’antico abbigliamento di Romani in tempo di pace. Ne ho copiato la forma sulla colonna traiana a Roma, e sull'arco trionfale di Settimio Severo. Sono stanco di guerra, stanco di saio, e di cotta d'armi. Ho le spalle tutte logore a forza d'indossare armature. Cedano l'armi, trionfino le toghe, almeno per tutto l'anno che viene, se sarò ammogliato, in omaggio alla legge mosaica che ieri mi allegaste.

Quanto alle brache la zia Lorenza mi diceva una volta ch'esse eran fatte per la braghetta. Ci credo. Con simile induzione il gentile burlone Galeno (lib. IX. Dell'uso delle nostre membra) afferma esser la testa fatta apposta per gli occhi. La natura, infatti, avrebbe potuto metterci la testa nei ginocchi o nei gomiti; ma fabbricando gli occhi per scoprir lontano, li fissò nella testa come sopra una pertica, al sommo del corpo: così vediamo i fari dei porti di mare essere eretti su alte torri perché la lanterna si possa vedere da lungi. E poiché vorrei per qualche tempo, un anno almeno, aver respiro dalla disciplina militare, cioè prender moglie, così non porto più braghetta, né, per conseguenza, brache. Infatti la braghetta è il primo pezzo dell'armatura per armare il guerriero. E io sostengo fino alla pena del fuoco (esclusa, intendete) che i Turchi non sono armati a modo, dacché il portar braghetta è proibito dalle loro leggi.





CAPITOLO VIII.



Come qualmente la braghetta è il primo pezzo dell'armatura dei guerrieri.



- Volete voi sostenere, disse Pantagruele, che la braghetta è il primo capo dell'armatura militare? È dottrina tutta paradossa e nuova. Infatti diciamo che si comincia ad armarsi dagli sproni.

- Lo sostengo, rispose Panurgo, e non a torto. Vedete come la natura volendo, dopo averli creati, perpetuare e tramandare in successione di tempo piante, alberi, arbusti, erbe e zoofiti, e fare sì che, se periscono gl'individui mai perisca la specie, armò stranamente germi e semenze nei quali la perpetuità loro è riposta; e li ha muniti e coperti con ammirabile industria di buccie, guaine, malli, noccioli, calicetti, gusci, spighe, pappi, scorze, ricci pungenti, che fanno loro da belle e forti braghette naturali. L'esempio è manifesto nei piselli, fave, fagioli, noci, albicocche, cotogne, coloquintide, frumento, papaveri, limoni, castagne, e generalmente in ogni pianta, dove vediamo chiaramente il germe e la semente esser più coperta, munita e armata che qualsiasi altra loro parte.

Non provvide natura parimenti alla perpetuità del genere umano. Anzi allo stato d'innocenza, nella prima età dell'oro, creò l'uomo nudo, tenero, fragile, senz'armi né offensive né difensive come animale, non pianta; come animale, dico, nato a pace, non a guerra, animale nato al godimento mirifico di tutti i frutti e le piante vegetali; animale nato al dominio pacifico su tutte le bestie. Seguita poi la moltiplicazione d'ogni malizia tra gli uomini, in seguito all'età del ferro e al regno di Giove, la terra cominciò a produrre ortiche, cardi, spine, e simili altre sorta di ribellione dei vegetali contro gli uomini. D'altra parte quasi tutti gli animali, per fatale disposizione, si emanciparono da lui e insieme tacitamente cospirarono di non più servirlo, non più obbedirgli, finché potessero resistergli; ma nuocergli secondo la loro facoltà e potenza. Onde l'uomo, volendo conservare quel primitivo godimento, e continuare il primitivo dominio, non potendo senza scomodo rinunziare ai servigi di molti animali, fu costretto ad armarsi di nuovo.

- Per la divina oca di Guenet, esclamò Pantagruele, dall'ultime pioggie in qua mi ti sei fatto un gran lifrilofro... un filosofo, volevo dire.

- Considerate, disse Panurgo, come natura ispirò all’uomo di armarsi e qual parte del suo corpo cominciò primamente ad armare. I coglioni, perdio, ed il buon messer Priapo dopo fatto non la pregò più.

Così ci attesta il capitano e filosofo ebreo Mosè affermando che si armò di una brava e galante braghetta, fatta, con assai bella invenzione, di foglie di fico; le quali sono naturali e per durezza, taglio, fregi, levigatezza, grandezza, colore, odore, virtù e facoltà, in tutto comode per coprire e armare coglioni. Eccettuate tuttavia gli orrifici coglioni di Lorena, i quali scendendo a briglia sciolta al fondo delle brache, aborrono il maniero delle braghette alte ed esorbitano da ogni metodo. Prova ne sia Viardière, il nobile valentino che trovai un primo maggio, a Nancy intento a farsi bello nettandosi i coglioni, distesi sopra una tavola, come una cappa spagnuola.

Dunque non si dovrà dire d'ora innanzi, chi non voglia parlare impropriamente, quando si manderà il francotopino in guerra: Salva, Stevotto il vaso del vino, cioè la zucca; bisogna dire: Salva, Stevotto il vaso del latte, cioè i coglioni, per tutti i diavoli d'inferno! Perduta la testa non perisce che la persona, ma perduti i coglioni perirebbe tutta l'umana natura. Da ciò è mosso il galante Cl. Galeno (lib. I, de Spermate) a concludere bravamente che meglio, cioè minor male sarebbe esser sprovvisto del cuore che degli organi genitali, dove è riposto, come in un sacro reliquiario, il germe conservativo dell'umano lignaggio. E son disposto a credere, per meno di cento franchi, che son quelle le pietre mediante le quali Deucalione e Pirra rigenerarono la razza umana distrutta dal diluvio poetico. Ed è ciò che induce il valoroso Giustiniano (lib. IV. de Cagotis tollendis) a mettere summum bonum in braguibus et braguetis.

Per questa e altre ragioni il signore di Merville provando un giorno un'armatura nuova per seguire il suo re in guerra, poiché della vecchia, mezzo arrugginita, non poteva più ben servirsi essendoglisi da qualche anno la pelle del ventre di molto allontanata dai rognoni, la sua donna considerò con spirito contemplativo che poca cura aveva avuto del pacchetto e del bordone comune del loro matrimonio, avendolo egli munito di sola maglia; ond'ella suggerì che meglio lo munisse e gabbionasse con un grosso elmo da giostra che giaceva inutile nella sua camera. Di lei parlano i seguenti versi del terzo libro dello Smerdamento delle vergini là dove si dice che ella:



Lo sposo suo vedendo, a guerra avviato

Tutto difeso, meno la braghetta,

"Salva, disse, la parte prediletta,

Arma anche lui, che non mi sia toccato".

Dev'esser tal consiglio biasimato?

Mainò! Che assai temeva fatal lotta,

Vedendolo sì acceso ed animato,

Al buon boccone ond'era tanto ghiotta.



Desistete dunque dal meravigliarvi di questo mio nuovo abbigliamento.





CAPITOLO IX.



Come qualmente Panurgo si consiglia con Pantagruele per sapere se deve ammogliarsi.



Poiché Pantagruele nulla rispondeva, Panurgo continuò e disse con profondo sospiro:

- Signore, avete inteso la mia risoluzione: ho deliberato di ammogliarmi salvo il caso che siano per mala ventura, sbarrati, chiusi e tappati tutti i buchi. Per l'amore che sì lungo tempo aveste per me, ditemi, vi supplico, il vostro avviso.

- Poiché, rispose Pantagruele, avete tratto il dado, e così avete deciso e fermamente risoluto, non occorre più parlarne; non resta che procedere alla esecuzione.

- Ma, disse Panurgo, nulla vorrei eseguire senza vostro consiglio e buon avviso.

- Del vostro avviso sono, rispose Pantagruele, e ve lo consiglio.

- Ma, disse Panurgo, se voi conosceste esser meglio per me restare come sono, senza avventurarmi a novità, preferirei non prendere moglie.

- Moglie dunque non prendete, rispose Pantagruele.

- Ma, disse Panurgo, vorreste voi che rimanessi soletto tutta la vita senza coniugal compagnia? Ben sapete che fu scritto: Vae soli! L'uomo solo non ha mai il sollievo che ha lo sposato.

- Sposato siate dunque, perdio, rispose Pantagruele.

- Ma se, disse Panurgo, la donna mia mi facesse becco (e voi sapete che abbondante raccolto ne abbiamo quest'anno) ciò basterebbe a farmi uscir dai gangheri della pazienza. Non voglio male ai becchi, no; mi sembrano brave persone e le frequento volentieri; ma, a costo di morire, non vorrei essere dei loro. Troppo a me questo punto punge.

- Punto, dunque non vi sposate, rispose Pantagruele; poiché vera e senza eccezione è la sentenza di Seneca che dice: ciò che ad altri avrai fatto, sarà fatto a te.

- Senza eccezione, dite? domandò Panurgo.

- Senza eccezione, dice Seneca, rispose Pantagruele.

- Oh, Oh! disse Panurgo, corpo d'un piccolo diavolo! Ma egli deve intendere: o in questo mondo, o nell'altro. E dacché io senza donna non so stare, più che cieco senza bastone (bisogna ben far trottare il bischero, se no, come vivere, perdio!) non è meglio dunque che m'associ a una onesta e savia donna invece di mutare ogni giorno come faccio, con rischio continuo di legnate e, peggio, di bubboni? Poiché le mogli d'altri, quando son dabbene, non valgono una patacca, non se l'abbiano a male i lor mariti.

- Maritatevi dunque, perdio, rispose Pantagruele.

- Ma se, disse Panurgo, sposassi una donna dabbene (così Dio volesse) e poi mi picchiasse, sarei più paziente di Giobbe a non montar su tutte le furie. Infatti m'han detto che coteste donne tanto dabbene hanno comunemente la testa matta, per ciò è buon aceto in casa loro. Ed io l'avrei anche più matta e tanto e stratanto gli picchierei la sua piccola oca (cioè braccia, gambe, testa, polmoni, fegato e milza) e tanto maledettamente gli frantumerei le vesti a forza di legnate che l'arcidiavolo aspetterebbe alla porta la sua anima dannata. Di tali trambusti farei volentieri a meno per quest'anno e sarei contento di non entrarvi punto.

- Punto dunque non v'ammogliate, rispose Pantagruele.

- Ma se, disse Panurgo, nello stato in cui sono, senza debiti e non sposato... (notate che ho detto senza debiti per mia mala sorte. Infatti essendo ben carico di debiti, i miei creditori si darebbero la massima cura di mia Paternità). Ma pari con tutti e senza moglie, non ho alcuno che si curi di me e mi porti amore tale quale dicono essere l'amore coniugale. E se per caso cadessi malato, non sarei trattato che a rovescio. Il saggio dice: Là dove non è donna (madre di famiglia, intendo, e moglie legittima) il malato è in gran pericolo. Ne ho visto chiara prova in papi, legati, cardinali, vescovi, abati, priori, preti e monaci. Ora non io vorrò mai ridurmi in quello stato.

- Stato coniugale cercate dunque perdio, rispose Pantagruele.

- Ma se, disse Panurgo, essendo malato e impotente al dovere maritale, la mia donna, insofferente di tal languore, s'abbandonasse ad altri e non solamente non mi soccorresse in caso di bisogno, ma si burlasse anche della mia calamità e, ch'è peggio, mi derubasse, come ho visto spesso avvenire, finirei per impiccarmi e correre pei campi in farsetto.

- Non sposatevi dunque, rispose Pantagruele.

- Ma allora, disse Panurgo, non avrei mai figli né figlie legittimi, nei quali sperar di perpetuare il nome ed il blasone: ai quali lasciar l'eredità e i nuovi acquisti (ne farò di belli una di queste mattine, non dubitate, e purgherò per giunta i miei beni da ogni aggravio) e coi quali rallegrarmi quando sia malandato, come vedo fare ogni giorno al vostro tanto benevolo e buon padre con voi e come fanno tutte le persone dabbene tra le pareti domestiche. E così, essendo senza debiti, senza moglie e per avventura di malumore, parmi che invece di consolarmi del mio mal ridiate.

- Maritatevi dunque, perdio, rispose Pantagruele.





CAPITOLO X.



Come qualmente Pantagruele ammonisce Panurgo difficil cosa essere dar consigli sul matrimonio; e considerazioni sui responsi omerici e virgiliani.



- I vostri consigli, disse Panurgo, somiglian pressapoco alla favola del Signor Intento: non sono che sarcasmi, canzonature, paranomasie, epanalessi, e ripetizioni contradditorie. Le une distruggono le altre, né so a quale tenermi.

- Ma nelle vostre domande, rispose Pantagruele, vi sono tanti se, e ma, che non saprei dove fondarmi per risolvere qualche cosa. Non siete sicuro della vostra volontà? Qui è il punto principale. Tutto il resto è fortuito e dipende dalle fatali disposizioni del cielo. In questa faccenda vediamo molti così felici, che nel loro matrimonio sembra risplendere una idea e figurazione delle gioie del paradiso. Altri sono così infelici, che più non sono i diavoli che tentano gli eremiti nei deserti della Tebaide e di Monserrato. Se uno vuol tentare, convien fidarsi alla ventura, bendarsi gli occhi, bassar la testa, baciar la terra, e, quanto al resto, raccomandarsi a Dio. Altro affidamento non saprei darvi.

Ora vedete, se utile vi sembra, ciò che avete a fare. Portatemi le opere di Virgilio e aprendole coll'unghia per tre volte dal verso corrispondente a un numero tra noi prefisso, esploreremo la sorte futura del vostro matrimonio. Infatti dai responsi di Virgilio, come da quelli omerici, spesso è stato predetto il destino. Lo provò Socrate, il quale, udendo in prigione recitare questo verso d'Omero, riferito ad Achille: (Iliade, IX, 362)



Emati ken tritato Fthien erisolon ikoimen

"Nel terzo giorno arriverò a Ftia di larghe zolle".



presagì che sarebbe morto tre giorni dopo e ne assicurò Eschine, come raccontano Platone nel Critone, Cicerone nel I°, De Divinatione, e Diogene Laerzio. Lo provò anche Opilio Macrino, il quale, desiderando sapere se sarebbe stato imperatore di Roma, ebbe questo responso: (Iliade, VIII, 102)



O gheron, e mala de se neoi teirusi machetaì.

Se de bie lelytai, chalepòn de se gheras opaxei.

"O vecchio, assai, certamente, ti travagliano i giovani combattenti, la tua forza è già debilitata e vecchiezza grave ti insegue."



E infatti, già vecchio, tenne l'impero solamente un anno e due mesi e fu spodestato e ucciso da Eliogabalo giovane e forte.

Lo provò anche Bruto, il quale volendo conoscere la sorte della battaglia farsalica, dove fu ucciso, incontrò questo verso riferito a Patroclo: (Iliade, XVI, 849).



Allà me moir'oloe, kai Letùs ektanen uiòs.

"Ma il pernicioso fato e il figlio di Latona mi uccisero."



E Apollo, fu la parola d'ordine in quella battaglia.

Anche per responsi virgiliani sono state conosciute e prevedute anticamente cose insigni e casi di grande importanza, persino l'assunzione all'impero romano, come avvenne ad Alessandro Severo cui sortì, nel modo indicato, questo verso: (Eneide, VI, 851).



Tu regere imperio populos, Romane, memento.



Tu con l'impero i popoli governa, Romano.



Infatti dopo alcuni anni fu realmente creato imperatore di Roma.

Lo stesso avvenne ad Adriano, imperatore romano, il quale essendo in dubbio e in pena sull'opinione e l'affezione che avesse per lui Traiano, consultò la sorte virgiliana e incontrò questi versi: (Eneide, VI, 809).



Quis procul, ille autem ramis insignis divae,

Sacra ferens? Nosco crines, incanaque menta

Regis Romani.



Ma là presso chi è, cinto de' rami

de l'olivo, che porta i sacri arredi?

Conosco il crine ed il canuto mento

del re romano...



E infatti poi fu adottato da Traiano e gli succedette nell'impero.

A Claudio secondo, imperatore ben lodato di Roma, sortì questo verso: (Eneide, I, 269).



Tertia dum Latio regnantem viderit aestas.



Fin che la terza estate abbia veduto

lui nel Lazio regnare...



E infatti non regnò che due anni.

Allo stesso, interrogante a proposito di suo fratello Quinto, che voleva assumere il governo dello impero, toccò questo verso: (Eneide, VI, 869)



Ostendent terris hunc tantum fata.



I fati al mondo il mostreranno solo

e più nol patiranno vivo.



E ciò avvenne. Infatti fu ucciso diciassette giorni dopo che ebbe il maneggio dell'impero.

La stessa sorte toccò all'imperatore Gordiano il giovane.

A Claudio Albino, curioso d'intendere la sua buona ventura, toccò quanto segue: (Eneide, VI, 858)



Hic rem Romanam magno turbante tumultu

Sistet eques, etc.



In gran fortuna

Ei terrà salde le romane cose,

prostrerà cavalcando i Peni e il Gallo

ecc. ecc.

D. Claudio, imperatore prima di Aureliano, chiedendo de' posteri suoi, ebbe in sorte questo verso: (Eneide, I, 278)



His ego nec metas rerum nec tempora pono.



A costoro né termine di cose

io pongo, né di tempo.....



Ed ebbe infatti lunga genealogia di successori.

Il signor Pietro Amy quando volle sapere se sarebbe sfuggito alle insidie dei folletti incontrò questo verso: (Eneide, III, 44)



Heu! fuge crudeles terras, fuge littus avarum.



... Ahi! fuggi fuggi

queste crudeli terre e il lido avaro.



Egli infatti scampò dalle loro mani sano e salvo.

Sarebbe troppo lungo narrare le avventure toccate a mille altri, secondo le sentenze dei versi incontrati per sorte.

Non voglio tuttavia inferirne che tal modo di sorte sia infallibile sempre, affinché non siate ingannati.





CAPITOLO XI.



Come qualmente Pantaguele dimostra la sorte dei dadi essere illecita.



- La faccenda, disse Panurgo, sarebbe sbrigata più in fretta con tre bei dadi.

- No, rispose Pantagruele, questa sorte è fallace, illecita e grandemente scandalosa. Non ve ne fidate mai. Il maledetto libro: Il Passatempo dei dadi fu inventato, sono ormai molti anni, dal nemico demonio in Acaia presso Bura. Là, davanti alla statua di Ercole Buraico, come ora, in parecchi luoghi, molte anime semplici esso demonio faceva errare e cadere nelle sue reti. Voi sapete come Gargantua, mio padre, l'abbia proibito in tutti i suoi reami e bruciato con tutti gli stampi e disegni e sterminato e soppresso e abolito come peste pericolosissima. Ciò che dico dei dadi, dico parimenti degli aliossi. Anche queste sono sorti abusive. E non m'obbiettate il fortunato getto di aliossi di Tiberio nella fontana di Abano all'oracolo di Gerione. Questi non sono altro che ami pei quali il demonio trae le anime semplici a perdizione eterna.

Tuttavia, per contentarvi, consento che gettiate tre dadi su questa tavola. Il numero dei punti che sortirà, indicherà il verso della pagina che aprirete. Avete dadi nella borsa?

- Una saccoccia piena, disse Panurgo. I dadi sono il verde del diavolo, come dimostra Merlin Coccaio nel libro secondo De Patria diabolorum. Il diavolo mi coglierebbe senza verde se m'incontrasse senza dadi.

Estratti e tratti i dadi, segnarono: cinque - sei - cinque.

- Sedici, disse Panurgo. Prendiamo dunque il sedicesimo verso della pagina. Il sedici mi piace e credo ci porterà fortuna. Io mi scaravento attraverso a tutti i diavoli come una palla attraverso berilli, o come una cannonata attraverso un battaglione di soldati (attenti a voi, o diavoli, diavolo avvisato mezzo salvato!) se non ci pianto sedici belle fregataccie alla mia futura sposa la prima notte del matrimonio.

- Non lo metto in dubbio, disse Pantagruele, senza bisogno di far voti così grossi. Alla prima però farete cilecca, quindi si ridurranno a quindici. Farete poi ammenda nell'alzarvi, e in questo modo torneranno sedici.

- Ah, così l'intendete voi! protestò Panurgo. Mai e poi mai fu fatto solecismo dal valente campione cui ho data consegna di far la sentinella al basso ventre. M'avreste voi trovato nella confraternita dei cileccanti? Mai e poi mai, sempiternamente mai. Io mi conduco da buon padre, da beato padre: infallibile? me ne appello ai giuocatori.

Dopo queste parole furono portate le opere di Virgilio. Prima di aprirle Panurgo disse a Pantagruele:

- Il cuore mi batte in petto a martello. Tastate qua il polso, a quest'arteria del braccio sinistro: alla precipitazione ed elevazione direste ch'io sia sferzato negl'interrogatori di Sorbona. Non vi pare che, prima di proceder oltre, sarebbe utile invocare Ercole e le dive Teniti che presiedono, a quando dicesi, la Camera delle sorti?

- Né l'uno, né l'altro, rispose Pantagruele. Basta aprir qui coll'unghia.





CAPITOLO XII.



Come qualmente Pantagruele esplora mediante versi virgiliani la sorte del matrimonio di Panurgo.



Panurgo aprì dunque il libro e incontrò alla sedicesima linea questo verso:



Nec Deus hunc mensa, Dea nec dignata cubili est.



Niun dio lo volle ammettere a sua mensa

Né alcuna dea nel letto.



- Ciò non suona a vostro favore, disse Pantagruele. Denota che vostra moglie sarà bagascia e, per conseguenza, voi becco. La dea che non vi sarà favorevole è Minerva, vergine molto temuta, ben potente, saettante, nemica dei becchi, dei bellimbusti, degli adulteri: nemica delle femmine lubriche, di quelle che non tengono la fede promessa ai mariti, di quelle che si concedono ad altri.

Il dio è Giove, signore dei tuoni e fulmini del cielo. Notate che, secondo la dottrina degli Etruschi, i manubi (così denominavano il lancio delle folgori di Vulcano) competono solo a Minerva (esempio la conflagrazione delle navi di Aiace Oileo) e a Giove, genitore suo per via di testa. Agli altri dei dell'Olimpo non è lecito fulminare, onde essi non sono tanto temuti dagli uomini. Vi dirò di più, e ritenetelo come estratto d'alta mitologia. Quando i Giganti impresero guerra contro gli dei, gli dei, al principio, si burlarono di tali nemici dicendo che non era pan pei loro denti, ma, tuttalpiù, pei loro paggi. Ma quando videro il monte Pelio, per opera dei Giganti sovrapposto al monte Ossa e il monte Olimpo già scosso per esser posto sugli altri due, ne furono atterriti. Giove allora convocò il capitolo generale e fu deliberato di mettersi vigorosamente alla difesa. E poiché avevano più volte visto le battaglie esser perdute causa gl'impedimenti delle femmine mescolate agli eserciti, fu decretato che allora tutta la scorreggiaglia delle dee sarebbe stata cacciata dal cielo in Egitto, verso i confini del Nilo, convertite in donnole, faine, pipistrelli, museràgnoli e altre metamorfosi. Sola Minerva fu trattenuta quale dea di lettere e di guerra, di consiglio e d'azione; dea nata armata, dea temuta in cielo, nell'aria, sul mare e sulla terra.

- Ventre su ventre! disse Panurgo sarei dunque io il Vulcano di cui parla il poeta? No. Io non sono né zoppo, né falso monetario, né fabbro come lui. Potrà darsi che mia moglie abbia a essere bella e avvenente al pari della sua Venere, ma non come lei bagascia, né io, come lui, becco. Quel villan gambastorta si fece dichiarar becco per decreto al cospetto di tutti gli dei. Perciò dovete interpretare a rovescio: il verso vuol indicare che mia moglie sarà savia, pudica, leale, non armata, bisbetica, né scervellata ed estratta dal cervello come Pallade; né sarà mio rivale il bel Giovettino, né verrà no a inzuppare il suo pane nella mia scodella, quando avessimo a sedere a tavola insieme. Considerate le sue gesta e belle imprese. Egli fu il più gran ruffiano il più infame cor.... voglio dir bordelliere che fosse mai, sempre in fregola come un verro; tant'è che fu nutrito da una troia a Ditte in Candia, se Agatocle di Babilonia non mente. Egli è più capronesco d'un caprone; tant'è, come dicono altri, che ha allattato da una capra: Amalteia. Virtù d'Acheronte! Egli montò in un giorno la terza parte del mondo, bestie e genti, fiumi e montagne, vale a dire Europa. Per questo montare gli Ammonii lo facevano rappresentare in figura di montone montante, montone cornuto. Ma io ben so come convien difendersi da questo cornifero. Credete pure che non troverà in me né un sciocco Anfitrione, né un ingenuo Argo co' suoi cento occhiali, né un codardo Acrisio, né il lanterniere Lico di Tebe, né il farneticante Agenore, né il flemmatico Asopo, né Licaone zampapelosa, né un tangheraccio Corito di Toscana, né Atlante dalla vasta schiena. Egli potrebbe cento e cento volte trasformarsi in cigno, in toro, in satiro, in oro, in cuculo come quando spulzellò Giunone sua sorella; in aquila, in montone, in piccione, come quando s'innamorò della vergine Etia, abitante di Egia; in fuoco, in serpente, o magari in pulce, o in atomi epicurei o, magistronostralmente in seconde intenzioni, ma io ve lo acciufferò col rampino. E sapete ciò che gli farò? Quello, corpo di bio, che fece Saturno a Urano suo padre. Seneca di me l'ha predetto e Lattanzio confermato: ciò che fece Rhea ad Athis: gli taglierò i coglioni raso netto fino al culo che non vi resti un peluzzo. Per la qual ragione non sarà mai papa poiché testiculos non habet.

- Adagio, ragazzo, disse Pantagruele, adagio. Aprite una seconda volta.

Panurgo allora incontrò questo verso:



Membra quatit, gelidusque coit formidine sanguis



Rompe le membra e il sangue gli si gela

Dallo spavento.....



- Denota, disse Pantagruele, ch'essa vi picchierà davanti e di dietro.

- Al contrario, il pronostico si riferisce, a me, disse Panurgo, io sì che la picchierò come una tigre, se mi fa arrabbiare. Martin bastone servirà all'uopo e, in mancanza di bastone, il diavolo mi mangi se non la mangerei viva come Camble re dei Lidi mangiò la sua.

- Voi siete ben coraggioso, disse Pantagruele; Ercole non vorrebbe affrontarvi così infuriato. È ben vero ciò che si dice: che un Gianni vale per due; ed Ercole non osò mai combatter solo contro due.

- Io becco? disse Panurgo.

- Ma no, ma no, rispose Pantagruele, pensavo al gioco del trictrac.

Alla terza prova Panurgo incontrò questo verso:



Foemineo predae et spoliorum ardebat amore.



Denota, disse Pantagruele, ch'essa vi deruberà. E stando a questi tre presagi, vi vedo conciato per bene: becco, bastonato, derubato.

- È proprio il contrario, rispose Panurgo. Questo verso denota che mi amerà d'amore perfetto. Non mente il Satirico quando dice che donna accesa d'amore supremo si compiace talora di derubare l'amico suo. Ma sapete di che? D'un guanto, d'una stringa, per farglieli cercare. Bagattelle, dei nonnulla senza importanza. Parimenti quei piccoli bisticci, quei battibecchi che sorgono per breve tempo fra amanti sono nuovi rinfrescamenti e pungoli d'amore, al modo stesso che noi vediamo per esempio i coltellinai martellare qualche volta la loro cote per meglio aguzzare i ferri. Onde io interpreto le tre predizioni grandemente a mio favore. Altrimenti ricorro in appello.

- Il ricorso, contro giudizi dati per sorte e fortuna, non è mai ammesso, disse Pantagruele, come attestano i nostri antichi giureconsulti e come dice Baldo (L. ult C. de leg.). E ciò perché la fortuna non riconosce alcun tribunale superiore al quale appellarsi contro di lei e i suoi presagi. E non può in questo caso il minore essere restituito nel suo intero come egli dice apertamente, in l. ait praetor, § ult. ff. de Minor.





CAPITOLO XIII.



Come qualmente Pantagruele consiglia Panurgo a prevedere per via di sogni la buona o cattiva fortuna del suo matrimonio.



- Poiché non concordiamo nell'esposizione dei presagi virgiliani, prendiamo altra via di divinazione.

- Quale? domandò Panurgo

- Buona, antica, autentica, rispose Pantagruele: per sogni. Infatti sognando, nelle condizioni descritte da Ippocrate (lib. Peri enypnion) Platone, Plotino, Jamblico, Sinesio, Aristotele, Senofonte, Galeno, Plutarco, Artemidoro di Daldi, Erofilo, Quinto Calabro, Teocrito, Plinio, Ateneo e altri, l'anima spesso prevede le cose future. Non ho bisogno di provarlo. Voi l'intenderete per esempio volgare: quando i bimbi ben puliti, ben pieni, ben allattati, dormono profondamente, le nutrici se ne vanno a divertirsi in libertà come licenziate a fare in quell'ora ciò che vogliano, poiché la loro presenza intorno alla culla sembra inutile. Allo stesso modo la nostra anima, quando il corpo dorme e la concezione è terminata per tutto, nulla più essendo necessario fino al risveglio, va a divertirsi e a rivedere la patria sua, il cielo. Là riceve partecipazione insigne della sua prima e divina origine, là può contemplare l'infinita sfera dell'Intelligenza il centro della quale è in ogni luogo dell'universo, la circonferenza non esiste (è Dio secondo la dottrina di Hermes Trimegisto). Ivi nulla avviene, nulla passa, nulla decade, tutti i tempi sono presenti ed ivi l'anima nota non solo le cose passate e i movimenti inferiori, ma anche le future, e riportandole al corpo e pei sensi e organi di esso riferendole agli amici è detta vaticinatrice e profetica.

Vero è ch'essa non rispecchia le sue visioni con la limpida sincerità come le apparvero, causa l'imperfezione e fragilità dei sensi corporali, al pari della luna che ricevendo dal sole la sua luce non ce la riflette tale, tanto lucida, tanto pura, viva e ardente come l'aveva ricevuta. Pertanto alle vaticinazioni somniali occorre interprete destro, saggio, industrioso esperto, razionale e assoluto onirocrita e oniropola. Così son chiamati dai greci gl'interpreti di sogni. Ond'è che Eraclito affermava nulla per sogni esserci esposto, nulla celato; ma solo esserci dato un indizio delle cose avvenire, e per fortuna o disgrazia nostra o d'altrui. Testimoniano ciò i libri sacri, comprovano le storie profane, esponendoci mille casi avvenuti secondo i sogni, tanto alla persona sognante quanto ad altri.

Gli Atlantici e quelli che abitano l'isola di Tsao, una delle Cicladi, sono privi di questa comodità poiché in quei paesi nessuno mai sognò. Parimente non sognarono mai Cleonte di Daulia, Trasimede, e al nostro tempo il dotto francese Villanovano.

Domani dunque, all'ora che la gioiosa Aurora dalle dita di rosa scaccerà le tenebre notturne, datevi a sognare profondamente. Intanto spogliatevi di ogni affezione umana, d'amore, di odio, di speranza e timore. Poiché come avveniva un tempo al grande vaticinatore Proteo, il quale mentre era convertito e trasformato in fuoco, in acqua, in tigre, in drago e altre strane forme, non poteva predire le cose future, ma, per predirle, gli era forza restituirsi nella sua propria forma nativa, così non può l'uomo ricevere divinità e arte di vaticinare se la parte ch'è in lui più divina (la nous o mens) non sia quieta, tranquilla, in pace, non occupata, né distratta da passioni e affezioni esterne.

- Lo voglio bene, disse Panurgo. Questa sera converrà mangiar poco o molto a cena? Non lo domando senza ragione. Poiché se non ceno bene e copiosamente non dormo a modo e la notte non faccio che farneticare e sognare a vuoto quanto più vuoto è il ventre.

- Non cenare affatto sarebbe il meglio, rispose Pantagruele, data la vostra floridezza e abitudine.

Anfiarao vaticinatore antico, voleva che coloro i quali ricevevano per sogni i suoi oracoli, non mangiassero tutto quel giorno e non bevessero vino tre giorni avanti.

Noi non useremo dieta sì estrema e rigorosa. Credo che l'uomo rimpinzato di cibo e avvinazzato difficilmente concepisca notizia di cose spirituali; non sono tuttavia dell'opinione di coloro che dopo lunghi e ostinati digiuni credono penetrare più a fondo nella contemplazione delle cose celesti.

Ricorderete che Gargantua mio padre, che a titolo d'onore nomino, diceva spesso come gli scritti degli eremiti digiunatori fossero scipiti, digiuni e mal salivati come i loro corpi quando scrivevano, ed asseriva esser difficil cosa che restino buoni e sereni gli spiriti quando soffrano i corpi d'inanizione; poiché, come affermano filosofi e medici, gli spiriti animali scaturiscono, nascono, operano per via del sangue arterioso, purificato e affinato a perfezione dentro il reticolato meraviglioso che giace sotto i ventricoli del cervello.

Egli ci offriva l'esempio d'un filosofo che pensa essere in solitudine e fuor della turba per meglio commentare, discorrere e comporre, mentre tuttavia intorno a lui abbaian cani, ululano lupi, ruggiscono leoni, nitriscono cavalli, barriscono elefanti, sibilano serpenti, ragliano asini, cantano cicale, gemono tortorelle; vale a dire ch'è più disturbato che se fosse alla fiera di Fontenay o di Niort, poiché la fame è nel suo corpo; per rimediare alla quale lo stomaco abbaia, la vista abbaglia, le vene succhiano della sostanza propria degli organi carniformi e traggono giù lo spirito vagabondo che trascura la nutrizione del suo bimbo e ospite naturale, il corpo: così come il falcone che issato sul pugno volesse lanciarsi a volo nell'aria e incontinente fosse da una cordicella, tratto più basso. E a questo proposito egli allegava l'autorità d'Omero padre di ogni filosofia, il quale racconta che i Greci cessarono le lagrime per il compianto di Patroclo il grande amico d'Achille allorquando, e non prima, la fame si manifestò e i loro ventri protestarono di non poter più fornir loro lagrime. Infatti in corpo debilitato da troppo lungo digiuno, non restava più di che piangere e lagrimare.

La moderazione è in ogni caso lodata e qui la seguirete. Mangerete a cena non fave, ma neanche lepri né altra carne; non seppie, nominate polipi, non cavoli, né altre vivande che possano turbare e offuscare i vostri spiriti animali. Poiché come lo specchio non può riflettere le immagini delle cose messegli davanti se la limpidezza è offuscata dal fiato o dal tempo nebuloso, così lo spirito non riceve le forme di divinazione per sogni se il corpo è inquieto e turbato dai vapori e fumi delle vivande precedenti, a causa della simpatia la quale è tra corpo e spirito indissolubile.

Voi mangerete delle buone pere crustumie e bergamotte, una mela dal picciolo corto, qualche prugna di Tours, qualche ciliegia del mio verziere. E non c'è ragione di temere che i vostri sogni riescano dubbiosi, fallaci, o sospetti, come hanno dichiarato alcuni peripatetici esser quelli del tempo d'autunno, quando cioè gli uomini si nutrono più copiosamente di frutta che nell'altre stagioni. Anche gli antichi poeti e profeti ciò misticamente ci insegnano dicendo che i sogni vani e fallaci giacciono e sono nascosti sotto le foglie cadute in terra, poiché nell'autunno le foglie cadono dagli alberi. Infatti il fervor naturale che abbonda nei frutti nuovi e che per via d'ebollizione facilmente evapora in parti animali (come vediamo del mosto) è ormai da lungo tempo spirato e finito. Per bere poi, bell'acqua della mia fontana.

- Questa condizione è duretta, disse Panurgo. Vi consento tuttavia checché mi costi, checché valga. Farò colazione poi domattina di buon'ora, subito dopo le mie sognerie. Tuttalpiù mi raccomando alle due porte d'Omero, a Morfeo, a Icelo, a Fantasio e a Fobetor. Se m'aiutano e soccorrono al mio bisogno, erigerò loro un giocondo altare tutto composto di piuma fina. Se fossi in Laconia nel tempio di Ino, fra Detile e Talame, dormendo immerso in sogni belli e gioiosi, la mia perplessità sarebbe da essa risolta.

Poi domandò a Pantagruele:

- Non sarebbe bene mettere sotto il cuscino qualche ramo d'alloro?

- Non occorre disse Pantagruele. È cosa superstiziosa; non è che imbroglio ciò che n'hanno scritto Serapione di Ascalona, Antifonte, Filocoro, Artemone, e Fulgenzio Planciada. Altrettanto dirò della spalla sinistra del coccodrillo e del camaleonte con tutto il rispetto pel vecchio Democrito. Altrettanto anche della pietra dei Battriani nominata Eumetride. Altrettanto del corno di Ammone, come chiamano gli Etiopi una pietra preziosa di color d'oro e in forma di corno di montone com'è il corno di Giove Ammone; i quali Etiopi affermano esser veri e infallibili i sogni di chi la porta indosso non meno degli oracoli divini. Per avventura ciò scrivono Omero e Virgilio delle due porte di sogni alle quali vi siete raccomandato. Una è d'avorio ed entrano per essa sogni confusi, fallaci e incerti: poiché attraverso l'avorio, per quanto sottile, non è possibile vedere, impedendo la sua densità e opacità la penetrazione degli spiriti visivi e la ricezione delle specie visibili. L'altra è di corno, ed entrano per essa sogni certi, veri e infallibili, poiché attraverso il corno, grazie al suo splendore e diafanità, appariscono certe e distinte tutte le immagini.

- Voi volete inferire da ciò, disse Fra Gianni, che son sempre veri e infallibili i sogni dei becchi cornuti, come sarà Panurgo coll'aiuto di Dio, e di sua moglie.





CAPITOLO XIV.



Il sogno di Panurgo e l'interpretazione di esso.



Verso le sette del mattino seguente, Panurgo si presentò a Pantagruele. Erano nella camera Epistemone, Fra Gianni degli Squarciatori, Ponocrate, Eudemone, Carpalim e altri. All'arrivo di Panurgo Pantagruele disse loro:

- Ecco qua il nostro sognatore!

- Questo titolo, disse Epistemone, costò molto e fu venduto a caro prezzo ai figli di Giacobbe.

- Io sono bene da Guillott il sognatore, disse Panurgo. Ho sognato quanto lui e più, ma non v'intendo nulla, eccetto che nelle mie sognerie avevo una moglie giovane, galante, bella alla perfezione, la quale mi trattava e manteneva graziosamente come il suo cocchetto. Mai uomo si trovò meglio e più allegramente. Mi accarezzava, mi titillava, mi pettinava, mi tastava, mi baciava, mi abbracciava, e, per divertimento mi faceva due bei cornettini sulla fronte. Io le rimostrava scherzando che avrebbe dovuto mettermeli al disotto degli occhi per meglio vedere ciò che avrei dovuto colpire, affinché Momo non trovasse in lei cosa alcuna imperfetta e degna di correzione com'egli fece nella collocazione delle corna bovine. La pazzerella nonostante la rimostranza, me le cacciava ancora più su. E, cosa ammirabile, non mi faceva con questo alcun male. Poco dopo mi sembrò ch'io fossi, non so come, trasformato in tamburino e lei in civetta. In quel punto il sonno fu interrotto e mi risvegliai di soprassalto, tutto arrabbiato, perplesso e indignato. Ecco dunque un bel vassoio di sogni. Sguazzatevela ora e ditemi come l'interpretate. Andiamo a colazione, signor mastro Carpalim.

- Io interpreto, disse Pantagruele, s'è in me giudizio alcuno nell'arte divinatoria per via di sogni, che vostra moglie non vi pianterà vere corna sulla fronte, esterne e visibili come le portano i satiri; ma non osserverà la fede e lealtà coniugale, s'abbandonerà ad altri, vi farà becco. Questo punto è chiaramente esposto così come l'ho detto, da Artemidoro. E del pari voi non sarete metamorfosato in tamburino, ma sarete battuto da lei come tamburo a nozze; né ella mutata in civetta, ma sì vi deruberà come è proprio delle civette. I sogni confermano dunque i presagi virgiliani: sarete becco, bastonato, derubato.

- È proprio vero, perdio, esclamò Fra Gianni, tu sarai becco te l'assicuro io, galantuomo, e avrai belle corna. Ahi, ahi, ahi, il nostro mastro De Cornibus. Dio ti conservi! Dicci due parolette di predica e io farò la questua per tutta la parrocchia.

- Al contrario! disse Panurgo, il mio sogno presagisce che col matrimonio avrò ogni sorta di bene col corno dell'abbondanza. Voi avete parlato di corna di satiri. Amen, amen, fiat, fiatur, ad differentiam papae. Così io avrei eternamente il bischero dritto e infaticabile come i satiri. Cosa che tutti desiderano, pochi impetrano dai cieli. Per conseguenza, becco giammai. Infatti, mancanza di quello è causa (senza la quale manca l'effetto) causa unica dico, onde i mariti sian becchi. Che cosa induce gli accattoni a mendicare? Il non avere a casa di che riempire il sacco. Chi fa le donne bagasce?... Voi m'intendete abbastanza. Me ne appello ai signori chierici, ai signori presidenti, consiglieri, avvocati, procuratori e altri glossatori della venerabile rubrica De Frigidis et Maleficiatis.

Perdonatemi se sbaglio, ma voi mi sembrate in errore evidente interpretando corna per incornamento. Diana le porta in testa a forma di bella mezzaluna. È ella becca perciò? Come diavolo sarebbe becca se non fu mai maritata? Parlate con decenza, vi prego, per paura ch'ella vi tratti come Atteone. Portan corna similmente il buon Bacco, e Pane, e Giove Ammone e tanti altri. Sono becchi per questo? Giunone allora sarebbe puttana? Poiché questa è la conseguenza grazie alla figura retorica detta metalepsi. Come, chiamando un fanciullo, in presenza del padre e della madre, trovatello o bastardo equivale a chiamar garbatamente, tacitamente, il padre becco, la madre bagascia. Parliamo più pulito. Le corna che mi piantava mia moglie sono corna d'abbondanza e piantagione d'ogni bene, ve lo accerto. E, quanto al resto, sarò allegro come un tamburo a nozze sempre sognante, sempre rombante, sempre rullante e scorreggiante. Credete, avrò felicità e fortuna. Mia moglie infine sarà adorna e graziosa come una bella civettina e



Dell'inferno impiccato sia al bargello

Chi non ci crederà, o Natal novello.



- Noto, osservò Pantagruele, e confronto la parte ultima del sogno colla prima. Al principio eravate tutto immerso nella delizia del vostro sogno; alla fine vi svegliaste di soprassalto, arrabbiato, perplesso e indignato.

- Certo, disse Panurgo, perché non avevo cenato.

- Tutto finirà in desolazione, lo prevedo. Sappiate, per la verità, che ogni sonno che finisce di soprassalto e lascia la persona arrabbiata e indignata o significa male o mal presagisce.

Significa male, cioè malattia perniciosa, maligna, pestilente, occulta e latente nel centro del corpo; la quale grazie al sonno, che sempre rinforza la virtù digestiva, secondo i teoremi della medicina, comincerebbe a dichiararsi e muoversi verso la superficie. A quel triste movimento il riposo s'interrompe e il primo sensitivo è avvertito di consentire e provvedervi. Corrisponde a ciò che si dice provverbialmente: stuzzicare un vespaio, muovere la Camarina, svegliare can che dorme.

Mal presagisce, cioè per quanto concerne l'anima in materia di divinazione somniale, ci dà a intendere che qualche disgrazia sovrasta e si prepara, la quale manifesterà ben presto i suoi effetti. Esempio il sogno e il risveglio spaventevole di Ecuba; il sogno di Euridice, sposa di Orfeo. Dopo i quali sogni, come dice Ennio, si svegliarono di soprassalto e spaventate. E infatti, dopo, Ecuba vide suo marito Priamo e i figlioli uccisi, la patria distrutta; ed Euridice, poco dopo, morì miseramente.

Altro esempio: Enea che sognò di parlare a Ettore defunto e subito si svegliò di soprassalto. E infatti proprio quella notte Troia fu saccheggiata e incendiata. Un'altra volta sognò di vedere i suoi dei famigliari e penati, ed essendosi svegliato nello spavento, il giorno dopo patì una orribile tempesta sul mare.

Altro esempio: Turno, il quale incitato per visione fantastica dalla furia infernale a muover guerra contro Enea, si svegliò di soprassalto tutto indignato e poi fu ucciso, dopo lunghe desolazioni, dallo stesso Enea. Così mille altri. Quando vi parlo di Enea, notate che Fabio Pittore dice che nulla da lui fu fatto o impreso, nulla gli avvenne che non avesse conosciuto e visto in precedenza per divinazione somniale. E agli esempi non manca il conforto della ragione. Infatti se il sonno e il riposo è dono e beneficio speciale degli dei, come sostengono i filosofi e attesta il poeta dicendo:



Era l'ora che il primo sopore agli stanchi mortali

Per dono dei numi s'inizia ecc.



tal dono non può esser terminato da turbamento e indignazione senza presunzione d'una grande infelicità. Altrimenti sarebbe un riposo non riposo, un dono non dono; non proveniente dagli dei amici, ma dai diavoli nemici, secondo la frase volgare ethròn adora dora. Gli è come se il padre della famiglia trovandosi a copiosa mensa, con buon appetito, lo si vedesse al principio del pasto alzarsi spaventato. Chi ne ignori la causa potrebbe rimaner sbalordito. Ma che?.. Egli aveva udito i servi gridare: al fuoco! le serve gridare: al ladro! i figli gridare: all'assassino! Bisognava dunque tralasciare il pasto e correre per rimediare e provvedere.

Veramente io ricordo che i Cabalisti e i Massoreti interpreti dei libri sacri, esponendo come si potrebbero discriminare le vere dalle false apparizioni angeliche (poiché spesso l'angelo di Satana si trasfigura in angelo di luce) dicono la differenza esser questa: che l'angelo benigno e consolatore, apparendo all'uomo lo spaventa al principio, lo consola alla fine rendendolo contento e soddisfatto, l'angelo maligno e seduttore, al principio allieta l'uomo, lasciandolo alla fine turbato, arrabbiato e perplesso.





CAPlTOLO XV.



Scusa di Panurgo e spiegazione della cabala monastica in materia di bue salato.



- Dio guardi dal male chi ben vede e non ode affatto, disse Panurgo. Io vedo voi benissimo, ma non vi odo affatto e non so ciò che dite. Ventre affamato non ha orecchie. Io bramisco perdio, di rabbiosa fame: ho compiuto sforzo troppo straordinario. Sarà più bravo di mastro Mosca chi riesca a ricondurmi quest'anno in sogneria. Star senza cena, per tutti i diavoli! Canchero! Andiamo, frate Gianni, andiamo a colazione! Quando ho fatto colazione in tutta regola e il mio stomaco è ben pieno e ingozzato, allora, se mai, e in caso di necessità, potrei rinunciare al desinare. Ma non cenare, canchero! È un errore; e scandalo contro natura.

La natura ha fatto il giorno perché ciascuno si occupi, lavori e attenda ai suoi negozi: e per favorirci fornisce la candela, cioè la chiara e gioiosa luce del sole. A sera comincia a togliercela e ci dice tacitamente: Ragazzi, voi siete gente da bene: avete lavorato abbastanza. La notte viene: convien cessare dalla fatica e ristorarsi con buon pane, buon vino, buone vivande: poi sollazzarsi un po', coricarsi e riposare per esser freschi e allegri al lavoro l'indomani. Così fanno i falconieri: quando hanno pasciuto i loro uccelli, non li fanno volare a gozzo pieno, li lasciano digerire sulla pertica. E ciò bene intese il buon papa che primo istituì il digiuno, e ordinò si digiunasse fino a nona lasciando libertà di cibarsi il resto del giorno.

Una volta pochi desinavano, come chi dicesse monaci e canonici. Sfido, non hanno altra occupazione; ogni giorno per loro è festa ed osservano scrupolosamente un proverbio claustrale: de missa ad mensam. I monaci non attenderebbero per infornarsi a tavola, che arrivi l'abate, ma divorando l'attendono, non altrimenti né in altra occupazione. Ma quanto a cenare, tutti cenavano eccetto qualche fantastico sognatore; e cena, da coena, significa a tutti comune. Tu ben lo sai, frate Gianni. Andiamo, amico mio, andiamo per tutti i diavoli. Il mio stomaco abbaia di mala fame come un cane. Giù zuppe gettiamogli in gola per calmarlo, come la Sibilla a Cerbero. Tu ami le zuppe di prima; a me piacciono più le zuppe d'alloro, associate con qualche pezzo d'aratore salato a nove lezioni.

- T'intendo, rispose frate Gianni: codesta metafora è estratta dalla marmitta claustrale. L'aratore è il bue che ara, o ha arato; a nove lezioni vuol dire cotto a puntino. Infatti i buoni padri religiosi secondo certa cabalistica istituzione degli antichi, tramandata non per iscritto, ma di mano in mano, al tempo mio, quando si levavano per mattutino, prima d'entrare in chiesa compievano certe notevoli funzioni preliminari: cacavano in cacatorio, pisciavano in pisciatorio e sputavano in sputatorio; tossivano nel tossitorio ben melodiosamente, fantasticavano nel fantasticatorio affine di non portare nulla di immondo al servizio divino. Compiute queste funzioni devotamente si recavano alla santa cappella - così nel loro gergo era chiamata la cucina claustrale - e devotamente sollecitavano che fin d'allora si ponesse al fuoco il manzo per la colazione dei religiosi, fratelli di Nostro Signore. Essi medesimi spesso accendevano il fuoco sotto le marmitte. Or dunque con un mattutino di nove lezioni più di buon'ora si alzavano e, di ragione, più moltiplicavano l'appetito e la sete abbaiando l'orazione, che se avessero urlato un mattutino d'una sola o di tre lezioni. E più di buon'ora alzandosi, in omaggio alla detta cabala, più presto il manzo andava al fuoco:



Più stava al fuoco e più si cucinava.

Più coceva e più tenero restava;



e meno logorava i denti, più dilettava il palato, meno gravava lo stomaco, più nutriva i buoni religiosi, fine ultimo e intenzione prima de' fondatori, considerato che mica mangiano per vivere, bensì vivono per mangiare, né hanno altra vita in questo mondo. Andiamo, Panurgo.

- Ora, disse Panurgo, t'ho inteso, coglion vellutato, coglione claustrale e cabalistico, e grazie della lezione che tanto disertamente ci hai fatto sul singolar capitolo della cabala culinaria e monastica. Andiamo Carpalim. Frate Gianni, cuor mio, andiamo. Buon giorno a tutti questi signori buoni, andiamo. Ho sognato abbastanza per aver voglia di bere, andiamo.

Panurgo non aveva finito la frase che Epistemone, ad alta voce disse:

- Cosa ben comune e volgare tra gli uomini è l'intendere, prevedere, conoscere, predire la disgrazia altrui. Ma oh cosa rara, la disgrazia sua propria predire, conoscere, prevedere e intendere! E con quanta saviezza questa verità fu raffigurata da Esopo ne' suoi apologhi, là dove dice che ogni uomo nascendo porta al collo una bisaccia; nel sacco davanti sono gli errori e le disgrazie altrui, sempre esposti alla nostra vista e conoscenza, nel sacco di dietro sono gli errori e le disgrazie proprie, non mai visti, né intesi, se non da quelli che con occhio benevolo il Cielo guarda.





CAPITOLO XVI.



Come qualmente Pantagruele consiglia a Panurgo di consultare una Sibilla di Panzoust.



Poco tempo dopo Pantagruele mandò a cercare Panurgo e gli disse:

- L'amore che vi porto da lungo tempo mi stimola a pensare al vostro bene e vantaggio. Ecco l'avviso mio: m'hanno detto che a Panzoust presso Croulay sta una sibilla famosissima che predice tutte le cose future: andate da lei in compagnia di Epistemone e sentite ciò che vi dirà.

- Sarà per avventura, disse Epistemone, una Canidia, una pagana, una pitonessa e indovina. Mi fa pensar ciò il fatto che quel luogo gode la mala fama che le indovine vi abbondino più che in Tessaglia. Non vi andrò di buon grado poiché secondo la legge di Mosè è cosa illecita e proibita.

- Non siamo Ebrei, disse Pantagruele, e poi non è confessato, né accertato ch'ella sia indovina. Il vaglio e la discussione di queste materie, rimettiamola al vostro ritorno. Che ne sappiamo noi se sia un'undecima sibilla o una seconda Cassandra? E quand'anche sibilla non fosse, e tal nome non meritasse pensate quale interesse avrete consultandola sulla vostra perplessità, considerando che ella è reputata sapere e intendere più di quanto comporti l'uso del paese e del sesso. Che male c'è a saper sempre, sempre apprendere, sia pure



D'un sot, d'un pot, d'une guedoufle,

D'une moufle, d'une pantoufle?



vi sovvenga che Alessandro il Grande, vinto il re Dario ad Arbela, rifiutò udienza a un compagnone e poi in vano mille e mille volte se ne pentì. Egli era vittorioso in Persia, ma tanto lontano dalla Macedonia suo reame ereditario, che grandemente si contristava di non poter trovare mezzo alcuno d'averne novelle e per l'enorme distanza dei luoghi, e per l'interposizione dei grandi fiumi, e impedimento di deserti, e ostacolo di montagne. Mentr'era così pensoso e non poco preoccupato (che avrebbero potuto occupargli il paese e il reame e collocarvi nuovo re e nuova colonia lungo tempo prima che ne fosse avvertito per porvi riparo) si presentò a lui un uomo di Sidonia, mercante esperto e di buon senso, ma, quanto al resto, povero e d'aspetto dimesso, e gli annunciò e assicurò d'aver trovato via e modo per informare in meno di cinque giorni, il suo paese delle vittorie Indiane e lui delle cose di Macedonia e d'Egitto. Alessandro stimò la promessa così inverosimile e impossibile che non volle né prestare orecchio né dare udienza. Che cosa gli sarebbe costato udire e intendere ciò che quell'uomo aveva inventato? Che danno, che pericolo c'era a sentire il modo e la via che l'uomo voleva insegnargli? La natura non senza ragione, mi sembra, ci ha foggiato le orecchie aperte non ponendovi né porta, né chiusura alcuna come invece ha fatto per gli occhi, la bocca e altre aperture del corpo. La ragione credo sia questa: che possiamo continuamente tutto il giorno, tutta la notte udire e per l'udito continuamente apprendere; poiché è il senso più d'ogni altro atto alle discipline. E forse quell'uomo era angelo, cioè messaggero di Dio inviato come Raffaele a Tobia. Troppo subitamente lo dispregiò, troppo a lungo poi se ne pentì.

- Voi dite bene, rispose Epistemone; ma non mi darete a intendere che sia cosa molto vantaggiosa prender consiglio e avviso da una donna, e da una cotal donna in cotal paese.

- Io, disse Panurgo, non ho a pentirmi del consiglio delle donne, massimamente se vecchie. Per loro consiglio vado sempre del corpo una volta o due in via straordinaria. Sono veri cani da pista, amico mio, vere rubriche del diritto. E ben propriamente parlano coloro che le chiamano sages femmes. È mio costume e stile chiamarle anzi présages femmes. Saggie sono, ché destramente conoscono, ma le chiamo présages perché divinamente prevedono e predicono con certezza tutte le cose future. Talora le chiamo non Malnettes, ma Monettes come la Giunone dei Romani.

Infatti sempre ci vengono da loro ammonimenti salutari e profittevoli. Domandatene a Pitagora, Socrate, Empedocle e al nostro mastro Ortuino. Lodo insieme fino agli alti cieli l'antica istituzione dei Germani i quali stimavano a peso di santuario e cordialmente riverivano il consiglio delle vecchie: grazie ai loro avvisi e risposte, tanto felicemente prosperavano quanto saggiamente li avevano ricevuti, come possono testimoniare la vecchia Aurinia e la buona madre Velleda al tempo di Vespasiano.

La vecchiaia femminina, credetelo, è sempre feconda di qualità zibellina... sibillina volevo dire. Orsù per la grazia, per la virtù di Dio, andiamo. Addio, frate Gianni, ti raccomando la mia braghetta.

- Ebbene, disse Epistemone, vi seguirò; ma vi avverto che se la vecchia userà sortilegio o magia nelle sue risposte, vi lascierò sulla porta e più non v'accompagnerò.





CAPITOLO XVII.



Come qualmente Panurgo parla con la sibilla di Panzoust.



Camminarono tre giornate. Alla terza, sulla schiena di una montagna sotto un grande ampio castagno fu loro mostrata la casa della vaticinatrice. Senza difficoltà entrarono nella sua capanna dal tetto di paglia, mal costruita, mal mobigliata, tutta affumicata.

- Eraclito, disse Epistemone, grande Scotista e tenebroso filosofo, non si stupì entrando in una capanna simile e dimostrò a' suoi seguaci e discepoli che anche là risiedevano gli Dei, come nei palazzi pieni di delizie. E credo che tale fosse la capanna della tanto celebrata Ecate quando essa vi festeggiò il giovine Teseo; tale anche quella di Ireo o Enopione, nella quale Giove, Nettuno e Mercurio insieme non sdegnarono entrare, cibarsi e alloggiare e dove officialmente come scotto, foggiarono Orione.

In un cantuccio del camino trovarono la vecchia.

- Ella è una vera sibilla, dichiarò Epistemone, il vero ritratto ingenuamente rappresentato da Erii Kaminoi di Omero.

La vecchia era mal messa, mal vestita, mal nutrita, sdentata, cisposa, ricurva, colla goccia al naso, sfinita e stava cuocendo una minestra di cavoli verdi con una cotenna di lardo rancido e un vecchio osso.

- Accidenti! esclamò Epistemone, abbiam fatto un buco nell'acqua; non avremo da lei alcuna risposta, poiché non abbiamo il rametto d'oro.

- Vi ho pensato io, disse Panurgo; ho qui nella bisaccia una verga d'oro massiccio accompagnata di belli e allegri carli.

Ciò detto, Panurgo la salutò profondamente, le presentò sei lingue di bue affumicate, un gran vaso da burro pieno di cuscus, una borraccia piena di beveraggio, una coglia di montone piena di carli coniati di fresco, e infine, con profonda riverenza le mise nel dito medio una verga d'oro bellissima nella quale era una batrachite di Beusse magnificamente incastonata. Poi le espose brevemente il motivo della sua venuta, pregandola cortesemente di dirgli l'avviso suo e predirgli la buona fortuna sul suo matrimonio.

La vecchia restò alcun poco in silenzio pensosa digrignando i denti; poi sedette sul culo d'uno staio, prese in mano tre vecchi fusi, li girò e rigirò tra le dita in diverse maniere, poi saggiò le loro punte e il più puntuto tenne in mano, gli altri due gettò sotto un mortaio da pestar miglio. Prese poi i suoi arcolai e nove volte li girò; al nono giro considerò, senza più toccarli, il movimento degli arcolai e attese che fossero fermi.

Dopo, vidi che si tolse uno zoccolo, si mise il grembiale sulla testa come i preti si mettono l'amitto quando vogliono cantar messa; poi prese un'antica benda screziata e l'allacciò sotto la gola. Così acconciata ingollò un gran sorso dalla borraccia, trasse dalle coglia montonesca tre carli, li mise in tre gusci di noce e li pose sul culo d'un vaso da penne; girò tre volte la scopa sotto il camino, gettò al fuoco mezza fascina d'erica e un ramoscello d'alloro secco. Lo considerò mentre bruciava in silenzio, e vide che bruciando non scoppiettava né faceva rumore alcuno.

Poi si diede a gridare spaventosamente facendo sonare tra i denti parole barbare e di strana desinenza talché Panurgo disse a Epistemone:

- Per la virtù di Dio, io tremo, mi par d'essere stregato: non parla cristiano. Vedete, vedete, sembra quattro spanne più alta di quando s'incappucciò col suo grembiale. Che significa quello sbattere di mascelle? Che pretende quell'agitazione di spalle? A qual fine borbotta colle labbra come una scimmia che sgranocchi gamberetti? Le orecchie mi cornano, mi pare udir Proserpina rintronare: i diavoli ben presto sbucheranno qui. Oh, le brutte bestie! Fuggiamo, serpe di Dio, muoio di paura. Non mi piacciono i diavoli, mi fanno arrabbiare, sono insopportabili, fuggiamo. Addio, signora mia, grazie dei vostri doni. Non mi sposerò, no. Vi rinuncio per ora e per sempre.

E cominciava a battersela; ma la vecchia lo prevenne tenendo il fuso in mano ed uscì nel cortile presso la capanna. Là era un antico sicomoro; lo scrollò tre volte e sopra otto foglie che ne caddero, sommariamente, col fuso scrisse alcuni versetti. Poi le gettò al vento e disse ai visitatori:

- Andatele a cercare, se volete; trovatele, se potete: la sorte fatale del vostro matrimonio vi è scritta.

Dette queste parole, si ritirò nella sua tana e sullo scalino della porta, tirò su veste, sottana e camicia fino alle ascelle e mostrò loro il panorama del culo.

Panurgo vedendolo disse a Epistemone:

- Ecco l'antro della sibilla!

Tosto ella sbarrò la porta dietro di sé e non fu più vista. Essi inseguirono le foglie e le raccolsero non senza grande fatica, poiché il vento le aveva disperse tra i cespugli della vallata. E ordinandole una dietro l'altra trovarono questa sentenza in versi:



Ti sbuccerà

La rinomanza;

Impregnerà,

Ma non di te;



Ti succhierà

Il buon boccone,

Ti spellerà

Ma non del tutto.





CAPITOLO XVIII.



Come qualmente Pantagruele e Panurgo espongono in guisa diversa i versi della sibilla di Panzoust.



Raccolte le foglie, tornarono Epistemone e Panurgo alla Corte di Pantagruele un po' lieti e un po' fastiditi. Lieti per il ritorno, fastiditi dalla fatica della strada che trovarono scabra, pietrosa, mal tenuta. Descrissero ampiamente a Pantagruele il loro viaggio e le condizioni della sibilla; gli presentarono infine le foglie di sicomoro e mostrarono la scrittura dei versetti. Pantagruele, letto che ebbe, disse a Panurgo sospirando:

- Siete conciato per le feste: la profezia della sibilla espone aperto ciò che ci era già noto sia pel responso virgiliano, sia pei vostri propri sogni, cioè: che da vostra moglie sarete disonorato; che vi farà becco abbandonandosi ad altri e per virtù d'altri restando pregna; che essa vi deruberà di qualche buona parte, e che vi batterà, scorticando e ammaccando qualche membro del vostro corpo.

- Fate il piacere, rispose Panurgo. Voi ve ne intendete dell'esposizione di queste recenti profezie come una troia può apprezzar confetti. Non vi dispiaccia che ve lo dica perché mi sento un po' irritato. È proprio vero il contrario. Seguite bene le mie parole. La vecchia dice: come la fava non si vede se non è sbucciata, così la mia virtù e perfezione non giungeranno mai a rinomanza se non sarò sposato. Quante volte non v'ho udito dire che la carica e l'officio rivelano l'uomo e mettono in evidenza ciò che aveva in zucca? Vale a dire che allora si apprezza certamente una persona e il suo valore, quando è chiamato al maneggio degli affari. Prima, vale a dire quando l'uomo conduce vita privata, non si conosce per certo che cosa sia, non più che fava nella sua buccia. Ecco per ciò che concerne il primo articolo. Vorreste voi sostenere altrimenti che l'onore e il buon nome d'un galantuomo pendano dal culo d'una puttana?

Il secondo punto dice: mia moglie impregnerà (ecco la prima felicità del matrimonio!) ma non di me. Eh, lo credo, perdio! Sarà pregna d'un bel piccolo fantolino. L'amo già fin d'ora, ne sono già matto. Sarà il mio piccolo gocciolone. Nessun disgusto al mondo per grande e veemente che sia, entrerà mai nel mio spirito che non mi passi solo al vederlo e udirlo cinguettare col suo balbettio infantile. E benedetta sia quella vecchia! Voglio per diana, costituirle una rendita in Salmogondino, ma non una rendita corrente come quella degl'insensati baccellieri, bensì stabile come quella dei bei dottori reggenti. Diversamente intendendo, vorreste che mia moglie portasse me nel suo seno? me concepisse? me partorisse? e che si dicesse Panurgo è un secondo Bacco, è nato due volte, è rinato come Ippolito, come Proteo (il quale nacque una volta da Teti e la seconda dalla madre del filosofo Apollonio) e come i due Palici presso il fiume Simeto in Sicilia. La moglie di Panurgo incinta di Panurgo! In lui si rinnovella l'antica palintocia dei Megaresi, la palingenesi di Democrito! Suvvia! Non me ne parlate mai più.

Il terzo punto dice: mia moglie mi succhierà il buon boccone. Eccomi, son pronto. Voi capite abbastanza ch'è il bastone a un sol capo che pende qui tra le gambe. E vi giuro e prometto che lo manterrò sempre succulento e ben vettovagliato. Non me lo succhierà invano. Eternamente vi troverà la sua biada, o meglio. Voi interpretate questo passo allegoricamente e intendete ladrocinio e furto. Lodo la vostra interpretazione, l'allegoria mi piace, ma non nel senso vostro. Può darsi che voi siate contrario e refrattario per l'affezione sincera che avete per me, poiché l'affetto, come dicono i sapienti, è cosa mirabilmente timorosa, e mai il buon amore non è senza timore. Ma, secondo il mio giudizio, voi intendete dentro voi che furto in questo passo, come in tanti altri degli scrittori latini e antichi, significa il dolce frutto d'amore, il quale, per voler di Venere vuol esser segretamente e furtivamente colto. E perché, in fede vostra? Ma perché la funzione fatta di sfuggita, tra due porte, attraverso una scala, dietro una tenda, di nascosto, sopra una fascina slegata, piace più alla dea di Cipro (e son d'accordo con voi senza pregiudizio di migliore avviso) che non fatta alla cinica sotto l'occhio del sole, o tra i preziosi conopei, tra le cortine dorate, a lunghi intervalli, con tutta comodità parando via le mosche con un cacciamosche di seta cremisi e un pennacchio di piume indiane, mentre la femmina placida si cura i denti con un filo di paglia spiccato giù dal pagliericcio.

Altrimenti, vorreste voi dire che ella mi derubi succhiando come si sorbono le ostriche e come le donne di Cilicia, (al dire di Dioscoride) colgono i semi dell'alkermes? Errore. Chi ruba non succhia, ma afferra; non inghiotte, ma avvolge, porta via, giuoca di prestigio.

Il quarto punto dice: mia moglie mi spellerà, ma non tutto. Oh, la bella parola! Voi gli date un senso di battiture, di ammaccature. L'avete proprio imbroccata, che Dio vi benedica! Ma sollevate un po', ve ne supplico, il vostro spirito dai pensieri terreni all'alta contemplazione delle meraviglie di natura, e condannatevi voi stesso per gli errori commessi spiegando perversamente i detti profetici della divina sibilla. Posto, ma non ammesso, né concesso il caso che mia moglie, per istigazione del demonio, volesse e cominciasse a farmi un brutto tiro, a diffamarmi, a farmi becco dalla cima dei capelli fino al culo, a derubarmi e oltraggiarmi, ebbene neppure in questa ipotesi condurrebbe a termine la sua volontà, né l'impresa iniziata. La ragione che mi muove e mi sostiene in quest'ultimo punto è ben fondata ed emerge dal fondo della panteologia monastica. Me l'ha fornita una volta Frate Arturo Culettante. Era un lunedì mattina mentre pappavamo insieme un moggio di trippe e pioveva, mi ricordo. Che Dio gli dia il buon giorno.

Al principio del mondo, o poco dopo, così mi disse frate Arturo, le donne cospirarono insieme di scorticare vivi gli uomini perché volevano dominarle in ogni luogo. L'accordo fu promesso, confermato, e giurato fra loro sul Santo Sangue braghettino ma, oh vana impresa di donne! Oh grande fragilità del sesso femminile! Esse cominciarono a scorticar l'uomo, a glúberlo, come dice Catullo, dalla parte che più sta loro a cuore: il membro nervoso, cavernoso. Sono più di seimila anni ormai, e fino ad oggi non ne hanno scuoiato che la testa. Onde, per sottile dispetto, gli Ebrei da sé in circoncisione se lo incidono e ritagliano, preferendo esser detti marrani recutiti e ritagliati piuttosto che scorticati da donne come l'altre genti. Mia moglie dunque per non degenerare dalla comune impresa me lo scorticherà, se già non lo è. Io acconsento, francamente, ma non tutto lo spellerà, mio buon re, ve l'assicuro.

- Ma voi, disse Epistemone, non spiegate come mai il rametto d'alloro, mentre lo guardavamo e la vecchia lo considerava gridando con voce furiosa e spaventevole, bruciava senza rumore né scoppiettio alcuno. Ben sapete che ciò è di triste augurio; è un segno da stare grandemente in guardia, come attestano Properzio, Tibullo, Porfirio, filosofo arguto, Eustazio commentando l'lliade d'Omero, e altri.

- Veramente, rispose Panurgo, voi mi citate un bel branco di gentili vitelli. Matti in qualità di poeti, farneticanti in qualità di filosofi; tanto pieni di fine follia quanto era la loro filosofia.





CAPITOLO XIX.



Come qualmente Pantagruele loda il consiglio dei muti.



Dopo queste parole Pantagruele stette a lungo in silenzio. Sembrava pensoso. Poi disse a Panurgo:

- Lo spirito maligno vi seduce; ma ascoltate: ho letto che in passato gli oracoli più veri e sicuri non erano quelli lasciati per iscritto o profferiti per parole i quali spesso anche quelli stimati più fini e ingegnosi hanno sbagliato sia a causa delle anfibologie, degli equivoci, delle oscurità di parole, quanto per la brevità delle sentenze. Perciò Apollo, dio della vaticinazione fu soprannominato Loxias. Quelli invece esposti per segni furono reputati più veri e sicuri. Tale era l'opinione di Eraclito. Così vaticinava anche Giove Ammone; così profetizzava Apollo tra gli Assiri. Per questa ragione essi lo figuravano con una lunga barba e vestito da vecchio e di giudizio posato, non nudo, giovane e senza barba come facevano i Greci. Proviamo questo modo e per segni senza parole, prendete consiglio da qualche muto.

- Ci sto, rispose Panurgo.

- Ma, soggiunse Pantagruele, converrebbe che il muto fosse sordo dalla nascita e muto perché sordo. Poiché non c'è muto più ingenuo di quello che mai non udì.

- Come l'intendete? rispose Panurgo. Se fosse vero che l'uomo non parla se non ha udito parlare vi condurrei per logica a inferire una proposizione ben strana e paradossale. Ma lasciamo andare. Voi non credete dunque ciò che ha scritto Erodoto su quei due fanciulli custoditi in una capanna per volere di Psammetico re d'Egitto, e allevati in perpetuo silenzio, i quali dopo un certo tempo pronunciarono la parola becus che in lingua frigia significa pane?

- Affatto, rispose Pantagruele. È un errore dire che esista linguaggio naturale: le lingue si formano per istituzioni arbitrarie e per le convenienze dei popoli: le voci, come dicono i dialettici, acquistano significato non per natura, ma per convenzione. Ciò vi dico non senza causa. Infatti Bartolo (lib. I, de Verbor. obligat.) racconta che al tempo suo fu in Gubbio un tale, messer Nello de Gabrielis nominato, il quale era per accidente sordo divenuto; ciò nonostante, solo alla vista dei gesti e al movimento delle labbra, capiva qualunque Italiano per quanto segretamente parlasse.

Ho letto inoltre in un autore dotto ed elegante che Tiridate, re d'Armenia, visitando Roma al tempo di Nerone, vi fu ricevuto con solennità, onori e pompe magnifiche per legarlo d'amicizia sempiterna col senato e al popolo romano; e non vi fu cosa degna di memoria nella città, che non gli fosse mostrata e spiegata. Quando fu per partire l'imperatore lo colmò di doni grandi e senza misura; inoltre lo pregò di scegliere in Roma ciò che più gli piacesse promettendo e giurando di non negargli qualunque cosa dimandasse. Ebbene egli non dimandò che un attore a cui aveva visto recitar farse in teatro senza capire le parole che diceva, ma intendendo ciò che esprimeva per segni e per gesti. Sotto il suo dominio, spiegava il re, stavano popoli di lingue diverse, per parlare e rispondere ai quali gli conveniva usare parecchi turcimanni; quell'attore sarebbe bastato da solo, poiché era tanto eccellente in significar per gesti, che sembrava parlar colle dita. Conviene pertanto, scegliere un muto che sia sordo di natura, affinché i suoi gesti e segni siano ingenuamente profetici, non finti, artificiosi, affettati. Resta infine a sapere se tal responso desiderate avere da un uomo o da una donna.

- Lo prenderei volentieri da una donna, rispose Panurgo, se non temessi due cose.

La prima è questa: che le donne qualunque cosa vedano, si figurano nello spirito, pensano, immaginano che sia l'entrata del sacro Itifallo. Qualunque gesto, segno o contegno uno mostri alla loro presenza, esse lo interpretano e riferiscono all'atto movente del bischeramento. Perciò si cadrebbe in equivoci, poiché la donna penserebbe che tutti i nostri segni siano atti venerei. Vi sovvenga di ciò che avvenne a Roma duecentosettant'anni dopo la fondazione. Un giovane nobile romano incontrando al monte Celio una dama latina chiamata Verona, muta e sorda di natura, le domandò con gesticolazioni italiche, ignorandone la sordità, quali senatori avesse incontrato per la salita. Non intendendo ella ciò che diceva, immaginò si trattasse di ciò che pensava, di ciò insomma che un giovane domanda, com'è naturale, a una donna. Per segni adunque (che in amore sono incomparabilmente più attrattivi, efficaci e valevoli delle parole) lo trasse in disparte a casa sua e gli fè segno che il giochetto le andava a genio. E infine senza una parola di bocca fecero un bel chiasso di culo.

La seconda cosa che temo è questa: che non diano ai segni nostri risposta alcuna; cadendo subito all'indietro esse consentirebbero realmente alle nostre tacite domande; o se pur facessero segni in risposta alle nostre proposte, sarebbero così pazzi e strambi e ridicoli che penseremmo anche noi essere i loro pensieri venerei.

Voi sapete la storia della monaca Suor Naticuta quando, a Brignoles, fu ingravidata dal britfalco fra' Durettino. Appena conosciuta la gravidanza, la badessa la chiamò in capitolo accusandola d'incesto. Ma quella si scusava allegando che non aveva consentito, bensì era stata presa per forza da fra' Durettino.

- Ma se eri in dormitorio, cattivaccia, replicò la badessa. Perché non gridasti alla violenza, che tutte saremmo accorse in aiuto?

Ma quella rispose che non osava gridare in dormitorio dove è prescritto silenzio sempiterno.

- Ma, disse la badessa, cattivaccia che sei, perché non facesti segno alle vicine di camera?

- Io, rispose Suor Naticuta, facevo loro segno col culo quanto potevo, ma nessuno mi venne in soccorso.

- Ma, cattivaccia, replicò la badessa perché non venisti subito a dirmelo facendone accusa secondo la regola? Così avrei fatto io per mostrare la mia innocenza se simile caso mi fosse accaduto.

- Gli è, rispose la Naticuta, che temendo restare in peccato e stato di dannazione, per paura d'esser colta da subita morte, mi confessai al frate prima che lasciasse la camera, ed egli m'assegnò in penitenza di non dirlo né svelarlo ad alcuno. Troppo enorme peccato sarebbe stato rivelare il segreto della confessione e troppo detestabile davanti a Dio e agli angeli. Ciò poteva esser causa forse, che il fuoco del cielo ardesse tutta l'abbazia e che tutte fossimo cadute nell'abisso insieme con Datham e Abiron.

- Non mi farete ridere per questo, disse Pantagruele. So abbastanza che tutta la monacaglia teme meno di trasgredire i comandamenti di Dio che gli statuti provinciali. Prendete dunque un uomo. Nasodicapra mi sembra idoneo. È muto e sordo dalla nascita.





CAPITOLO XX.



Come qualmente Nasodicapra risponde per segni a Panurgo.



Nasodicapra fu mandato a chiamare e arrivò l'indomani. Panurgo, al suo arrivo, gli donò un vitello grasso, un mezzo maiale, due botti di vino, un carico di grano e trenta franchi in moneta spicciola; poi lo condusse davanti a Pantagruele e, in presenza de' gentiluomini di Camera gli fece il segno seguente: sbadigliò abbastanza lungamente e, sbadigliando, faceva fuor della bocca col pollice della mano destra, la figura della lettera greca detta Tau, reiterandola frequentemente. Poi levò gli occhi al cielo e li torceva nella testa come capra che abortisce; e intanto tossiva e sospirava profondamente. Ciò fatto indicava il mancamento della sua braghetta, poi sotto la camicia brandì in pugno il suo pistolandiere facendolo schioccare tra le coscie melodiosamente; quindi si chinò piegando il ginocchio sinistro, e restò colle braccia conserte sul petto.

Nasodicapra lo guardava con curiosità, poi levò la mano sinistra in aria a dita chiuse meno il pollice e l'indice, le unghie dei quali accoppiava mollemente insieme.

- Intendo, disse Pantagruele, ciò che egli pretende con quel segno: indica matrimonio e inoltre il numero trenta secondo la dottrina dei Pitagorici. Voi vi sposerete.

- Tante grazie, disse Panurgo volgendosi verso Nasodicapra, tante grazie, mio architriclinio, mio comite, mio aguzzino, mio sbirro, mio bargello.

Poi Nasodicapra levò in aria, più alto, la detta mano sinistra, distendendone tutte e cinque le dita e scostando le une dalle altre quanto scostar le poteva.

- Qui, disse Pantagruele, più ampiamente ci insinua, col segno del numero quinario, che vi sposerete. E sarete, non solo fidanzato, promesso e sposato, ma coabiterete inoltre e andrete bene avanti nella festa. Infatti Pitagora chiamava il numero quinario numero nuziale, cioè: nozze e matrimonio consumato, per la ragione che il cinque risulta da tre, che è il primo numero dispari e superfluo, e da due che è il primo numero pari; come maschio e femmina accoppiati insieme. Infatti a Roma, un tempo, il giorno delle nozze si accendevano cinque fiaccole di cera e non era lecito accenderne, né di più, fossero pure le nozze più ricche, né di meno, fossero pure le nozze più indigenti. Inoltre i Pagani in passato, imploravano per gli sposi cinque dei, o meglio un dio in cinque benefizi, cioè: Giove nuziale, Giunone presidentessa della festa, Venere la bella, Pito dea della persuasione e del bel parlare, e Diana soccorritrice nei dolori di parto.

- Oh il gentil Nasodicapra! esclamò Panurgo. Gli voglio regalare un podere presso Cinays e un mulino a vento in quel di Mirabello.

Dopo ciò il muto sternutò con insigne veemenza e scotimento di tutto il corpo, volgendosi a sinistra.

- Virtù di un bue di legno! osservò Pantagruele, che succede? Non è buon segno. Denota che il matrimonio sarà infausto e sfortunato. Questo starnuto (secondo la dottrina di Terpsione) è il demonio socratico. Fatto a destra, significa che con sicurezza e arditamente si può fare ciò che s'è deliberato e andar dove s'è deliberato; l'inizio, il progredire, il successo saranno buoni e fortunati. Starnuto a sinistra, sarà il contrario.

- Voi prendete le cose sempre pel loro verso peggiore, disse Panurgo, e le turbate sempre come un nuovo Davo. In questi starnuti non ci credo e non conobbi cotesto vecchio pelosissimo Terpsione se non per le sue frottole.

- Tuttavia, osservò Pantagruele, Cicerone afferma di lui non so che cosa nel secondo libro De divinatione.

Panurgo intanto si volse a Nasodicapra e gli fece il segno seguente: rovesciate le palpebre degli occhi all'insù, torceva le mandibole da destra a sinistra e mise fuori circa mezza lingua dalla bocca. Ciò fatto, aperse la mano sinistra, eccetto il dito medio che ritenne perpendicolare alla palma e in questa guisa la mise al posto della braghetta; tenne la destra chiusa a pugno, meno il pollice che volse indietro dritto, verso l'ascella destra e lo puntò sopra le natiche, nel luogo che gli Arabi chiamano al Katim. Subito dopo cambiò: compose la mano destra com'era la sinistra e la pose al posto della braghetta; compose la sinistra com'era la destra e la pose sull'al Katim. Questo mutamento di mani reiterò per nove volte. Alla nona volta, rimise le palpebre degli occhi nella loro posizione naturale, e lo stesso fece delle mandibole e della lingua, poi fissò gli occhi su Nasodicapra guardando losco, sbattendo le labbra come fanno le scimmie in riposo o i conigli quando brucano l'avena in fascio.

Allora Nasodicapra alzò in aria la mano destra tutta aperta, poi introdusse il pollice destro fino alla prima articolazione fra la terza giuntura del medio e dell'anulare che strinse abbastanza forte intorno al pollice; il resto delle giunture del medio e dell'anulare strinse a pugno stendendo invece dritti l'indice ed il mignolo. La mano così tenuta posò sull'ombelico di Panurgo agitando continuamente il pollice su detto e appoggiando la mano sul mignolo e sull'indice come su due gambe; in questo modo saliva con quella mano successivamente attraverso il ventre, lo stomaco, il petto e il collo di Panurgo; poi al mento, e gli mise nella bocca il detto pollice agitandolo; poi gli soffregò il naso e, salendo sopra gli occhi simulava di volerglieli spaccare col pollice. Panurgo, irritato, s'arrabbiò e cercava sbarazzarsi e allontanarsi dal muto. Ma Nasodicapra insisteva, toccandogli con quel pollice agitato ora gli occhi, ora la fronte e gli orli del berretto. Alla fine Panurgo sbottò gridando:

- Perdio, se non la finite, maestro matto, voi le pigliate; non mi irritate più oltre, o v'allungo uno ceffone su quella vostra porca faccia.

- È sordo, disse allora Fra Gianni. Non sente ciò che gli dici, coglione. Fagli segno di una gragnuola di pugni sul muso.

- Che diavolo vuol significare questo mastro Aliborone? disse Panurgo. M'ha quasi ammaccato gli occhi. Ah perdio, poter tirare quattro moccoli. Volete vedere, che vi somministro una spanciata di nasarde lardellata di doppi buffetti.

Poi si scostò facendogli delle pernacchie. Il muto vedendo Panurgo allontanarsi, lo rincorse, lo fermò per forza e gli fece il segno seguente: abbassò il braccio destro verso il ginocchio tanto quanto poté stenderlo, chiudendo a pugno tutte le dita e passando il pollice tra il medio e l'indice; poi, colla sinistra, stropicciava la parte superiore del gomito del detto braccio destro, e, a poco a poco, per quello stropicciamento, alzava in aria la mano destra fino al gomito e più in su; poi improvvisamente l'abbassava come prima; poi a intervalli la rialzava, la riabbassava e la mostrava a Panurgo.

Panurgo, sempre più arrabbiato alzò il pugno per colpire il muto; ma per riverenza di Pantagruele presente, si trattenne. Allora Pantagruele disse:

- Se v'irritano i segni, oh quanto più v'irriteranno le cose da essi significate! La verità concorda colla verità. Il muto sostiene e dichiara che sarete sposato, becco, bastonato e derubato.

- Al matrimonio consento, disse Panurgo; ma rifiuto il resto. E vi prego di farmi questo gran piacere di credere che nessun uomo al mondo ebbe mai in fatto di donne e di cavalli, tanta fortuna quanta è a me predestinata.

CONTINUA VII