FRANÇOIS RABELAIS

Traduzione di
GILDO PASSINI

CAPP. XXI -

PROLOGO DEL SIGNOR FR. RABELAIS

PER

IL QUINTO LIBRO DEI FATTI E DETTI EROICI

DI PANTAGRUELE





AI LETTORI BENEVOLI



Oh bevitori infaticabili, e voi, impestati preziosissimi, mentre avete tempo da perdere ed io non ho altro di più urgente tra mano, vi domando domandando: Perché corre oggi questo modo di dire proverbiale: Le monde n'est plus fat? Fat è un vocabolo di Linguadoca e significa non salato, senza sale, insipido, sciatto; per metafora significa folle, sciocco, sprovvisto di buon senso, sventato di cervello. Vorreste voi dire, come infatti si può logicamente inferire, che per lo innanzi il mondo sarebbe stato sciocco e ora sarebbe divenuto savio? Per quante e quali condizioni era sciocco? Quante e quali condizioni erano richieste a rinsavirlo? Perché era sciocco? Perché sarebbe ora savio? Da che riconoscete la follia antica? Da che la saviezza presente? Chi lo fe' sciocco? Chi l'ha fatto savio? È più grande il numero di coloro che l'amavano sciocco o di quelli che l'amavano savio? Per quanto tempo fu sciocco? Per quanto si manterrà savio? Onde procedeva la follia antecedente? Onde la saviezza susseguente? Perché in questo tempo e non più tardi, prese fine l'antica follia? Perché in questo tempo, non prima, cominciò la saviezza presente? Che male ci veniva dalla follia precedente? Quale bene deriva dalla saviezza seguente? Come sarebbe stata l'antica follia abolita? Come la saggezza presente instaurata?

Rispondete, se vi garba. Nessun altro scongiuro userò colle vostre Riverenze per non irritare le vostre Paternità.

Non abbiate vergogna, confondete Her del Tyfel, nemico del paradiso, nemico della verità. Coraggio, ragazzi: se siete de' miei, bevete tre o cinque volte per la prima parte del sermone, poi rispondete alla mia domanda; se siete dell'Altro avalisque Satanas. Poiché vi giuro per il mio grande Hurluburlu, che se non mi aiutate alla soluzione del problema sopra detto, già mi pento d'avervelo proposto, perciocché mi tormenta non meno che se il lupo mi tenesse per le orecchie senza speranza di soccorso alcuno. Come?... Ah intendo: non volete rispondere. Né risponderò io, per la mia barba: solamente vi citerò ciò che aveva predetto con spirito profetico un venerabile dottore, autore del libro intitolato: La Cornamusa dei prelati. Che dice il porcaccione? Ascoltate, teste di cavolo, ascoltate:

"L'anno del giubileo, nel quale il mondo degl'ingenui si fece radere, è soprannumerario sopra il trenta. Oh poca riverenza! Sciocco sembrava: ma perseverando i brevetti, non sarà più né sciocco né ghiottone, poiché sbuccerà il dolce frutto dell'erba di cui temeva tanto il fiore a primavera".

Avete udito. Ma l'avete inteso? Il dottore è antico, le parole laconiche, le sentenze Scotine oscure, senza contare che tratta materia di per sé profonda e difficile. I migliori interpreti di quel buon padre spiegano come l'anno giubileo che passa il trentesimo corrisponda all'anno corrente millecinquecentocinquanta. Il mondo non sara detto più sciocco, al venire della primavera. I matti, dei quali il numero è infinito, come attesta Salomone, periranno rabbiosi e cesserà ogni specie di follia, la quale, come dice Avicenna, è parimente innumerevole: maniae infinitae sunt species. Quella che durante l'inverno era conversa al centro, affiora alla circonferenza e va in amore come gli alberi. L'esperienza ce lo dimostra, lo sapete, lo vedete. E ciò fu esplorato un tempo dal gran buon uomo Ippocrate: Aphorism. Verae etenim maniae, etc. Il mondo adunque, rinsavendo non avrà più paura del fior di fava a primavera, vale a dire, (come potete piamente credere col bicchiere in pugno e le lagrime agli occhi) in quaresima. Un mucchio di libri che sembravano floridi, florulenti, fioriti come belle farfalle, ma in realtà erano noiosi, seccanti, pericolosi, spinosi e tenebrosi come quelli di Eraclito, oscuri come i numeri di Pitagora (che fu re della fava, a testimonianza d'Orazio) periranno, più non passeranno di mano in mano, più non saranno letti, né visti. Tale era il loro destino, così fu predestinata la loro fine.

In loro vece vennero le fave in buccia. E sono i giocondi e fruttuosi libri di Pantagruelismo, i quali, in attesa del periodo del giubileo susseguente, sono in vece oggi di buona vendita e allo studio de' quali s'è dato tutto il mondo che, perciò, è detto savio.

- Eccovi sciolto e risolto il vostro problema! dite voi, brava gente, a questo punto.

Tossite qui, un buon colpo o due e bevetene nove di fila, poiché le vigne son belle e gli usurai s'impiccano. Mi costeranno molto in corda se il buon tempo dura; poiché m'impegno di fornirne loro liberalmente, gratis, tutte quante le volte che vorranno impiccarsi, per paura di dar guadagno al boia.

Affinché dunque siate partecipanti della saviezza che viene, ed emancipati dell'antica follia, cancellatemi ora dai vostri scartafacci il simbolo del vecchio filosofo dalla coscia dorata col quale v'interdiceva l'uso di mangiar fave, e ritenete per cosa vera e confessata fra tutti i buoni compagnoni che ve lo interdiceva colla stessa intenzione che il medico d'acqua dolce il fu Amer, nipote dell'avvocato, signore di Camelotière, vietava ai malati l'ala di pernice, il groppone delle galline e il collo del piccione, dicendo: ala mala, cropium dubium, collum bonum pelle remota. Egli li riservava per la sua bocca e non lasciava ai malati che le ossa da rosicchiare. A lui son succeduti certi incappucciati che vietano le fave, cioè i libri di Pantagruelismo, imitando così Filosseno e Gnatone siculo, antichi architetti della loro monacale e ventresca voluttà, i quali in pieno banchetto, quando erano serviti i bocconi più ghiotti, sputavano sulle pietanze affinché per schifo nessuno ne mangiasse eccetto loro.

Così la sozza, mocciosa, catarrosa, tarlata beghinaglia in pubblico e in privato detesta questi ghiotti libri e per imprudenza vi sputano su villanamente. E contuttoché ora leggiamo nella nostra lingua Gallica, sia in versi che in prosa parecchi scritti eccellenti e poche reliquie restino d'ipocrisia e del tempo gotico, ho preferito tuttavia come dice il proverbio, cantare e fischiare da oca tra i cigni piuttosto che fra tanti gentili poeti e facondi oratori muto del tutto esser stimato: e rappresentare così qualche personaggio villereccio fra tanti diserti attori di questo nobile atto, piuttosto ch'esser messo nella categoria di coloro che non servono che d'ombra e di numero e solo sbadigliano alle mosche, squassando le orecchie come asini d'Arcadia al canto dei musici e mostrando per segni, in silenzio, che consentono alla prosopopea.

Così avendo preferito ed eletto, ho pensato di non fare opera indegna rimovendo la mia botte diogenica affinché non mi diciate che vivo senza esempio.

Io contemplo un gran mucchio di Colinet Marot, Drouet, Saingelais, Salel, Masuel, e una lunga centuria d'altri poeti e oratori gallici.

E vedo che per aver troppo frequentato sul monte Parnaso le scuole d'Apollo e per aver bevuto a pieni calici fra le gioconde Muse, alla fonte cavallina, non portano, alla costruzione del nostro volgare, che marmo pario, alabastro, porfirio, e buon cemento reale; non trattano che gesta eroiche, cose grandi, materie gravi, ardue, difficili e tutto con retorica morbida e purpurea; coi loro scritti non producono che nettare divino, vino prezioso, frizzante, ridente, moscatello delicato, delizioso; e questa gloria non ha termine negli uomini; anche le dame vi hanno contribuito, tra le quali una di stirpe reale, che non si può ricordare senza insigne prefazione d'onori, ha stupito tutto questo secolo sia per gli scritti e le invenzioni trascendenti, che per gli ornamenti di lingua e di stile mirifici. Imitateli voi se sapete: non io saprei imitarli: non a tutti è dato frequentare e abitare Corinto. Alla costruzione del tempio di Salomone ciascuno offrì un siclo d'oro; non poteva dare a piene mani. Poiché dunque non è in nostra facoltà architettare tant'alto quanto essi, ho deliberato di fare ciò che fece Rinaldo di Montalbano: servire i muratori, metter su la pentola pei muratori, e poiché compagno loro non posso essere, m'avranno lettore, e infaticabile, dei loro scritti.

Voi morite di paura voialtri Zoili rivali ed invidiosi; andate a impiccarvi e scegliete voi stessi gli alberi per l'impiccagione; il capestro non vi farà difetto.

Quanto a me, prometto davanti al mio Elicona, al cospetto delle divine Muse, che se vivo ancora gli anni d'un cane, aggiuntivi quelli di tre cornacchie sano e intero, quale visse il santo capitano ebreo o Xeriofilo il musico, o Demonax il filosofo, proverò per argomenti non impertinenti e ragioni non refutabili, alla barba di non so quali fabbricanti di centoni, imballatori di materie cento e cento volte vagliate, rappezzatori di vecchie terraglie latine, rivenduglioli di vecchie parole latine ammuffite e incerte, che il nostro volgare non è tanto vile e inetto e indigente da sprezzarsi come stimano. E supplico che per grazia speciale, come già avvenne che avendo Febo ripartiti i suoi tesori fra i grandi poeti, Esopo trovò tuttavia luogo e officio d'apologista, similmente, visto che a grado più alto non aspiro, non isdegnino ricevermi come un piccolo riparografo, seguace di Pireico. Essi lo faranno, me ne sento sicuro: poiché sono tutti tanto buoni, tanto umani, graziosi e miti che nulla più. Perché, o beoni, perché o gottieri, essi ne vogliono avere godimento totale; infatti recitandoli poi tra le loro conventicole cugliettando gli alti misteri contenutivi, entrano in possesso e reputazione singolare, come in caso simile fece Alessandro il Grande coi libri della prima filosofia composti da Aristotile.

Ventre su ventre, quali canaglie, quali miserabili!

Pertanto, o beoni, vi avviso in tempo e ora opportuna: fate provvigione dei detti libri subito che li troverete nelle botteghe de' librai, e non sbucciateli solamente, ma divorateli come oppiata cordiale e incorporateli in voi stessi: e allora conoscerete qual bene essi offrono a tutti i gentili sbucciatori di fave. Ora ve ne offro una buona e bella panierata colta nello stesso orto che fruttò le precedenti, supplicandovi in nome della riverenza che gradiate il presente, in attesa di meglio per la prossima venuta delle rondini.





CAPITOLO I.



Come qualmente Pantagruele arrivò all'Isola Sonante e del rumore che vi udimmo.



Continuando la rotta navigammo tre giorni senza nulla scoprire; al quarto scorgemmo terra e ci fu detto dal pilota che era l'Isola Sonante. Udimmo un rumore che veniva da lungi, frequente e tumultuoso e ci sembrava, a sentirlo, di campane grosse, piccole e mezzane che sonassero tutte insieme come fanno a Parigi, a Tours, Gergeau, Nantes, e altrove nei giorni di grandi feste. Più ci avvicinavamo e più sentivamo rinforzare quello scampanio.

Noi dubitavamo che fosse Dodona coi suoi calderoni o il portico Eptafoma ad Olimpia, o il rumore sempiterno del colosso eretto sulla sepoltura di Memmone a Tebe in Egitto, o il fracasso che si udiva intorno a un sepolcro nell'isola di Lipari, una delle Eolie; ma la corografia non lo consentiva.

- Io dubito, disse Pantagruele, che qualche sciame d'api abbiano cominciato a prendere il loro volo in aria e che i vicini per richiamarle facciano quel fracasso di padelle, calderoni, bacini, cembali coribalitici di Cibele, la gran madre degli dei. Ascoltiamo.

Avvicinandoci di più sentimmo tra il perpetuo scampanio un canto infaticabile degli uomini là residenti, almeno così ci pareva. Onde prima d'approdare all'Isola Sonante, Pantagruele fu d'avviso che scendessimo col nostro schifo sopra uno scoglietto presso il quale riconoscemmo un eremitaggio e un piccolo orticello. Colà trovammo un omettino eremita chiamato Braguibus, nativo di Blenay, il quale ci spiegò tutto quello scampanio e ci fece festa in strano modo. Ci fece digiunare quattro giorni consecutivi affermando che altrimenti nell'Isola Sonante non saremmo ricevuti perché era allora il digiuno delle Quattro Tempora.

- Io non intendo quest'enigma, disse Panurgo, sarebbe meglio dire il tempo dei quattro venti poiché, digiunando, non siamo rimpinzati che di vento. E che? Non avete qui altro passatempo che digiunare? È un passatempo ben magro, mi sembra; noi faremmo almeno volentieri di tante feste palatine.

- Nel mio Donato, disse Fra Gianni, non trovo che tre tempi: passato, presente e futuro: il quarto qui dev'essere per la mancia al valletto.

- È l'aoristo, disse Epistemone, derivato dal preterito... molto imperfetto de' Greci e dei Latini e considerato come tempo variabile e incerto. Pazienza! dicono i lebbrosi.

- È fatale, come vi ho detto, rispose l'eremita; chi contraddice è eretico e non gli bisogna che il fuoco.

- Senza dubbio, Pater, disse Panurgo, essendo in mare più temo esser bagnato che riscaldato, esser annegato che bruciato. Digiuniamo dunque per Dio; ma ho digiunato sì lungamente che i digiuni mi hanno succhiato tutta la carne e temo assai che alla fine i bastioni del mio corpo cadano in rovina. Ho inoltre un'altra paura ed è di turbarvi digiunando, poiché non sono esperto e vi ho cattiva grazia, come parecchi m'hanno affermato: e lo credo.

- Per parte mia, dissi: mi preoccupo ben poco del digiuno: nessuna cosa è tanto facile e alla mano; ben più mi preoccupo di non digiunare per l'avvenire, poiché occorre stoffa a far vesti e grano per macinare. Digiuniamo, per Dio, poiché siamo entrati nelle ferie esuriali ed era un gran pezzo che non le osservavo.

- E se digiunare bisogna, disse Pantagruele, null'altro resta a fare che sbrigarcene come d'una cattiva strada. Voglio pertanto visitare un po' le mie carte e vedere se lo studio del mare è buono quanto quello della terra, poiché Platone, volendo descrivere un uomo scempio, inesperto e ignorante, lo confronta a uomini nutriti in mare dentro le navi, come sarebbe a dire nutriti dentro un barile e che non guardarono mai che attraverso un buco.

I nostri digiuni furono ben terribili e spaventevoli, poiché il primo giorno digiunammo a tutto spiano, il secondo a spron battuto, il terzo a briglia sclolta, il quarto a ferro e fuoco. Tale era l'ordine delle Fate.





CAPITOLO II.



Come qualmente l'Isola Sonante era stata abitata dai Siticini, i quali erano divenuti uccelli.



Finiti i nostri digiuni l'eremita ci consegnò una lettera diretta a uno che egli chiamava Albian Camar, mastro sagrestano dell'Isola Sonante: ma Panurgo salutandolo, lo chiamò Mastro Antitus. Era un piccolo bonomo, vecchio, calvo, di muso ben lustro e faccia cremisina.

Egli ci fece buona accoglienza grazie alla raccomandazione dell'eremita, sentendo che avevamo digiunato come è stato dichiarato. Dopo aver assai ben mangiato, ci espose la singolarità dell'isola, affermando che primamente era stata abitata dai Siticini; ma questi, per ordine di natura (poiché tutto varia) erano diventati uccelli.

Allora compresi pienamente ciò che Atteio Capitone, Paolo Marcello, Aulo Gellio, Ateneo, Suida, Ammonio e altri avevano scritto su Siticini e Sicimisti e non ci sembrò difficile credere alle metamorfosi di Nictimene, Progne, Itis, Alcmena, Antigone, Tereo e altri uccelli. Pochi dubbi ci rimasero parimente sui figli di Matabruna convertiti in cigni e sugli uomini di Pallene in Tracia i quali basta si bagnino nove volte nella palude Tritonica e sono tosto trasformati in uccelli. Non ci discorse poi che di gabbie e d'uccelli. Le gabbie erano grandi, ricche, sontuose, e fatte con meravigliosa architettura.

Gli uccelli erano grandi belli e puliti a modo e molto somiglianti agli uomini della mia patria: bevevano e mangiavano come uomini, cacavano come uomini, digerivano come uomini, petavano come uomini, dormivano e montavano come uomini: in breve a vederli a primo aspetto, avreste detto che fossero uomini; tuttavia tali non erano, secondo l'informazione di Mastro Sagrestano, il quale ci assicurava non esser essi né secolari né mondani. Quindi il loro piumaggio ci faceva fantasticare, avendolo alcuni tutto bianco, altri tutto nero, altri tutto grigio, altri metà bianco e metà nero, altri tutto rosso, altri metà bianco e metà azzurro.

Era bello vederli. I maschi egli li chiamava Chiergalli, Monagalli, Pretegalli, Abagalli, Vescogalli, Cardingalli e uno, unico nella sua specie, Papagallo. Le femmine le chiamavano Clerichesse, Monachesse, Pretichesse, Abadesse, Vescofesse, Cardinchesse, e Papachesse. Tuttavia, parimente, egli ci disse, come tra l'api vanno i calabroni che nulla fanno se non tutto mangiare e tutto guastare, così da trecent'anni, non so come, tra quei gioiosi uccelli erano volati ogni quinta luna gran numero di ipocriti i quali avevano castigato e sconcacato tutta l'isola, tanto sozzi e mostruosi che erano fuggiti da tutti. Poiché tutti avevano il collo torto, le zampe pelose, le unghie e il ventre d'arpie e i culi da Stinfalidi e non era possibile sterminarli. Per uno morto ne piombavano ventiquattro.

C'era da augurarsi un nuovo Ercole. Fra Gianni vi smarrì i sensi per la veemente contemplazione e a Pantagruele avvenne ciò ch'era avvenuto a messer Priapo quando contemplava i sacrifici di Cerere, per mancanza di pelle.





CAPITOLO III.



Come qualmente nell'Isola Sonante non era che un Papagallo.



Allora domandammo al Sagrestano come mai, con tanta moltiplicazione di quei venerabili uccelli in tutte le loro specie non vi fosse che un Papagallo.

Ci rispose che l'istituzione prima e fatale, destinata dalle stelle era così: che dai Chiergalli nascono i Pretegalli e Monagalli senza coito carnale come avviene dell'api che nascono da un giovane torello aggiustato secondo l'arte e pratica di Aristeo.

Dai Pretegalli nascono i Vescogalli, da questi i bei Cardingalli e i Cardingalli se non sono da morte prevenuti, finiscono in Papagallo. E non ve n'è ordinariamente che uno come negli sciami delle api non v'è che un re e al mondo non v'è che un sole. Morto quello, ne nasce un altro al suo posto da tutta la razza dei Cardingalli, sempre, intendete, senza copulazione carnale. Di guisa che, in questa specie vi è unità individuale con perpetuità di successione, né più né meno che nell'araba Fenice. Vero è che circa duemila settecento e settanta lune or sono, furono prodotti in natura due Papagalli; ma fu la più gran calamità che si vedesse mai in quest'isola. Poiché, diceva il Sagrestano, tutti questi uccelli si accapigliarono e si azzuffarono talmente durante quel tempo che l'isola corse rischio d'essere spogliata de' suoi abitanti. Parte d'essi aderiva ad un Papagallo e lo sosteneva; parte all'altro e lo difendeva. Parte di quelli rimasero muti come pesci e più non cantarono e parte di queste campane non sonarono più, come interdette. Durante questo tempo sedizioso chiamarono in loro soccorso imperatori, re, duchi, marchesi, monarchi, conti, baroni e comunità del mondo che abita in terra ferma e quello scisma e quella sedizione non ebbero fine che uno dei due non fosse tolto di vita e la pluralità ridotta a unità.

Poi domandammo che cosa movesse quegli uccelli a cantare così senza posa. Il Sagrestano ci rispose che erano le campane pendenti sulle loro gabbie. Poi ci disse: - Volete voi che faccia ora cantare quei Monagalli che vedete là bardocucullati d'un filtro d'ippocrasso come allodole selvatiche?

- Sì, per favore, rispondemmo.

Allora una campana suonò sei tocchi solamente ed ecco Monagalli accorrere e Monagalli cantare.

- E se, disse Panurgo, sonassi questa campana potrei far cantare parimente quelli che hanno quel pennaggio color arringa affumicata?

- Parimenti, rispose il Sagrestano.

Panurgo suonò e subito accorsero quegli uccelli affumicati e cantavano insieme; ma con voci roche e sgradevoli. Così il Sagrestano ci spiegò che non vivevano che di pesci come gli aironi e i marangoni del mondo, e che era una quinta specie d'ipocriti stampati di fresco. Aggiunse inoltre che aveva avuto avvertimento da Roberto Valbringue, il quale era passato di là poco prima, tornando dal paese d'Africa, che ben presto doveva calare una sesta specie che ei chiamava Cappuccingalli, più tristi, più maniaci e più fastidiosi di ogni altra specie dell'isola.

- L'Africa, disse Pantagruele, suole sempre produrre cose nuove e mostruose.





CAPITOLO IV.



Come qualmente gli uccelli dell'Isola Sonante erano tutti migratori.



- Ma, disse Pantagruele, visto che, come ci avete esposto, il Papagallo nasce dai Cardingalli, e i Cardingalli dai Vescogalli, e i Vescogalli dai Pretegalli, e i Pretegalli dai Chiergalli, vorrei sapere donde nascono questi Chiergalli.

- Sono, disse il Sagrestano, tutti uccelli di passaggio e ci vengono dall'altro mondo: parte da una contrada grande a meraviglia, la quale ha nome Giornosenzapane, parte da un'altra verso ponente la quale sì chiama Troppifigli. Da quelle due contrade tutti gli anni ci vengono a branchi questi Chiergalli, lasciando padri, madri, amici e parenti. E il modo è questo: quando in qualche nobile casa di quella seconda contrada vi son troppi figli, sia maschi, sia femmine, di modo che a ripartire fra tutti l'eredità (come vuole ragione, ordina natura, e Dio comanda) la casa sarebbe dispersa, allora i genitori se ne sbarazzano lasciandoli in quest'isola Bossard.

- È l'isola Bouchard, disse Panurgo, presso Chinon.

- Dico Bossard, rispose il Sagrestano; poiché ordinariamente sono gobbi, guerci, zoppi, monchi, podagrosi, contraffatti, e malefiziati, di peso inutile sulla terra.

- È costume proprio del tutto opposto a quello un tempo in uso per l'ammissione delle Vestali, per cui, come attesta Labeone Antistio, era vietato eleggere a quella dignità fanciulla che avesse vizio alcuno all'anima o fosse fisicamente imperfetta o avesse macchia qualunque nel suo corpo, sia pure occulta e piccola.

- Mi stupisco, disse continuando il Sagrestano, che le madri in quei paesi riescano a portarli nove mesi nel grembo se non li possono sopportare nove anni nella loro casa, e il più sovente, neanche sette anni e solo mettendo loro una camicia sulla veste e tagliando loro non so quale quantità di capelli al sommo del capo con certe parole magiche ed espiatorie, visibilmente, apertamente, manifestamente, per metempsicosi pitagorica, senza lesione né ferita alcuna, li fanno diventare quei tali uccelli che qui ora vedete; allo stesso modo come tra gli Egiziani per certe linostolie e rasature erano creati i sacerdoti di Iside. Non so tuttavia, amici belli, che significhi e donde proceda che le femmine, siano Chierchesse, Monachesse o Abadesse, non cantino motteti piacevoli inni di grazia come si soleva fare a Oromasis per istituzione di Zoroastro; bensì maledetti e lugubri come era in uso pel demonio Arimane; e hanno maledizioni continue pei loro parenti e amici che in uccelli le trasformarono, e dico delle giovani come delle vecchie.

Un numero maggiore ne viene da Giornosenzapane che è straordinariamente lungo. Poiché gli Asaphis, abitanti di quella contrada, quando sono in pericolo di patire malesuada fame per non avere di che alimentarsi e non sapere e non voler far nulla, né ad onesta arte o mestiere attendere, né mettersi fatalmente a servizio di gente dabbene, e così quelli che commisero qualche delitto e son cercati per esser mandati a morte, tutti se ne volano qui, qui hanno la loro vita assicurata e subito diventan grassi come ghiri, mentre prima eran magri come picchi; qui godono perfetta sicurezza, incolumità e franchigia.

- Ma, domandò Pantagruele, questi belli uccelli una volta qui volati, non se ne tornano mai più al mondo ove furon covate le loro ova?

- Alcuni sì, rispose il Sagrestano, ben pochi un tempo, ben tardi e con rammarico. Ma da certe eclissi in qua se n'è volato via un gran branco per virtù delle costellazioni celesti. Ma ciò non ci attrista affatto: più resta da mangiare per gli altri. E tutti, prima di rivolar via, hanno lasciato le loro penne tra queste ortiche e spine.

Noi ne trovammo alcune infatti e ricercando, c'imbattemmo a caso in un vaso di rose scoperto.





CAPITOLO V.



Come qualmente gli uccelli ghiotticommendatori sono muti nell'Isola Sonante.



Non aveva finite quelle parole che volarono vicino a noi venticinque o trenta uccelli di colore e pennaggio quali non avevo ancora visto nell'isola. Le loro piume cambiavano d'ora in ora come la pelle del camaleonte e come il fiore del tripoglione o teucrione. E tutti avevano sotto l'ala sinistra un segno come di due diametri che frazionassero un cerchio o di una linea perpendicolare che cadesse sopra una orizzontale. E l'avevano quasi tutti della stessa forma, ma non dello stesso colore. Gli uni l'avevano bianco, gli altri verde, gli altri rosso, gli altri violetto, gli altri azzurro.

- Chi sono questi, domandò Panurgo e come li chiamate?

- Sono meticci, rispose il Sagrestano. Noi li chiamiamo ghiotticommendatori ed hanno gran numero di ricche ghiottecommenderie nel vostro mondo.

- Fateli un po' cantare, vi prego, dissi, che sentiamo la loro voce.

- Non cantano mai! egli rispose; ma, in compenso mangiano il doppio.

- Dove sono le femmine? chiesi.

- Non ne hanno, rispose.

- Ma come dunque, sono così coperti di croste e divorati dalla peste?

- È una proprietà di questi uccelli, rispose, causa la marina che talora frequentano. Il motivo, continuò, per cui son venuti vicino a voi, è per vedere se conoscono tra voi una magnifica specie di galli, uccelli di preda terribili, ma non di quelli che vengono al logoro, o riconoscono il guanto, che essi dicono essere nel vostro mondo: dei quali alcuni portano lacci al piede, belli e preziosi con iscrizioni alle verghette, secondo le quali chi mal penserà è condannato a esser subitamente tutto sconcacato; altri portano sul davanti del loro pennaggio il trofeo d'un calunniatore, e altri una pelle di montone.

- Può essere, Mastro Sagrestano, disse Panurgo, ma noi non li conosciamo.

- Ora, disse il Sagrestano, abbiamo abbastanza parlamentato; andiamo a bere.

- Meglio a mangiare, disse Panurgo.

- Mangiare e ben bere, disse il Sagrestano, l'uno chiama l'altro. Nulla è caro e prezioso più del tempo, occupiamolo in buone opere.

Egli ci voleva accompagnare prima a bagnarci alle terme dei Cardingalli, sovranamente belle e deliziose; e poi farci ungere degli alipti con preziosi balsami.

Ma Pantagruele gli rispose che avrebbe bevuto anche troppo senza ciò. E allora ci condusse in un grande e delizioso refettorio e ci disse:

- L'eremita Braguibus vi ha fatto digiunare per quattro giorni, ebbene quattro giorni per contrappunto starete qui senza tralasciar mai di bere e mangiare.

- Ma non dormiremo intanto? chiese Panurgo.

- Liberissimi, rispose il Sagrestano, poiché chi dorme beve.

Verace Iddio! Che baldoria vi facemmo! Oh il gran valentuomo!





CAPITOLO VI.



Come qualmente sono alimentati gli uccelli dell'Isola Sonante.



Pantagruele mostrava cera triste e non sembrava contento del soggiorno quatriduano che ci fissava il Sagrestano; questi accortosene disse:

- Signore, voi sapete che sette giorni prima e sette giorni dopo il solstizio d'inverno non c'è mai tempesta in mare. Questo, per un favore che gli elementi usano agli alcioni, uccelli sacri a Teti, i quali allora covano e fanno nascere i loro piccoli lungo la riva. Qui il mare prende la sua rivincita dopo questa lunga calma e per quattro giorni non cessa di tempestare enormemente quando arriva qualche viaggiatore.

Noi stimiamo che ciò avvenga affinché durante questo tempo siano costretti a rimanere per esser ben festeggiati, grazie alle rendite dello scampanamento. Non stimate pertanto di perder qui il vostro tempo, in ozio. Forza maggiore vi tratterrà. Se non volete cimentarvi con Giunone, Nettuno, Dori, Eolo, e tutti i Vegiovi risolvetevi a non altro fare che baldoria.

Dopo i primi bocconi, Fra Gianni domandava al Sagrestano:

- In quest'isola non avete che gabbie e uccelli; essi non arano, né coltivano la terra. Tutte le loro occupazioni non sono che godere, cinguettare, cantare. Da qual paese vi giunge questo corno dell'abbondanza e tanta copia di beni e di ghiotti bocconi?

- Da tutto l'altro mondo, rispose il Sagrestano, eccettuate alcune contrade delle regioni aquilonari, le quali da qualche anno danno scandalo pestifero. Ma, accidenti,



Se ne pentiran don den,

Se ne pentiran don dan.



Beviamo amici. Ma di che paese siete?

- Di Turenna rispose Panurgo.

- Ah, non foste davvero covati da cattiva gazza, disse il Sagrestano, se venite dalla benedetta Turenna. Dalla Turenna tante e tante provviste ci giungono ogni anno, che ci fu detto un giorno da gente del luogo qui di passaggio, che il duca di Turenna da tutte le sue rendite non trae di che satollarsi di lardo (causa l'eccessiva prodigalità dei suoi predecessori verso questi nostri sacrosanti uccelli) per satollare noi qui di fagiani, pernici, pollastre, tacchini, grassi capponi del Ludunese, cacciagione d'ogni sorta, e d'ogni sorta di selvaggina. Beviamo amici! Vedete questa schiera d'uccelli come son morbidi e paffuti grazie alle rendite che ci giungono. E come cantano bene! Non vedeste mai usignoli cantar così bene come essi fanno davanti al piatto, quando vedono questi due bastoni dorati...

- È la festa dei bastoni, interruppe Fra Gianni.

- E quando, riprese il Sagrestano, io suono loro queste grosse campane che vedete appese intorno alla loro gabbia. Beviamo amici! Fa buon bere oggi. E gli altri giorni del pari. Beviamo; io bevo di gran cuore a voi, siate i benvenutissimi!

Non abbiate paura che vino e viveri qui manchino; ché quand'anche il cielo fosse di bronzo e la terra di ferro, mai non ci verrebbero meno i viveri per sette o anche otto anni: più a lungo che non durasse la fame in Egitto. Beviamo insieme in buon accordo e in carità.

- Diavolo, ne avete dell'abbondanza in questo mondo! esclamò Panurgo.

- E ben più ne avremo nell'altro, rispose il Sagrestano. Il meno che ci tocchi è i Campi Elisi. Beviamo, amici! Io bevo a te.

- I vostri primi Siticini, dissi io, furono molto divinamente e perfettamente ispirati inventando il modo per il quale voi avete ciò che tutti gli umani appetiscono naturalmente e che a ben pochi o, propriamente parlando, a nessuno è concesso: cioè avere il paradiso in questo mondo e nell'altro del pari. Oh gente felice! Oh semidei! Piacesse al cielo che così toccasse a me!





CAPITOLO VII.



Come qualmente Panurgo racconta al mastro Sagrestano l'apologo del ronzino e dell'asino.



Dopo aver ben bevuto e ben mangiato, il Sagrestano ci condusse in una camera ben mobiliata, ben tappezzata, tutta dorata. Là ci fece portare dei mirabolani, un po' di balsamo, zenzero verde candito, ippocrasso e vino delizioso in abbondanza, e c'invitava con questi antidoti, quasi fosse beveraggio del fiume Lete, a mettere in oblio e noncuranza le fatiche patite sul mare; fece anche portare gran quantità di viveri alle nostre navi che si dondolavano al porto. Così riposammo quella notte; ma io non poteva dormire causa il sempiterno scotimento delle campane.

A mezzanotte il Sagrestano ci svegliò per bere; lui stesso bevve per primo dicendo:

- Voialtri dell'altro mondo dite che l'ignoranza è la madre di tutti i mali e dite il vero; ma tuttavia voi non la bandite dal vostro intelletto e vivete in lei, con lei e per lei. Perciò tanti mali vi tormentano ogni giorno più. Sempre vi lagnate, vi lamentate; non siete mai soddisfatti, ora lo considero.

L'ignoranza infatti vi tiene legati al letto come già il Dio delle battaglie per arte di Vulcano, e non intendete che il dover vostro è di risparmiare il vostro sonno, non risparmiare i beni di questa famosa isola. Voi dovreste aver già fatto tre pasti e imparate da me che per mangiare i viveri dell'Isola Sonante, bisogna levarsi di buon'ora; mangiandoli si moltiplicano; risparmiandoli vanno in diminuzione. Falciate il prato alla sua stagione e l'erba crescera più vigorosa e profittevole; non falciatelo e in pochi anni non sarà tappezzato che di musco. Beviamo amici, beviamo tutti, i più magri dei nostri uccelli cantano ora tutti per noi, e noi beviamo, vi prego, per loro. Beviamo, di grazia, e presto, non ne sputerete che meglio. Beviamo una, due, tre, nove volte: non zelus sed charitas.

Allo spuntar del giorno ci svegliò di nuovo per mangiar le zuppe di prima. Poi non facemmo che un solo pasto il quale durò tutto il giorno e non era possibile distinguere se fosse desinare o cenare, merendare o ricenare. Solamente, per spasso, andammo a fare un giro nell'isola per vedere e udir il gioioso canto di quei benedetti uccelli.

Alla sera Panurgo disse al Sagrestano:

- Non vi dispiaccia, Signore, che io vi racconti un'allegra storiella avvenuta nel paese di Châtelraud da ventitre lune.

Il palafreniere d'un gentiluomo, una mattina d'aprile faceva passeggiare i suoi grandi cavalli per campi. Là incontrò una gaia pastorella, che



All'ombra d'un boschetto

Le pecorelle sue guardava



e insieme un asino e qualche capra. Conversando con lei la persuase a salire in groppa dietro a lui per visitare la scuderia e farvi uno spuntino alla campagnola. Mentr'essi si trattenevano là conversando, il cavallo si rivolse all'asino e gli disse all'orecchio (poiché le bestie parlarono tutto quell'anno in diversi luoghi):

- Povero e meschino ciuchetto, ho pietà e compassione di te. Tu lavori molto ogni giorno me n'accorgo dal tuo sottocoda tanto logoro; è giusto, poiché Dio t'ha creato pel servizio degli uomini; sei un ciuco da bene. Ma il non esser strofinato, strigliato, bardato e alimentato più di quanto vedo, ciò mi sembra un po' duro e fuor de' termini di ragione. Tu sei tutto irsuto, tutto scalcinato, tutto sfiancato e non ti nutri che, di canne, di spine e duri cardi. Onde ti ammonisco, o ciuchetto, di venirtene pian piano con me e vedere come siamo trattati e nutriti noialtri che natura ha generato per la guerra.

Risentirai beneficio dal mio trattamento.

- Oh, Signor Cavallo, verrò davvero volentieri, rispose l'asino.

- Puoi anche dire Signor Ronzino, o ciuco, disse il ronzino.

- Perdonatemi, Signor Ronzino, rispose l'asino, se noialtri del contado e rustici siamo scorretti e rozzi nel nostro parlare. Vi obbedirò dunque volentieri e poiché vi piace farmi tanto bene e onore, vi seguirò da lontano per paura delle bastonate (la mia pelle ne è tutta contrappuntata).

Montata la pastorella, l'asino seguiva il cavallo fermamente deliberato di fare una buona mangiata arrivando alla scuderia. Il palafreniere lo scorse e ordinò ai garzoni di stalla di por mano al forcale e direnarlo a legnate.

L'asino, intendendo questo discorso si raccomandò al dio Nettuno e cominciava a sloggiare di gran carriera pensando tra sé e così sillogizzando: "Dice bene: non è della mia condizione seguire le corti dei grandi signori; natura non m'ha creato che per aiutare la povera gente; Esopo me ne aveva avvertito con un suo apologo; ho peccato d'oltracotanza; non c'è altro rimedio che scappar via subito e dico più presto che non siano cotti gli asparagi. E l'asino via al trotto, a peti, a balzi, a calci, al galoppo e a scorreggiate.

La pastorella vedendo l'asino darsela a gambe, disse al palafreniere ch'era suo e lo pregò che fosse ben trattato, altrimenti voleva andarsene senza proceder oltre. Allora il palafreniere comandò che i cavalli restassero magari otto giorni senza avena, piuttosto che l'asino non ne avesse da farne una spanciata. Il peggio fu richiamarlo. I garzoni avevano un bel lusingarlo e dargli voce: "Truunc, truunc, ciuchino, qua!" ma l'asino diceva: "Non ci vedo, ho vergogna".

E più benignamente lo chiamavano e più rudemente si scansava a salti e scorreggiate; ci sarebbero ancora adesso, se la pastorella non li avesse avvertiti di crivellare l'avena alto in aria, chiamandolo, ciò che fu fatto. Subito l'asino voltò faccia dicendo: Avena? ah, venga! e non il tridente, dico, a chi mi dice: passa. Così s'arrese all'invito, cantando melodiosamente.

Fa tanto bene all'anima come voi sapete, udir la voce e musica di queste bestie arcadiche!

Quando giunse lo menarono alla stalla presso il grande cavallo; fu grattato, strofinato, strigliato, lettiera nuova fino al ventre, rastrelliera piena di fieno, greppia zeppa d'avena.

E quando i garzoni la stavano crivellando, egli faceva lor segno delle orecchie che se la mangierebbe anche troppo senza crivellarla e che non si disturbassero, e che tanto onore non gli competeva.

Quando si furono ben rimpinzati, il cavallo interrogò l'asino dicendo:

- Come va dunque ora, povero chiucino? Che ti sembra di questo trattamento? E pensare che non volevi venire! Che ne dici?

- In nome del fico, rispose l'asino, mangiando il quale uno de' nostri antenati fece morire a forza di ridere Filemone, questo è balsamo, signor Ronzino. Però, però la festa non è che a mezzo. Non fottete per nulla qui dentro voialtri, Signori Cavalli?

- Di che fottere mi parli tu, ciuchino? domandò il cavallo. Che ti colga il malanno! Mi prendi tu per asino?

- Ah, ah! Rispose l'asino, sono un po' duro da imparare il linguaggi cortigiano dei cavalli. Io domando: ronzineggiate per nulla qui dentro, voialtri, Signori Ronzini?

- Parla piano, ciuchino, disse il cavallo, ché se i garzoni ti sentono, ti picchieranno sì fitto a gran colpi di forcale che ti passerà la voglia di fottere. Noi qui dentro non si osa neanche rizzare la punta, fosse pure anco per orinare, per paura dei colpi; per tutto il resto stiamo da re.

- Per l'alba del basto che porto, io ti rinnego; basta, basta la tua lettiera, il tuo fieno, la tua avena; vivano i cardi dei campi poiché là a piacere si ronzineggia! Mangiar meno e sempre ronzinarci la sua brava botta, questa è la mia divisa; di ciò noi facciamo fieno e pietanza. Oh, Signor Ronzino, amico mio, se tu ci avessi visto alle fiere quando noi teniamo il nostro capitolo provinciale, come noi freghiamo a bell'agio mentre le nostre padrone vendono le ochette e i pulcini loro!

Così finì il loro discorso. Ho detto.

Qui Panurgo si tacque e non aggiungeva verbo. Pantagruele lo consigliò a trarre una conclusione. Ma il Sagrestano rispose.

- A buon intenditor poche parole. Comprendo benissimo ciò che con questo apologo dell'asino e del cavallo vorreste dire e inferire, ma voi siete uno svergognato. Sappiate che qui non v'è nulla per voi, non insistete.

- Ma pure, disse Panurgo, ho ben visto qui, non è molto, un'abbagallessa a piume bianche che converrebbe meglio cavalcare, che menar per mano. E se gli altri sono damiaugelli ella mi sembra damiaugella, voglio dire leggiadra e graziosa sì da meritare un peccato o due. Dio me lo perdoni tuttavia, io non pensavo a male; ma il male che penso mi possa subito capitare!





CAPITOLO VIII.



Come qualmente ci fu mostrato il Papagallo con gran difficoltà.



Il terzo giorno continuò con gli stessi festini e banchetti dei due precedenti. Pantagruele chiese istantemente quel giorno di vedere il Papagallo; ma il Sagrestano rispose che quello non si lasciava vedere tanto facilmente.

- Come? disse Pantagruele, ha egli l'elmo di Plutone in testa, l'anello di Gige nelle unghie, o un camaleonte in seno per rendersi invisibile alla gente?

- No, rispose il Sagrestano, ma per sua natura è un po' difficile a vedere. Io provvederò tuttavia in modo che lo possiate vedere, se ciò è possibile.

Ciò detto ci lasciò all'opera di masticazione.

Tornato un quarto d'ora dopo, ci disse che il Papagallo era visibile in quel momento e ci condusse di soppiatto e in silenzio dritti alla gabbia nella quale era rannicchiato, accompagnato da due piccoli Cardingalli e da sei grossi e grassi Vescogalli. Panurgo considerò con curiosità il suo aspetto, i gesti, il comportamento; poi esclamò ad alta voce:

- Malanno alla bestia! Sembra un'upupa.

- Parlate piano per Dio, disse il Sagrestano; egli ha orecchie, come notò saggiamente Michele de Matiscones.

- Anche l'upupa le ha, disse Panurgo.

- Se vi sente besternmiare così, siete perduti, buona gente. Vedete là, dentro la sua gabbia, un bacino? Ne usciranno folgori, tuoni, lampi, diavoli e tempesta dai quali sarete in un momento inabissati cento piedi sotterra.

- Val meglio bere e banchettare, disse Fra Gianni.

Panurgo restava in contemplazione veemente del Papagallo e della sua compagnia, quando scorse sotto la sua gabbia una civetta. Allora esclamò:

- Per la virtù di Dio, noi siamo qui ben uccellati a tutto spiano e ridotti a mal partito. C'è, perdio, in questo maniero, e imbroglio, e rigatteria, e raschieria fin che se ne vuole. Guardate là quella civetta; siamo assassinati, perdio!

- Parla piano, in nome di Dio, disse il Sagrestano; non è una civetta è maschio, è un nobile sagrestano.

- Ma fateci un po' cantare il Papagallo disse Pantagruele, affinché sentiamo la sua armonia.

- Egli non canta che a' suoi giorni, disse il Sagrestano e non mangia che alle sue ore.

- Non così faccio io, disse Panurgo, ma tutte le ore per me son buone. Andiamo dunque a bere.

- Questo è parlar da galantuomo, disse il Sagrestano; così parlando mai non sarete eretico. Andiamo, anch'io sono dello stesso avviso.

Ritornando alla beveria scorgemmo rannicchiato un vecchio Vescogallo a testa verde accompagnato da un soffiaguanti e da tre onocrotali, uccelli assai giulivi. E russavan sotto un frascato. Presso di lui era una graziosa Abbagallessa la quale cantava giocondamente. Noi ne avemmo tal piacere che avremmo voluto tutte le nostre membra in orecchie convertire, nulla perdere del suo canto e darvi tutta la nostra attenzione senza esser per nulla distratti altrove. Panurgo disse:

- Questa bella Abbagallessa si rompe la testa a forza di cantare e questo grosso brutto Vescogallo intanto russa; ora io lo farò ben cantare, corpo del diavolo!

E suonò una campana pendente sulla sua gabbia; ma più suonava, più il Vescogallo russava e punto non cantava.

- Per Dio, disse Panurgo, vecchio allocco, vi farò ben cantare in altro modo.

E prese un gran sasso per colpirlo in mezzo al corpo. Ma il Sagrestano gridò:

- Oh galantuomo, colpisci, ferisci, uccidi, ammazza tutti i re e i principi del mondo, con tradimento, con veleno, o altrimenti quando vorrai, snida dal cielo anche gli angeli se vuoi, e di tutto sarai perdonato dal Papagallo; ma non toccare questi sacri uccelli se ti preme vita, guadagno e sostanze sia tuoi che de' tuoi parenti e amici vivi e trapassati. Persino quelli che nasceranno da loro ne sarebbero perseguitati! Considera bene quel bacino.

- Val meglio dunque, disse Panurgo, bere e banchettare.

- Dice bene il signor Antitus, osservò Fra Gianni; mentre stiam qui a vedere questi diavoli di uccelli, non facciamo che bestemmiare, mentre vuotando bottiglie e boccali non facciamo che lodare Iddio. Andiamo dunque a bere! Oh la bella parola!

Il quarto giorno, dopo bere (ben s'intende) il Sagrestano ci diede congedo. Noi gli facemmo dono d'un bel coltellino della Perche che egli gradì anche più che non gradisse Artaserse il bicchier d'acqua fresca che gli presentò un contadino, e ci ringraziò cortesemente; mandò alle nostre navi rifornimenti d'ogni provvista, ci augurò buon viaggio e di giungere sani e salvi alla fine delle nostre imprese e ci fece giurare per Giove Pietra che, al ritorno, saremmo ripassati pel suo territorio. E infine ci disse:

- Amici, voi noterete che al mondo vi sono assai più coglioni che uomini; ricordatevene!





CAPITOLO IX.



Come qualmente discendemmo nell'Isola dei Ferramenti.



Zavorrato ben bene lo stomaco, avendo vento in poppa inalzammo il nostro grande artimone, onde in meno di due giorni arrivammo all'isola dei Ferramenti deserta e non abitata da alcuno, dove vedemmo gran numero d'alberi portanti marrelli, zappini, vanghe, falci, falcetti, badili, cazzuole, scuri, roncole, seghe, ascie, pinze, forbici, tenaglie, pale, girelle, e trapani.

Altri portavano daghe, pugnali, spadini, temperini, punteruoli, spade, spadoni, sciabole, scimitarre, stocchi, freccie e coltelli.

Chiunque ne volesse non aveva che scrollare l'albero e subito cadevano come prugne; ma, per di più, cadendo a terra incontravano una specie d'erba che si chiamava foderi e vi s'inguainavano dentro.

Bisognava ben guardarsi che, cadendo, non piombassero sulla testa, i piedi, o altre parti del corpo, perché cadevano di punta per inguainarsi, e avrebbero ferito la persona.

Sotto non so quali altri alberi vidi certe specie d'erbe le quali crescevano come picche, lance, giavellotti, alabarde, lancioni, partigiane, ronconi, forche, spiedi, e scescrevano alto. E non appena toccavano l'albero incontravano i loro ferri e lame ciascuna adatta alla sua natura.

Gli alberi sovrastanti già le avevano apprestate alla loro venuta, mentre crescevano, come voi apprestate i vestitini ai bimbi quando volete toglierli di fascie.

Affinché non aborriate l'opinione di Platone, Anassagora, Democrito (sono piccoli filosofi?) quegli alberi ci sembravano animali terrestri. E dalle bestie differivano non perché non avessero cuoio, grasso, carne, vene, arterie, legamenti, nervi, cartilagini, glandole, ossa, midolla, umori, matrici, cervello e articolazioni conosciute, (poiché essi ne hanno, come ben deduce Teofrasto) ma in ciò ch'essi hanno la testa, cioè il tronco, in basso; i capelli, cioè le radici, in terra e i piedi, cioè i rami, per aria come se un uomo facesse la pertica del lupo.

E come voi, Impestati, grazie alle vostre sciatiche, ai vostri omoplati reumatizzati, sentite da lungi la venuta delle pioggie, dei venti, del sereno, e ogni cangiamento di tempo, così dalle loro radici, tronchi, gomme, midolle, quegli alberi presentono qual sorta d'aste cresce sotto e preparano loro ferri e lame convenienti.

Vero è che in ogni cosa, Dio eccettuato, avviene qualche errore. La natura stessa non ne va esente quando produce cose miracolose e animali deformi.

Parimenti in quegli alberi notai qualche sbaglio; infatti una mezza picca crescente per aria sotto quegli alberi ferramentiferi, toccando i rami invece di ferro incontrò una scopa: bene, servirà a spazzare i camini; una partigiana incontrò delle forbici: tutto è buono: servirà per mondare giardini dai bruchi; un'asta di alabarda incontrò un ferro di falce e sembrava ermafrodita; non importa, sarà per qualche falciatore. Gran bella cosa credere in Dio!

Ritornando alle nostre navi, vidi dietro un non so qual cespuglio, non so qual gente, che faceva non so che cosa, non so come, aguzzando non so quali ferramenti, che avevano, non so dove, né in qual maniera.





CAPITOLO X.



Come qualmente Pantagruele arrivò all'Isola di Cassade.



Continuammo il nostro viaggio lasciando l'Isola dei Ferramenti e il giorno seguente entrammo nell'Isola di Cassade, vera immagine di Fontainebleau poiché la terra vi è sì magra che le ossa (cioè le roccie) le forano la pelle, arenosa, sterile, malsana e sgradevole. Il nostro pilota ci mostrò là due piccole roccie quadrate a otto punte eguali a guisa di cubo, le quali per la loro bianchezza sembravano, in apparenza, esser d'alabastro, o ben coperte di neve; ma egli ci assicurò ch'eran coperte di aliossi. In quelle diceva essere il maniero a sei piani di venti diavoli d'azzardo, tanto temuti nel nostro paese, i più grandi dei quali, gemelli e accoppiati, chiamava Sestine, i più piccoli Ambezasso, gli altri medii Cinquina, Quaderna, Terno, Doppio Due, gli altri chiamava Sei e cinque, Sei e quattro, Sei e tre, Sei e due, Sei e otto, Cinque e quattro, Cinque e tre, e così consecutivamente. Allora notai che sono pochi giocatori al mondo che non siano invocatori di diavoli: poiché, gettando due dadi sul tavolo quando gridano devotamente: "Sestina, amico mio!" si tratta del gran diavolo; "Ambizasso, gioia mia!" si tratta del piccolo diavolo; "Quattro e due, ragazzi miei!" e così degli altri, invocano i diavoli pei loro nomi e soprannomi. E non solamente li invocano, ma si dicono loro amici e famigliari. Vero è che questi diavoli non vengono sempre immediatamente secondo l'invocazione ma sono in ciò scusabili; si trovavano altrove secondo l'ordine di priorità degli invocanti; non bisogna dunque dire che manchino di sensi e d'orecchie. Ne hanno, vi dico, e di belle.

Poi ci disse che intorno e sulla riva di quelle roccie quadrate erano avvenuti disastri e naufragi e perdite di vite e di beni più che intorno a tutte le Sirti, Cariddi, Sirene, Scilla, Strofadi e abissi di tutto il mare.

Io non ebbi difficoltà a crederlo ricordando che un tempo tra i saggi egiziani Nettuno era designato lettere geroglifiche, col primo cubo, Apollo coll'Asso, Diana col Due, Minerva col Sette, ecc.

Inoltre ci disse esservi là un fiasco del Sangraal, cosa divina e conosciuta da poca gente.

Panurgo tanto fece con belle preghiere ai sindaci del luogo, che essi ce lo mostrarono; ma ciò avvenne con cerimonia e solennità tre volte più grande di quella onde a Firenze mostrano le Pandette di Giustiniano, o la Veronica a Roma.

Non vidi mai tanti zendadi, e fiaccole, e torcie, candele e cerimonie.

E finalmente ci fu mostrata la faccia di un coniglio arrosto!

Non vedemmo là altra cosa memorabile fuorché Bonne Mine moglie di Mauvais Jeu, e i gusci di due ova covati un tempo e dischiusi da Leda, dai quali nacquero Castore e Polluce fratelli di Elena la bella.

I sindaci ce ne diedero un pezzetto in cambio di pane.

Partendo acquistammo una pila di cappelli e berretti di Cassade, vendendo i quali son sicuro faremo poco guadagno. E credo che meno ancora ne faranno, usandoli, coloro che li acquisteranno da noi.





CAPITOLO XI.



Come qualmente arrivammo allo sportello abitato da Grippaminotto, Arciduca dei Gatti impellicciati.



Qualche giorno dopo avendo rischiato più volte di far naufragio, giungemmo a Condannazione, altra isola tutta deserta; poi arrivammo anche allo Sportello dove Pantagruele non volle discendere. E fece benissimo. Infatti noi vi fummo fatti prigionieri, arrestati per comando di Grippaminotto, Arciduca dei Gatti impellicciati, perché qualcuno della nostra comitiva volle vendere a un sergente dei cappelli di Cassade.

I Gatti impellicciati sono bestie molto orribili e spaventevoli; mangiano i bambini e si cibano su pietre di marmo. Pensate dunque, beoni, se non dovranno esser camusi. Il loro pelo non spunta dalla pelle, ma è nascosto per di dentro, e portano tutti quanti per loro simbolo e divisa una borsa aperta; ma non tutti alla stessa maniera; poiché alcuni la portano attaccata al collo a mo' di sciarpa, altri sul culo, altri sulla pancia, altri sul costato, e tutto per ragione di mistero. Hanno anche le unghie tanto forti, lunghe e aguzze che nulla sfugge loro quando l'abbiano tra gli artigli. Si coprono la testa alcuni di berretti a quattro grondaie o braghette, altri di berretti a risvolti, altri di berretti a mortaio, altri di cappucci a mortaio.

Entrando nella loro tana, un mendicante che stava alla porta, al quale avevamo dato mezzo testone, ci disse:

- Dio vi conceda, gente da bene, di uscir ben presto sani e salvi di là: considerate bene l'aspetto di quei robusti pilastri, sostegni della giustizia grippaminottiera. E notate che se vivete ancora sei olimpiadi, più l'età di due cani, voi vedrete questi Gatti impellicciati, signori di tutta Europa e possessori sicuri di ogni bene e dominio che in essa si trovi, se non avvenga che nei loro eredi, per divina punizione, subitamente periscano i beni e le rendite da loro ingiustamente acquistati; ciò vi dice un mendicante da bene.

Regna tra loro la sesta essenza mediante la quale acchiappano tutto, divorano tutto, sconcacano tutto. Essi bruciano, squartano, decapitano, feriscono, imprigionano, rovinano e minano tutto senza discrezione di bene e di male. Poiché, tra loro, il vizio è chiamato virtù, la cattiveria soprannominata bontà, il tradimento ha nome fedeltà, il ladrocinio è detto liberalità, il saccheggio è la loro divisa e, compiuto da loro, e trovato buono da tutti gli umani, eccettuati gli eretici; e tutto fanno con sovrana e irrefragabile autorità.

Come segno del mio pronostico osserverete che là dentro le mangiatoie stanno sopra le rastrelliere. E di ciò vi sovvenga un giorno o l'altro.

E se mai peste, fame, o guerra, terremoti, cataclismi, conflagrazioni, sventure infestino il mondo, non le attribuite, non le riferite a congiunzioni di pianeti malefici, agli abusi della corte di Roma, alle tirannie dei re e principi della terra, all'impostura degli ipocriti, degli eretici, dei falsi profeti, alla malignità degli usurai, falsi monetari, limatori di testoni, né all'ignoranza, impudenza, imprudenza dei medici, chirurghi, farmacisti, né alla perversità delle donne adultere, venefiche, infanticide; attribuite tutto all'enorme, indicibile, incredibile, inestimabile malvagità foggiata ed adoperata continuamente nella officina dei gatti impellicciati, la quale non è conosciuta dalla gente più che lo sia la cabala degli Ebrei e pertanto non è detestata, corretta e punita come ragione vorrebbe.

Ma se un giorno sarà messa in evidenza e manifestata al popolo, non v'è, né vi fu oratore tanto eloquente che lo raffreni coll'arte sua, né legge tanto rigorosa e draconiana che lo trattenga per paura di pena, né magistrato tanto potente che gl'impedisca per forza di farli bruciar vivi nel loro covo, come s'addice a felloni.

I loro stessi figlioli, Gattini impellicciati e altri parenti, li avrebbero in orrore e abominazione.

Perciò come Annibale fu fatto giurare da suo padre Amilcare con giuramento solenne e religioso di perseguitare fin che vivesse i Romani, così io ebbi dal defunto padre mio ingiunzione di rimanere qui fuori in attesa che piombi là dentro la folgore del cielo e li riduca in cenere come avvenne ai Titani profanatori e nemici degli Dei.

Giacché gli uomini sono tanto e tanto induriti di cuore che né ricordano il male che quei Gatti impellicciati hanno compiuto, né sentono quello che compiono, né prevedono quello che compiranno; o, sentendolo, non osano, non vogliono, o non possono sterminarli.

- Che è ciò? disse Panurgo. Ah, ah, ah, io non ci vado per Dio; torniamo indietro, ritorniamo dico, in nome di Dio!



Non mi stupisce quel pitocco meno

Di fulmine che cada a ciel sereno.



Tornando indietro trovammo la porta chiusa; e ci fu detto che là facilmente si entrava come in Averno; ma la difficoltà stava nell'uscire e che non saremmo usciti fuori in nessuna maniera senza un bollettino di scarico dall'assistente, per questa sola ragione: che andarsene via dalle fiere non è come andarsene dai mercati e che avevamo i piedi coperti di polvere. Il peggio fu quando passammo lo sportello. Poiché per avere il bollettino di scarico ci presentammo davanti al più sozzo mostro che mai sia stato descritto.

Lo chiamavano Grippaminotto. Non saprei meglio compararlo che alla Chimera, o alla Sfinge, o a Cerbero, oppure al simulacro d'Osiride come lo figuravano gli Egizii con tre teste insieme congiunte, cioè: d'un leone ruggente, d'un cane scodinzolante e d'un lupo che spalanca la gola, attorcigliati da un dragone che si morde la coda e tutto raggi scintillanti d'intorno.

Le mani avea piene di sangue, le unghie come d'arpia, il muso a becco di corvo, i denti di cinghiale quatrenne, gli occhi fiammeggianti come una gola d'inferno, tutto coperto di berretti a mortaio intrecciati con pestelli, meno le unghie che ben si vedevano.

Il seggio suo e de' suoi collaterali Gatti di garenna, era una lunga rastrelliera tutta nuova, sopra la quale erano mangiatoie arrovesciate, molto ampie e belle come avea detto il mendicante. Nel posto del seggio principale era l'immagine d'una vecchia donna, che teneva nella destra il fodero d'un falcetto e nella sinistra una bilancia e portava occhiali al naso. I piatti della bilancia consistevano in due borse di velluto, l'una piena di monete e pendente, l'altra vuota e lunga, elevata sopra la bilancia.

Sono d'avviso fosse l'immagine della giustizia grippaminottiera, ben aborrente dall'istituzione degli antichi Tebani, i quali erigevano le statue dei loro Dicasti e giudici dopo la loro morte, d'oro, d'argento e di marmo secondo il loro merito, e tutte senza mani.

Quando ci fummo presentati davanti a lui, non so qual sorta di gente, tutti rivestiti di borse e di sacchi con gran lembi di scritture, ci fecero sedere sopra un banco d'accusati.

Panurgo disse:

- Bricconi, amici miei, io sto assai bene in piedi; tanto più che il banco è troppo basso per un uomo che ha calze nuove e farsetto corto.

- Sedete là, risposero essi e che non occorra ripeterlo. La terra ora si spalancherà per inghiottirvi vivi se mancate di rispondere a tono.



CAPITOLO XII.



Come qualmente ci fu proposto un enigma da Grippaminotto.



Quando fummo seduti Grippaminotto in mezzo ai suoi Gatti impellicciati ci disse con parole roche e furiose: Or qua, or qua, or qua! (Da bere, da bere qua! Diceva Panurgo tra i denti)



Una bionda e ben giovane donzella

Concepì senza padre un figlio nero.

Senza dolor lo partorì la bella,

Benché nascendo al modo della vipera,

Egli rodesse con gran vituperio

Un suo fianco, d'uscire impaziente.

Poi varcò monti e valli arditamente

Or in aria volando, or camminando.

Talché stupì il filosofo sapiente

Che lo credea d'anima d'uom dotato.



Or qua, rispondi a questo enigma, disse Grippaminotto, e spiegaci che cosa sia, or qua.

- Or per Dio, risposi, se avessi sfinge in casa mia, or per Dio, come l'aveva Verre, uno de' vostri precursori, or per Dio, potrei risolvere l'enigma, or per Dio; ma certo io non c'ero e sono, or per Dio, innocente di fatto.

- Or qua, per Stige, disse Grippaminotto, poiché altro non vuoi dire, or qua, io ti mostrerò, or qua, che sarebbe stato meglio per te cadere tra le zampe di Lucifero, or qua, e di tutti i diavoli, or qua, che tra le nostre unghie, Or qua. Eccole, le vedi? Or qua, tanghero, tu ci alleghi la tua innocenza, or qua, come cosa degna di sfuggire alle nostre torture. Or qua, le nostre leggi sono come tele di ragno; or qua, i semplici moscerini e le farfallette vi restano impigliati; or qua, i grossi tafani malefici le rompono, or qua, e vi passano attraverso or qua. Similmente noi non cerchiamo i grossi ladroni e i tiranni, or qua: essi sono di troppo dura digestione, or qua, e ci ammazzerebbero, or qua. Ma voi altri gentili innocenti sarete per bene innocentati or qua, il gran diavolo, or qua, vi canterà messa, or qua.

Fra Gianni, mal sofferente di ciò che aveva dichiarato Grippaminotto gli disse:

- Ohe, signor diavolo intonacato, come pretendi che risponda d'un caso che ignoro? Non ti contenti tu della verità?

- Or qua, disse Grippaminotto, non c'era ancora capitato in tutto il mio regno, or qua, che alcuna persona parlasse or qua, senza essere prima interrogata. Chi ha slegato qui questo pazzo furioso?

- Ha mentito, disse Fra Gianni, senza mover labbro.

- Or qua, quando verrà la tua volta di rispondere, or qua, me la pagherai, or qua, briccone.

- Tu hai mentito, ripeteva Fra Gianni, in silenzio.

- Pensi tu essere nella foresta dell'Accademia, or qua, con gli oziosi cacciatori e ricercatori della verità? Or qua, noi abbiam qui ben altre cose a fare, or qua: qui si risponde, dico, or qua, or qua, categoricamente, su ciò che s'ignora. Or qua, si confessa, or qua, d'aver fatto ciò che mai non si fece. Or qua, si afferma di sapere ciò che mai non si conobbe. Or qua, si fa portar pazienza a chi s'arrabbia. Or qua, si spenna l'oca senza farla strillare, or qua. Tu parli senza procura, or qua, lo vedo bene, or qua, che la febbre quartana ti possa sposare, or qua!

- Diavoli, esclamò Fra Gianni, arcidiavoli, protodiavoli, pantodiavoli, vuoi tu dunque sposare i monaci? Oh, uh! oh, uh! ti dichiaro eretico.





CAPITOLO XIII.



Come qualmente Panurgo espone l'enigma di Grippaminotto.



Grippaminotto fingendo non intendere la risposta, si volse a Panurgo dicendo: Or qua, or qua, or qua, e tu, mattacchione non vuoi dir nulla ?

- In nome del diavolo, or là, rispose Panurgo, vedo che per noi c'è qui la peste, in nome del diavolo, or là, poiché l'innocenza non vi è al sicuro, e il diavolo vi canta messa, in nome del diavolo, or là. Io vi prego di lasciare che io la paghi per tutti, in nome del diavolo, or là, e di lasciarci andare. Non ne posso più in nome del diavolo, or là.

- Andare! disse Grippaminotto, or qua; non avvenne mai da trecent'anni in qua, or qua, che alcuno sfuggisse di qui dentro senza lasciarvi del pelo, or qua, o della pelle, anche più spesso, or qua. E che? Sarebbe infatti, or qua, come venir a dire che saresti stato citato davanti a noi ingiustamente, or qua, e da noi ingiustamente, or qua, trattato, or qua. Tu sei ben disgraziato, or qua; ma ancor più lo sarai, or qua, se non rispondi all'enigma proposto. Or qua, che cosa significa, or qua?

- Significa, in nome del diavolo, or là, rispose Panurgo, un tonchio nero d'una fava bianca, in nome del diavolo, or là; il quale talora vola, talora cammina per terra, in nome del diavolo, or là, onde fu stimato da Pitagora, primo amatore della sapienza (cioè, in greco, filosofo) in nome del diavolo or là, aver ricevuto anima umana per via di metempsicosi, in nome del diavolo, or là. Se voialtri, foste uomini, in nome del diavolo, or là, dopo la vostra mala morte, le vostre anime, secondo la sua opinione entrerebbero in corpi di tonchi, in nome del diavolo or là, poiché in questa vita rosicchiate e mangiate tutto; nell'altra roderete e mangerete come vipere gli stessi costati delle vostre madri, in nome del diavolo, or là.

- Corpo di Dio, disse Fra Gianni, io vorrei di tutto cuore che il buco del culo mi si mutasse in fava e fosse roso in tomo da cotesti tonchi.

Panurgo, dopo queste parole, gettò in mezzo all'aula una grossa borsa di cuoio piena di scudi del sole. Al suono della borsa i Gatti impellicciati cominciarono a giocar d'unghie come se fossero violini smanicati. E tutti esclamarono ad alta voce: Sono le droghe; il processo è stato ben buono, ben ghiotto, ben drogato. Sono dei gran galantuomini.

- È oro, disse Panurgo, sono scudi del sole.

- La corte ha inteso, disse Grippaminotto, or bene, or bene, or bene. Andate ragazzi, or bene, e proseguite la vostra strada, or bene, noi non siamo tanto diavoli, or bene, quanto siam neri, or bene, or bene, or bene.

Usciti dallo Sportello, fummo condotti fino al porto da certi grifoni di montagna. Prima d'imbarcarci fummo avvertiti che non avessimo ad avviarci senza aver prima fatto doni signorili tanto alla dama Grippaminotta, quanto a tutte le Gatte impellicciate; altrimenti avevano ordine di ricondurci allo Sportello.

- Merda ! rispose Fra Gianni; daremo qui in disparte un'occhiata al deposito del nostro danaro e soddisferemo tutti.

- Ma non dimenticate, dissero i garzoni, il bicchier di vino dei poveri diavoli.

- Il vino dei poveri diavoli, rispose Fra Gianni, non si dimentica mai, in ogni paese e stagione esso è ricordato.





CAPITOLO XIV.



Come qualmente i Gatti impellicciati vivono di corruzione.



Non erano finite queste parole che Fra Gianni scorse sessantotto galere e fregate che arrivavano al porto, onde corse subito a domandare novelle e a vedere di che merci fossero cariche le navi.

E vide che erano tutte cariche di cacciagione, lepri, capponi, colombi, maiali, capretti, pavoncelle, pollastri, anitre, domestiche e selvatiche, ochette e altre sorta di selvaggina. Scorse inoltre qualche pezza di velluto, di raso e di damasco. Allora chiese ai viaggiatori dove e a chi portassero quei ghiotti bocconi. Essi risposero che li portavano a Grippaminotto ai Gatti impellicciati e alle Gatte impellicciate.

- Come chiamate codeste droghe? chiese Fra Gianni.

- Corruzione, risposero i viaggiatori.

Dunque se di corruzione vivono di generazione periranno, per la virtù di Dio, sarà proprio così: i padri loro divorarono i buoni gentiluomini, che, in ragione della loro condizione, si esercitavano alla voleria e alla caccia per essere in tempo di guerra scaltriti e già induriti alle fatiche. Giacché la caccia è come un simulacro di battaglia; e mai non mentì Senofonte scrivendo che dalla caccia, come dal cavallo di Troia, sono usciti tutti i buoni capitani. Io non son chierco, ma me l'han detto e lo credo. Le anime di quei gentiluomini, secondo l'opinione di Grippaminotto, dopo la loro morte entrano in cinghiali, cervi, capretti, aironi, pernici, e altrettali animali che avevano durante la loro prima vita sempre amati e cercati.

Ora questi Gatti impellicciati, dopo aver distrutto e divorato i loro castelli, e terre, e domini, possessioni e rendite, nella vita seguente ancora ne cercano il sangue e l'anima. Oh quel bravo mendicante ce ne aveva ben avvertito accennando alla mangiatoia stabilita sopra la rastrelliera.

- Ma, veramente, disse Panurgo, si fa bandire da parte del gran Re che nessuno, sotto pena di capestro, abbia a prendere cervi o cerve, cinghiali o capretti.

- È vero, rispose uno per tutti; ma il Gran Re, è tanto buono e benigno; questi Gatti impellicciati sono tanto rabbiosi e affamati di sangue cristiano, che abbiamo meno paura offendendo il gran Re, che speranza mantenendo con queste corruzioni i Gatti impellicciati. Tanto più che domani Grippaminotto sposa una sua Gatta impellicciata con un grosso Gattone bene impellicciato.

Al tempo andato li chiamavano Masticafieno; ma, ahimè, non ne masticano più. Noi, ora, li chiamiamo masticalepri, masticapernici, masticabeccaccie, masticafagiani, masticapollastri, masticacapretti, masticaconigli, masticamaiali; d'altre vivande non sono alimentati.

- Merda, merda! disse Fra Gianni: l'anno che viene si chiameranno masticastronzi, masticadiarrea, masticamerde. Non volete credermi?

- Sì, perdiana, rispose la brigata.

- Facciamo due cose, propose Fra Gianni, primo impadroniamoci di tutte queste provvigioni; tanto più che sono fastidito di carni salate: mi riscaldano gl'ipocondri.

S'intende che pagheremo bene. In secondo luogo, torniamo alla Sportello e saccheggiamo tutti quei diavoli di Gatti impellicciati.

- Senza dubbio, disse Panurgo, io non ci vengo: sono un po' codardo di mia natura.





CAPITOLO XV.



Come qualmente Fra Gianni degli Squarciatori delibera di mettere a sacco i Gatti impellicciati.



Virtù di tonaca, disse Fra Gianni, ma che razza di viaggio facciamo? È un viaggio da caconi; non facciamo che scorreggiare, peteggiare, cacare, fantasticare, stare in ozio. Corpo di Dio, non è questa la mia natura; se non compio sempre qualche atto eroico, non posso dormir la notte. M'avete dunque preso a compagno in questo viaggio per cantar messa e confessare? Pasqua di sogliole! Il primo che viene a confessarsi avrà in penitenza, come vile e dappoco, di gettarsi in fondo al mare, e a capofitto, dico, in deduzione delle pene del purgatorio. Perché altro salì Ercole in fama e rinomanza sempiterma, se non perché peregrinando pel mondo, liberava i popoli da tirannie, da errori, da pericoli, da angarie? Egli uccideva tutti i briganti, tutti i mostri, tutti i serpenti velenosi e le bestie malefiche. Perché non seguiamo l'esempio suo e non facciamo come faceva lui per tutte le contrade dove passiamo? Egli disfece le Stinfalidi, l'idra di Lerna, Caco, Anteo, i Centauri. Io non son chierco ma i chierci lo dicono. Imitiamo Ercole e distruggiamo questi Gatti impellicciati, figli del diavolo e liberiamo questo paese dalla loro tirannia.

Io rinnego Maometto e giuro che se fossi forte e potente come fu Ercole, non vi domanderei né aiuto, né consiglio. Orsù andiamo o non andiamo? Io v'assicuro che lo uccideremo facilmente ed essi dovranno soccombere; nessun dubbio su ciò, visto che hanno tollerato da noi più ingiurie che non berrebbero brodaglia dieci troie. Andiamo!

- Delle ingiurie, io dissi, e del disonore non si curano, purché abbiano scudi in borsa, anche se fossero tutti merdosi: e forse noi li distruggeremmo come Ercole; ma ci manca il comando d'Euristeo; e nulla più m'auguro in quest'ora se non che Giove vada a passeggiare tra loro un paio d'orette allo stesso modo come una volta visitò Semele l'amata sua, madre prima del buon Bacco.

- Dio, disse Panurgo, ci ha fatto già una bella grazia lasciandoci sfuggire dalle loro unghie: io, quanto a me, non ci torno più: mi sento ancora commosso e agitato dall'affanno patito. E vi fui grandemente fastidito per tre cause: la prima perché ero fastidito, la seconda perché ero fastidito, la terza perché ero fastidito. Porgimi qui l'orecchio destro, Frate Gianni, mio coglion sinistro. Ogni volta che vorrai andare a tutti i diavoli davanti al tribunale di Minosse, Eaco, Radamanto, e Dite, sono pronto a farti compagnia indissolubile, a passare con te Acheronte, Stige, Cocito, bere a piene coppe l'acqua del fiume Lete, pagare per entrambi a Caronte il nolo della barca; ma quanto a tornare alla Sportello, se per avventura ci vuoi tornare, provvediti d'altra compagnia, non della mia; io non ci tornerò: questa parola ti sia una muraglia di bronzo. Se non vi son trascinato, per forza e per violenza, non mi gli avvicinerò finché vivo in questa vita, più che non s'avvicini Calpe ad Abila. Ulisse ritornò egli a cercare la sua spada nella caverna del Ciclope? No, per Giove: allo Sportello io non ho dimenticato nulla, non vi tornerò.

- Oh, gran cuore e franco compagnone di mani paralitiche! disse Fra Gianni. Ma parliamo un po' di scotto, dottor sottile: perché, e che cosa v'indusse a gettar loro la borsa piena di scudi? Ne abbiamo di troppo? Non era abbastanza gettar loro qualche testone limato?

- Poiché, rispose Panurgo, a ogni periodo del suo discorso, Grippaminotto apriva la sua borsa di velluto esclamando: Or qua, or qua; or qua! io congetturai che avremmo potuto sfuggir loro franchi e liberi gettando or là, or là in nome di Dio or là, in nome di tutti i diavoli là. Poiché borsa di velluto non è reliquario da testone, né da moneta spicciola; è ricettacolo da scudi del sole, intendi tu, frate Gianni, mio piccolo coglionaccio? Quando tu avrai arrostito arrosti quanto me, e sarai stato quanto me arrostito, parlerai altro latino. Ma ora per loro ingiunzione ci convien proseguire.

I grifoni bricconi se ne stavano sempre al porto in attesa di qualche somma di denaro. E vedendo che volevamo far vela si rivolsero a Fra Gianni, avvertendolo che non se ne andasse senza pagare il vino degli uscieri in proporzione delle droghe offerte.

- Eh, San Urluburlù, disse Fra Gianni, siete ancora qui, grifoni di tutti i diavoli ? Non sono abbastanza irritato per venirmi a importunare di più? Voi avrete il vostro vino ora, corpo di Dio, ve lo prometto sicuramente.

E sguainando la spada scese dalla nave risoluto a ucciderli come felloni: ma essi si misero a gran galoppo e più non li scorgemmo.

Non fummo pertanto liberati da ogni noia; poiché alcuni dei nostri marinai, col permesso di Pantagruele, mentre noi eravamo trattenuti da Grippaminotto si erano ritirati in un albergo presso il porto per banchettare e ristorarsi un po' di tempo; io non so se avessero o no pagato lo scotto, fatto è che una vecchia ostessa vedendo Fra Gianni in terra gli moveva grandi lagnanze, presenti un sergente genero di uno de' Gatti impellicciati e due testimoni. Fra Gianni, seccato dei loro discorsi e allegazioni domandò: Bricconi, amici miei, volete voi dire insomma, che i nostri marinai non sono gente da bene? Io sostengo il contrario e ve lo proverò per Giustizia; cioè con questo signor mastro sciabolone qui.

Ciò dicendo s'era messo a schermeggiare col suo sciabolone. I paesani fuggirono di trotto: restava solo la vecchia, la quale protestava a Fra Gianni che i suoi marinai erano gente da bene; di ciò solo si doleva: che non avessero nulla pagato per il letto dove avevano riposato dopo desinare e pel quale domandava cinque soldi tornesi.

- Veramente è a buon mercato, disse Fra Gianni; sono degli ingrati non troveranno sempre letti a tal prezzo; io li pagherò volentieri, ma vorrei ben vedere che letto è.

La vecchia lo condusse a casa e gli mostrò il letto che lodò per tutte le sue qualità, e disse che non speculava affatto domandandone cinque soldi. Fra Gianni le diede i cinque soldi; poi col suo sciabolone fendette in due il materasso di piuma e il cuscino e lanciava dalla finestra la piuma al vento, mentre la vecchia, discesa, gridava: aiuto! all'assassino! affannandosi a raccoglier la sua piuma.

Fra Gianni, senza curarsene, portò via nella nave la coperta, il materasso e le due lenzuola senza che alcuno lo vedesse, essendo l'aria offuscata dalla piuma come da neve, e li diede ai marinai. Poi disse a Pantagruele che là i letti erano a miglior mercato che in quel di Chinon, benché siano ivi le celebri oche di Pautilè. Infatti pel letto la vecchia non gli aveva domandato che cinque soldi, laddove in quel di Chinon poteva valere non meno di dodici franchi.

Tostoché Fra Gianni e gli altri della compagnia furono sulla nave, Pantagruele fece vela; ma si levò uno scirocco sì veemente che perdettero la rotta, e quasi riprendendo la direzione del paese dei Gatti impellicciati, entrarono in un gran golfo, dal quale un mozzo sul trinchetto, essendo il mare molto alto e terribile, gridò che vedeva ancora la odiosa dimora di Grippaminotto.

Panurgo, forsennato dalla paura gridava:

- Padrone, amico mio, diamo volta malgrado il vento e le onde. Non ritorniamo, amico mio, in quel brutto paese ove ho lasciato la mia borsa.

Intanto il vento li portò presso un'isola che non osarono tuttavia abbordare direttamente ed entrarono a bene un miglio di là, presso grandi roccie.





CAPITOLO XVI.



Come qualmente Pantagruele arrivò all'isola degli Apedefti dalle lunge dita e dalle mani uncinate, e delle terribili avventure e mostri che là vide.



Tostoché furono gettate le ancore e il vascello assicurato, calammo lo schifo. Dopo che il buon Pantagruele ebbe recitate le preghiere e ringraziato il Signore di averlo salvato e protetto da sì grande e rischioso pericolo, entrò con tutta la sua compagnia dentro lo schifo per prender terra, il che riuscì facilmente essendosi calmato il mare ed abbassati i venti; così in poco tempo arrivarono alle roccie. Quando furono sbarcati, Epistemone che ammirava la situazione di quel luogo e la stranezza delle roccie, avvistò qualche abitante del paese. Il primo al quale si rivolse, era vestito d'una veste corta, color di re, aveva il farsetto di stoffa rozza, con le maniche, sotto di raso, e sopra di cammello, e il berretto con coccarda; uomo di modi abbastanza educati e, come sapemmo dopo, aveva nome Guadagnamolto. Epistemone gli domandò come si chiamavano quelle roccie e valli sì strane. Guadagnamolto gli disse che era una colonia tratta dal paese di Procurazione e le chiamavano I Quaderni e che al di là delle roccie, passato un piccolo guado, avremmo trovato l'isola degli Apedefti.

- Virtù delle Stravaganti! disse Fra Gianni, e voialtri galantuomini di che vivete qui? Sapremo bere nel vostro bicchiere? Giacché non vedo qui altri oggetti che pergamena, calamai e penne.

- Noi pure, rispose Guadagnamolto, non viviamo che di ciò; poiché occorre che tutti quelli che hanno affari nell'isola passino per le mie mani.

- Perché? disse Panurgo. Siete voi barbiere, che occorre gli pettiniate la testa?

- Barbiere, sì, rispose Guadagnamolto, per pettinare i testoni delle loro borse.

- Per Dio, disse Panurgo, voi non avrete da me né un danaro né un picciolo; ma vi prego, bel sire, menateci da questi Apedefti poiché veniamo dal paese dei sapienti dove non ho fatto alcun guadagno.

E così discorrendo arrivarono all'isola degli Apedefti, poiché il guado fu ben presto varcato. Pantagruele restò in grande ammirazione della struttura delle abitazioni della gente del paese; poiché dimorano in un gran torchio, al quale si monta per cinquanta gradini; e prima di entrare al torchio maestro (poiché là dentro ve n'è di piccoli, grandi, segreti, mezzani e d'ogni sorta) voi passate per un gran peristilio, dove vedete dipinte le rovine di quasi tutto il mondo e tanti patiboli e forche e strumenti di tortura che ne fummo impauriti.

Guadagnamolto vedendo che Pantagruele s'interessava a ciò gli disse:

- Signore, andiamo più avanti, questo è ancor nulla.

- Come non è nulla? disse Fra Gianni. Per l'anima della mia braghetta riscaldata, Panurgo ed io tremiamo di bella fame. Preferirei bere piuttosto che veder queste ruine.

- Venite, disse Guadagnamolto.

E ci menò a un piccolo torchio nascosto nella parete posteriore che nel linguaggio dell'isola chiamavano Pitie. Non domandate se Fra Gianni e Panurgo ne profittarono: là salami di Milano, galli d'India, capponi, ottarde, malvasia e ogni sorta di buoni piatti erano pronti e assai ben preparati.

Un garzone bottigliere vedendo che Fra Gianni aveva lanciato un'occhiata amorosa a una bottiglia posta sopra una credenza separata dalle schiere bottigliesche, disse a Pantagruele.

- Signore, vedo che uno dei vostri fa l'occhiolino a quella, bottiglia; vi supplico per carità che nessuno la tocchi, che è per i nostri Signori.

- Come? disse Panurgo, vi sono dunque dei Signori qui dentro? Vi si vendemmia bene a quanto vedo.

Allora Guadagnamolto ci fece salire per una scaletta nascosta in una camera, dalla quale ci mostrò i Signori che stavano nel gran torchio dove ci disse che a nessun uomo era lecito entrare senza permesso, ma che noi avremmo potuto vederli bene per un piccolo sportello di finestra senz'essere visti.

Di là scorgemmo in un gran torchio venti o venticinque grossi bricconi intorno a un grande scrittoio tutto abbigliato di verde, che si guardavano tra loro; e avevano le mani lunghe come zampe di gru e le unghie dei piedi altrettanto; poiché è loro proibito di tagliarsele mai, talché diventano adunche come rampini e ancorotti.

Subito fu portato un grappolone d'uva che si vendemmia in quel paese, del vigneto dello Straordinario, che spesso è appeso a sostegni. Tosto che il grappolo fu là lo misero sotto il torchio e non vi fu grano donde non traessero olio d'oro; talché il povero grappolo fu portato via così spremuto e secco, che non v'era più goccia di succo e liquido.

Ci raccontava Guadagnamolto che non ne hanno spesso di così grossi; ma che ne hanno sempre altri sotto il torchio.

- Ma, compare mio, chiese Panurgo ne hanno di molti vigneti?

- Sì, disse Guadagnamolto. Vedete voi quel grappolino che vanno a rimettere sotto il torchio? Quello è del vigneto delle Decime: l'hanno già spremuto l'altro giorno sotto il torchio, ma l'olio aveva odore di scrigno di preti e i signori non vi trovarono gran sugo.

- Perché dunque, disse Pantagruele lo rimettono sotto il torchio?

- Per vedere, disse Guadagnamolto, se non vi sia qualche omissione di sugo o di rendimento dentro le vinaccie.

- E, degna virtù di Dio, disse Fra Gianni, chiamate voi ignoranti costoro? Come, diavolo, se trarrebbero olio da un muro?

- Anche ciò fanno, disse Guadagnamolto, poiché mettono spesso sotto il torchio castelli, parchi, foreste, e da tutto traggono oro potabile.

- Portabile, volete dire, osservò Epistemone.

- Potabile, dico, insistè Guadagnamolto; poiché qui se ne bevono molte bottiglie che non si dovrebbe. Ve n'è di tanti vigneti che non se ne sa il numero. Venite fin qua, e vedete in questo cortile; eccone più di mille che attendono l'ora d'esser torchiati. Eccone del vigneto generale, eccone del particolare, delle fortificazioni, dei prestiti, dei doni, dei causali, dei domini, dei minuti piaceri, delle poste, delle offerte, della Casa reale.

- E che grappolo è quello grosso là a cui tutti i più piccoli stanno d'intorno?

- È il grappolo del Risparmio che è la miglior vigna di tutto il paese, disse Guadagnamolto. Quando si torchia grappoli di quella vigna, non c'è alcuno dei Signori che non ne goda fino a sei mesi dopo.

Quando i Signori si furono levati, Pantagruele pregò Guadagnamolto che ci conducesse in quel gran torchio ciò, ch'egli fece volentieri. Appena entrati, Epistemone che intendeva tutte le lingue, cominciò a spiegare a Pantagruele le iscrizioni del torchio, il quale era grande, bello e fatto del legno della Croce, a quanto ci disse Guadagnamolto. Infatti su tutte le parti di esso erano scritti i loro nomi nella lingua del paese. La vite del torchio si chiamava Riscossione; i tubi d'emissione: Spese; la madrevite: Stato; le parti laterali: Danari contati e non ricevuti; i fusti: Sofferenza; gli arieti, Radietur; le costie: Recuperetur; i bacini: Plusvaluta; le anse: Ruoli; gli ammostatoi: Saldo; le cucchiaie: Convalidazione; le gerle: Ordinanza valevole; le secchie: Potere; l'imbuto: Verificato.

- Per la regina dei biroldi, disse Panurgo, tutti i geroglifici egiziani sono un nulla appetto di questo gergo; ma perché, compare, amico mio, questa gente la chiamano ignoranti?

- Perché, disse Guadagnamolto, non sono, né devono essere nullamente istruiti e, qui dentro, per loro ordinanza, tutto si deve trattare con ignoranza e non vi dev'essere altra ragione se non: "L'hanno detto i Signori; i Signori lo vogliono; i Signori l'hanno ordinato".

- In nome del vero Dio, disse Pantagruele, poiché tanto guadagnano coi grappoli, il loro giuramento può aver molto valore.

- Ne dubitereste? disse Guadagnamolto. Non v'è mese che non ne abbiano. Non è come nel vostro paese dove il sarmento non val nulla se non una volta all'anno.

Di là dopo esser passati per mille altri piccoli torchi uscendo scorgemmo un altro scrittoietto, intorno al quale erano quattro o cinque di quegli ignoranti, bisunti e rabbiosi come asini ai quali si attacchi un razzo alle natiche, i quali con un piccolo torchio ripassavano ancora le vinaccie dei grappoli già spremuti da altri; li chiamavano, nella lingua del paese: Correttori.

- Sono, a vederli, disse Fra Gianni, i più arcigni villani che abbia mai visto.

Dal gran torchio passammo per infiniti piccoli torchii tutti pieni di vendemmiatori che piluccavano i grani con dei ferri che chiamano: Articoli dei conti e finalmente arrivammo in una sala bassa dove vedemmo un gran molosso con due teste di cane, ventre di lupo, unghiuto come un diavolo di Lamballe, che era nutrito là con latte di mandorle ed era trattato così delicatamente per ordinanza dei Signori, perché non ve n'era uno a cui non rendesse il profitto di una buona masseria. Essi lo chiamavano nel linguaggio d'Ignoranza: Doppio. Vicino gli stava sua madre d'egual pelo e forma, salvo che ella aveva quattro teste, due di maschio e due di femmina ed aveva nome: Quadrupla.

Era la bestia più furiosa che fosse là dentro e la più pericolosa dopo sua nonna che vedemmo rinchiusa in una prigione che essi chiamavano: Omissione di riscossioni.

Fra Gianni, che aveva sempre venti braccia di budelle vuote per ingoiare una fricassata d'avvocati, cominciava ad averne piene le scatole e pregò Pantagruele di pensare al desinare e di menare con sé Guadagnamolto.

Uscendo di là per la porta di dietro, incontrammo un vecchio incatenato, mezzo ignorante e mezzo sapiente, come un Androgine del diavolo, che era tutto corazzato d'occhiali com'è una tartaruga di scaglie, e non si nutriva che di una vivanda chiamata nel loro parlare: Appellazioni. Vedendolo Pantagruele domandò a Guadagnamolto di che razza fosse quel protonotario e come si chiamasse. Guadagnamolto ci raccontò come da tempo antichissimo fosse lì dentro, incatenato con gran rammarico e dispiacere dei Signori che lo facevano quasi morire di fame, e si chlamava: Revisit.

- In nome dei santi coglioni del papa, disse Fra Gianni, io non mi sorprendo se tutti i Signori ignoranti di qua tengono gran conto di quel pappalardo. Perdio, mi pare, amico Panurgo, se guardi bene, che somigli a Grippaminotto. Costoro qui, per quanto siano ignoranti, ne sanno quanto gli altri. Io vorrei ben rimandarlo là dond'è venuto, a gran colpi di sferza.

- In nome de' miei occhiali d'oriente, disse Panurgo, Frate Gianni, amico mio! hai ragione: poiché a veder il mostaccio di questo falso villano Revisit, è anche più ignorante e dappoco degli altri ignoranti i quali spremon grappoli il meno male che possono, senza lunghi processi e che in un batter d'occhio vendemmiano il vigneto senza tante interlocutorie o dismerdatorie; onde i Gatti impellicciati sono bene indispettiti.





CAPITOLO XVII.



Come qualmente arrivammo ad Otre e come Panurgo rischiò d'essere ucciso.



Ci mettemmo subito in rotta per Otre e raccontammo le nostre avventure a Pantagruele che ci commiserò assai e ne compose per passatempo un'elegia. Arrivati a Otre ci ristorammo un po' e facemmo provvista d'acqua fresca e di legna. La gente del paese ci sembrarono, alla fisionomia, buoni compagnoni e di buona cera.

Avevano tutti forma d'otre e tutti scorreggiavano grasso. Osservammo, ciò che non aveva ancora visto in altre paesi, che si tagliuzzavano la pelle per farne traboccare il grasso né più né meno di quegli sconci merdosi della mia patria i quali si tagliuzzano le brache per farne saltar fuori la seta. E dicevano di fare ciò non per pomposa ostentazione, ma perché non potevano più star nella pelle.

E ciò facendo crescevano più presto allo stesso modo che gli ortolani incidono la scorza degli alberi giovani perché si sviluppino più rapidamente.

Presso il porto era una osteria d'aspetto bello e magnifico all' esterno.

Vedendo accorrervi gran folla di Otrati, d'ogni sesso, età e condizione, pensavamo vi fosse qualche notevole festino e banchetto. Ma ci fu detto che erano invitati al crepamento dell'oste e vi affluivano con premura i vicini, i parenti prossimi e lontani. Non comprendendo quel gergo e stimando che là il festino si chiamasse crepamento fummo avvertiti che l'oste al tempo suo era stato buon compagnone, gran divoratore, gran mangiatore di zuppe lionesi, notevole contatore d'orologi eternamente desinante come l'oste di Rouillac. E avendo già per dieci anni scorreggiato grasso in abbondanza, era giunto al crepamento e, secondo l'usanza del paese, finiva i suoi giorni crepando poiché il peritoneo e la pelle per tanti anni tagliuzzati, non potevano più chiudergli e trattenergli le trippe che non traboccassero fuori come da una botte sfasciata.

- Ma come? disse Panurgo, non sapreste, buona gente con buoni cinghioni, e cerchioni di corniolo, oppure di ferro, se occorre, cerchiargli il ventre appuntino? Così cerchiato, non proietterebbe fuori sì facilmente le budella e non creperebbe sì presto.

Non aveva ancora finito di parlare che udimmo nell'aria un rimbombo alto e stridente, come se qualche grossa quercia si spaccasse in due: allora fu detto dai vicini che il crepamento era avvenuto e che quello scoppio era stata la scorreggia della morte.

Il che mi fece venire a mente il venerabile abate di Castilllers, quello che non degnava bischerare le sue cameriere nisi in pontificalibus, il quale, ne' suoi vecchi giorni, importunato dai parenti e dagli amici perché rinunziasse all'abbazia, disse e dichiarò che non voleva spogliarsi prima di coricarsi, e che l'ultima scorreggia di sua paternità doveva essere scorreggia di abate.





CAPITOLO XVIII.



Come qualmente la nostra nave si arenò e come fummo aiutati da alcuni viaggiatori che tenevano della Quinta.



Ritirate le ancore e le gomene, facemmo vela col dolce zeffiro. A circa 222 miglia si levò un furioso turbine di venti diversi, intorno al quale ci barcamenammo un po' col trinchetto e le bulinghe, solo per non esser detti indocili al pilota il quale assicurava, vista la mitezza di quei venti e il loro gradevole conflitto, e insieme la serenità dell'aria e la tranquillità della corrente, non esservi a sperare gran bene, né a temere gran male e che pertanto ben ci veniva a proposito la sentenza del filosofo che ammoniva a sostenere e astenersi, a temporeggiare.

Il turbine tuttavia durò tanto che, importunato, il pilota tentò romperlo per seguire la nostra rotta primitiva. Infatti levando il grande artimone e drizzando il timone dritto alla calamita della bussola, ruppe, profittando di un rude ondata che sopravveniva, il turbine su detto; ma con la stessa sfortuna come se, evitando Cariddi, fossimo caduti in Scilla, poiché a due miglia di là le nostre navi si arenarono tra certe sabbie simili alle secche presso le correnti di Saint-Maixent.

Tutta la nostra ciurma grandemente si contristava e su, issa le mezzane, per disincagliarsi a forza di vento; ma Fra Gianni non cadde in malinconia per questo; anzi consolava ora l'uno ora l'altro con dolci parole dando a intendere che presto avremmo avuto soccorso dal cielo e che aveva visto Castore sulla cima delle antenne.

- Piacesse a Dio, disse Panurgo, ch'io fossi a quest'ora in terra e nulla più, e che ciascuno di voialtri, che tanto amate la marina, aveste duecento mila scudi: vorrei mettere un vitello all'ingrasso e prepararvi un centinaio di fascine pel vostro ritorno. Orsù, consento a non sposarmi mai; ma fate solamente ch'io sia sbarcato a terra e che abbia cavallo per tornarmene; di valletto farò anche senza. Non sono mai sì ben servito come quando sono senza valletto. Plauto mai non mentì affermando che il numero delle nostre croci, cioè afflizioni, noie, fastidi, corrisponde al numero de' nostri valletti, fossero pure senza lingua, che è la parte più pericolosa e cattiva d'un valletto, per la quale sola furono inventate le torture, i tormenti e la geenna pei servi. E non per gli uomini liberi, benché gli scombiccheratori del diritto anche a loro vogliono applicarli, fuori del nostro reame.

In quell'ora venne verso noi all'abbordaggio una nave carica di tamburi nella quale riconobbi qualche viaggiatore di buon casato e tra gli altri Enrico Cotiral, vecchio compagnone, che portava alla cintura una grossa testa d'asino, al modo che le donne portano i rosari, e teneva nella mano sinistra un grosso, grasso, vecchio e sudicio berretto d'un tignoso, nella destra un grosso torso di cavolo. Appena mi riconobbe gridò con gioia:

- Vedete se ne ho! Ecco il vero algamana. (E mostrava la testa d'asino). Questo berretto dottorale è il nostro unico Elixo e questo (mostrando il torso di cavolo) è il Lunaria maior. Noi lo faremo al vostro ritorno.

- Ma, diss'io, donde venite? Dove andate? che cosa portate? avete sentito il mare?

- Dalla Quinta, in Turenna, alchimia, fino al culo, egli mi rispose.

- E chi c'è con voi sulla tolda ?

- Cantanti, rispose, musici, poeti, astrologhi, rimatorastri, geomanti, alchiministi, orologiai, tutti hanno a che fare colla Quinta e ne hanno belli e ampi certificati.

Non aveva finita questa parola che Panurgo indignato e irritato disse:

- Ma voi dunque, che fate tutto, perfino il bel tempo e i bambini, perché non prendete qui la corda e senza perdere tempo non ci rimettete a galla?

- Stavo per farlo, disse Enrico Cotiral; a quest'ora, in questo istante, presentemente, sarete disincagliati.

Allora fece sfondare da un lato, 7.532.810 grossi tamburi, li dispose con quel lato volto verso il gagliardetto e legarono strettamente le gomene da ogni parte; poi prese la nostra corda da poppa e l'attacco ai fittoni e al primo stratto ci fece scivolare sull'arena con facilità grande e non senza spasso. Poiché il suono dei tamburi, insieme col dolce mormorio della sabbia e i comandi della ciurma ci componevano un'armonia poco minore di quella degli astri rotanti, che Platone dice aver udito qualche notte dormendo.

Per paura d'esser reputati ingrati verso loro per questo beneficio, spartimmo con loro i nostri biroldi, riempimmo i tamburi di salsiccie e tirammo sul ponte sessantadue barili di vino, quando due grandi fisiteri assalirono impetuosamente la loro nave e vi gettarono dentro più acqua che non ne contenga la Vienna da Chinon fino a Saumur; ne riempirono tutti i loro tamburi, bagnarono tutte le loro antenne e inzupparono loro le brache per la via del colletto. Ciò vedendo Panurgo fu preso da tale allegria e gli si squassò talmente la milza a forza di ridere, che ne ebbe la colica per più di due ore.

Io voleva offrir loro il vino, disse, ma hanno avuto acqua bene a proposito! D'acqua dolce non si curano, e non se ne servono che per lavarsi le mani. Di borace servirà loro questa bella acqua salata, di nitro e sale ammoniacale nella cucina di Geber.

Altri discorsi non avemmo modo di proseguire con loro poiché il turbine di prima c'impediva di governare il timone. Il pilota ci pregò che d'ora innanzi lo lasciassimo guidare la nave senza occuparci d'altro che di far baldoria e che, pel momento ci conveniva secondare quel turbine e obbedire alla corrente se volevamo pervenire senza pericolo alla Quinta.





CAPITOLO XIX.



Come qualmente arrivammo al reame della Quinta Essenza, detta Entelechia.



Avendo prudentemente secondato il turbine per lo spazio di mezza giornata, tre giorni dopo l'aria ci parve più serena del solito e discendemmo sani e salvi al porto di Mateotecnia, poco distante dal palazzo della Quinta Essenza. Discendendo al porto ci trovammo di fronte gran numero d'arcieri e guerrieri che facevano guardia all'arsenale: a prima giunta ne avemmo quasi paura poiché ci fecero a tutti deporre le armi e c'interrogarono arrogantemente dicendo:

- Compari, da che paese venite?

- Cugini, rispose Panurgo, noi siamo di Turenna e veniamo ora di Francia desiderando riverire la dama Quinta Essenza e visitare questo celebre reame d'Entelechia.

- Che dite voi? chiesero essi; dite Entelechia o Endeechia?

- Bei cugini, rispose Panurgo, noi siamo semplici e idioti, scusate la rozzezza della nostra lingua, che, quanto al resto, i cuori sono freschi e beati.

- Non senza ragione, dissero essi, vi abbiamo interrogati su questa differenza; poiché altri in gran numero sono passati qui venendo dalla vostra Turenna, i quali ci sembravano buoni tangheri e parlavano correttamente; ma son capitati qui da altri paesi non sappiamo quali arrogantacci, superbi come Scozzesi, che sull'entrata volevano disputare ostinatamente con noi; e li abbiamo ben conciati benché mostrassero muso arcigno. Nel nostro mondo avete voi tanto tempo da perdere che non sapete come occuparlo fuorché parlando, disputando e scrivendo impudentemente della nostra Signora Regina? C'era proprio bisogno che Cicerone abbandonasse la sua repubblica per occuparsene anche lui e così Diogene Laerzio, e Teodoro Caza, e Argiropilo, e Bessarione, e il Poliziano, e Budee, e Lascaris e tutti quei diavoli di savi matti, il numero de' quali non era abbastanza grande se ha dovuto crescere recentemente con lo Scaligero, Brigot, Chambrier, Francesco Fleury e non so quali altri agghindati zerbinotti dello stesso stampo? Che la mala angina gli strozzi la gola con l'epiglottide! Noi li...

- Ma che, diamine, essi carezzano i diavoli, interruppe Panurgo tra i denti.

- Voi non siete venuti qui, continuarono, per sostenerli nella loro follia; di ciò non avete procura; onde non vi parleremo più di loro. Aristotele, primo uomo e modello di ogni filosofia, fu padrino della nostra Signora Regina: egli benissimo e propriamente la chiamò Entelechia. Entelechia è il suo vero nome; se ne vada alla latrina chi altrimenti la nomina! Chi altrimenti la nomina erra, per tutto il cielo. Siate i benvenuti!

Essi ci offersero l'abbraccio e noi tutti ce ne rallegrammo. Panurgo mi disse all'orecchio:

- Compagnone, hai avuto niente niente paura di questa prima facezia?

- Un pochino risposi.

- Ed io, disse, più che non ne ebbero un tempo i soldati d'Efraim quando i Galaaditi furono uccisi e annegati per aver detto Sibboleth in luogo di Scibboleth. E, per tacere tutto, niuno della Beauce sarebbe riuscito a ristopparmi bene il buco del culo neanche con una carrettata di fieno.

Poi il capitano ci menò al palazzo della Regina in silenzio e con grandi cerimonie. Pantagruele voleva un po' discorrere con lui, ma egli non potendo salir tant'alto, avrebbe voluto una scala o dei trampoli ben grandi. Poi disse:

- Basta! Se la nostra Signora Regina lo volesse, noi saremmo grandi quanto voi. Sarà per quando le piacerà.

Nelle prime gallerie incontrammo una gran turba di malati i quali erano collocati diversamente secondo la diversità delle malattie. I lebbrosi in disparte: gli avvelenati in un luogo, gli appestati in un altro, i sifilitici in prima fila: e così via tutti gli altri.





CAPITOLO XX.



Come qualmente la Quinta Essenza guariva le malattie con canzoni.



Nella seconda galleria il capitano ci mostrò la dama, giovane (e sì che aveva milleottocento anni almeno) bella, delicata, vestita sfarzosamente in mezzo alle sue damigelle e a' suoi gentiluomini. Il capitano ci disse:

- Non è momento da parlarle, siate solo spettatori attenti di ciò ch'ella fa. Voi nel vostro reame avete re, i quali fantasticamente guariscono alcune malattie, come scrofole, mal caduco, febbri quartane, colla sola apposizione delle mani. Questa nostra regina guarisce tutte le malattie senza toccarle ma solamente suonando loro una canzone secondo il male.

Poi ci mostrò gli organi suonando i quali operava quelle mirabili guarigioni. Ed erano organi di fattura ben strana: le canne erano di cassia in canna, il gomiere di guaiaco, i tasti di rabarbaro, i pedali di turbitto, la tastiera di scamonia.

Mentre consideravamo quella nuova e ammirabile struttura d'organo, gli astrattori, spodizzatori, massiteri, pregustatori, tabacchini, sassanini, neemanini, rabrabani, nersini, rozuini, nedibini, nearini, segamioni, perazoni, sesimini, sarini, sotrini, abotti, enilini, arrasdapernini, mebini, giborini e altri suoi uffiziali, introdussero i lebbrosi.

Ella suonò loro non so quale canzone e immediatamente e perfettamente guarirono. Poi furono introdotti gli avvelenati; ella suonò loro un'altra canzone ed eccoli in gamba. Poi i ciechi, i sordi, i muti, e persino gli apoplettici. Ne fummo spaventati e non a torto, cademmo in terra prosternandoci come estatici e rapiti in contemplazione straordinaria e ammirazione delle virtù che avevamo visto procedere dalla dama e non potemmo pronunziare una parola. Stavamo così per terra, quando ella, toccando Pantagruele con un bel mazzo di rose bianche, che teneva in mano, ci fece rinvenire sicché potemmo rizzarci in piedi. Poi ci disse con parola di bisso, quali Parisatide voleva si usassero parlando a Ciro suo figlio, o, almeno, di seta ermisina:

- L'onestà scintillante nella circonferenza delle vostre persone mi dà giudizio certo della virtù latente al centro dei vostri spiriti; e vedendo la soavità melliflua delle vostre discrete riverenze, facilmente mi persuado che il cuor vostro non patisce vizio alcuno, né alcuna sterilità di sapere liberale e altero, ma anzi abbonda di molteplici peregrine e rare discipline le quali, presentemente, per gli usi comuni del volgo imperito, è più facile desiderare che incontrare. Ed è questa la ragione per la quale io, che in passato dominavo ogni mio sentimento privato, ora non posso trattenermi dal dirvi il saluto triviale e comune a tutti, cioè: che siate i bene, i più, i tre volte benvenuti.

- Io non son chierco, mi disse segretamente Panurgo, rispondete voi, se volete.

Io tuttavia non risposi, né rispose Pantagruele e restavamo in silenzio.

Allora la Regina disse:

- Da questa vostra taciturnità comprendo che non solamente siete usciti dalla scuola pitagorica dalla quale trae radice in successiva propagazione l'antichità de' miei primogenitori, ma anche che in Egitto, celebre officina di alta filosofia, per molte lune retrograde vi siete morse le unghie e grattata la testa col dito. Nella scuola di Pitagora, taciturnità simbolo era di conoscenza; e il silenzio era dagli Egizi riconosciuto come pregio deifico; onde i pontefici sacrificavano al gran Dio nella città sacra in silenzio, senza far rumore, senza suonar parola. Il disegno mio è di non procedere verso voi con privazione di gratitudine; ma per viva formalità, benché si volesse astrarre da me materia, escentricarvi i miei pensieri.

Finito questo discorso rivolse la parola ai suoi uffiziali e disse loro solamente:

- Tabacchini, a Panacea !

A queste parole i tabacchini ci dissero che avessimo per iscusata la Dama Regina, se non ci faceva desinare con lei; poiché al suo desinare null'altro mangiava che alcune categorie, jecaboth minim dimion, astrazioni, harbourim, scelimim, seconde intenzioni, charadoth, antitesi, metempsicosi, prolessi trascendenti.

Poi ci condussero in un piccolo salotto tutto contrappuntato d 'allarmi, e Dio solo sa il trattamento che vi avemmo.

Si dice che Giove nella pelle scrivibile della capra che lo allattò in Candia, della quale usò come scudo nella battaglia contro i Titani (onde è soprannominato Egioco) scrisse tutto ciò che si fa nel mondo. In fede mia, o bevitori, amici miei, neanche dieci pelli di capra mi basterebbero a descrivere le buone vivande, e pietanze che ci furono servite e l'imbandigione che ci fu data, ne anche se la scrittura fosse così minuta come quella onde Cicerone dice aver vista trascritta quell'Iliade d'Omero che si poteva coprire con un guscio di noce. Per parte mia anche avessi cento lingue, cento bocche, la voce di ferro e la facondia melliflua di Platone, non saprei nemmeno in quattro libri esporvene un terzo della metà.

Pantagruele mi disse che, secondo la sua immaginazione la Dama e i suoi tabacchini, dicendo a Panacea, dava la parola simbolica tra loro, di imbandigione sovrana come Lucullo indicava la sala d'Apollo quando voleva festeggiare in modo singolare i suoi amici, benché lo cogliessero alla sprovvista come facevano talora Cicerone e Ortensio.



CAPITOLO XXI.



Come qualmente la regina passava il suo tempo dopo desinare.



Finito il desinare, fummo condotti da un sassanino nella sala della dama e vedemmo come, secondo il suo costume, dopo il pasto, accompagnata dalle damigelle e dai principi della corte, stacciava, crivellava, filtrava e passava il suo tempo con un bello e grande setaccio di seta bianca e azzurra. Poi scorgemmo che richiamando antiche usanze danzarono insieme:

il cordace, il calabrismo,

l'emmelia, la molossica,

la scimmia, la cornofora,

la giambica, il mongas,

la persiana, la termaustria,

la frigia, la florula,

il nicatismo, la pirrica,

la tracia, e mille altre danze.



Poi, per suo comando, visitammo il palazzo e vedemmo cose tanto nuove, ammirabili e strane, che ripensandovi il mio spirito ne è rapito. Nulla tuttavia commosse i nostri sensi d'ammirazione più che le funzioni dei gentiluomini della sua casa, astrattori, parazoni, nebidini, spodizatori e altri i quali ci dissero francamente, senza dissimulazione, che la Dama Regina si riserbava tutto ciò ch'era impossibile e guariva solamente gl'incurabili, mentre essi, uffiziali suoi, curavano e guarivano il resto.

Là vidi un giovane parazone guarire i sifilitici, della lue più fina dico, come chi dicesse quella di Rouen, solamente toccando loro tre volte la vertebra dentiforme con un frammento di zoccolo.

Vidi un altro guarire perfettamente gl'idropici, timpaninisti, asciti, e iposarghi colpendoli sul ventre con una scure bipenne per nove volte senza soluzione di continuità.

Uno guariva immediatamente ogni sorta di febbri solo attaccando alla cintura dei febbricitanti dal lato sinistro una coda di volpe.

Uno guariva dal mal di denti solo lavando tre volte la radice del dente malato con aceto di sambuco e lasciandolo seccare al sole per una mezz'ora.

Un altro guariva ogni specie di gotta, fosse calda o fredda, naturale o accidentale, solo facendo chiuder la bocca e aprir gli occhi ai gottosi.

Vidi un altro che in poche ore guarì nove buoni gentiluomini dal mal di San Francesco purgandoli da ogni debito e mettendo a ciascuno d'essi una corda al collo, con appesavi una borsa piena di dieci mila scudi del sole.

Un altro, con un congegno mirifico gettava le case fuori delle finestre: così restavano monde da aria pestilente.

Un altro guariva tutte le tre maniere di etici: atrofici, tabetici, emaciati, senza bagni, senza latte tabiano, senza dropace, senza pece, né altro medicamento; solamente li rendeva monaci per tre mesi. E ci affermava che se non ingrassavano nello stato monacale, non avrebbero ingrassato mai, né per arte, né per natura.

Vidi un altro accompagnato da donne in grande numero divise in due schiere. L'una era di ragazze appetitose, tenerine, biondette, graziose e di buona volontà, a quanto mi sembrava.

L'altra schiera era di vecchie sdentate, cispose, rugose, incartapecorite, cadaverose.

Fu detto a Pantagruele che quell'uffiziale fondeva le vecchie facendole così ringiovanire coll'arte sua e divenire quali erano le ragazze là presenti che aveva rifuso quel giorno stesso. E avrebbe loro restituito la stessa bellezza, forma, eleganza, grandezza e composizione di membra che possedevano all'età dai quindici ai sedici anni, eccettuati solamente i talloni i quali restavano loro molto più corti che non fossero nella prima giovinezza.

Questa è la ragione per la quale esse, d'ora innanzi, in tutti gl'incontri cogli uomini saranno molto soggette e inclini a cadere all'indietro.

La schiera delle vecchie attendeva l'altra infornata con gran devozione e lo importunavano con grande insistenza allegando esser cosa in natura intollerabile che a culo di buona volontà manchi bellezza. Egli aveva clientela continua per l'arte sua e guadagno più che mediocre.

Pantagruele domandò se metteva in fusione parimenti gli uomini vecchi per ringiovanirli; gli fu risposto di no; ma che i vecchi avevano modo di ringiovanire abitando con donna rifusa, poiché così prendevano quella quinta specie di lue venerea chiamata la Pellata, in greco ophiasis, mediante la quale si cambia il pelo e la pelle come fanno ogni anno i serpenti e così si rinnovava loro la giovinezza come nell'araba Fenice. Quella era la vera fontana di giovinezza. Là subitamente chi era vecchio decrepito, diventava giovine, allegro e arzillo, come, secondo Euripide, avvenne a Iolao; come avvenne al bel Faone, tanto amato da Saffo, per beneficio di Venere; a Titone antico, grazie ad Aurora; a Esone, per l'arte di Medea, e parimenti a Giasone, che, secondo la testimonianza di Ferecide e di Simonide, fu da essa ritinto e ringiovanito; e come dice Eschilo essere avvenuto alle nutrici del buon Bacco e ai loro mariti.





CAPITOLO XXII.



Come qualmente gli uffiziali della Quinta sono occupati in modi diversi e come la Dama ci trattenne in funzione di astrattori.



Vidi poi gran numero dei su detti uffiziali i quali imbiancavano gli Etiopi in poco d'ora solo grattando loro il ventre con un paniere.

Altri con tre paia di volpi aggiogate aravano la riva sabbiosa e non vi perdevano la loro semenza.

Altri lavavano le tegole e facevano loro perdere il colore.

Altri traevano acqua dalla pietra pomice tritandola lungamente in un mortaio di marmo e cambiandole sostanza.

Altri tosavano gli asini e ne cadeva giù un vello di lana buonissima.

Altri coglievano uva dai rovi e fichi dai cardi.

Altri mungevano latte dai caproni e lo raccoglievano dentro un crivello con gran beneficio della casa.

Altri lavavan le teste agli asini senza perdervi il ranno ed il sapone.

Altri andavano a caccia colle rete al vento e prendevano bei granchi decumani.

Vidi un giovane spodizzatore il quale traeva peti da un asino morto e li vendeva a cinque soldi al braccio.

Un altro putrefaceva lumache. Oh, la bella pietanza!

Ma Panurgo vomitò sozzamente l'anima vedendo un arcasdapernin il quale faceva putrefare un gran doglio d'urina umana insieme con sterco di cavallo e molta merda cristiana.

Puah, il sudicione! Egli tuttavia ci rispose che di quella sacra distillazione abbeverava re e grandi principi allungando loro la vita d'una buona tesa e mezzo.

Altri spezzavano le ginocchia ai biroldi.

Altri scorticavano anguille per la coda, le quali punto non strillavano prima d'essere scorticate come quelle di Melun.

Altri facevano cose grandi dal nulla e al nulla facevano cose grandi ritornare.

Altri tagliavano il foco con un coltello e attingevan acqua con una rete.

Altri di vesciche facevano lanterne e di nuvole padelle di bronzo.

Ne vedemmo dodici che banchettavano sotto un frascato e bevevano in belli e ampi calici vini di quattro sorta, freschi e deliziosi, alla salute di tutti e di tutto il resto. Ci fu detto che alzavano il tempo alla maniera del luogo, come Ercole un giorno alzò il tempo con Atlante.

Altri facevano di necessità virtù e l'opera mi sembrava ben bella e a proposito.

Altri facevano alchimia coi denti e ciò facendo riempivano assai malamente le seggette.

Altri in una lunga sala misuravano accuratamente i salti delle pulci e mi affermavano essere quell'opera più che necessaria al governo dei reami, alla condotta delle guerre, all'amministrazione delle repubbliche, allegando che Socrate, il quale per primo aveva tirato dal cielo in terra la filosofia e resala utile e benefica da oziosa e curiosa che era, dava la metà del suo studio a misurare il salto delle pulci come afferma Arisfofane il Quintessenziale.

Vidi due giborini in disparte, al sommo d'una torre, i quali stavano in sentinella e ci fu detto che facevan guardia alla luna contro i lupi.

Ne incontrai quattro altri in un angolo di giardino che disputavano amaramente pronti ad azzuffarsi. Domandata l'origine della disputa, intesi che già da quattro giorni avevano cominciato a discutere su tre alte e più che fisiche proposizioni, dalla soluzione delle quali si attendevano montagne d'oro. La prima proposizione concerneva l'ombra d'un asino coglionato, la seconda il fumo d'una lanterna; la terza tendeva a decidere se un pelo di capra fosse lana. Poi ci fu detto non sembrare loro cosa strana che due proposizioni contradditorie fossero vere in modo, forma, figura e tempo. Cosa questa, per la quale i sofisti di Parigi si farebbero piuttosto sbattezzare che confessarla.

Mentre consideravamo curiosamente le ammirabili operazioni di quella gente, sopravvenne la Dama colla sua nobile compagnia, che già riluceva la chiara stella della sera.

Al suo arrivo restarono di nuovo sbigottiti i sensi, abbagliata la vista.

Ella s'accorse subito del nostro spavento e ci disse:

- Ciò che fa gli umani pensamenti smarrire negli abissi dell'ammirazione, non è la sovranità degli effetti, i quali essi apertamente provano nascere da cause naturali, mediante l'industria di sagaci artigiani; ma è la novità dell'esperienza che penetra i loro sensi, non prevedendo essi la facilità dell'opera con giudizio sereno associato a studio diligente. Siate pertanto in cervello e d'ogni paura spogliatevi, se da paura alcuna siate colti, alla considerazione di ciò che vedete esser fatto da miei uffiziali. Vedete, intendete, contemplate a vostro libero arbitrio tutto ciò che la mia casa contiene, emancipandovi a poco a poco dal servaggio dell'ignoranza. Il vostro caso ben s'asside nella mia volontà. E per darvi di essa insegnamento non fittizio, in contemplazione degli studiosi desiri onde mi sembrate aver fatto nei vostri cuori insigne monticello e sufficiente prova, io vi trattengo presentemente in condizione e ufficio di astrattori miei. Da Geber, mio primo tabacchino, sarete iscritti partendo da questo luogo.

Noi la ringraziammo umilmente senza dir parola e accettammo l'offerta del bell'ufficio che ci affidava.





CAPITOLO XXIII.



Come qualmente la Regina fu servita a cena e come ella mangiava.



Finito il discorso la Dama si rivolse ai suoi gentiluomini e disse loro:

- L'orifizio dello stomaco, ambasciatore comune per il vettovagliamento di tutte le membra, tanto inferiori che superiori, c'importuna a ristorarle per apposizione d'alimenti idonei, di ciò che hanno perduto per l'azione continua del nativo calore sull'umidità radicale. Spodizatori, cesinini, nemaini e parazoni, non dipenda da voi che non siano prontamente preparate le tavole riboccanti di ogni legittima specie di elementi ristoratori. E anche voi, o nobili pregustatori, accompagnati dai miei gentili massiteri, la prova della vostra abilità adorna di cura e diligenza fa sì che non posso darvi ordine per cui non siate nei vostri offizi e vi teniate sempre pronti. Solo vi rammento di fare ciò che fate.

Finite queste parole si ritirò con parte delle sue damigelle un po' di tempo per fare un bagno come ci fu detto e come era l'uso degli antichi tanto diffuso quanto è tra noi ora lavarsi le mani prima del pasto. Le tavole furono prontamente allestite poi furono coperte di tovaglie preziosissime. L'ordine del servizio fu che la Dama non mangiò nulla fuorché celeste ambrosia, nulla bevve fuorché nettare divino. Ma i signori e le dame della sua casa furono, e noi con loro, serviti di vivande rare, ghiotte e preziose tali che manco Apicio vi pensò mai.

All'uscir di tavola fu portato, per chi avesse ancora appetito, una pentola con dentro un guazzabuglio, ed era di tale ampiezza e grandezza che la piastra d'oro donata da Pitio Bitino al re Dario l'avrebbe appena coperta. La pentola era piena di vivande di specie diverse: insalate, fricassate, intingoli, spezzati di capretto, arrosti, bolliti, carbonate, gran pezzi di bue salato, prosciutti stravecchi, salamoie deifiche, paste, tartine, un mondo di cuscù alla moresca, formaggi, giuncate, gelatine, frutta d'ogni sorta. Tutto mi sembrava buono e ghiotto, tuttavia non ne assaggiai essendo già ben pieno e sazio. Solamente devo avvertirvi che vi notai dei pasticci di pasta, cosa abbastanza rara, e i pasticci di pasta erano pasticci in pentola. In fondo scorsi gran quantità di dadi, carte, tarocchi, fossette, scacchi e tavolieri con scodelle piene di scudi del sole per chi avesse voluto giocare.

Sotto, infine, rimarcai molte mule ben bardate con gualdrappe di velluto, e così chinee ad uso d'uomini e di donne, lettiere parimenti ben vellutate, non so come, e qualche carrozza alla ferrarese per chi avesse voluto uscire a spasso.

Ciò non mi sembrò strano, ma trovai ben nuova la maniera di mangiare della Dama. Ella non masticava nulla; non che non avesse denti forti e buoni, non che le sue vivande non dimandassero masticazione; ma quello era l'uso e costume suo.

Delle sue vivande facevano prima assaggio i suoi pregustatori: poi le prendevano i suoi masticatori e nobilmente gliele masticavano, avendo il palato foderato di raso cremisino, con piccole nervature e ricami d'oro e i denti d'avorio bello e bianco; mediante i quali, quando avevano masticato appuntino le vivande, glie le colavano per un imbuto d'oro fin dentro lo stomaco. Per la stessa ragione ci fu detto che ella non andava del corpo se non per procura.





CAPITOLO XXIV.



Come qualmente fu fatto, in presenza della Quinta, un allegro ballo in forma di torneo.



Finita la cena fu fatto in presenza della Dama un ballo a modo di torneo, degno non solamente d'essere guardato, ma anche di memoria eterna. Per incominciare fu steso sul pavimento un ampio tappeto vellutato, disegnato a forma di scacchiera, cioè a quadrati gialli e bianchi larghi ciascuno tre palmi e quadrati da ogni lato. Entrarono poi nella sala trentadue giovani, dei quali sedici erano vestiti di drappo d'oro, cioè otto giovani ninfe quali quelle che dipingevano gli antichi in compagnia di Diana, un re, una regina, due custodi della rocca, due cavalieri e due arcieri. In simile ordine erano gli altri sedici, ma vestiti di drappo d'argento. E si disposero sul tappeto come segue: i re si tennero sull'ultima linea, sul quarto quadrato, in modo che il re aureo era sul quadrato bianco, il re argenteo sul quadrato giallo; le regine a fianco dei loro re, l'aurea sul quadrato giallo, l'argentea sul quadrato bianco; due arcieri accanto a loro da ciascun lato, come guardie dei loro re e regine.

Presso gli arcieri due cavalieri, presso i cavalieri due custodi. Nella fila vicina davanti a loro erano le otto ninfe.

Tra le due schiere di ninfe restavano vuote quattro file di quadrati.

Ciascuna schiera aveva dalla sua parte i suoi amici vestiti di egual livrea, gli uni di damasco aranciato, gli altri di damasco bianco ed erano otto da ciascun lato con strumenti tutti diversi di gioiosa invenzione, insieme concordanti e melodiosi a meraviglia, varianti di tono, tempo e misura come richiedeva il procedere del ballo; e ciò io trovava ammirabile data la numerosa diversità dei passi, andature, salti, scatti, ritorni fughe, imboscate, ritirate, e sorprese.

Ancor più a mio parere, trascendeva ogni aspettazione, che i ballerini intendessero così subitamente la musica che conveniva al loro avanzare o retrocedere, onde non era finito il suono che si posavano al posto designato nonostante che il loro procedere fosse tutto diverso. Infatti le ninfe, che sono in prima fila, come preste a eccitare il combattimento, marciano contro i loro nemici dritte avanti a sé da un quadro all'altro; salvo la prima mossa nella quale è lecito avanzare di due quadri; esse sole non retrocedono mai. Se avvenga che una di esse giunga alla fila del re nemico, è coronata regina dal suo re e d'allora in poi assume le stesse mosse e lo stesso privilegio che la regina; altrimenti mai non assaltano i nemici che in linea diagonale, obliquamente e solamente in avanti. Non è tuttavia permesso né a loro né ad altri prendere alcuno dei loro nemici, se, prendendolo, dovessero lasciar scoperta ed esposta la regina. I re si movono e prendono i loro nemici in tutti i sensi in quadrato e non passano che dal quadrato bianco e vicino, al giallo e inversamente; solo, alla prima mossa, se la loro fila fosse trovata vuota d'altri uffiziali, eccetto i custodi, li possono mettere al loro posto e ritrarsi accanto a loro. Le regine si movono e prendono con più grande libertà che tutti gli altri: cioè in ogni punto e in ogni maniera; in linea dritta a qualunque distanza loro piaccia, purché le caselle non siano occupate dai loro; e anche in diagonale purché siano dei loro colori.

Gli arcieri si movono tanto in avanti che indietro, sia lontano che vicino. E parimenti anch'essi non variano mai il colore della loro prima posizione. I cavalieri si movono e prendono in forma lineare scavalcando una casella, anche fosse occupata o dai propri o dai nemici. Si posano a destra o a sinistra cambiando di colore, ciò che è grandemente dannoso alla parte avversa e degno d'osservazione poiché non prendono mai se non a faccia aperta.

I custodi marciano e prendono davanti a sé, tanto a destra che a sinistra tanto indietro che avanti come i re, e possono moversi lontano quanto vogliano in linea vuota; ciò che non fanno i re.

La legge comune alle due parti e il fine ultimo del combattimento era assediare e chiudere il re della parte avversa in maniera che non potesse evadere da nessuna parte. E chiuso questo, non potendo fuggire né esser soccorso da' suoi cessava il combattimento e il re assediato perdeva. Per garantirlo da questo inconveniente non v'è alcuno o alcuna della sua schiera che non offra la propria vita e si prendono gli uni gli altri da ogni luogo seguendo il suono della musica. Quando alcuno prendeva un prigioniero di parte contraria, facendogli la riverenza, gli batteva dolcemente sulla mano destra, lo metteva fuori dal tappeto e ne occupava il posto. Se avveniva che uno dei re fosse per esser preso, non era lecito alla parte avversa prenderlo; anzi era fatto rigoroso comando a quello che l'aveva scoperto e lo minacciava di presa, di fargli una profonda riverenza e avvertirlo dicendo: Dio vi guardi! affinché fosse soccorso e coperto da' suoi uffiziali, oppure cambiasse posto se per avventura non potesse esser soccorso.

Né tuttavia era preso dalla parte avversaria, ma salutato col ginocchio sinistro a terra dicendogli: Buon giorno.

E così finiva il torneo.





CAPITOLO XXV.



Come qualmente combattono i trentadue ballerini.



Poste così nelle loro caselle le due compagnie, i musici cominciarono a suonare insieme con intonazione marziale assai spaventevole come suonassero all'assalto. Vediamo le due schiere fremere e rinsaldarsi per ben combattere al momento del cozzo, allorché siano chiamate fuori del loro accampamento. Quando improvvisamente i musici della schiera argentea cessarono, suonarono solamente gli strumenti della schiera aurea. Con che si dava il segnale che la schiera aurea assaliva. E ciò seguì ben presto poiché a un nuovo suono vedemmo che la ninfa posta davanti alla regina compì un giro intero a sinistra verso il suo re, come domandando licenza d'entrare in combattimento e, insieme, salutò anche tutta la sua compagnia. Poi avanzò due caselle in buona modestia e fece riverenza con un piede alla schiera avversaria che ella assaliva.

Cessarono allora di suonare i musici aurei, ricominciarono gli argentei. Qui non è a passar sotto silenzio che avendo la ninfa salutato con un giro il suo re e la sua compagnia, essi, per non restare oziosi, la risalutarono parimenti compiendo un giro intero a sinistra; meno la regina la quale si girò a destra verso il suo re e fu questo saluto osservato da tutti gli avanzanti durante tutto il corso del ballo, così pure la risposta al saluto tanto di una schiera come dell'altra.

Al suono de' musici argentei s'avanzò la ninfa argentea, la quale era disposta davanti alla sua regina, salutò graziosamente il re e tutta la sua compagnia, cui essi del pari risposero, come fu detto degli aurei, salvoché gli argentei giravano a destra e la regina a sinistra. La ninfa si posò sul secondo quadrato avanti, e facendo riverenza all'avversario, si tenne di fronte alla prima ninfa aurea senza distanza alcuna, come pronte a combattere, salvoché esse non colpiscono che di fianco. Le loro compagne le seguono tanto le auree che le argentee, in figura intercalare e là fanno come finta di scaramucciare tantoché la ninfa aurea, che prima era entrata in campo, battendo sulla mano a una ninfa argentea a sinistra, la mise fuori di combattimento e occupò il suo posto; ma ben presto a un nuovo suono dei musici, anch'essa fu colpita dall'arciere argentato. Una ninfa aurea lo fece ritirare altrove; il cavaliere argenteo uscì dal campo; la regina si collocò davanti al suo re.

Allora il re argenteo cambiò posto temendo la furia della regina aurea e si trasse al posto del suo custode a destra, il quale posto gli sembrava munitissimo e ben difeso.

I due cavalieri che stavano a sinistra, tanto l'aureo che l'argenteo, avanzano e fanno ampie prese di ninfe avversarie (che non potevano ritrarsi indietro). Massimamente il cavaliere aureo il quale mette ogni sua cura alla presa delle ninfe. Ma il cavaliere argenteo pensò una mossa più importante: dissimulando il suo disegno, una volta che poteva prendere una ninfa aurea, la lascia e passa oltre e tanto fece che riuscì ad introdursi presso i nemici in luogo dove salutò il re aureo e disse: "Dio vi guardi!" La schiera aurea a quell'avvertimento di soccorrere il suo re, fremè tutta; non che essa non potesse facilmente dar pronto soccorso al re, ma perché, salvando il re perdevano il loro custode destro senza rimedio.

Il re aureo si ritirò dunque a sinistra, e il cavaliere argenteo prese il custode aureo; ciò che costituì una grave perdita. Tuttavia la schiera aurea delibera di vendicarsi e circonda da ogni lato il cavaliere argenteo affinché non possa fuggire e salvarsi dalle loro mani; esso fa mille sforzi per uscire; i suoi ricorrono a mille astuzie per garantirlo, ma alfine la regina aurea lo prende.

La schiera aurea, priva d'uno de' suoi sostegni, si sforza e a torto e a traverso cerca modo di vendicarsi, abbastanza incautamente e fa molto danno tra l'oste nemica. La schiera argentea dissimula e attende l'ora della rivincita e presenta una delle sue ninfe alla regina aurea avendole teso un'imboscata segreta, tanto che alla presa della ninfa poco mancò che l'arciere aureo non sorprendesse la regina argentea.

Il cavaliere aureo tenta la presa del re e della regina argentea e dice: "Buon giorno!" L'arciere argenteo lo salva; egli fu preso da una ninfa aurea e questa presa da una ninfa argentea.

La battaglia fu aspra. I custodi escono dalle loro sedi al soccorso. Tutto è mischia pericolosa. Enyo ancora non si dichiara. Una volta gli argentei caricano fino alla tenda del re aureo; subito sono respinti.

La regina aurea, tra gli altri, compie grandi prodezze: con una avanzata prende l'arciere e con una mossa di fianco prende il custode argenteo. Ciò vedendo la regina argentea si avanza e fulmina con pari ardimento: e prende l'ultimo custode aureo e parimenti qualche ninfa.

Le due regine combatterono lungamente, procurando sia di sorprendersi reciprocamente, sia di salvarsi e di proteggere i loro re. Finalmente la regina aurea prese l'argentea, ma subito dopo ella fu presa dall'arciere argenteo.

Al re aureo restavano solamente tre ninfe, un arciere e un custode; al re argenteo restavano tre ninfe e il cavaliere destro; ciò fu cagione che in seguito combatterono più cautamente e lentamente.

I due re sembravano dolenti d'aver perduto le loro dame regine tanto amate e tutto il loro studio e sforzo era volto ad elevarne altre, se potessero, traendole dal numero delle loro ninfe, alla dignità e al matrimonio, per amarle gioiosamente, con promesse certe di farle regine se penetrassero fino all'ultima fila del re nemico.

Le auree anticipano e da esse è creata una nuova regina alla quale pongono in capo una corona e mettono nuova acconciatura.

Le argentee seguono parimenti, e non mancava più una linea che una d'esse non fosse creata nuova regina; ma in quel luogo stava in agguato il custode aureo; pertanto ella si stette tranquilla.

La nuova regina aurea volle mostrarsi, alla sua assunzione, forte, valorosa, bellicosa. Compì grandi geste attraverso il campo. Ma frattanto il cavaliere argenteo prese il custode aureo che faceva guardia ai confini del campo; in questo modo fu fatta una nuova regina argentea la quale similmente volle mostrarsi valorosa alla sua nuova assunzione. Il combattimento fu rinnovato con più ardore di prima; mille astuzie, mille assalti, mille mosse furono fatte e dall'una e dall'altra parte, finché la regina argentea entrò clandesticamente nella tenda del re aureo, dicendo: "Dio vi guardi!". Il re non poté esser soccorso che dalla sua nuova regina. Questa non ebbe alcuna difficoltà a impegnarsi per salvarlo. Allora il cavaliere argenteo volteggiando da ogni parte si portò presso la sua regina e misero il re aureo in tale pericolo che, per salvarsi gli convenne perdere la sua regina. Ma il re aureo prese il cavaliere argenteo.

Ciononostante l'arciere aureo, con due ninfe che restavano, difendevano a tutto potere il loro re, ma alla fine furono tutti presi e messi fuori dal campo e il re aureo rimase solo. Allora tutta la schiera argentea gli disse con profonda riverenza: "Buon giorno!" e il re argenteo restò vincitore. Dopo quel saluto le due compagnie di musici cominciarono a suonare insieme, come in segno di vittoria. Così ebbe fine quel primo ballo con tanta allegrezza, gesti sì piacevoli, contegno sì onesto, grazie sì rare che i nostri spiriti si allietarono di risa come gente in estasi e non a torto ci sembrava che fossimo trasportati alle sovrane delizie e alla suprema felicità del cielo Olimpico.

Finito il primo torneo, le due schiere tornarono alle loro posizioni primitive e come avevano combattuto avanti, cominciarono a combattere la seconda volta, salvoché la musica accelerò la misura d'un mezzo tempo, e totalmente differenti furono anche le mosse. Vidi allora che la regina aurea come irritata dalla rotta del suo esercito, evocata dalla intonazione della musica, si mise in campo fin sulle prime con un arciere e un cavaliere e poco mancò non sorprendesse il re argenteo nella sua tenda in mezzo ai suoi uffiziali. Poi vedendo scoperto il suo disegno, tanto si schermì tra le schiere e tante sconfisse ninfe argentee e altri uffiziali, ch'era una pietà vedere. Avreste detto fosse una novella Pantesilea regina delle Amazzoni, fulminante pel campo dei Greci; ma poco durò questo disordine poiché gli argentei, frementi alla perdita dei loro, dissimulando tuttavia il loro duolo, lanciarono occultamente in imboscata un arciere in un angolo lontano e un cavaliere errante, dai quali fu presa e messa fuori del campo. I restanti furono ben presto disfatti. Così ella sarà un'altra volta più accorta, si terrà presso il suo re, non si scosterà troppo, e quando converrà moversi si moverà ben altrimenti accompagnata.

Restarono dunque vincitori gli argentei come prima.

Per il terzo e ultimo ballo le due schiere si tennero in piedi come dianzi e mi parvero mostrar visi più gai e risoluti che nei due precedenti. E la musica fu serrata nella misura più che di hemiolo, con intonazione frigia e bellica come quella che inventò un tempo Marsia.

Cominciarono dunque a piroettare e iniziarono un meraviglioso combattimento, con tale leggerezza che in una battuta della musica facevano quattro mosse con le riverenze in giro convenienti come più sopra abbiam detto; talché non erano che salti, sgambetti e volteggiamenti petauristici che s'intrecciavano tra gli uni e gli altri. E vedendoli piroettare sopra un solo piede dopo fatta la riverenza, li comparavamo al movimento d'una trottola quando i bimbi per gioco la fanno girare a colpi di sferza e il giro è sì rapido che il movimento pare immobilità, e la trottola sembra quieta, non moversi, anzi dormire, come essi dicono. E segnandovi su un punto di qualche colore, alla nostra vista sembra essere non più punto, ma linea continua come saviamente ha rilevato il Cusano in materia ben divina.

Là non udivano che batter di mani e segnali reiterati a ogni difficoltà da una parte e dall'altra. Non vi fu mai un Catone tanto severo, né un Crasso, l'antenato tanto alieno dal ridere, né un Timone d'Atene tanto misantropo, né un Eraclito tanto aborrente da ciò ch'è proprio della natura umana, cioè il ridere, che non avessero perduto la loro gravità vedendo quei giovani e le regine e le ninfe, al suono di quella musica rapidissima, moversi, avanzare, saltare, volteggiare, sgambettare, piroettare sì rapidamente in cinquecento maniere diverse e con tale destrezza che mai l'uno era all'altro d'impaccio. Tanto minore era il numero di quelli che restavano in campo, tanto più grande era il piacere di vedere le astuzie e le scappatoie usate per sorprendersi l'un l'altro secondo che la musica indicava.

Vi dirò di più, se lo spettacolo più che umano confondeva i nostri sensi, stupiva i nostri spiriti e ci metteva fuori di noi, ancor più erano i nostri cuori commossi e impressionati al suono della musica. Sono indotto a credere che probabilmente con modulazioni non dissimili Ismenia eccitasse Alessandro il Grande, quando essendo a tavola e desinando tranquillamente, balzò su d'un tratto e impugnò le armi.

Nel terzo torneo il re aureo fu vincitore.

Durante quelle danze la Dama invisibilmente sparì, né più la vedemmo. Ma fummo condotti fuori dai michelotti di Geber, e fummo iscritti nelle funzioni da essa ordinate. Poi discesi al porto Mateotecne c'imbarcammo sulle nostre navi sentendo che avevamo vento in poppa, laddove, se non ne avessimo profittato, appena l'avremmo ritrovato dopo tre quarti di luna.





CAPITOLO XXVI.





Come qualmente discendemmo nell'isola di Odi nella quale le strade camminano.



Dopo aver navigato due giorni s'offrì alla nostra vista l'isola di Odi, nella quale vedemmo una cosa mirabile. Le strade sono animali, se è vera la sentenza di Aristotele, il quale dice che la prerogativa essenziale degli animali è moversi da sé.

Ora le strade vanno come gli animali e le une sono erranti a somiglianza dei pianeti, altre strade passanti; altre strade incrocianti, altre strade traversanti. E notai che i viaggiatori, i servi, e gli abitanti del paese chiedevano: "Dove va questa strada? E quest'altra?..." E si rispondeva loro: "va tra mezzodì e Fevrolles... va alla parrocchia... va alla città... va al fiume". Poi infilando la strada opportuna, senza altrimenti penare o affaticarsi si trovavano nel luogo destinato; come vedete accadere a quelli che da Lione vanno per barca sul Rodano, ad Avignone o ad Arles. E come sapete che ogni cosa al mondo ha i suoi difetti e nulla è totalmente perfetto, così ci fu detto che là v'era una sorta di gente che chiamavano banditi da strada e battitori di lastricati.

E le povere strade ne avevano paura e si allontanavano da loro, come da briganti. Essi stavano in agguato al loro passaggio come si tendono trappole ai lupi e reti alle beccaccie. Vidi uno di quei banditi che era caduto nelle mani della giustizia perché aveva preso ingiustamente con offesa a Pallade, la strada della scuola, cioè la più lunga; un altro si vantava di aver preso la strada della buona guerra, cioè la più corta, dicendo essergli profittevole giungere primo al termine della sua impresa.

Così Carpalim, incontrando un giorno Epistemone che, impugnato il suo bischero, pisciava contro una muraglia, gli disse che non si maravigliava più ch'egli giungesse sempre primo alla levata del buon Pantagruele, perché teneva il più corto e il meno cavalcante.

Riconobbi la grande strada di Bourges e la vidi andare a passo d'abate; e la vidi anche fuggire alla venuta di certi carrettieri che minacciavano di calpestarla sotto i piedi dei loro cavalli e farle passare i loro carri sul ventre come Tullia fece passare il suo cocchio sul ventre del padre ServioTullio sesto re di Roma.

Riconobbi parimenti la vecchia strada da Peronne a San Quintino e mi sembrò all'aspetto, una strada dabbene.

Riconobbi tra le roccie il buon vecchio sentiero della Ferrata, montato sopra un gran orso. Vedendolo da lungi mi venne a mente la figura di San Gerolamo, solo che l'orso fosse stato leone. Esso era tutto mortificato; aveva la lunga barba tutta bianca e male pettinata; avreste proprio detto che fossero ghiaccioli; aveva su di sé molti grossi rosari di pinastri mal piantati e stava come ginocchioni e non dritto, né coricato del tutto e si batteva il petto con grosse e rudi pietre. Ci fece paura e pietà insieme. Mentre lo guardava, un baccelliere corrente del paese ci trasse da parte e mostrandoci una strada ben liscia, tutta bianca e un po' feltrata di paglia, ci disse:

- D'ora innanzi non dispregiate l'opinione di Talete di Mileto, il quale diceva che l'acqua è il principio di tutte cose, né la sentenza di Omero il quale afferma che tutte cose nascono dall'Oceano. Questa strada qui che vedete, nacque dall'acqua e vi ritornerà: due mesi indietro le barche passavano di qui dove ora passano le carrette.

- Veramente, disse Pantagruele, non è una gran rivelazione! Nel nostro mondo di tali trasformazioni ne vediamo tutti gli anni cinquecento e più.

Poi, considerando l'andatura di quelle strade che vanno, ci disse che, secondo l'avviso suo, Filolao e Aristarco avevano filosofato in quell'isola. Ed ivi Seleuco aveva attinto la convinzione affermata che la terra girasse veramente intorno ai suoi poli e non il cielo, ancorché ci appaia esser vero il contrario; allo stesso modo che andando sul fiume Loira, gli alberi vicini sembrano moversi, mentre non si movono affatto, ma sì noi, seguendo sulla barca la corrente.

Tornando alle nostre navi, vedemmo che presso la riva ponevano sul supplizio della ruota tre banditi da strada che erano stati presi mentre stavano in agguato; e si bruciava a fuoco lento un gran briccone che aveva battuto una strada rompendole una costa. Ci fu detto che si trattava della strada delle dighe erette sul Nilo in Egitto.





CAPITOLO XXVII.



Come qualmente arrivammo all'Isola degli Zoccoli e dell'ordine dei frati Fredoni.



Arrivammo poi all'isola degli Zoccoli dove non vivono che di zuppe di merluzzo; fummo tuttavia ben accolti e ben trattati dal re dell'isola chiamato Benius terzo di questo nome, il quale, dopo bere, ci condusse a vedere un monastero nuovo, fatto, eretto e costruito a sua invenzione pei frati Fredoni. Così chiamava i suoi religiosi dicendo che in terra ferma abitavano i frati piccoli Servitori e Amici della dolce dama; item i gloriosi e bei frati Minori, che sono semibrevi di bolle e i Minimi cultori d'aringhe affumicate; così i frati Minimi unghiuti non poteva più diminuirli che chiamandoli Fredoni. Per gli statuti e la bolla patente ottenuta dalla Quinta, la quale provvede a che tutto ben concordi, erano tutti vestiti da incendiatori di case salvo che, come i copritori di case nell'Angiò hanno i ginocchi contrappuntati, così essi avevano i ventri risolati, e i risolatori di ventri erano molto stimati fra loro. La braghetta delle loro brache era a forma di pantofola e ne avevano due ciascuno, l'una davanti, l'altra cucita dietro affermando che quella duplicazione braghettina rappresentasse debitamente qualche ascoso e orrifico mistero.

Portavano scarpe rotonde, come bacini, a imitazione degli abitatori del mare di sabbia. Quanto al resto avevano barba rasa e piedi ferrati.

E per mostrare che non si curano della fortuna egli faceva loro radere e pelare come maiali, la parte posteriore della testa dalla sommità fino agli omoplati. I capelli, sul davanti a cominciare dagli ossi bregmatici, crescevano in libertà. Così contrafortunavano come gente punto curante de' beni di questo mondo. E diffidando anche più della Fortuna volubile, portavano, non in mano come essa, ma alla cintura a guisa di rosari, un rasoio tagliente che arrotavano due volte il giorno, affilavano tre volte la notte.

Sopra i piedi ciascuno portava una palla rotonda, poiché si dice che la Fortuna n'abbia una sotto i piedi.

Il cappuccio era attaccato davanti, non dietro; in questo modo avevano il viso nascosto e se la ridevano in libertà sia della Fortuna sia dei fortunati, né più né meno delle nostre damigelle quando portano la loro mascherina di velluto che voi chiamate touret de nez; gli antichi la chiamavano carità perché copriva in esse gran multitudine di peccati; avevano anche scoperta la parte posteriore della testa come noi il viso: ciò perché essi andavano di ventre o di culo come meglio loro piacesse. Se andavano di culo avreste stimato la loro andatura naturale sia grazie alle scarpe rotonde, sia grazie alla braghetta che precedeva essendo la faccia di dietro rasa e dipinta marcatamente con due occhi e una bocca come vedete fare delle noci di cocco.

Se andavano di ventre avreste detto giocassero a mosca cieca. Era cosa bella a vedere.

La loro maniera di vivere era la seguente: appena la chiara stella di Venere cominciava a splendere sulla terra, si calzavano l'un l'altro, per carità, stivali e sproni e così stivalati e speronati dormivano, o, per lo meno, russavano; e, dormendo, tenevano gli occhiali sul naso, o, alla peggio, le lenti.

Noi trovavamo strano questo modo di fare; ma essi ci appagarono rispondendo che al giudizio finale, quando avverrà, gli uomini avrebbero avuto riposo e sonno.

Per mostrar dunque con evidenza che essi non rifiutavano di comparirvi, ciò che fanno i fortunati, si tenevano stivalati e con tanto di sproni, pronti a montare a cavallo allorché la tromba suonasse.

Quando suonava mezzodì (notate che le loro campane, tanto quella dell'orologio, come quelle della chiesa e del refettorio, erano fatte secondo la maniera pontaniana, cioè di fino piumino contrappuntato, avendo per battaglio una coda di volpe) quando dunque suonava mezzodì, si svegliavano e si levavano gli stivali. Pisciava chi voleva, andava del corpo chi voleva, sternutava chi voleva. Ma però era obbligatorio, statuto rigoroso, che ampiamente e copiosamente sbadigliassero e di sbadigli si sdigiunavano. Lo spettacolo mi sembrava piacevole. Infatti, posti gli stivali e gli sproni sopra una rastrelliera, discendevano nel chiostro; là si lavavano con cura le mani e la bocca, poi sedevano sopra una lunga seggetta e si curavano i denti finché il prevosto desse segnale facendo un fischio colle dita; allora ciascuno apriva la bocca quanto più poteva e sbadigliavano talvolta mezz'ora, talvolta più, talvolta meno, secondoché il priore giudicasse quello sdigiunarsi proporzionato alla festa del giorno. Dopo ciò facevano una bella processione portando due bandiere, nell'una delle quali era dipinta la Virtù, nell'altra la Fortuna. Un Fredone portava innanzi la bandiera della Fortuna; lo seguiva un altro portando quella della virtù e tenendo in mano un aspersorio intinto in acqua mercuriale (descritta da Ovidio ne' suoi Fasti) col quale continuamente faceva atto di battere il Fredone che precedeva colla Fortuna.

Durante la processione essi canticchiavano tra i denti melodiosamente non so quali antifone, poiché non intendevo il loro gergo. E ascoltando attentamente mi accorsi che non cantavano se non colle orecchie. Oh la bella armonia e ben concordante col suono delle loro campane! Non li vedrete mai stonati. Pantagruele fece un rilievo mirifico sulla loro processione dicendo:

- Avete visto e notato la finezza di questi Fredoni? Per compiere la loro processione sono usciti per una porta della chiesa e rientrati per un'altra. Si sono ben guardati dall'entrare per dove sono usciti. Sull'onor mio sono gente ben fina: sì fina, dico, da indorare, fina come una daga di piombo, fina non affinata, ma affinante, passata per lo staccio fino.

- Questa finezza, disse Fra Gianni è estratta da occulta filosofia e non v'intendo un diavolo di nulla.

- Tanto più è da temersi, disse Pantagruele, in quanto non vi s'intende nulla. Poiché la finezza che s'intende, la finezza prevista, la finezza scoperta, perde essenza e nome di finezza: quella noi la chiamiamo grossolanità. Sull'onor mio ne devono sapere ben altre!

Finita la processione, a titolo di passeggiata ed esercizio salubre, si ritiravano nel refettorio e si mettevano in ginocchio sotto le tavole appoggiando il petto e lo stomaco ciascuno sopra una lanterna. E mentre stavano in quella posizione entrava il grande Zoccolo con una forca in mano e li trattava colla forca. Là cominciavano il loro pasto con formaggio e lo finivano con lattuga come, secondo Marziale, era l'uso degli antichi. Infine si presentava loro, dopo desinare, un gran piatto di mostarda.

La loro dieta era la seguente: la domenica mangiavano sanguinacci, biroldi, salami, fricandò, schidionate di fegatelli, quagliette, sempre beninteso, il formaggio al principio e la mostarda alla fine. Il lunedì bei piselli al lardo con ampio commento e glosse interlineari. Il martedì gran quantità di pane benedetto, focaccie, pasticci, gallettine biscottate. Il mercoledì arrosti: cioè belle teste di castrato, teste di vitello, teste di tasso, animale che abbonda in quelle contrade. Il giovedì minestre di sette sorta e mostarda sempiterna per mezzo. Il venerdì nient'altro che sorbe e non bene mature a giudicare dal loro colore. Il sabato rosicchiavano le ossa; non per questo erano poveri né indigenti, poiché ciascuno aveva un eccellente beneficio di ventre.

Il loro bere era di vino antifortunale; così chiamavano non so quale bevanda del paese. Quando volevano bere o mangiare, rovesciavano i cappucci per davanti e servivano loro di baverino.

Finito il desinare pregavano Dio molto bravamente e sempre canticchiando. Il resto del giorno, in attesa del giudizio finale, si esercitavano a opere di carità: la domenica azzuffandosi l'un l'altro, il lunedì schiaffeggiandosi l'un l'altro, il martedì graffiandosi l'un l'altro, il mercoledì smocciandosi l'un l'altro, il giovedì tirandosi l'un l'altro i vermi dal naso; il venerdì facendosi il solletico l'un l'altro, il sabato sferzandosi l'un l'altro.

Tale la loro dieta quando risiedevano in convento. Se pel comando del priore claustrale uscivano fuori era loro rigorosamente proibito, sotto pena orribile, di toccare e mangiar pesce quando fossero sul mare o su qualche fiume; né carne di qualsiasi specie quando fossero su terra ferma, affinché fosse evidente a ciascuno che godendo dell'oggetto non obbedivano alla possibilità di procurarselo o alla concupiscenza ed erano irremovibili più che la roccia Marpesiana.

Il tutto facevano con antifone convenienti e acconcie, sempre cantando colle orecchie come abbiamo detto. Quando il sole tramontava sotto l'Oceano, si mettevano l'un l'altro stivali e sproni come avanti e gli occhiali sul naso e andavano a dormire. A mezzanotte entrava lo Zoccolo ed eccoli in piedi; allora arrotavano e affilavano i loro rasoi e, fatta la processione, mettevano le tavole sopra di loro e mangiavano come prima.

Fra Gianni degli Squarciatori, vedendo quei giocondi frati Fredoni e intendendo il contenuto dei loro statuti, perdette ogni gravità e gridò a gran voce:

- Oh il gran sorcio sotto la tavola! Non ne posso più, andiamocene.

- Oh perché non c'è qui Priapo come fu alle feste notturne di Canidia per vederlo petare a piene budelle e fredonare contropetando! Ora m'accorgo in verità che siamo in terra antictona e antipoda. In Germania demoliscono monasteri e stonacano i monaci; qui si erigono a rovescio e a contrappelo.





CAPITOLO XXVIII.



Come qualmente Panurgo, interrogando un frate Fredone non ebbe da lui risposte che per monosillabi.



Panurgo che fin dalla nostra entrata non aveva fatto altro che contemplare intensamente quei regali Fredoni, tirò per la manica uno di loro, magro come un diavolo affumicato e gli domandò:

- Frate, redone, fredonante, fredonami: dov'è la putta?

Il Fredone gli risponde:

- Giù.

- Panurgo: Ne avete molte?

- Fr. Poche.

- P. Quante sono in verità?

- Fr. Venti.

- P. Quante ne vorreste?

- Fr. Cento.

- P. Dove le tenete nascoste?

- Fr. Là.

- P. Suppongo non siano tutte della stessa età; che hanno?

- Fr. Dritto.

- P. Di che tinta?

- Fr. Giglio.

- P. I capelli?

- Fr. Biondi.

- P. La faccia?

- Fr. Pulita.

- P. Le sopracciglia?

- Pr. Molli.

- P. Le loro attrattive?

- Fr. Mature.

- P. Il loro sguardo?

- Fr. Franco.

- P. Come i piedi?

- Fr. Piatti.

- P. I talloni?

- Fr. Corti.

- P. Come le calze?

- Fr. Belle.

- P. Le braccia?

- Fr. Lunghe.

- P. Che portano alle mani?

- Fr. Guanti.

- P. Di che gli anelli alle dita?

- Fr. D'oro.

- P. Che adoperate per vestirle?

- Fr. Stoffa.

- P. Che stoffa?

- Fr. Nuova.

- P. Di che colore?

- Fr. Perso.

- P. Le loro cappe?

- Fr. Blu.

- P La loro calzatura?

- Fr. Bruna.

- P. Di che qualità tutte quelle stoffe?

- Fr. Fine.

- P. Di che sono le scarpe?

- Fr. Cuoio.

- P. Ma queste scarpe dove stanno volentieri?

- Fr. Fuori.

- P. Così esse camminano sul posto?

- Fr. Tosto.

- P. Veniamo alla cucina: quella, dico, delle putte, e senza affrettarci esaminiamo bene tutto minutamente. Che c'è in cucina?

- Fr. Fuoco.

- P. Chi mantiene quel fuoco?

- Fr. Legna.

- P. Che legna?

- Fr. Secca.

- P. Di quali alberi?

- Fr. Tassi.

- P. Le fascine e i bruscoli?

- Fr. D' agrifoglio.

- P. Che legna bruciate in camera?

- Fr. Pino.

- P. E quali alberi ancora?

- Fr. Tigli.

- P. E le suddette putte come le nutrite?

- Fr. Bene.

- P. Che mangiano?

- Fr. Pane.

- P. Di che qualità?

- Fr. Bigio.

- P. E che ancora?

- Fr. Carne.

- P. Ma come?

- Fr. Arrosto.

- P. E punto zuppe?

- Fr. Punto.

- P. E pasticcini?

- Fr. Molti.

- P. Ci sono; mangiano punto pesce?

- Fr. Sì.

- P. Come? e che più?

- Fr. Uova.

- P. E piacciono loro?

- Fr. Cotte.

- P. Come cotte?

- Fr. Sode.

- P. Tutto lì il loro pasto?

- Fr. No.

- P. Che prendono inoltre?

- Fr. Manzo.

- P. E inoltre?

- Fr. Maiale.

- P. Che ancora?

- Fr. Oche.

- P. E ancora?

- Fr. Germani.

- P. Item?

- Fr. Galli.

- P. E per salsa che hanno?

- Fr. Sale.

- P. E per leccornie?

- Fr. Mosto.

- P. Alla fine del pasto?

- Fr. Riso.

- P. E che inoltre?

- Fr. Latte.

- P. E ancora?

- Fr. Piselli.

- P. Ma che piselli intendete?

- Fr. Verdi.

- P. Che ci mettete insieme?

- Fr. Lardo.

- P. E frutta?

- Fr. Buone.

- P. Quali?

- Fr. Crude.

- P. E inoltre?

- Fr. Noci.

- P. E come bevono?

- Fr. Netto.

- P. Che cosa?

- Fr. Vino.

- P. Di che qualità?

- Fr. Bianco.

- P. D'inverno?

- Fr. Sano.

- P. A primavera?

- Fr. Brusco.

- P. D'estate?

- Fr. Fresco.

- P. D'autunno e per la vendemmia?

- Fr. Dolce.

- Potta di tonaca! esclamò Fra Gianni, come dovrebbero esser grasse queste cagne fredoniche e come dovrebbero trottare dacché son mantenute sì bene e copiosamente!

- Aspettate che finisca, disse Panurgo.

- P. A che ora si coricano?

- Fr. Notte.

- P. E quando s'alzano?

- Fr. Giorno.

- Ecco il più bel Fredone ch'io cavalcassi mai quest'anno, disse Panurgo; piacesse a Dio e al benedetto San Fredone e alla benedetta e degna vergine Santa Fredona che costui fosse primo presidente del tribunale di Parigi! Virtù di Dio, amico mio, quale sbrigatore di cause e abbreviatore di processi, quale stroncatore di dibattimenti, quale esaminatore d'incartamenti, quale sfogliatore di carte, quale decifratore di scritture sarebbe!

Ora veniamo agli altri viveri e parliamo punto per punto e con calma delle dette nostre sorelle in carità.

- P. Com'è il formulario?

- Fr. Grande.

- P. All'entrata ?

- Fr. Fresco.

- P. In fondo?

- Fr. Cavo.

- P. E dentro come ci fa?

- Fr. Caldo.

- P. All'orlo che c'è?

- Fr. Pelo.

- P. Di che razza?

- Fr. Rosso.

- P. E quello delle più vecchie?

- Fr. Grigio.

- P. Lo scotimento com'è?

- Fr. Pronto.

- P. Il dimenar delle natiche?

- Fr. Arzillo.

- P. Tutte volteggiano?

- Fr. Troppo.

- P. E i vostri strumenti come sono?

- Fr. Grandi.

- P. E come sono al margine?

- Fr. Rotondi.

- P. La cima di che colore?

- Fr. Baia.

- P. Dopo la fattura come sono?

- Fr. Quieti.

- P. I genitali come sono?

- Fr. Gravi.

- P. E come sono assettati?

- Fr. Vicini.

- P. E dopo la fattura come diventano?

- Fr. Smorti.

- P. Ora, pel giuramento che avete fatto, quando volete andare con loro come le gettate?

- Fr. Giù.

- P. Che dicono esse culettando?

- Fr. Niente.

- P. Solamente vi fanno star bene; del resto pensan al bel caso?

- Fr. Vero.

- P. Vi fanno figli?

- Fr. Affatto.

- P. Come vi coricate con loro?

- Fr. Nudi.

- P. In nome del detto giuramento che avete fatto, quante volte, in conto giusto, vi andate ordinariamente il giorno?

- Fr. Sei.

- P. La notte?

- Fr. Dieci.

- Canchero! disse Fra Gianni, il porcaccione non degnerebbe passare il sedici; ha vergogna.

- P. In verità faresti tu altrettanto, frate Gianni?

Egli è lebbroso verde perdio! E anche gli altri fanno così?

- Fr. Tutti.

- P. Chi è il più galante di tutti?

- Fr. Io.

- P. Non fate mai cilecca?

- Fr. No.

- P. Smarrisco i sensi su questo punto. Dopo aver vuotati ed esausti i vasi spermatici oggi, tanto ve ne può esser per domani?

- Fr. Più.

- P. Essi possiedono, s'io non farnetico, l'erba indiana celebrata da Teofrasto. Ma se per impedimento legittimo, o altrimenti, avviene in questa faccenda diminuzione di membro, come ve ne trovate voi?

- Fr. Male.

- P. E che fanno allora le putte?

- Fr. Rumore.

- P. E se desisteste un giorno?

- Fr. Peggio.

- P. E allora che date loro?

- Fr. Legnate.

- P. E loro come rispondono?

- Fr. Culo.

- P. Che di' tu?

- Fr. Peti.

- P. Di che suono?

- Fr. Sordo.

- P. Come le castigate?

- Fr. Forte.

- P. E che n'esce?

- Fr. Sangue.

- P. E la loro carnagione come diviene?

- Fr. Tinta.

- P. Non sarebbe meglio per voi?

- Fr. Punto.

- P. Così voi restate?

- Fr. Temuti.

- P. E dopo esse vi stimano?

- Fr. Santi.

- P. In nome del detto giuramento di legno che avete fatto, qual'è la stagione dell'anno in cui lavorate piu fiaccamente?

- Fr. Agosto.

- P. E quella più bruscamente?

- Fr. Marzo.

- P. E il resto dell'anno?

- Fr. Gai.

Allora disse Panurgo sorridendo: - Ecco il povero Fredone del mondo: avete inteso com'è risoluto, sommario e compendioso nelle sue risposte? Non dà che monosillabi. Credo che farebbe d'una ciliegia tre bocconi.

- Corpo di bio! disse Fra Gianni, non così egli parla colle sue putte ! Allora sì ch'è polisillabo. Altro che tre bocconi d'una ciliegia! Giurerei per San Grigio, che non farebbe più di due bocconi d'una spalla di castrato, né più d'un sorso d'una quarta di vino. Vedete com'è sfiancato.

- Questa ciurmaglia di monaci sono in tutto il mondo così avidi in fatto di viveri e poi ci dicono che non hanno altro che la loro vita in questo mondo. E che diavolo hanno i re e i grandi principi?



CAPITOLO XXIX



Come qualmente l'istituzione di quaresima spiace a Epistemone.



- Avete notato, disse Epistemone, come questo poco di buono di tanghero Fredone ci ha citato marzo come il mese della lussuria?

- Sì, rispose Pantagruele. E tuttavia cade sempre in quaresima, la quale è stata istituita per macerare la carne, mortificare gli appetiti sensuali e frenare le furie veneree

- Potete giudicare che criterio avesse il papa che primo l'istituì da ciò che questa sozza ciabatta di Fredone confessa di non essere in nessun tempo infeciato di lussuria più che nella stagione di quaresima; e inoltre dalle evidenti ragioni addotte da tutti i buoni e sapienti medici i quali affermano che mai in tutto il corso dell'anno si mangiano vivande più eccitanti a lascivia, come in questo tempo: tali sono le fave, i piselli, fagioli, ceci, cipolle, noci, ostriche, aringhe, salamoie, insalate tutte composte d'erbe veneriche come ruchetta, cardamindo, serpentaria, crescione, gorgolestro, raponzoli, papavero cornuto, luppolo, fichi, riso, uva.

- Vi stupirete voi, disse Pantagruele, se il buon papa che istituì la santa quaresima al tempo in cui il calore naturale esce dal centro del corpo, dove s'era contenuto durante il freddo invernale, e si spande alla periferia delle membra come fa la linfa negli alberi, avesse ordinato questi cibi che avete detto per aiutare la moltiplicazione dell'umano lignaggio? Mi fa pensare a ciò il fatto che nei registri del battistero di Thouars il numero dei figlioli nati in ottobre e novembre è più grande che negli altri mesi dell'anno; i quali figlioli, secondo la supputazione retrograda, erano tutti fatti, concepiti e generati in quaresima.

- Io ascolto i vostri argomenti e vi prendo piacere non piccolo, disse Fra Gianni; ma il curato di Jambert era d'altra opinione: egli attribuiva le copiose gravidanze non ai cibi di quaresima, ma ai monacuzzi questuanti ricurvi, ai predicatoracci stivalati, ai confessorucci stercosi, i quali, in quella stagione del loro dominio, minacciano agli sciocchi mariti l'inferno, tre tese sotto le unghie di Lucifero. Presi da terrore i mariti più non biscottano le cameriere e si ritraggono dalle mogliÖ Ho detto.

- Interpretate l'istituzione di quaresima come più vi piace, disse Epistemone; ciascuno esagera secondo il suo punto di vista. Ma alla soppressione della quaresima che mi pare essere imminente, s'opporranno, lo so, tutti i medici; l'ho udito dir loro.

Infatti senza quaresima l'arte loro cadrebbe in dispregio, nulla guadagnerebbero perché nessuno sarebbe malato.

La quaresima semina tutte le malattie; è il vero vivaio, la vera incubatrice e promotrice di tutti i mali. E non considerate ancora che se la quaresima fa marcire i corpi, fa anche infuriare le anime.

Allora i diavoli compiono l'ufficio loro: vengono in ballo gl'ipocriti, i bigotti hanno le loro grandi giornate; infinite sedute, stazioni, perdonanze, confessioni, battiture, anatemizzazioni. Non voglio inferire con questo che gli Arimaspiani, valgano in ciò più di noi; ma parlo a proposito.

- Orsù, coglione culettante e fredonante, disse Panurgo, che vi sembra di costui? Non è egli eretico?

- Molto

- P. Dev'essere bruciato?

- Fr. Deve.

- C. Il più presto possibile?

- Fr. Sia.

- P. Senza farlo prima bollire?

- Fr. Senza.

- P. In che maniera dunque?

- Fr. Vivo.

- P. Finché ne segua?

- Fr. Morte.

- P. Vi ha troppo irritato?

- Fr. Ah!

- P. Che vi pareva che fosse?

- Fr. Matto.

- P. Dite matto o furioso?

- Fr. Più.

- P. E vorreste che fosse?

- Fr. Arso.

- P. Ne han bruciati tanti?

- Fr. Tanti.

- P. Che erano eretici?

- Fr. Meno

- P. Ne bruceranno ancora?

- Fr. Affatto.

- P. Convien bruciarli proprio tutti?

- Fr. Convien

- Io non so, disse Epistemone, che piacere proviate a ragionare con questo miserabile cencio di monaco; se non vi conoscessi, mi farei di voi opinione poco onorevole.

- Andiamo in nome di Dio, disse Panurgo, io lo condurrei volentieri a Gargantua, tanto mi piace. Quando sarò sposato servirebbe alla mia donna da buffone.

- E a qualcos'altro, per giunta, disse Epistemone.

- Ormai, disse Fra Gianni ridendo, tu hai il tuo vino assicurato, povero Panurgo: non potrai mai evitare d'esser becco fino al culo.





CAPITOLO XXX.



Come qualmente visitammo il paese di Raso.



Contenti d'aver conosciuto la nuova religione dei frati Fredoni, navigammo per due giorni; al terzo il nostro pilota scoprì un'isola bella e deliziosa più d'ogni altra; si chiamava l'isola di Pannolano perché le strade erano di pannolano. In essa era il paese di Raso tanto rinomato fra i paggi di corte; ivi gli alberi e le erbe mai non perdevano fiore, né foglie; che erano di damasco e velluto dipinti. Le bestie e gli uccelli erano di arazzi. Là vedemmo molte bestie, uccelli e alberi quali sono da noi in figura, grandezza, ampiezza e colore; salvoché quelli non mangiavano nulla, non cantavano punto, punto non mordevano come i nostri fanno. Ne vedemmo anche molti che non avevamo ancora veduto; tra gli altri diversi elefanti in diversi atteggiamenti; sopratutto notai i sei maschi e le sei femmine presentati a Roma in teatro dal loro addomesticatore al tempo di Germanico, nipote dell'imperatore Tiberio, elefanti dotti, musici, filosofi, danzatori, pavanieri, giullari, ed erano seduti a tavola con bel contegno, mangiando e bevendo in silenzio come bei padri in refettorio. Hanno il muso lungo due cubiti, e lo chiamiamo proboscide, col quale attingono acqua da bere, e prendono palme, prugne, ogni sorta di cibi e se ne servono di difesa e offesa come di una mano; e al combattimento gettano le persone alto in aria e nel cadere le fanno crepar dal ridere. Hanno orecchie molto grandi e belle della forma d'un ventilabro. Hanno giunture e articolazioni alle gambe. Quelli che scrissero il contrario non ne hanno mai visti se non dipinti. Tra i denti hanno due grandi corna; così le chiamava Giuba e anche Pausania dice che sono corna, non denti. Filostrato ritiene che siano denti, non corna: per me è tutt'uno, purché sappiate che è il vero avorio e sono lunghi da tre a quattro cubiti piantati nella mascella superiore, non nella inferiore.

Se credete a coloro che dicono il contrario, ve ne troverete male, foss'anche Eliano il campione dei mentitori. Là, non altrove, ne aveva visto Plinio danzar sulle corde a suon di campanelli e fare i funambuli e passar sulle tavole in pieno banchetto senza offendere i bevitori beventi.

Vidi là un rinoceronte simile in tutto a quello che Enrico Clerberg mi aveva mostrato una volta; poco differiva da un verro che avevo visto un giorno a Limoges; salvoché aveva un corno sul muso lungo un cubito e puntuto, col quale osava affrontare un elefante in combattimento e squarciandogli il ventre (che è la parte più tenera e debole dell'elefante) lo metteva morto a terra.

Vidi là trentadue unicorni: è una bestia fellona a meraviglia, simile in tutto a un bel cavallo, salvoché ha la testa come un cervo, i piedi come un elefante, la coda come un Cinghiale, e, alla fronte, un corno acuto, nero e lungo da sei a sette piedi che ordinariamente le cade giù come la cresta ai tacchini; solo quando vuol combattere o comunque giovarsene, lo inalbera duro e diritto. Io vidi uno di quegli unicorni, accompagnato da diversi altri animali selvatici ripulire col suo corno una fontana. Panurgo mi disse allora che il suo membro somigliava a quel corno, non totalmente in lunghezza ma in virtù e proprietà; poiché, come l'unicorno purificava l'acqua degli stagni e delle fontane dalle immondizie, o infezione alcuna che vi fosse, e quegli animali diversi andavano a bere con tutta sicurezza dopo l'unicorno, così in tutta sicurezza si poteva fotterellare dopo di lui, senza pericolo di cancro, sifilide, pisciacalda, bubboni e simili altri minuti suffragi; poiché se il buco mefitico fosse infetto da male, egli tutto emondava col suo corno nervoso.

- Quando sarete sposato, disse Fra Gianni, verremo a far la prova sulla vostra donna. E sia per amor di Dio, poiché ci fornite informazione così salutare.

- Ma, disse Panurgo, subito nello stomaco la bella pillola aggregativa di Dio, sotto forma di ventidue pugnalate alla Cesarina.

- Meglio una coppa di buon vino fresco, disse Fra Gianni.

Vidi là il vello d'oro conquistato da Giasone. Coloro che dissero non trattarsi di vello, ma di mele d'oro, perché in greco mela significa mele e anche pecore, avevano mal visitato il paese di Raso.

Vidi là un camaleonte quale lo descrive Aristotele e quale me l'aveva mostrato qualche volta Carlo Marais, medico insigne, nella nobile città di Lione sul Rodano. E anche questo non viveva che d'aria, come l'altro.

Vidi tre idre quali avevo visto altre volte. Sono serpenti che hanno sette teste diverse ciascuno.

Vidi quattordici Fenici. Avevo letto in diversi autori che ve n'era una sola per ogni generazione in tutto il mondo; ma, secondo il mio debole giudizio, quelli che ne scrissero non ne videro mai altrove salvo che nel paese degli arazzi, compreso Lattanzio Firmiano.

Vidi la pelle dell'asino d'oro di Apuleio.

Vidi trecento e nove pellicani, seimila e sedici uccelli Seleucidi che camminavano in ordinanza e divoravano le cavallette tra il grano; dei cinamolgi, degli argatili, dei caprimulgi, dei timunculi, dei crotonotari (onocratali volevo dire) col loro gran gozzo, delle stinfalidi, e arpie, pantere, dorcadi, cemade, cinocefali, satiri, cartasoni, tarantole, uri, monopi, pefagi, cepe, neari, stere, cercopitechi, bisonti, musimoni, bituri, ofiri, strigi, grifi.

Vidi la Mezzaquaresima a cavallo (Ferragosto e Mezzomarzo le tenevano le staffe) e lupo mannaro, e centauri e tigri, e leopardi, e iene, e camellopardali, e origi.

Vidi una remora, piccolo pesce chiamato Echeneis dai Greci, attaccato a una gran nave che non si moveva benché avesse le vele spiegate in alto mare; credo bene fosse quella del tiranno Periandro, fermata contro la forza del vento dal piccolissimo pesce. In questo paese di Raso, non altrove l'aveva vista Muziano.

Fra Gianni ci disse che nei tribunali del Parlamento solevano regnare un tempo due sorta di pesci le quali facevano marcire il corpo e avvelenare l'anima a tutti i querelanti nobili, plebei, poveri, ricchi, grandi, piccoli: i pesci d'aprile, cioè i maccarelli, e le venefiche remore, cioè sempiternità di processi senza fine di giudizio.

Vidi sfingi, giraffe, lonze, cefe, le quali hanno i pie' davanti come le mani, quelli di dietro come i piedi d'un uomo, crocute, eali, che sono grandi come ippopotami, e hanno la coda come elefanti, le mandibole come cinghiali, le corna mobili come le orecchie dell'asino. Le cucrocute, bestie leggerissime grandi come asini del Mirabellese, hanno il collo, la coda, il petto come un leone, le gambe come un cervo, la bocca fessa fino alle orecchie e non hanno che due denti uno sopra e uno sotto; esse parlano con voce umana; ma le loro parole non risonarono.

Voi dite che non fu mai visto nido di sacro; io ne vidi ben undici, notatelo bene.

Vidi delle alabarde mancine che non avevo mai visto altrove.

Vidi delle manticore, bestie, ben strane: hanno il corpo come un leone, il pelo rosso, la faccia e le orecchie come un uomo, tre file di denti frammischiati gli uni agli altri come se intrecciate le dita delle mani le une dentro le altre; nella coda hanno un pungolo, col quale pungono come gli scorpioni e hanno la voce molto melodiosa.

Vidi dei catoblepi, bestie salvatiche, piccole di corpo, ma con teste grandi senza proporzione; con fatica possono levarle da terra; hanno gli occhi tanto velenosi che chiunque le vede muore subitamente, come chi vedesse un basilisco.

Vidi bestie a due schiene che mi sembravano gioiose a meraviglia e copiose in sculettamenti più che non sia la coditremola, con un sempiterno scotimento di groppone.

Vidi gamberi color latte non mai visti altrove, che marciavano in molto bella ordinanza, e faceva assai piacere vederli.





CAPITOLO XXXI.



Come qualmente nel paese di Raso vedemmo "Sentito dire" che dava lezioni di testimoniare.



Inoltrandoci in quel paese di tappezzeria, vedemmo il mar Mediterraneo aperto e asciutto fino agli abissi, così come si asciugò nel golfo Arabico il mare Eritreo per dar passaggio agli Ebrei che uscivano dall'Egitto. Là riconobbi Tritone che faceva risonare la sua grossa conca, e Glauco, Proteo, Nereo, e mille altri dei mostri marini. Vedemmo anche un numero infinito di pesci di specie diverse, che danzavano, volavano, volteggiavano, combattevano, mangiavano, respiravano, bischeravano, cacciavano, apprestavano scaramuccie, facevano imboscate, componevano tregue, commerciavano, sacramentavano, si spassavano.

In un angolo vedemmo Aristotele che teneva una lanterna nello stesso atteggiamento come si dipinge l'eremita presso San Cristoforo; egli osservava, considerava e tutto redigeva per iscritto. Dietro lui stavano, come sergenti, molti altri filosofi: Appiano, Eliodoro, Ateneo, Porfirio, Pancrate, Arcadiano, Numenio, Posidonio, Ovidio, Appiano, Olimpio, Seleuco, Leonide, Agatocle, Teofrasto, Demostrato, Muziano, Ninfodoro, Eliano, e cinquecento altri a loro bell'agio come Crisippo o Aristarco di Sola, il quale restò cinquant'anni a contemplare il regime delle api senz'altro fare. Tra essi rimarcai Pietro Gilles il quale teneva un orinale in mano e contemplava in profonda contemplazione l'urina di quei bei pesci.

Dopo aver lungamente considerato quel paese di Raso, Pantagruele disse:

- Ho qui pasciuto lungamente gli occhi, ma non me ne posso saziare; il mio stomaco bramisce di rabbiosa fame.

- Nutriamoci, nutriamoci, diss'io, e assaggiamo quegli anacampseroi che pendono lassù... Ohibò, Non valgono un fico.

Presi dunque alcuni mirabolani che pendevano da un capo della tappezzeria; ma non potei masticarli, né ingoiarli; assaggiandoli avreste proprio detto e giurato che fosse seta ritorta e non avevano sapore alcuno. Si sarebbe pensato che Eliogabalo si fosse messo in testa di festeggiare in quella forma coloro che aveva fatto digiunare lungo tempo promettendo loro, alla fine, un banchetto sontuoso, abbondante, imperiale, laddove poi offriva loro vivande di cera, di marmo, o figurate su vasi o tovaglie dipinte.

Cercando dunque pel detto paese se si trovasse qualche cosa da mangiare, udimmo un rumore stridente come di donne che lavassero il bucato, o le pale di mulino del Bezacle, vicino a Tolosa; senza indugio accorremmo e vedemmo un vecchietto gobbo, contraffatto e mostruoso. Lo chiamavano Sentito dire. Aveva il taglio della bocca allungato fino alle orecchie, e in bocca sette lingue e ogni lingua fessa in due parti; egli parlava con tutte sette insieme su diversi argomenti e in lingue diverse; aveva inoltre in mezzo alla testa e sul resto del corpo altrettante orecchie quanti occhi ebbe Argo un tempo; per il resto era cieco e paralitico di gambe. Intorno a lui vidi un numero innumerevole d'uomini e di donne che ascoltavano attenti e ne riconobbi alcuni tra la folla che facevano buon viso, tra i quali uno teneva un mappamondo e lo spiegava loro sommariamente per brevi aforismi onde essi diventavano chierci e sapienti in poco d'ora e parlavano con eleganza e buona memoria di molte cose prodigiose, a saper la centesima parte delle quali non basterebbe la vita d'un uomo: delle piramidi, del Nilo, di Babilonia, dei Trogloditi, degli Imantopodi, dei Blemmi, dei Pigmei, dei Cannibali, dei monti Iperborei, degli Egipani, di tutti i diavoli, sempre per Sentito dire.

Là vidi, a quanto mi parve, Erodoto, Plinio, Solino, Berosio, Filostrato, Mela, Strabone, e tanti altri antichi e inoltre Alberto Magno, il giacobita, Pietro Martire, papa Pio II, il Volterrano, Paolo Giovio il valentuomo, Giacomo Cartier, Haiton l'armeno, Marco Polo veneziano, Ludovico romano, Pietro Alvarez e non so quanti altri storici moderni, appiattati dietro un lembo di tappezzeria a scrivere di nascosto belle frottole e tutto per Sentito dire.

Dietro un drappo di velluto figurato a foglie di menta presso Sentito dire vidi gran numero d'abitanti della Perche e della Manica, buoni studenti, abbastanza giovani. E dimandando a quale facoltà fossero iscritti, sentimmo che fin dalla giovinezza imparavano a fare i testimoni e facevano tali progressi nell'arte, che partendo di là e tornati nelle loro provincie vivevano onestamente del mestiere di testimoni rendendo sicura testimonianza d'ogni cosa a chi pagasse meglio la giornata e tutto per Sentito dire.

Ditene ciò che volete, ma essi ci diedero qualche pezzo di pane e bevemmo ai loro barili di gusto. Poi ci ammonirono cordialmente che facessimo il maggior risparmio possibile della verità se volevamo arrivare alla corte de' grandi signori.





CAPITOLO XXXII.



Come qualmente scoprimmo il paese delle Lanterne.



Mal trattati e mal nutriti nel paese di Raso, navigammo per tre giorni; al quarto ci avvicinammo felicemente al Lanternese. Accostandoci vedemmo sul mare certi focherelli volanti. Io, per mio conto, pensavo fossero non lanterne, ma pesci che fiammeggiando colla lingua facessero fuoco fuori del mare; oppure Lampiridi (voi li chiamate cicindeli) che splendessero là, come fanno la sera nella mia patria, quando l'orzo va maturando. Ma il pilota ci avvertì che erano lanterne di ronda che andavano in ricognizione pei dintorni del paese e scortavano alcune lanterne straniere che, come i buoni cordiglieri e i giacobiti, andavano colà per esser presenti al capitolo provinciale. E dubitando noi che fosse prognostico di tempesta, egli ci assicuro di sì.





CAPITOLO XXXIII.



Come qualmente discendemmo al porto dei Licnobiani ed entrammo nel Lanternese.



Entrammo immediatamente nel porto del Lanternese. Là Pantagruele riconobbe sopra un'alta torre la lanterna della Rochelle che ci rischiarò per bene. Vedemmo anche la lanterna di Faros, di Nauplion, e dell'Acropoli d'Atene sacra a Pallade. Presso il porto era un piccolo villaggio abitato dai Licnobiani, popolo di gente dabbene e studiosi, che vivono di lanterne, come da noi i padri questuanti laici vivono di monacelle. Demostene aveva ivi lanternato un tempo. Di là fummo condotti fino al palazzo da tre obeliscolicni, guardie militari del porto, con alti berretti a punta come gli Albanesi. Esponemmo loro i motivi del nostro viaggio e il proposito d'impetrare dalla regina del Lanternese una lanterna per rischiararci e guidarci nel viaggio verso l'oracolo della Bottiglia. Essi promisero di aiutarci e volentieri, aggiungendo che eravamo arrivati in momento opportuno e favorevole e che avevamo da fare una bella scelta di lanterne mentre tenevano il loro capitolo provinciale.

Arrivando al palazzo reale fummo presentati alla Regina da due lanterne d'onore, la lanterna d'Aristofane e la lanterna di Cleante. Panurgo le espose brevemente in linguaggio lanternese i motivi del nostro viaggio ed ella ci fece buona accoglienza e ci ordinò di assistere alla sua cena per scegliere più facilmente la lanterna che avremmo voluto per guida. Ne fummo assai lieti e non mancammo di notare e considerare ogni cosa, sia gesti, e vestiti e contegno, sia l'ordine del servizio.

La regina era vestita di cristallo vergine, tempestato di grossi diamanti per arte di tarsia e opera di damaschineria. Le lanterne del sangue erano vestite alcune di diamanti chimici, altre di pietre fengiti; il resto avevano vesti di corno, di carta, di tela cerata. E lo stesso i lanternoni secondo la loro condizione e l'antichità del loro casato. Solamente ne scorsi una di terra cotta come un vaso, che stava insieme colle splendide e meravigliandomene, intesi che era la lanterna d'Epitteto, della quale una volta erano state rifiutate tremila dracme.

Considerai con diligenza la moda e il vestire della lanterna Polimixa di Marziale e ancor più l'Icosimixa, consacrata un tempo da Canope, figlia di Tisia. Notai benissimo la lanterna pensile presa un tempo dal tempio palatino di Tebe e trasportata poi nella città di Cima nell'Eolia per Alessandro il Conquistatore. Ne notai un'altra insigne, causa un bel fiocco di seta cremisina che aveva sulla testa, e mi fu detto che era Bartolo, lanterna del diritto. Ne rimarcai parimenti due altre insigni a causa delle borse da clistere che portavano alla cintura e mi fu detto che l'una era il grande e l'altra il piccolo Luminare degli apoticari.

Venuta l'ora di cena la Regina s'assise nel posto d'onore e di seguito le altre secondo il loro grado e la loro dignità.

All'inizio della cena furono tutte servite di grosse candele fuse. Ma la regina fu servita d'un grosso e duro cero fiammeggiante, di cera bianca, un po' rosso alla cima; anche le lanterne del sangue furono distinte dalle altre, e così pure la lanterna dei Mirabellese la quale fu servita d'una candela di noce e la lanterna provinciale del basso Poitou che vidi esser servita di una candela corazzata. E Dio sa che luce diffondevano coi loro lucignoli. Faceva eccezione un certo numero di giovani lanterne sotto il governo di una grossa lanterna, le quali non lucevano come le altre, ma mi sembravano avere colori lascivi.

Dopo cena ci ritirammo per riposare. L'indomani mattina la Regina ci fece scegliere come guida una lanterna delle più insigni. E così prendemmo congedo.





CAPITOLO XXXIV.



Come qualmente arrivammo all'oracolo della Bottiglia.



Grazie alla nostra nobile lanterna che ci rischiarava e guidava con tutta letizia, arrivammo all'isola desiderata nella quale era l'oracolo della Bottiglia. Disceso a terra Panurgo fece su un solo piede uno sgambetto in aria gagliardamente e disse a Pantagruele:

- Oggi finalmente abbiamo ciò che cercammo con fatiche e travagli tanto diversi.

Poi si raccomandò cortesemente alla nostra lanterna. Essa ci ordinò di ben sperare tutti quanti e di non spaventarci menomamente qualunque cosa ci apparisse.

Avvicinandoci al tempio della divina Bottiglia ci conveniva passare per mezzo a un gran vigneto fatto d'ogni specie di viti: come Falerno, Malvasia, Moscatello, Taiges, Beaume, Mirevaux, Orleans, Picardent, Arbois, Coussi, Anjou, Grave, Corsica, Verron, Nerac e altri. Il detto vigneto fu piantato un tempo dal buon Bacco con tale benedizione che in ogni stagione portava foglie, fiori, e frutti come gli aranci di Sanremo. La nostra lanterna magnifica ci comandò di mangiare tre grani d'uva per uno, di introdurre pampini nelle nostre scarpe e di tenere un ramo verde nella mano sinistra. Al termine del vigneto passammo sotto un arco antico sul quale era ben graziosamente scolpito il trofeo d'un bevitore, cioè: da una parte un lungo ordine di boccie, borraccie, bottiglie, fiale, fiaschi, barili, caratelli, boccali, pinte, anfore antiche, pendenti da una pergola ombrosa, da un'altra parte gran quantità d'aglio, cipolle, cipolline, prosciutti, bottarghe, formaggetti, lingue di bue affumicate, formaggi vecchi, e simili confetture intrecciate di pampini ed insieme con grande abilità legati con vincastri di vite, in altra parte cento forme di bicchieri, come bicchieri a piede, bicchieri... a cavallo, coppe, vasi, nappi, ciotole, scodelle, tazze, gotti e simile altra artiglieria bacchica. Sulla facciata sotto il zooforo erano iscritti questi due versi:



Nel passar da questa porta,

Buon lampione teco porta.



- A ciò abbiamo provveduto, disse Pantagruele. Ché in tutta la regione del Lanternese non c'è lanterna migliore e più divina della nostra.

Quell'arco metteva a un bello e ampio pergolato tutto di piante di vigna ornate di grappoli di cinquecento colori diversi e cinquecento forme non naturali, ma così ottenute per arte d'agricoltura, gialli, blu, marrone, azzurrati, bianchi, neri, verdi, violetti, screziati, picchiettati, poligonali, coglionati, coronati, barbuti, pomati, erbuti. Al termine del pergolato erano tre piante d'edera ben verdeggianti e tutte cariche di bacche. La nostra lustrissima lanterna ci comandò di farci con quell'edera un cappello albanese e coprircene tutta la testa, ciò che eseguimmo senza indugio.

Sotto questa pergola, disse allora Pantagruele, non sarebbe passato un tempo il pontefice di Giove.

C'era una ragione mistica, osservò la nostra preclara lanterna. Poiché passando sotto avrebbe avuto il vino cioè i grappoli sopra la testa, la quale sarebbe sembrata così sottomessa e dominata dal vino: il che significava che i pontefici e le persone che si votano e dedicano alla contemplazione delle cose divine, devono mantenere il loro spirito tranquillo, esente da ogni perturbazione di sensi; la quale perturbazione è più manifesta nell'ubriachezza che in qualsiasi passione.

Così voi non sareste accolti dalla divina Bottiglia essendo passati qui sotto, se Bacbuc, la nobile sacerdotessa non vedesse le vostre scarpe piene di pampini; atto questo in tutto diametralmente contrario al primo, poiché significa con evidenza che il vino vi è in dispregio ed è da voi conculcato e soggiogato.

- Io non son chierco, disse Fra Gianni, di che mi dolgo, ma trovo nel mio breviario che nella Rivelazione fu vista, cosa ammirabile, una donna colla luna sotto i piedi. Ciò per significare, come m'ha spiegato Bigotto, che quella donna non era della razza e natura delle altre le quali, tutte, hanno per contro la luna dentro la testa e per conseguenza il cervello sempre lunatico: ciò m'induce facilmente a credere quanto dite, madama Lanterna, amica mia.





CAPITOLO XXXV.



Come qualmente discendemmo sotto terra per entrare nel tempio della Bottiglia e come Chinon è la prima città del mondo.



Così discendemmo sotto terra per un arco incrostato di gesso, che all'esterno mostrava, dipinta rozzamente, una danza di donne e di satiri che accompagnavano il vecchio Sileno ridente sul suo asino.

- Questa entrata, dissi a Pantagruele, mi richiama a mente la Cantina dipinta della prima città del mondo; poiché anche là vi sono simili dipinti e parimenti a fresco come qui.

- Dove? domandò Pantagruele, e qual'è questa prima città che dite?

- Chinon, risposi, o Cainon, in Turenna.

- So dov'è Chinon e anche la Cantina dipinta, disse Pantagruele; vi ho bevuto molti bei bicchieri di vino fresco; e non dubito che Chinon sia città antica. L'attesta il suo blasone nel quale è detto:



Chinon (deux ou trois fois) Chinon,

Petite ville, grand renom;

Assise sur pierre ancienne,

Au haut le bois, au pied la Vienne.





Ma come può essere la prima città del mondo? Dove lo trovate scritto? Come lo congetturate?

- Ho trovato, dissi, nella Sacra Scrittura, che Caino fu il primo costruttore di città; è verosimile dunque che la prima, dal suo nome, l'abbia chiamata Cainon, come poi, a sua imitazione, tutti i fondatori e costruttori di città, hanno imposto il proprio nome: infatti Atena, cioè Minerva, in greco, diè il nome ad Atene; Alessandro ad Alessandria; Costantino a Costantinopoli; Pompeo a Pompeiopoli in Cilicia; Adriano ad Adrianopoli; Cana ai Cananei; Saba ai Sabei; Assur agli Assiri; e così Tolemaide, Cesarea, Tiberium, Erodium in Giudea ecc.

Mentre discorrevamo di queste bazzecole uscì fuori il gran Fiasco (la nostra lanterna lo chiamava Filosofo) governatore della divina Bottiglia, accompagnato dalla guardia del tempio composta tutta di bottiglioni francesi. Egli vedendoci tirsigeri come ho detto, e coronati d'edera, e riconoscendo anche la nostra insigne lanterna, ci fece entrare con sicurezza e comandò che ci conducessero dritto alla principessa Bacbuc, dama d'onore della Bottiglia e sacerdotessa di tutti i misteri. E ciò fu fatto.





CAPITOLO XXXVI.



Come qualmente discendemmo i gradini tetradici, e della paura che ebbe Panurgo.



Poi scendemmo un gradino sotto terra. Là era un luogo di sosta. Ne discendemmo due altri, altra sosta; quattro altri ancora e sosta del pari.

- È qui? domandò Panurgo.

- Quanti gradini avete contato? disse la nostra magnifica lanterna.

- Uno, due, tre, quattro, disse Pantagruele.

- Quanti sono? domandò ella.

- Dieci, rispose Pantagruele.

- Moltiplicate ciò che risulta, diss'ella, per la stessa tetrada pitagorica.

- Sono dieci, venti, trenta, quaranta, disse Pantagruele.

- A quanto ammonta il tutto? diss'ella.

- Cento, rispose Pantagruele.

- Aggiungete il cubo primo, diss'ella, cioè otto: al termine di questo numero fatale troveremo la porta del tempio. E qui notate saviamente che è la vera psicogonia di Platone tanto celebrata dagli Accademici e tanto poco intesa: della quale la metà è composta d'unità dei due primi numeri pieni, di due quadrangolari e di due cubici.

Discendendo quei numerosi gradini sotto terra ci furono necessarie, anzitutto le nostre gambe, poiché senza gambe saremmo rotolati come botti in cantina; e, in secondo luogo la nostra preclara lanterna, poiché in quella discesa non appariva più luce che se fossimo nel pozzo di San Patrizio in Ibernia, o nella fossa di Trofonio nella Beozia.

Discesi circa settantotto gradini, Panurgo si volse alla nostra lucente lanterna gridando:

- Mirifica dama, torniamo indietro, ve ne prego di cuor contrito. Per la morte di un bue, io muoio di dannata paura. Consento a non prender moglie mai. Assai vi siete disturbata e affaticata per me; Dio ve ne renderà merito nel suo gran renditorio: io non ve ne sarò ingrato uscendo fuori da questa caverna di Trogloditi. Ritorniamo di grazia; io temo forte che qui siamo a Tenara per la quale si discende all'inferno; mi sembra d'udir Cerbero che abbaia. Sì, ascoltate, è lui se le orecchie non mi cornano; non ho per lui devozione alcuna, ché non v'è mal di denti così grande come quando i cani ci addentano le gambe. Se questa è la fossa di Trofonio, i Lemuri e i Folletti ci mangeranno vivi come un giorno, a corto di briciole mangiarono uno degli alabardieri di Demetrio. Sei lì, Frate Gianni? Tienti vicino a me, ti prego, pancione mio, muoio di paura. Hai la tua sciabola? Io non ho arme alcuna, né offensiva, né difensiva, torniamo indietro.

- Son qui, son qui, disse Fra Gianni, non aver paura, ti tengo pel collare, diciotto diavoli non saprebbero strapparti dalle mie mani benché sia senz'armi. Non difettarono mai armi quando buon fegato s'associò a buon braccio; al bisogno pioverebbero dal cielo, come un giorno nei campi della Crau, presso le fosse Mariane in Provenza piovvero ciottoli (ci sono ancora) per aiutare Ercole che non aveva altrimenti di che combattere contro i figli di Nettuno. Ma che? Discendiamo noi qui al limbo dei bambini (perdio, ci sconcacheranno tutti) oppure all'inferno a tutti i diavoli? Corpo di Dio, ve li concerei ben bene ora che ho pampini nelle scarpe, oh come mi batterei gagliardamente! Dov'è?… Dove sono?… Non temo che le loro corna. Ma l'idea delle corna che porterà Panurgo sposato, me ne garantirà interamente. Lo vedo già con spirito profetico, novello Atteone cornante, cornuto, corninculo.

- Guardati, frater! disse Panurgo, in attesa che sposino i monaci, possa tu sposare la febbre quartana. E io possa tornare sano e salvo da questo ipogeo se non te la monto solo pel gusto di farti cornigero cornipetante; e se così non sia, penso che la febbre quartana è un ben cattivo buco. Mi ricordo che Grippaminotto voleva dartela per moglie, ma tu lo chiamasti eretico.

I discorsi furono interrotti dalla nostra splendida lanterna che ci osservò esser là il luogo al quale conveniva aver rispetto e con soppressione di parole e con taciturnità di lingua. Quanto al resto rispose in modo perentorio che non avessimo speranza alcuna di ritornare senza il motto della Bottiglia, dal momento che avevamo le scarpe feltrate di pampini.

- Andiamo avanti dunque, disse Panurgo, e diam col capo di cozzo attraverso a tutti i diavoli. Morire non è che un colpo... Tuttavia io mi riservavo la vita per qualche battaglia. Cozziamo, cozziamo, passiamo oltre. Son pieno di coraggio e anche più: non mi trema che il cuore; ma è il freddo, e la puzza di questa buca, non paura, né febbre. Cozziam, cozziamo, spingiam, pulsiam, passiamo, pisciamo: io mi nomo Guglielmo senza paura.





CAPITOLO XXXVII.



Come qualmente le porte del tempio di per sé miracolosamente si spalancarono.



Al fondo della scala trovammo un portale di fino diaspro disegnato e costruito in stile e forma dorica, sul frontone del quale era in lettere ioniche incisa questa sentenza:

En oino aletheia

vale a dire: in vino veritas.

I battenti erano di bronzo istoriati di piccole vignette a rilievo, smaltate graziosamente secondo l'esigenza della scultura ed erano insieme giunti e chiusi esattamente nel loro incastro, senza serratura, senza catenaccio, senza legamento alcuno; solamente vi era appeso un diamante indiano della grossezza d'una fava egiziana incastonato in oro affinato a due punte in forma esagonale e linea diretta; da ogni lato verso il muro era appeso un ciuffo di scordio.

A quel punto la nostra nobile lanterna ci disse che la scusassimo se ella doveva rinunciare a guidarci oltre, che legittima era la sua scusa e che solo avessimo a seguire le istruzioni della sacerdotessa Bacbuc, poiché non le era permesso di entrare più avanti per certe cause le quali piuttosto tacere era meglio che dire a gente vivente vita mortale. Ma in ogni evento ci raccomandò di stare in cervello, di non aver spavento, né paura di sorta e di fidare in lei per il ritorno.

Poi tirò il diamante appeso alla connessura dei battenti e lo gettò a destra in uno scrignetto d'argento a ciò preparato; tirò dai cardini di ciascun battente due cordoncini di seta cremisina lunghi una tesa e mezzo ai quali era appeso lo scordio, li attaccò a due anelli d'oro che a ciò pendevano ai lati e si ritirò in disparte.

Subitamente i battenti senza che alcuno li toccasse, da sé si spalancarono e aprendosi fecero un rumore stridente, ma non fracasso orribile come sogliono fare le porte di bronzo rudi e pesanti, bensì un dolce e grazioso mormorio risonante per la volta del tempio. Pantagruele ne comprese subito la ragione vedendo sotto l'estremità dell'uno e dell'altro battente un piccolo cilindro il quale congiungeva la porta per di sopra ai cardini e girando, secondo che essa si accostava al muro, sopra una dura pietra di ofite, ben tersa, levigata e forbita, col suo scivolare produceva quel dolce e armonioso mormorio.

Ben mi stupiva come qualmente i due battenti, ciascuno di per sé, senza premere di persona si fossero così spalancati. Per intendere questo caso miracoloso, dopoché fummo tutti entrati, gettai un'occhiata fra i battenti e il muro, ansioso di sapere per quale forza e per quale strumento s'erano rinchiusi supponendo che la nostra amabile lanterna avesse applicato sulla serratura l'erba detta etiope, mediante la quale si aprono tutte le cose chiuse; ma mi accorsi che là dove i battenti si chiudevano coll'incastro interno, era una lama di fino acciaio penetrante nel bronzo corinzio.

Scorsi inoltre due tavole di calamita indiana ampie e spesse un mezzo palmo, di color ceruleo, ben liscie e levigate; esse erano incastrate in tutto il loro spessore nel muro del tempio nel punto dove i battenti spalancati toccavano il muro stesso.

Causa dunque l'attrazione rapace e violenta della calamita, le lame d'acciaio per occulta e prodigiosa legge di natura, pativano quel movimento. Conseguentemente i battenti vi erano lentamente attratti e mossi; non tuttavia costantemente, ma solo quando era tolta la detta calamita, per il ritiro della quale l'acciaio era sciolto e dispensato dalla sua naturale obbedienza alla calamita e quando erano tolti parimenti i due ciuffi di scordio che la nostra gioiosa lanterna, mediante il cordoncino cremisino, aveva allontanati e sospesi, poiché lo scordio mortifica la calamita e la spoglia della sua virtù attrattiva.

Nell'una delle dette tavole, a destra era squisitamente scolpito in lettere latine arcaiche questo verso senario giambico:



DVCVNT VOLENTEM FATA, NOLENTEM TRAVNT.

Il destino conduce colui che consente, trae colui che si rifiuta.



Nell'altra vidi a sinistra in lettere più grandi, elegantemente scolpita questa sentenza:



OGNI COSA SI MOVE AL SUO FINE.





CAPITOLO XXXVIII.



Come qualmente il pavimento del tempio era tutto istoriato d'emblemi ammirabili.



Lette queste iscrizioni, volsi gli occhi alla contemplazione del magnifico tempio e consideravo l'incredibile compattezza del pavimento al quale non può esser ragionevolmente comparata nessuna opera qualsiasi sotto il firmamento, presente o passata, neanche il tempio della Fortuna, del tempo di Silla, a Preneste, neanche il pavimento greco, chiamato Asarotum fatto da Sosistrato in Pergamo.

Era un mosaico di piccoli quadrelli tutti di pietre fine e forbite, ciascuna del suo color naturale: l'una di diaspro rosso graziosamente picchiettato di macchioline diverse; l'altro di ofite, l'altro di porfirio, l'altro di licoftalmo seminato di scintille d'oro minute come atomi, l'altro d'agata a onde e fiammettine confuse senz'ordine, di colore latteo, l'altro di calcedonia preziosissima, l'altro di diaspro verde venato di rosso e di giallo con le venature disposte a diagonale.

Sotto il porticato la struttura del pavimento era tutta a emblemi composti di pietruzze a intarsio, ciascuna del suo colore nativo collocata a servire il disegno delle figure. Pareva che su quel pavimento avessero gettato una distesa di pampini buttati là senza troppa cura, poiché in un posto sembravano sparsi largamente, in un altro meno, ed era quel fogliame abbondante dappertutto; ma, ciò ch'è più singolare, vi apparivano a mezza luce, in un posto alcune lumachine che strisciavano sui grappoli, in un altro lucertolette correnti verso i pampini, in un altro apparivano grappoli mezzi maturi e maturi del tutto, composti e formati con tale arte e ingegno dallo artefice che avrebbero facilmente ingannato gli stornelli e altri uccelletti come fece la pittura di Zeusi d'Eraclia.

Comunque ingannavano benissimo anche noi, poiché nel luogo dove l'artefice aveva seminato i pampini bene spessi, temendo di farci male ai piedi, camminavamo a grandi gambate come si fa traversando qualche luogo ineguale e petroso.

Poi volsi l'occhio a contemplare la volta del tempio e le pareti, le quali erano tutte incrostate di marmo e porfirio, lavoro di mosaico e una mirifica figurazione da un capo all'altro, nella quale era rappresentata cominciando da sinistra dell'entrata, con eleganza incredibile, la battaglia che il buon Bacco vinse contro gli Indiani, nella maniera seguente.





CAPITOLO XXXIX.



Come qualmente nel mosaico del tempio era rappresentata la battaglia che Bacco vinse contro gl'Indiani.



In principio erano figurate diverse città, villaggi, castelli, fortezze, campi e foreste tutti avvampanti di fuoco. Erano altresì figurate diverse donne forsennate e discinte le quali squartavano vivi furiosamente vitelli, montoni, pecore e si pascevano delle loro carni. Era ivi significato come qualmente Bacco entrando nell'India metteva tutto a fuoco e a sangue.

Cionostante fu tanto dagl'Indiani spregiato che non degnarono andare ad affrontarlo avendo avuto informazioni dalle loro spie che nel suo esercito non erano guerrieri ma solamente un piccolo bonomo vecchio, effeminato e sempre briaco accompagnato da giovani con code e corna come i capretti agresti, tutti nudi, che danzavano e saltavano continuamente, e un gran numero di donne ebbre. Onde deliberarono di lasciarli venire avanti senza opporre resistenza d'armi, come se non a gloria, ma a vergogna, disonore ed ignominia ridondasse loro aver vittoria su tal gente. Grazie a questo spregio Bacco sempre s'avanzava e metteva tutto a fuoco (fuoco e folgore sono infatti l'armi paterne di Bacco e prima ancora di nascere al mondo fu salutata da Giove colla folgore sua madre Semele, e la sua casa materna arsa e distrutta dal fuoco) metteva tutto a sangue, ché, per natura, sangue fa al tempo di pace e sangue trae in tempo di guerra. Ne resta testimonianza nel campo di Samo detto Panema, vale a dire tutto sangue, nel quale Bacco raggiunse le amazzoni fuggenti dalla contrada di Efeso e le uccise tutte per flebotomia, onde il detto campo era tutto di sangue imbevuto e coperto. Potrete dunque d'ora innanzi intendere meglio che non l'abbia descritto Aristotele ne' suoi problemi, perché una volta si diceva in comune provverbio che "in tempo di guerra non si mangia né si pianta menta".

La ragione è che in tempo guerra, ordinariamente si danno giù colpi senza rispetto; onde l'uomo ferito, se in quel giorno ha maneggiato o mangiato menta, è ben difficile o impossibile stagnargli il sangue. In seguito nella su detta figurazione appariva come qualmente Bacco marciasse alla battaglia, e stava sopra un carro magnifico, tirato da tre pariglie di giovani leopardi aggiogati insieme; il viso era come di fanciullo per significare che tutti i buoni bevitori mai non invecchiano; rosso come un cherubino senza pelo di barba al mento. In testa portava corna acute e su quelle una bella corona di pampini e d'uva, con una mitra rossa cremisina ed era calzato di calzari dorati.

Con lui non era un solo uomo; tutte la sua guardia, tutte le sue forze erano costituite di Bassaridi, Evanti, Eniadi, Edonidi, Trieteridi, Ogigie, Mimallone, Menadi, Tiadi e Bacchidi, femmine forsennate, furiose, rabbiose, cinte di draghi e serpenti vivi invece che di cinture, coi capelli scarmigliati all'aria e con ghirlande di pampini; vestite di pelli di cervi e di caprioli, e con in mano piccole scuri, tirsi, roncole e alabarde in forma di pigne, e certi piccoli scudi leggeri, risonanti e rumorosi a toccarli appena, dei quali esse usavano, quando occorresse, come di tamburi e di timballi.

Il loro numero era di settantadue mila duecento e ventisette. L'avanguardia era guidata da Sileno, nel quale Bacco riponeva ogni fiducia e del quale aveva sperimentato in occasioni passate la virtù e magnanimità del coraggio e della prudenza. Era un vecchietto tremante, curvo, grasso panciuto a esuberanza: aveva orecchie grandi e dritte, il naso puntuto e aquilino, i sopraccigli rudi e grandi; era montato sopra un asino coglionato; teneva in pugno per appoggiarsi un bastone, anche per combattere gagliardemente se per caso convenisse discendere a piedi; ed era vestito di una veste gialla come le donne. Era accompagnato da giovani campestri, cornuti come capretti e fieri come leoni, tutti nudi, sempre cantanti e saltanti il cordace; si chiamavano Titiri e Satiri. Il loro numero era di ottantacinque mila cento e trentatre.

Pan conduceva la retroguardia, uomo orrifico e mostruoso. Poiché nelle parti inferiori del corpo rassomigliava a un caprone, aveva le coscie pelose e portava in testa corna dritte contro il cielo. Aveva il viso rosso e infiammato e la barba molto lunga, uomo ardito, coraggioso, avventuroso e facile al corruccio: nella mano sinistra teneva un flauto, nella destra un bastone ricurvo; le sue schiere erano similmente composte di Satiri, Emipani, Egipani, Argipani, Silvani, Fauni, Fatui, Lemuri, Lari, Farfarelli e Folletti, in numero di settantotto mila cento e quattordici. La parola d'ordine di tutti era: Evoeh!





CAPITOLO XL.



Come qualmente nella figurazione era rappresentato il pezzo dell'assalto dato dal buon Bacco agli Indiani.



In seguito era figurato il cozzo e l'assalto che il buon Bacco dava contro gl'Indiani. Considerai che Sileno, capo dell'avanguardia sudava a goccioloni e stimolava aspramente l’asino suo; l'asino spalancava la bocca orribilmente, si smoscava, smaniava, scaramucciava, in maniera spaventevole come avesse un calabrone al culo.

I Satiri, capitani, sergenti di bande, capisquadra, caporali, suonando la diana coi loro cornabecchi, s'aggiravano furiosamente in mezzo all’esercito a salti di capra, a balzi, a peti, a springate e calci; incitando i compagni a combattere coraggiosamente. Tutti, nella figurazione gridavano: Evoeh! Le Menadi, per prime, facevano incursione sugli Indiani con grida orribili e il fracasso spaventevole dei loro timballi e scudi. Non è più a stupire se l'arte d'Apelle, Aristide Tebano e altri ha potuto dipingere tuoni, lampi, folgori, venti, parole, costumi e spiriti, poiché ivi nel disegno della figurazione, rimbombava tutto il cielo. Veniva poi l'esercito degl'Indiani come avvertiti che Bacco devastava il loro paese. In primo piano erano gli elefanti carichi di torri con numero infinito di guerrieri; ma tutto l’esercito era in rotta e contro loro e su loro s’aggiravano e marciavano i loro elefanti sconvolti dal terrore panico per il tumulto orribile delle Bacchidi. Là avreste visto Sileno che spingeva il suo asino con fiere calcagnate e schermeggiava col suo bastone alla vecchia scherma, mentre l'asino volteggiava dietro gli elefanti a bocca spalancata come se ragliasse e ragliando marzialmente squillava l'assalto con pari bravura come un giorno svegliò la ninfa Lottis, in pieno baccanale, quando Priapo pieno di priapismo, senza pregarla, priapizzar la volea nel sonno.

Là avreste visto Pan saltellare con le sue gambe storte intorno alle Menadi ed incitarle col suo rozzo flauto a combattere valorosamente. Là avreste visto, dopo, un giovane Satiro menare prigionieri diciassette re; una Bacchide tirare coi suoi serpenti quarantadue capitani; un piccolo Fauno portare dodici insegne prese ai nemici e quel bonomo di Bacco passeggiar col suo carro, sicuro per il campo, ridendo, godendosela, e bevendo alla salute di ciascuno. Infine era rappresentato in figura emblematica il trofeo della vittoria e il trionfo del buon Bacco.

Il suo carro trionfale era tutto coperto d'edera colta sulla montagna Meros, essendovi in India di quella pianta rarità, che eleva il pregio d'ogni cosa.

Bacco fu imitato poi da Alessandro il Grande nel suo trionfo indiano, il cui carro era tirato da elefanti aggiogati insieme; poi da Pompeo Magno in Roma nel suo trionfo africano; poi da Caio Mario dopo la vittoria sui Cimbri presso Aix in Provenza. Tutto il suo esercito era coronato d'edera; i loro tirsi, scudi e tamburi ne erano coperti. Anche l'asino di Sileno ne era tutto coperto da capo a coda.

Ai lati del carro erano i re dell'India presi e legati con grosse catene d'oro; tutta la brigata marciava con pompa divina in gioia e letizia indicibili, portando infiniti trofei e piatti e spoglie dei nemici e cantando allegramente gli epinici e canzonette villereccie e fragorosi ditirambi.

Alla fine era rappresentato l'Egitto col Nilo e i suoi coccodrilli, cercopitechi, ibidi, scimmie, trochili, icneumoni, ippopotami e altre bestie sommesse a Bacco; e lui marciava per quelle contrade tirato da due buoi sull'uno de' quali era scritto in lettere d'oro: Api, sull'altro: Osiride, poiché in Egitto, prima della venuta di Bacco non erano stati visti né buoi né vacche.





CAPITOLO XLI.



Come qualmente il tempio era rischiarato da una lampada ammirabile.



Prima di venire alla descrizione della Bottiglia, vi descriverò la figura ammirabile d'una lampada che spandeva in tutto il tempio luce tanto copiosa che pur essendo sotterra ci si vedeva come vediamo in pieno mezzogiorno quando il sole chiaro e sereno risplende sulla terra. In mezzo alla volta era attaccato un anello d'oro massiccio della grossezza d'un pugno, al quale erano appese tre catene di grossezza poco minore, lavorate con bell'arte le quali, a due piedi e mezzo dalla volta sostenevano triangolarmente una lamina d'oro fino, rotonda, di grandezza tale che il diametro eccedeva due cubiti e mezzo palmo. Erano in essa quattro pertugi rotondi in ciascuno dei quali era fissata una palla vuota, incavata all’interno; aperta sopra, come una piccola lampada. Avevano circa due palmi di circonferenza ed erano tutte di pietre preziosissime: l'una d'ametista, l'altra di carbonchio libico, la terza d’opale, la quarta d'antracite. Ciascuna era piena d'acqua ardente cinque volte distillata in alambicco serpentino inconsumabile come l'olio che un giorno Callimaco mise nella lampada d'oro di Pallade nell'Acropoli d'Atene, con un lucignolo ardente fatto parte di lino asbestino (come un tempo nel tempio di Giove Ammone e lo vide Cleombroto, filosofo studiosissimo) in parte di lino carpasico, le quali sostanze sono per fuoco piuttosto rinnovate che distrutte.

Al disotto di quella lampada circa due piedi e mezzo, le tre catene nella loro forma primitiva infilavano tre anse le quali sporgevano da una lampada rotonda di cristallo purissimo, del diametro di un cubito e mezzo, e superiormente aperta per un'ampiezza di circa due palmi; in mezzo a quest’apertura era posto un vaso di cristallo simile al precedente in forma di zucca, o come un orinale, e discendeva fino al fondo della lampada grande, con tale quantità d'acqua ardente che la fiamma del lino asbestino era dritta al centro della grande lampada. In questo modo tutto il corpo sferico di quella sembrava ardere e fiammeggiare, perché il fuoco era al centro, al punto mediano.

Era difficile di potervi fermare fisso e costante lo sguardo, come non si può fissare il sole, impedendolo la materia di sì meravigliosa luminosità e l’opera tanto diafana e sottile per la riflessione sulla grande lampada inferiore de' diversi colori (naturali alle pietre preziose) delle quattro piccole lampade superiori, la luce delle quali era in ogni punto incostante e vacillante per il tempio. Inoltre quella vaga luce venendo a battere sulla forbitezza del marmo onde era incrostato tutto l’interno del tempio, ne apparivano i colori che vediamo nell'arcobaleno quando il chiaro sole tocca le nuvole piovose.

L'invenzione era ammirabile, ma ancora più ammirabile, a parer mio, che lo scultore intorno al rigonfiamento di quella lampada cristallina avesse inciso con arte di cesello una pronta e gagliarda battaglia di bambini nudi, montati su cavallucci di legno con lancie munite di girelle e palvesi fatti sottilmente di grappoli d'uva intrecciati di pampini, con gesti e sforzi puerili espressi per arte tanto ingegnosa che meglio non potrebbe la natura. E non sembravano incisi sul cristallo, ma in alto rilievo, o, almeno, apparivano rilevati a mò di fregio grottesco grazie alla diversa e gradita luce che, dentro contenuta, si diffondeva per la incisione.





CAPITOLO XLII.



Come qualmente la sacerdotessa Bacbuc ci mostrò dentro il tempio una fontana fantastica.



Mentre consideravamo in estasi il tempio mirifico, e la lampada memorabile, ci apparve con faccia gioconda e ridente la venerabile sacerdotessa Bacbuc colla sua compagnia e vedendoci acconciati come è stato detto, c'introdusse senza difficoltà nel centro del tempio, dove sotto la lampada sopra detta era la bella fontana fantastica più preziosa di materia e di lavoro, più rara e mirifica di quanto mai potesse pensare Dedalo. L'orlo, il plinto e lo zoccolo erano purissimo e traslucido alabastro, dell'altezza di tre palmi, poco più, di forma ettagonale a lati eguali esternamente, con molte stilobati, arulette; cimasulte, e undiculazioni doriche all'intorno. All'interno era esattamente rotonda.

Al vertice d'ogni angolo, in margine, era assisa una colonnina circondata da una specie di cerchio d'avorio o balaustra, ed erano sette in tutto, una per angolo. La lunghezza loro dalle basi sino agli architravi era di sette palmi poco meno, secondo la giusta esatta dimensione del diametro della circonferenza interna.

La prima colonna, quella cioè che si obbiettava alla nostra vista all'entrata del tempio era di zaffiro azzurrino e celeste.

La seconda, di giacinto, (con lettere greche A I in diversi luoghi) riproduceva il colore del fiore nel quale fu convertito il sangue collerico d'Aiace.

La terza di diamante anachite, brillava e splendeva come folgore.

La quarta di rubino balascio, mascolino e ametistizzante di maniera che la sua fiamma splendente finiva in porporino e violetto com'è l'ametista.

La quinta, di smeraldo, più magnifica cinquecento volte che non fosse mai quella di Serapide nel labirinto degli Egiziani, più fiorente e lucente di quelle esposte a guisa d'occhi al leone marmoreo giacente presso la tomba del re Ermia.

La sesta d'agata, più gioiosa e variegata di macchie e colori di quella che si teneva tanto cara Pirro re degli Epiroti.

La settima di selenite trasparente, con bianchezza di berillo, aveva lo splendore del miele dell’Imetto e vi apparia dentro la luna colla figura e il movimento che essa ha nel cielo, piena, silenziosa, crescente o decrescente.

Tutte quelle pietre dagli antichi Caldei e maghi erano attribuite ai sette pianeti del cielo. E affinché si potesse meglio intendere il simbolo di quella rude Minerva, sulla prima, di zaffiro, sopra il capitello in linea perpendicolare al centro era elevata in piombo eluziano preziosissimo l'immagine di Saturno colla sua falce in mano e una gru d'oro ai piedi, smaltata con arte dei colori nativi richiesti dall'uccello saturnino.

Sulla seconda, di giacinto, volgendo a sinistra, era Giove in stagno gioveziano, con sul petto un'aquila d'oro smaltata secondo natura.

Sulla terza Febo, in oro raffinato, con nella mano destra un gallo bianco.

Sulla quarta, in bronzo corinzio, Marte con a' piedi un leone.

Sulla quinta Venere in rame, di materia eguale a quella onde Aristonide compose la statua d'Atamante che esprimeva arrossendo nella sua bianchezza, la vergogna che sentiva contemplando Learco suo figlio morto di una caduta; e a' suoi piedi una colomba.

Sulla sesta, in idrargirio, fisso, malleabile e immobile, Mercurio con una cicogna ai piedi.

Sulla settima, la luna in argento, con a' piedi un levriere.

L'altezza di quelle statue era un terzo, poco più delle colonne sottoposte ed erano esse tanto ingegnosamente rappresentate secondo proporzioni matematiche, che appena avrebbe potuto reggere al paragone il canone di Policleto, scrivendo il quale fu detto che stabilisse l'arte d'insegnar l'arte.

Le basi delle colonne, i capitelli, gli architravi, i zoofori e le cornici erano di stile frigio, massicci, d'oro più puro e più fino che non si trovi nel fiume Lez presso Montpellier, nel Gange in India, nel Po in Italia, nell'Ebro in Tracia, nel Tago in Spagna, nel Pactolo in Lidia.

Gli archi levati sulle colonne erano della pietra delle colonne di partenza, per ordine, cioè di zaffiro fino alla colonna di giacinto, di giacinto verso il diamante, e così di seguito.

Sopra gli archi e i capitelli delle colonne all'interno era una cupola eretta a coprire la fontana, la quale, seguendo la posizione dei pianeti, cominciava in forma ettagona e finiva lentamente in forma sferica; ed il cristallo era tanto limpido, tanto diafano, tanto forbito, intero ed uniforme in tutte le sue parti, senza vene, senza nuvole, senza ghiaccioli, senza filamenti, che Xenocrate mai ne vide che reggessero al paragone.

Dentro la sua volta erano per ordine e figura e caratteri squisiti scolpiti con arte, i dodici segni dello zodiaco, i dodici mesi dell'anno colle loro proprietà, i due solstizi, i due equinozi, la linea eclittica con le stelle fisse più insigni intorno al polo antartico e altrove, con esecuzione sì artistica che pensai fosse opera del re Necepso, o dell'antico matematico Petosiride.

Sulla sommità della detta cupola, corrispondente al centro della fontana, erano tre unioni eleichie di forma turbinata lagrimale perfetta, tutte insieme coerenti a forma di un giglio, tanto grandi che eccedevano d'un palmo la grandezza del fiore. Dal calice di esso usciva un carbonchio grosso come un ovo di struzzo, tagliato in forma ettagona (il sette è un numero molto amato dalla natura) tanto prodigioso e ammirabile che levando gli occhi per contemplarlo, poco mancò che non perdessimo la vista: né più fiammeggiante né maggiore è il fuoco del sole, né il lampo, di quello che appariva quel carbonchio.

Insomma giusti estimatori avrebbero facilmente giudicato essere più ricchezze e singolarità in quella fontana e nelle lampade sopra descritte di quante ne contengano l'Asia, l'Africa, e l'Europa insieme. E avrebbero offuscato la pantarba del mago indiano Jarca, così facilmente come il sole in chiaro mezzogiorno oscura le stelle.

Vada ora a vantarsi Cleopatra, regina d'Egitto delle unioni pendenti a' suoi orecchi, una delle quali ella, presente il triunviro Antonio, sciolse nell'acqua per forza d'aceto e inghiottì.

Ed era stimata cento sesterzi.

Vada ora Lullia Paolina a far pompa della sua veste tutta coperta di smeraldi e perle tessuti alternamente, la quale chiamava ad ammirazione tutto il popolo della città di Roma, che era detta fossa ed emporio dei vincitori ladroni di tutto il mondo. L'acqua della fontana usciva e zampillava per tre tubi o canali fatti di perle fine, disposti secondo i tre angoli equilateri promarginali più sopra esposti; i canali procedevano in linea spirale bipartita. Dopo averli ben considerati, volgevamo altrove gli occhi, quando Bacbuc ci raccomandò di ascoltare l'uscita dell’acqua, e allora sentimmo un suono mirabilmente armonioso, ma tuttavia ottuso e rotto come se venisse di lontano e di sotterra. In che ci sembrava più delizioso che se fosse stato udito apertamente e da vicino.

Di guisa che quanto il nostro spirito era stato dilettato per le finestre degli occhi alla contemplazione delle cose su dette; altrettanto era per le orecchie nell'udire quell'armonia.

Allora Bacbuc ci disse:

- I vostri filosofi negano che possa manifestarsi movimento per virtù figurativa; udite qui e vedete il contrario. Grazie alla sola figura spirale bipartita che vedete, e insieme ad una quintuplice laminatura mobile a ciascuno attacco interno, (come avviene della vena cava, colla differenza che essa entra al ventricolo destro del cuore) questa sacra fontana fluisce ed esce e crea un’armonia tale che monta fino al mare del vostro mondo.





CAPITOLO XLIII.



Come l’acqua della fontana aveva gusto di vino secondo l'immaginazione dei bevitori.



Bacbuc comandò poi che fossero presentati nappi, tazze, bicchieri, d'oro, d'argento, di cristallo e di porcellana. Invitati graziosamente a bere il liquore che sgorgava dalla fontana, bevemmo ben volentieri.

Infatti, affinché siate pienamente avvertiti, noi non siamo del calibro d'un branco di vitelli che, come i passeri, non mangiano se non si dà loro un colpetto sulla coda e parimenti non bevono se non a suono di randellate.

Mai non respingiamo alcuno che c’inviti cortesemente a bere. Bacbuc ci domandò poi la nostra impressione e noi rispondemmo che ci pareva buona e fresca acqua di fontana limpida e argentina più che non sia quella d'Argironda in Etolia, del Peneo in Tessalia, dell'Axio in Macedonia, del Cidno in Cilicia; tale che vedendolo Alessandro il Macedone sì bello e chiaro e fresco nel cuor dell'estate non volle rinunciare alla voluttà di bagnarvisi dentro, pur conscio del male che poteva venirgli da quel transitorio piacere.

- Ah, disse Bacbuc, ecco ciò che significa non considerare in sé, né intendere i movimenti dei muscoli linguali quando il bere vi scorre su per discendere non ai polmoni per l'arteria ineguale come era opinione del buon Platone, di Plutarco, di Macrobio e altri, ma nello stomaco per via dell'esofago. Oh pellegrini, avete voi la gola coperta, lastricata e smaltata, come un tempo Pitillo, al dir di Tense, che non avete riconosciuto il sapore di questo deifico liquore?

E volta alle sue damigelle:

- Portate qui, disse, le spazzole che sapete, per raschiare, mondare e nettar loro il palato.

Furono portati allora belli, grossi e giocondi prosciutti, belle grosse e gioconde lingue di bue affumicate, belli e buoni salumi, cervellate, bottarghe, caviale, belli e buoni salamini cacciatori e simili altri spazzacamini della gola. Per obbedire al suo comando ne mangiammo finché dovemmo confessare che i nostri stomachi erano ben ripuliti e che la sete c’importunava aspramente. Allora ci disse:

- Un tempo un capitano ebreo dotto e cavalleresco, mentre guidava il suo popolo pei deserti, tormentato da grandissima fame, impetrò dal cielo la manna, la quale, per forza d’immaginazione, aveva per loro il gusto che prima avevano lo vivande. Qui del pari, bevendo questo mirifico liquore, sentirete il gusto della qualità di vino che avrete immaginato. Immaginate dunque e bevete.

Bevemmo.

- Per Dio! gridò subito Panurgo, questo è vino di Beaune, e migliore di quanto ne bevessi mai; che novanta e sedici diavoli mi portino via se non è vero. Oh, poter avere, per gustarlo meglio, il collo lungo tre cubiti, come desiderava avere Filosseno, o come una gru, secondo che si augurava Melanzio.

- In fede d’un lanterniere, esclamò Fra Gianni, questo è vino di Grave, gagliardo e volteggiante. Oh, per Dio, amica, insegnatemi come fate a farlo.

- A me, disse Pantagruele, sembra vino di Mirevaux, come immaginavo prima di bere. Non c’è che un guaio, cioè ch’è fresco, ma, dico, fresco più che ghiaccio, più dell'acqua di Nonacris e Dercé, più che la fontana di Contoporia a Corinto, che ghiacciava lo stomaco e le parti digerenti di quelli che bevevano.

Bevete, disse Bacbuc, una, due o tre volte e mutando immaginazione troverete di nuovo il liquore del gusto e sapore che avrete immaginato. E d'ora innanzi proclamate che a Dio nulla è impossibile.

- Mai non dicemmo il contrario, risposi; noi proclamiamo l'onnipotenza sua.





CAPITOLO XLIV.



Come qualmente Bacbuc acconciò Panurgo per avere la parola della Bottiglia.



Terminati discorsi e bevute, Bacbuc domandò:

- Chi è di voi colui che vuol avere la parola della divina Bottiglia?

- Io, vostro umile e piccolo imbuto, rispose Panurgo.

- Amico mio, diss'ella, non devo farvi che una raccomandazione: accostandovi all'oracolo, non ascoltate la sua parola che d'una sola orecchia.

- È vino d'un'orecchia sola commentò Fra Gianni. Bacbuc vestì Panurgo d'una cappa, gli avviluppò il capo d'un bello e bianco cappuccio, lo imbacuccò d'un filtro d'Ippocrasso in cima al quale invece di fiocco mise tre orecchie d'asino, lo inguantò con due vecchie braghette, lo cinse di tre cornamuse legate insieme, gli bagnò la faccia tre volte nella fontana, gli buttò nel viso una manciata di farina, mise tre penne di gallo dalla parte destra del filtro ippocratico, lo fece girare nove volte intorno alla fontana, gli fece fare tre bei salterelli e gli fece sbattere sette volte il culo per terra, pronunziando sempre non so quali scongiuri in lingua etrusca e leggendo qualche formula in un libro rituale che presso lei portava uno de' suoi mistagoghi.

Insomma io penso che Numa Pompilio, secondo re di Roma, i Ceriti etruschi, e il santo capitano ebreo non istituirono mai tante cerimonie quante vidi allora. E neppure i vaticinatori di Memfi per Api in Egitto, né gli Eubeiesi nella città di Ramnes per Ramnusia, né per Giove Ammone, né per Feronia, usarono gli antichi tante cerimonie. religiose quante ne vidi colà.

Bacbuc separò Panurgo così acconciato, dalla nostra compagnia, e lo condusse a mano destra per una porta d'oro, fuori del tempio in una cappella rotonda fatta di pietre sfengiti e speculari; per la solida trasparenza delle quali, senza finestra, né altra apertura penetrava la luce del sole che giungeva per le fenditure della roccia che copriva il tempio maggiore, e tanto facilmente e con tale abbondanza che la luce sembrava nascere dentro non venire di fuori. Era opera non meno meravigliosa di quanto fosse una volta il sacro tempio di Ravenna, o quello delle isole Chemnis in Egitto; e non è a passar sotto silenzio che l'architettura di quella cappella rotonda era misurata con simmetria tale che il diametro della circonferenza corrispondeva all'altezza della volta.

In mezzo v'era una fontana di fino alabastro di forma ettagonale, d'architettura e incrostatura singolari, piena d'acqua sì chiara che poteva esser considerata un elemento semplice; dentro vi stava immersa a metà la sacra Bottiglia, tutta rivestita di puro e bel cristallo, di forma ovale, eccetto che l'orlo era un po' più aperto di quanto quella forma non richiedesse.





CAPITOLO XLV.



Come qualmente la sacerdotessa Bacbuc presentò Panurgo davanti alla divina Bottiglia.



Allora, la nobile sacerdotessa fece chinare Panurgo e gli fece baciare il margine della fontana; poi lo fece levare e gli fece ballare in giro tre salti bacchici. Ciò fatto gli comandò di sedere col culo a terra fra due selle là preparate. Poi aperse il suo libro rituale e gli fece cantare, suggerendogli nell'orecchia sinistra un'epilenia come segue:



O Bottiglia

Tutta piena

Di misteri,

Io t'ascolto

D'un orecchio

Non tardare

La parola a pronunziare

Dalla qual pende il mio cuore.

Nel divino tuo liquore

Chiuso dentro il ventre tuo

Bacco, d'India vincitore,

Tutta ha messo Verità.

Vino tanto divino, lungi da te è cacciata

Ogni menzogna ed ogni impostura.

Con gioia sia chiusa l'arca di Noè.

Il quale ci fè di te composizione.

Suona il bel motto, te ne prego,

Che deve tormi da miseria.

Così niuna goccia di te si perda

Sia bianca o sia vermiglia.

O Bottiglia

Tutta piena

Di misteri,

D'un'orecchia

Io t'ascolto,

Non tardare.



Finita questa canzone Bacbuc gettò non so che dentro la fontana e subito l'acqua cominciò a bollire con forza come fa la gran marmitta di Bourgueil nei giorni di festa grande. Panurgo ascoltava con un'orecchia in silenzio; Bacbuc si teneva presso a lui inginocchiata; ed ecco dalla sacra Bottiglia uscì una romba come di api quando nascono dalla carne d'un toro ucciso e aggiustato secondo l'arte e invenzione d'Aristeo, o quale fa una freccia scoccando dalla balestra, o, in estate, una forte pioggia che cada d'improvviso. Allora fu udita questa parola: Trinch!

- Per la virtù di Dio! gridò Panurgo, è rotta o fessa, se non mento, così parlano al nostro paese le bottiglie di cristallo quando presso il fuoco scoppiano.

Allora Bacbuc si levò e prese Panurgo sotto il braccio dolcemente, dicendogli:

- Amico, ragion vuole che rendiate grazie ai cieli: prontamente avete avuto il responso della divina Bottiglia, il responso più gioioso, più divino, più certo, che mai abbia inteso da lei da quando son qui ministra del suo sacrosanto oracolo. Alzatevi, su, andiamo al capitolo, nella glossa del quale è interpretato il bel responso.

- Andiamo, per Dio, disse Panurgo. Ne so quanto prima; spiegatevi; dov'è questo libro? Voltate, voltate, dov'è il capitolo? Vediamo questa gioiosa glossa!





CAPITOLO XLVI.



Come qualmente Bacbuc interpreta il responso della Bottiglia.



Bacbuc, gettò non so che nella vasca, onde l'ebollizione dell'acqua subito si attenuò. Poi condusse Panurgo nel tempio maggiore, al centro, dove era la vivifica fontana. Là traendo un grosso libro d'argento in forma di mezzo moggio, o d'una quarta di sentenze, lo bagnò nella fontana e disse a Panurgo:

- I filosofi, i predicatori e i dottori del vostro mondo vi pascolano di belle parole per la via delle orecchie; qui noi incorporiamo i nostri precetti per la via della bocca. Pertanto io non vi dico: Leggete questo capitolo, ascoltate questa glossa; bensì vi dico: Assaggiate questo capitolo, inghiottite questa bella glossa. Una volta un antico profeta della razza giudaica mangiò un libro e fu chierco fino ai denti: ora voi ne berrete uno e sarete chierco fino al fegato. Tenete, aprite le mascelle.

Panurgo avendo spalancata la bocca, Bacbuc prese il libro d'argento (pensavamo che fosse veramente un libro per la sua forma come di breviario, ma era invece una vera e propria bottiglia piena di vino Falerno) e ne fece ingollare a Panurgo.

- Ecco, un capitolo notevole, e una glossa autenticissima, disse Panurgo. È qui tutto ciò che pretendeva il responso della Bottiglia trimegista?

- Nient'altro, rispose Bacbuc, poiché Trinch è responso panonfeo, celebrato e inteso da tutte le nazioni, e significa: Bevete.

Voi dite nel vostro mondo che sacco è vocabolo comune ad ogni lingua e adottato a buon diritto e giustamente da ogni nazione. Infatti come è detto nell'apologo di Esopo, tutti gli uomini nascono con un sacco al collo, miseri per natura e mendicanti l'uno dell'altro. Non v'è re così potente sotto il cielo che possa fare a meno degli altri, non v'è povero tanto presuntuoso che possa fare a meno del ricco, neanche il filosofo Ippia che faceva tutto da sé. E se non possiamo essere senza sacco, tanto meno possiamo star senza bere. E qui affermiamo che non il ridere, ma il bere è proprio dell'uomo; e non dico bere semplicemente e puramente, poiché bevono anche le bestie; ma dico bere vin buono e fresco. Notate, amici, che di vino, divino si diventa; e non v'è verità più sicura né divinazione meno fallace. L'affermano i vostri Accademici dando l'etimologia di vino che dicono derivare dal greco OINOS, come vis, forza, potenza. Poiché ha il potere di riempire l'anima di ogni verità, di ogni sapere e filosofia. Se avete notato ciò che è scritto in lettere ioniche sulla porta del tempio, avrete potuto intendere che nel vino è nascosta la verità. La divina Bottiglia vi rimette a quella sentenza, siate voi stessi interpreti della vostra impresa.

- Non è possibile parlar meglio di questa venerabile sacerdotessa, disse Pantagruele. La stessa risposta vi avevo dato io quando m'interrogaste la prima volta. Trinch, adunque. Che vi dice il cuore esaltato da entusiasmo bacchico?

- Trinchiamo, disse Panurgo.



Trinchiam, trinchiamo in nome del buon Bacco!

Tra breve, ah! Oh! oh! i miei coglioni

Zavorreranno a modo un orifizio

Che sarà dal mio piccolo omarino

Bene imbottito. Che succede adunque?

Del mio cuor la Paternità mi dice

Che ben presto sarò non sol sposato

Ne' miei quartieri, ma che volentieri

La mia sposa verrà al combattimento

Venereo. Buon Dio, quale battaglia

Vedo fin d'ora! voglio darci dentro

A tutto spiano, voglio zavorrarla

A mio bell'agio, che son ben nutrito.

Son io il buon marito, il buon de' buoni.

A me il peana! A me, a me il peana!

Viva le nozze! Viva per tre volte!

Qua, Frate Gianni, giuramento fo

Vero ed intelligibil che l'oracolo

E' infallibil, fatidico, sicuro





CAPITOLO XLVII.



Come qualmente Panurgo e gli altri ritmano per furore poetico.



- Sei diventato matto o fatato? disse Fra Gianni a Panurgo. Vedete come schiuma sentite come ritmeggia. Che abbia mangiato tutti i diavoli? Stravolge gli occhi nella testa come una capra in agonia; si trarrà egli in disparte? Andrà del corpo più in là? Mangerà l'erba dei cani per scaricarsi lo stomaco? O si metterà il pugno fino al gomito in gola all'uso monacale per curarsi gl'ipocondri? Riprenderà il pelo del cane che lo morse?

Pantagruele riprende Fra Gianni dicendo:



Del buon Bacco è il poetico furore,

Credetemi; così gli ecclissa i sensi

Questo bon vino che lo fa cantare.

Sì, senza fallo

Sono i suoi spirti

In tutto presi

Dal buon liquore.

Dai gridi al riso,

Dal riso all'estro,

In questo vino

Il suo bel cuore

Fatto è facondo

E superiore

A chi sorride.

E visto ch'è sì acceso di cervello,

Mi sembrerebbe pungerlo di troppo

Canzonando sì nobil trincatore.



- Come? dice Fra Gianni anche voi ritmate? Per la virtù di Dio siamo tutti conditi per bene! Piacesse a Dio che ci vedesse Gargantua in questo stato. Io non so, perdio, che fare se parimenti come voi rimare o no. Non ci capisco nulla, ma siamo tutti in ritmaglieria. Per San Giovanni, anch'io ritmerò come gli altri, lo sento bene. Attendete e scusatemi se non ritmo in cremisino:



O virtù di Dio paterna

Che mutasti l'acqua in vino,

Il mio cul muta in lanterna.

Per far lume al mio vicino.



Panurgo continua l'argomento dicendo:



Non mai responso più sicuro e certo

Dal tripode suo diè la Pitonessa.

Tal responso dev'essere venuto

Entro questa fontana propriamente

Portato dall'oracolo di Delfo.

E se Plutarco come me qui avesse

Bevuto, non avrebbe sollevato

Il dubbio che gli oracoli di Delfo

Sian diventati muti come pesci.

Se più non danno voce di responso

La ragione è chiarissima; non più

Il tripode fatale in Delfo ha sede

Ma in questo luogo e presagisce tutto.

Afferma infatti il libro d'Ateneo

Che quel tripode gli era la bottiglia,

Piena di vin squisito, ad un orecchio,.

Del vino dico, della verità.

Non v'è nell'arte di divinazione

Miglior sincerità che nel consiglio

Della parola uscita da bottiglia.

Orsù, Fra Gianni, fin che siamo qui,

Chiedi tu pure la parola della

Bottiglia trimegista per sentire

Se nulla vieta che anche tu ti sposi.

Su presto qua, per non cambiare idea,

Vieni a giocare l'amorabachina

Gettategli sul muso la farina.



Fra Gianni rispose con furore dicendo:



Eh? ch'io mi sposi! Ah, per gli stivali

Per le ghette del santo Benedetto,

Chiunque mi conosca giurerà

Che preferisco d'esser degradato

Fino all'infimo limite piuttosto

Che farmi assassinar dal matrimonio.

Esser spogliato della libertà?

Legarmi ad una femmina per sempre?

Virtù di Dio! Con gran fatica mai

Mi legherebbero ad un Alessandro,

A un Ottaviano, a un Cesare, né ad altri

De' più cavallereschi re del mondo.



Panurgo liberandosi dalla sua cappa e acconciatura mistica rispose:



Così sarai dannato, bestia immonda,

Qual perfido serpente, mentre a me

Sarà dato volare in paradiso

Salvo e leggero come voce d'arpa.

Allora sì dall'alto, t'assicuro,

Voglio pisciarti addosso, porcaccione!

Ma dammi retta; quando sia laggiù

Presso il vecchio gran diavolo, se avvenga

A caso, com'è probabile, che

La signora Proserpina si faccia

Spinare dalla spina che tu alloggi

Dentro le brache, e resti innamorata

Della divina tua paternità,

E se tra voi saranno dolci accordi,

E tu le monterai addosso, di',

In fede tua, non manderai per vino,

Tanto per ben fornire il tuo banchetto,

All'osteria migliore dell'inferno

Quel vecchio mammalucco di Lucifero?

Proserpina giammai non fu ribelle

Ai buoni frati ed era un bel boccone.



- Va al diavolo, vecchio matto! disse Fra Gianni, io non saprei più ritmare; il ritmo mi prende alla gola; vediamo di regolare qui il conto.





CAPITOLO XLVIII.



Come qualmente, dopo aver preso congedo da Bacbuc, lasciano l'oracolo della Bottiglia.



- Non curatevi di pagar conti; il conto sarà pagato ampiamente se siete contenti di noi. Quaggiù in queste regioni circoncentrali, noi stabiliamo esser bene sovrano non prendere e ricevere, ma elargire e donare e ci reputiamo felici non se molto prendiamo e riceviamo da altri, come per avventura decretano le sette del vostro mondo, ma se agli altri sempre molto elargiamo e doniamo. Solamente vi prego di lasciare qui per iscritto in questo libro rituale i nomi vostri e de' vostri paesi.

Allora aprì un bello e grande libro e mentre noi dettavamo, una delle sue mistagoghe tracciò con uno stile d'oro dei segni come se avesse scritto; ma nulla appariva della scrittura.

Ciò fatto ci riempì tre vasi di acqua fantastica e porgendoli colle sue mani disse:

- Andate, amici, colla protezione di questa sfera intellettuale il centro della quale, che noi chiamiamo Dio, è in ogni luogo e la circonferenza in nessuno; e giunti al vostro mondo recate testimonianza che sotterra sono grandi tesori e cose ammirabili. E non a torto Cerere, già riverita da tutto l'universo perché aveva spiegato e insegnato l'arte dell'agricoltura, e, grazie all'invenzione del frumento abolito tra gli uomini l'alimento brutale delle ghiande, tanto e tanto si lamentò che sua figlia fosse stata rapita nelle nostre regioni sotterranee, prevedendo con certezza che sotterra sua figlia avrebbe trovato più beni e cose eccellenti che non ne avesse trovato ella, sua madre, sopra.

Che è avvenuto dell'arte di evocare dai cieli la folgore e il fuoco celeste, inventata un giorno dal saggio Prometeo? Voi l'avete perduta, è certo; è partita dal vostro emisfero; ma qui sotterra è in uso. E a torto qualche volta vi stupite vedendo città bruciare e ardere per folgore e fuoco etereo ed ignorate da chi, per opera di chi e da che parte mova quel disordine, a vostro parere orribile, ma a voi famigliare e utile. I vostri filosofi i quali si lagnano che tutto sia stato scritto dagli antichi, e non sia stato loro lasciato nulla di nuovo da inventare, hanno torto troppo evidente. Ciò che vi appare del cielo, e che chiamate Fenomeni, ciò che la terra esibisce, e il mare e gli altri fiumi contengono, non è comparabile a ciò è nascosto sotterra.

Giustamente pertanto il dominatore del sotterra quasi in tutte le lingue è nominato come simbolo di ricchezza.

E quando i filosofi volgeranno i loro studi e fatiche a ben ricercarlo implorando Dio sovrano, (che gli Egizi chiamavano nella loro lingua l'Ascoso, l'Occulto, il Nascosto e con questo nome invocandolo lo supplicavano di manifestarsi e scoprirsi loro) egli largirà loro conoscenza e di sé e delle sue creature; ma conviene che in parte siano guidati da buona Lanterna. Poiché tutti i filosofi e i saggi antichi due cose hanno stimato necessarie a compiere con piena sicurezza e diletto il cammino della conoscenza divina e la ricerca della sapienza, cioè: la guida di Dio e la compagnia dell'uomo. Così tra i filosofi Zoroastro prese Arimaspe per compagno delle sue peregrinazioni; Esculapio si prese Mercurio; Orfeo, Museo; Pitagora, Aglaofemo; e tra i principi e guerrieri, Ercole nelle sue più difficili imprese ebbe per amico singolare Teseo; Ulisse, Diomede; Enea, Acate. Voialtri avete fatto altrettanto prendendo per guida la vostra illustre dama Lanterna.

Ora andate col nome di Dio ed egli vi conduca.





AGGIUNTA ALL'ULTIMO CAPITOLO.



Così tra i Persiani, Zoroastro si prese Arimaspe come compagno di tutta la sua misteriosa filosofia; Ermete Trimegisto, fra gli Egizii, ebbe Esculapio; Orfeo in Tracia ebbe Museo; così Aglaofemo fu compagno a Pitagora; tra gli Ateniesi Platone ebbe dapprima Dione di Siracusa in Sicilia, poi Xenocrate; Apollonio ebbe Damis.

Quando adunque i vostri filosofi, Dio guidando, e accompagnati da qualche chiara lanterna, si daranno a ricevere e investigare accuratamente la natura degli uomini (e di tal qualità sono Omero ed Erodoto chiamati alfesti, cioè ricercatori e inventori) troveranno esser vera la risposta del saggio Talete ad Amasi re d'Egitto, il quale interrogato da lui dove più risiedesse prudenza, rispose: "Nel tempo".

Infatti grazie al tempo furono e saranno inventate tutte le cose latenti; per questa ragione gli antichi hanno chiamato Saturno (il tempo): padre di Verità e Verità: figlia del Tempo. Così, senza fallo essi troveranno che tutto il sapere loro e de' loro predecessori è la minima parte di ciò che esiste ed ignorano. Da questi tre vasi che ora vi affido, voi trarrete giudizio e conoscenza. "Dall'unghie il leone", come dice il proverbio.

Per la rarefazione della nostra acqua rinchiusavi dentro, grazie al calore de' corpi superiori e il fervore del mare salato, per naturale trasmutazione degli elementi, sarà generata, dentro quei vasi, aria molto salubre che vi servirà di vento chiaro, sereno e delizioso, poiché il vento altro non è che aria fluttuante e ondeggiante.

Grazie a questo vento seguirete, se vorrete, una rotta diretta senza prender terra fino al porto di Olona in Talmondois.

Basterà volgerlo verso le vele, per via di questo piccolo spiraglio d'oro che vedete qui, applicato come un flauto, quel tanto che vi piacerà per navigare rapidamente o lentamente sempre con piacere e sicurezza senza pericolo né tempesta. Non dubitatene e pensate che la tempesta esce e procede dal vento e il vento proviene dalle tempeste eccitate nei profondi abissi. Parimenti non pensate che la pioggia cada per impotenza delle virtù ritentive dei cieli e per la gravità delle nubi sospese; essa cade per evocazione delle regioni sotterranee come, per evocazione dei Corpi superiori essa dal basso in alto era stata impercettibilmente attratta: ciò attesta il re profeta cantando che l'abisso chiama l'abisso.

Dei tre vasi due son pieni dell'acqua su detta, il terzo d'un liquido estratto dal Pozzo dei saggi Indiani, chiamato la Botte dei Bramini.

Troverete inoltre le vostre navi debitamente provvedute di tutto ciò che potrebbe essere utile e necessario per il vostro mantenimento.

Mentre avete qui soggiornato ho voluto che a ciò si provvedesse largamente.

Andate, amici, con spirito lieto e portate questa lettera al vostro re Gargantua, e salutatelo da parte nostra, insieme coi principi e gli ufficiali della sua nobile corte.

Finite queste parole, ci consegnò lettere chiuse e sigillate: e dopo che le rendemmo azioni di grazie imperiture, ci fece uscire per una porta adiacente alla cappella, ove ci ammonì di proporre quesiti due volte tanto quant'è l'altezza del monte Olimpo. Infine giungemmo alle nostre navi al porto passando per una terra piena d'ogni delizia, piacevole, temperata più di Tempe in Tessaglia, più salubre di quella parte d'Egitto che volge verso la Libia, irrigua e verdeggiante più che Termiseria, fertile più che la parte del monte Tauro che guarda verso Aquilone; più che l'isola Iperborea nel mare Giudaico, più che Caliga nei monti Caspici, fragrante, serena, graziosa quanto la terra di Turenna.







FINE DEL PANTAGRUELE

(1) La risposta tedesca di Panurgo significa: “Che Dio, anzitutto, vi dia felicità e prosperità, o giovane gentiluomo. Sappiate, caro giovane gentiluomo che mi chiedete cose tristi e piene di pietà; molto vi sarebbe a dire su questo proposito, doloroso per voi a intendere, per me a narrare; benché poeti e oratori dei tempi andati abbiano asserito nelle loro massime e sentenze che il ricordo delle pene e della miseria è grande gioia.”

(2) Serie di parole e frasi senza senso forgiate dal R. per far scervellare i lettori. Galleggia qua e là sul guazzabuglio qualche parola comprensibile come: baril, got, decot foultrich al conin etc.

(3) Italiano nel testo.

(4) Il testo scozzese, voltato in inglese in edizioni posteriori, significa: “Milord, se tanto potente è la vostra intelligenza, quanto naturalmente grande la vostra statura, dovete aver pietà di me: la natura ha fatto eguali gli uomini; ma la fortuna ha innalzato gli uni, abbassato gli altri. Tuttavia la virtù è spesso disdegnata e gli uomini virtuosi sono dispregiati, poiché prima della fine ultima nulla è buono.”

(5) Questa quinta risposta di Panurgo è in dialetto basco e significa “Gran Signore, a tutti i mali occorre un rimedio; esser come conviene è difficile. Vi ho tanto pregato! Mettete un po' d'ordine nei vostri discorsi; e ciò sarà, senza offendervi, se mi farete portar da mangiare. Dopo chiedete pure ciò che vorrete. Non mancherete di pagare per due a Dio piacendo.”

(6) Questa sesta risposta è un guazzabuglio come la seconda

(7) La settima risposta è in olandese, e significa: “Signore, io non parlo lingua che non sia cristiana, mi pare tuttavia che, senza dire una sola parola, i miei cenci palesino ciò che desidero. Siate tanto caritatevole da darmi di che rifocillarmi”.

(8) L'ottava risposta, in spagnuolo, significa: “Signore, sono stanco di tanto parlare, perciò supplico Vostra Riverenza di pensare ai precetti evangelici che muovano Vostra Reverenza a ciò che è di coscienza; e se essi non basteranno a indurre Vostra Reverenza a pietà, supplico che pensi alla pietà naturale la quale credo lo commuoverà come di ragione, e con ciò non aggiungo di più”.

(9) La nona risposta, in danese, significa: “Signore, anche se io non parlassi alcuna lingua, come i bimbi e le bestie brute, il vestire e la magrezza del mio corpo mostrerebbero chiaramente ciò che mi abbisogna, cioè: mangiare e bere: abbiate dunque pietà di me e fatemi di che placare i latrati dello stomaco come si mette una zuppa davanti a Cerbero. Così voi vivrete a lungo e felice”.

(10) La decima risposta, in ebraico, significa: “Signore, la pace sia con voi. Se volete far del bene al vostro servo, datemi subito un tozzo di pane secondo il precetto: “Presta al Signore chi ha pietà del povero”.

(11) L'undicesima risposta, in greco antico, scritta secondo la pronunzia reucliniana, significa: “Signore buonissimo, perché non mi date del pane? Voi mi vedete penare miseramente di fame e tuttavia siete senza pietà per me, poiché mi chiedete cose fuor di proposito. Tutti gli amici delle lettere concordano tuttavia nel riconoscere che parole e discorsi sono superflui quando i fatti sono evidenti per tutti. I discorsi non sono necessari che là dove i fatti sui quali discutiamo non si mostrano chiaramente.”

(12) Questa risposta di Panurgo, come la seconda e la sesta, è costituita da un miscuglio di parole senza senso.

(13) La tredicesima e ultima risposta, in latino, significa: “Già tante volte vi ho scongiurato per le cose sacre, per tutti gli dei e le dee che, se alcuna pietà vi muove, soccorriate alla mia misera; ma nulla ottengo con grida e lamenti. Lasciate, vi prego, lasciate, uomini empi. Che io vada dove i fati mi chiamano, né più oltre mi fastidite con vostre vane domande, memori del vecchio adagio: ventre affamato non ha orecchi”.

[1] Il guascone dice nel suo dialetto: "Per la testa di Dio, ragazzi, che il mal di botte vi rigiri. Ora che ho perduto le mie ventiquattro vacchette (monete del tempo) darò altrettanti colpi di punta e pugni e scappellotti se c'è qualcuno di voialtri che voglia battersi con me a tutta possa"

[2] Il guascone pare voglia battersi con tutti, ma ci tiene più a rubare, perciò, buone donne, occhio alla casa!

[3] Testa di Sant'Antonio! chi sei tu che mi svegli? Che il mal di taverna ti giri! Oh San Siobè (Severo) capo della Guascogna! Dormivo della grossa quando questo seccatore è venuto a svegliarmi.

[4] Oh poveretto, ti stroncherei, ché sono più riposato. Va un po' a riposarti come me, poi ci batteremo.