ARTHUR RIMBAUD

POESIE II


ROMANZO

I

A diciassett'anni non si può esser seri.
- Una sera, al diavolo birre e limonata
e gli splendenti lumi di chiassosi caffè!
- Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare.

Com'è gradevole il tiglio nelle sere di Giugno!
L'aria è si dolce che a palpebre chiuse
annusi il vento che risuona - la città è vicina -
e porta aromi di birra e di vino...


II

Ecco scorgersi un piccolo brano
d'azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde,
punteggiato da una malvagia stella, che si fonde
in dolci fremiti, piccola e bianca...

Notte di giugno! Diciassett'anni! Ti lasci inebriare.
La linfa è uno champagne che dà alla testa...
Divaghi e senti un bacio sulle labbra
che palpita come una bestiolina...


III

Il cuore è un folle Robinson in un romanzo
- quando, nel pallido chiarore d'un riverbero
passa una damigella affascinante
all'ombra del colletto d'un padre tremendo...

E siccome ti trova immensamente ingenuo,
trotterellando sui suoi stivaletti
si volta, attenta ma con gesti vivaci
-e sul tuo labbro muoiono le cavatine...


IV

Sei innamorato. Fino al mese d'agosto è affittato.
Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere.
Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto.
- Poi l'adorata, una sera, si degnò di scriverti!...

- Quella sera... - Ritorni ai lucenti caffè
e ordini ancora birre e limonata...
a diciassett'anni non si può esser seri,
se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.

29 sett[embre 18]70.

IL MALE

Mentre gli sputi rossi della mitraglia
sibilano senza posa nel cielo blu infinito;
scarlatti o verdi, accanto al re che li schernisce
crollano i battaglioni in massa in mezzo al fuoco,

mentre un'orrenda follia, una poltiglia
fumante fa di centomila uomini,
- Poveri morti! Nell'estate, nell'erba e nella gioia
tua, o natura! tu che santamente li creasti!

- C'è un dio che ride sulle tovaglie di damasco
degli altari, nell'incenso e nei grandi calici d'oro,
che s'addormenta cullato dagli Osanna,

- e si risveglia, quando madri chine
sulla loro angoscia, piangendo sotto i vecchi cappelli neri
gli danno un soldo legato nel loro fazzoletto.

RABBIE DI CESARI

L'uomo pallido lungo fiorite aiuole
cammina, nerovestito, col sigaro tra i denti:
l'uomo pallido ripensa ai fiori delle Tuileries
- e talvolta nel suo fosco occhio ha sguardi ardenti...

Poiché l'imperatore è ebbro dei suoi vent'anni di orge!
Si era detto: «Voglio soffiare sulla libertà
delicatamente, come su di una candela!»
la libertà risorge! Lui si sente sderenato!

Preso. Oh quale nome è tra le sue mute labbra?
Trasale? Che rimpianto implacabile lo rode?
Non lo saprà mai. L'imperatore ha l'occhio morto.

- Forse ripensa al compare becalino...
- e guarda i fili del suo sigaro acceso
come nelle sere di Saint Cloud, in una rada nuvola azzurra.

SOGNATO PER L'INVERNO

A...Lei.

D'inverno, ce ne andremo in un piccolo vagone rosa
con i cuscini blu.
Staremo bene. Un nido di pazzi baci riposa
in qualche soffice angolo.

Tu chiuderai gli occhi, per non vedere, dai vetri
ghignare le ombre delle sere,
queste arcigne mostruosità, plebaglie
di neri démoni e neri lupi.

Poi sentirai la guancia scalfita...
Un piccolo bacio, come un ragno folle,
ti correrà per il collo...

E tu mi dirai: «Cerca!» inclinando la testa,
e perderemo tempo a cercare quella bestia
- che così tanto viaggia...

In treno, 7 ottobre [18]70.

L'ADDORMENTATO DELLA VALLE

È una gola di verzura dove un fiume canta
impigliando follemente alle erbe stracci
d'argento: dove il sole, dalla fiera montagna
risplende: è una piccola valle che spumeggia di raggi.

Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda,
e la nuca bagnata nel fresco crescione azzurro,
dorme; è disteso nell'erba, sotto la nuvola,
pallido nel suo verde letto dove piove la luce.

I piedi tra i gladioli, dorme. Sorridente come
sorriderebbe un bimbo malato, fa un sonno.
O Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo.

I profumi non fanno più fremere la sua narice;
dorme nel sole, la mano sul suo petto
tranquillo. Ha due rosse ferite sul fianco destro.

Ottobre 1870.

AL CABARET VERDE
le cinque di sera

Da otto giorni, avevo straziato i miei stivali
sui ciottoli dei sentieri. Entrai a Charleroi.
- Al Cabaret Verde, ho chiesto tartine
di burro e prosciutto che fosse mezzo freddo.

Beato, allungai le gambe sotto il tavolo
verde: contemplai gli ingenui soggetti
della tappezzeria. - E questo fu adorabile,
quando la figliola dalle tette enormi, dagli occhi vivi,

- quella lì non è un bacio a spaventarla! -
ridente, mi portò tartine imburrate,
prosciutto tiepido, in un piatto colorato,

del prosciutto rosa e bianco profumato da uno spicchio
d'aglio, - e mi riempì l'immensa coppa, con la sua schiuma
che un tardivo raggio di sole indorava.

Ottobre [18]70.

LA MALIZIOSA

Nella sala da pranzo bruna, che profumava
d'un odore di frutta e vernice, a mio agio
raccolsi un piatto di non so che cibo
belga, e sprofondai nella mia immensa sedia.

Mentre mangiavo, ascoltavo il pendolo, - felice e tranquillo.
La cucina s'aprì con uno sbuffo,
- e venne la serva, e non so perché
con lo scialle sfatto, pettinata con malizia

passando su e giù il suo ditino tremante
sulla sua guancia, un velluto di pesca rosa e bianca,
fece col suo labbro infantile una smorfia,

e riordinò accanto a me i piatti, per mettermi a mio agio;
- poi, cosi - ma certo per avere un bacio, -
mi mormorò: «Senti qui, ho preso un freddo sulla guancia...»

Charleroi, ottobre [18]70.

LA STREPITOSA VITTORIA DI SAARBRÜCKEN
CONSEGUITA AL GRIDO: «VIVA L'IMPERATORE!»

Stampa belga in colori vivaci, in vendita per 35 centesimi a Charleroi.

Nel mezzo, l'imperatore, in apoteosi
gialla e azzurra, se ne va, ritto sul destriero
fiammante; oh beato - vede tutto roseo -
feroce come Zeus, dolce come un padre;

in basso le buone reclute alla siesta
accanto ai tamburi e i rossi cannoni
si alzano, da bravi. Pitou si riveste,
e rivolto al Capo, si stordisce con nomi grandiosi!

A destra Dumanet, poggiato al calcio
del suo fucile, sente alla nuca brizzolata un fremito
e: «Viva l'Imperatore!!» - il suo vicino riposa tranquillo.

Spunta un shakò come un sole nero... - Al centro
Boquillon in rosso e blu, infantile, sul ventre
si drizza, e mostrando il didietro: «Di cosa?...»

Ottobre [18]70.

LA CREDENZA

È una grande credenza scolpita; l'oscura quercia,
molto antica, ha preso una cert'aria di buona vecchia gente;
la credenza è aperta, e versa nella sua ombra
come un'onda di vino antico, di profumo ammaliante;

Tutta piena, è una baraonda di vecchie anticaglie,
di panni gialli e odorosi, di vestiti
di donne o di fanciulli, di consunti merletti,
di scialli di nonna dove son dipinti dei grifi;

- è lì che trovi i medaglioni, le ciocche
di capelli bianchi o biondi, i ritratti, i fiori secchi
il cui profumo si mescola a quello della frutta.

- O credenza dei tempi andati, tu ne sai di storie,
e vorresti narrare i tuoi racconti, e mormori
quando lentamente s'aprono le tue grandi ante nere.

Ottobre [18]70.

LA MIA BOHÈME
(Fantasia)

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa!, ed ero il tuo leale;
oh! quanti amori assurdi ho strasognato!

Nei miei unici calzoni avevo un largo squarcio.
- Pollicino sognatore, in corsa sgranavo
rime. Il mio castello era l'Orsa Maggiore.
- Le mie stelle in cielo facevano un dolce fru-fru.

Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade,
nelle calme sere di settembre in cui sentivo
sulla fronte le gocce di rugiada, come un vino vigoroso;

in cui, rimando in mezzo a quelle ombre fantastiche,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie suole ferite, con un piede contro il cuore.

I CORVI

Signore, quando la prateria è fredda,
e nei casolari in rovina
si sono spenti i rintocchi dell'angelus...
sulla natura sfiorita
fate piombare dall'immensità del cielo
i cari corvi deliziosi.

Armata bizzarra dalle severe strida
i venti freddi minacciano i vostri nidi!
Voi, lungo i fiumi ingialliti,
sopra le vecchie strade dei calvari,
e i fossati, i burroni
disperdetevi e radunatevi!

Dove dormono i morti di ieri,
a migliaia, sui campi di Francia,
volteggiate, non è vero?, d'inverno:
ogni passante non dimentichi!
Sii dunque lo strillone del dovere
o mio nero uccello funebre!

Ma, o santi del cielo, sull'alta quercia,
pennone sperso nella sera incantata,
lasciate le capinere di maggio
per chi nel bosco profondo è incatenato
nell'erba da cui più non si fugge,
la sconfitta senza domani.

I SEDUTI

Neri di natte, butterati, gli occhi cerchiati di occhiaie
verdi, le dita abbarbicate ai loro femori,
l'occipite piagato di placche scorbutiche
come fioriture lebbrose di vecchie mura;

Hanno innestato, con degli epilettici amori,
l'ossatura bizzarra ai grandi scheletri neri
delle sedie; i loro piedi alle sbarre rachitiche
s'intrecciano mattino e sera.

Questi vegliardi si son sempre intrecciati ai loro seggi,
sentendo i vivi soli lucidargli la pelle,
oppure, con gli occhi ai vetri dove sbiadisce la neve,
tremando col doloroso tremare del rospo.

E le sedie li trattano bene; imbragata
di bruno, la paglia cede ai lati delle loro reni;
l'anima dei vecchi soli s'illumina, racchiusa
nelle trecce di spighe dove fermentava il grano.

Ed i Seduti, ginocchia ai denti, verdi pianisti,
le dita che tambureggiano sulla loro seggiola,
si ascoltano farfugliare patetiche barcarole
ed i loro capoccioni ondeggiano d'amore.

- Oh! Non fateli alzare! È un naufragio...
Si ergono, miagolando come gatti battuti,
aprono lentamente le scapole e, oh rabbia!
i loro pantaloni si gonfiano sulle ampollose reni;

E li si sente scontrarsi con le loro calve teste
sulle mura scure, ciabattando con i loro piedi
e i loro bottoni degli abiti sono fulve pupille
che vi rapiscono lo sguardo dal fondo dei corridoi!

Hanno poi una mano invisibile che uccide:
al ritorno, il loro sguardo filtra quel veleno nero
che offusca gli occhi sofferenti della cagna battuta,
e voi sudate, presi in un imbuto atroce.

Si risiedono con i pugni annegati nelle lorde maniche
ripensando a coloro che li han fatti alzare
e, dall'aurora alla sera, grappoli di bargigli
fremono fino a crepare sotto i loro gozzi.

Quando l'austero sonno abbassa le loro visiere
sognano sulle loro braccia sedie fecondate,
e di avere tutt'intorno amorini di sedie
a circondare le fiere scrivanie;

Fiori d'inchiostro sputano pollini come virgole
li cullano, accucciati lungo i calici
come attorno ai giaggioli il volo delle libellule
- E il loro membro s'irrita sulle barbe delle spighe.

TESTA DI FAUNO

Tra le foglie, verde scrigno macchiato d'oro,
tra le incerte foglie fiorite
di splendidi fiori dove dorme un bacio,
vivo, strappando il lieve ricamo,

un fauno spaurito mostra i suoi occhi
e morde i fiori rossi con denti bianchissimi.
Scuro e sanguigno come vino invecchiato
il suo labbro esplode in risa tra le fronde.

E quando s'è dileguato - come uno scoiattolo -
il riso suo ancor trema tra le foglie;
lo vedi spaventarsi d'un fringuello
quel bacio aureo del bosco, e rannicchiarsi.

I DOGANIERI

Chi dice Cristo!, chi dice: bagascia!
soldati, marinai, rifiuti dell'Impero, pensionati,
sono nulla, nullità, innanzi ai soldati dei Trattati
che tagliano le azzurre frontiere a colpi d'ascia.

Pipa tra i denti, spada in pugno, calmi e profondi,
quando l'ombra sbava il bosco come un muso di vacca
se ne vanno, attizzando i loro mastini,
a esercitare le notturne loro orrende allegrie!

Denunciano alla moderna autorità le ninfe,
acciuffano Faust e Démoni:
«Non si può, vecchi miei! Giù il malloppo!»

Quando sua Serenità s'avvicina ai giovani,
il doganiere controlla le bellezze!
Inferno ai delinquenti che il suo palmo ha sfiorato!

PREGHIERA DELLA SERA

Vivo seduto, come un angelo nelle mani di un barbiere,
impugnando un bicchiere dalle profonde scanalature,
l'ipogastro e il collo arcuati, una «gambier»
fra i denti, sotto l'aria gonfia di impalpabili velami.

Come caldi escrementi di un vecchio colombaio,
Mille Sogni procurano dolci bruciature:
poi, d'improvviso, il mio cuore triste è come un alburno
che insanguina l'oro giovane e scuro delle linfe.

Poi, quando ho ingoiato con cura i miei sogni,
mi volto, bevuti più di trenta o quaranta bicchieri,
e mi concentro per mollare l'acre bisogno:

mite come il Signore del cedro e degli issopi,
io piscio verso i cieli bruni, molto in alto e lontano,
approvato dai grandi eliotropi.

CANTO DI GUERRA PARIGINO

La Primavera è evidente, poiché
dal cuore di verdi Proprietà
il volo di Thiers e di Picard
schiude i suoi immensi splendori!

Oh, Maggio! Quei deliranti culi al vento
Sèvres, Meudon, Bagneux, Asnières,
ascoltate dunque i benvenuti
disseminare primaverili cose!

Hanno shako, sciabole e tam tam
non la vecchia scatola a candela
e yole che non han giam giam...
fendono le rosse acque del lago!

Più che mai gozzovigliamo
quando arrivano sulle nostre tane
crollando le gialle zucche
nell'alba indimenticabile!

Thiers e Picard, due Amori,
ladri d'eliotropi
fanno i Corot al petrolio
eccoli, i maggiolini, i loro tropi!...

Sono familiari del Gran Turco!...
e sdraiato tra i giaggioli Fauvrè
fa delle sue ciglia acquedotti
e starnutisce sniffando pepe!

Della grande città ribolle il suono,
malgrado le docce di petrolio
con decisione dobbiamo
riportarvi ai vostri ruoli...

E i Rurali, che si rilassano
nei loro lunghi accosciamenti
avvertiranno lo spezzarsi dei rami
in mezzo ai loro rossi sfregamenti!

LE MIE PICCOLE INNAMORATE

Un lacrimale infuso lava
i cieli verde cavolo:
sotto l'albero gemmante che sbava
i vostri caucciù

bianche di lune particolari
come ammassi tondeggianti,
sbattetevi per le ginocchiere,
o, mie laidone!

Un certo periodo ci amavamo,
o laidezza blu!
E uova alla coque mangiavamo
e semi di scagliola!

Una sera, tu mi consacrasti poeta,
o bionda laidezza:
vieni qui, che io possa frustarti
sulle mie ginocchia;

ho vomitato la tua brillantina
o nera laidezza:
tu potresti tagliare il mio mandolino
col filo della fronte.

Puah! Le mie salive seccate
o rossa laidezza
ancora infettano le trincee
del tuo seno rotondo!

O mie piccole innamorate
come vi odio!
Coprite di dolorosi schiaffi
le vostre laide tettone!

Calpestate le mie vecchie terrine
del sentimento:
- Su, dunque! Siate le mie ballerine
per un momento!...

Le vostre scapole si slogano
o miei amori!
Con una stella sui vostri reni azzoppati
fate giravolte!

Ed è proprio per questi pezzi di carne
che ho scritto rime!
Vorrei spezzarvi le anche
per avervi amato!

Stupido ammasso di stelle fallite,
andate a nascondervi!
- Voi creperete in Dio, imbastite
d'ignobili cure!

Sotto le lune particolari
come ammassi tondeggianti
sbattetevi per le ginocchiere,
o mie laidone!

ACCOSCIAMENTI

Molto tardi, quando sente lo stomaco nauseato,
frate Milotus getta un'occhiata all'abbaino
da dove il sole, chiaro come una padella lucidata,
gli sfreccia un'emicrania e gli fa ebete lo sguardo,
sposta tra le lenzuola il suo ventre di curato.

Si dimena sotto le grige coltri
e scende, i ginocchi al ventre tremante,
stravolto come un vecchio che ingurgita la sua medicina;
poiché deve, impugnando il bianco pitale,
rimboccare la camicia sopra le reni!

Ora s'è accosciato, infreddolito, le dita dei piedi
contratte, tremando al sole chiaro che incolla
ai vetri di carta un giallo brioche;
il naso del buon uomo dove brilla la lacca
sbuffa ai raggi come un polipo carnoso.
.....................................................................................

Il buon uomo si rosola al fuoco, braccia storte, labbra
sul ventre: sente le sue cosce slittare nel fuoco
L e le sue brache bruciacchiarsi, e spegnersi la pipa;
qualcosa come un uccello rimuove un poco
il suo ventre sereno come un mucchio di trippa!

Intorno, dorme un folleggiare di mobili abbrutiti
di strati di sporcizia e su luridi ventri;
sgabelli, strane pianole, stanno rannicchiati
in angoli neri: le credenze hanno ghigni da cantanti
socchiuse in un sonno pieno d orribili appetiti.

Un calore scorante riempie la stretta camera;
il cervello del buon uomo è pieno di stracci.
Egli sente i peli spingere nella madida pelle
e talvolta in singulti buffoneschi
se ne esce, scuotendo lo sgabello che zoppica...
.....................................................................................

E la sera, ai raggi della luna che gli fanno
sul contorno del culo sbavature di luce,
un'ombra ben delineata s'accoscia, su un fondo
di neve rosea come una malvarosa...
fantastico, un naso insegue Venere nel cielo profondo.

I POETI DI SETTE ANNI
A M. P. Demeny

E la madre, chiudendo il libro del dovere,
se ne andava soddisfatta e assai fiera, senza vedere,
negli occhi blu e sulla fronte piena d'eminenza,
l'anima di suo figlio in preda al disgusto.

Tutto il giorno egli sudava obbedienza; molto
intelligente; tuttavia dei tic neri, alcuni tratti
sembravano provare in lui aspre ipocrisie.
Nell'ombra di corridoi dalle tinte ammuffite
passando faceva boccacce, i due pugni
all'inguine, e nei suoi occhi chiusi vedeva dei punti.
Una porta verso sera s'apriva: presso la lampa
si vedeva, lì in alto, ansimare sulla rampa
sotto il circolo della luce appesa al tetto. D'estate
soprattutto, vinto, stupido, s'intestardiva
a chiudersi nella frescura delle latrine:
lì pensava, tranquillo e respirando libero.

Quando, lavato dagli odori del giorno, il giardinetto
dietro la casa, d'inverno, s'illunava,
giacente sotto un muro, sepolto nella marna,
ed in visioni schiantando il suo occhio fosco
ascoltava formicolare le scabbiose spalliere.
Pietà! Gli erano familiari soltanto quei fanciulli
che, miseri, a fronte nuda, l'occhio spento sulla guancia,
nascondendo le magre dita gialle e nere di fango
sotto abiti puzzolenti di diarrea e tutti vecchi,
conversavano con la dolcezza degli idioti!
E se, avendolo sorpreso in immonde pietà
sua madre inorridiva, le tenerezze profonde
del fanciullo si gettavano su questo stupore.
Gli piaceva - lei aveva lo sguardo blu - che mentitore!

A sette anni, componeva romanzi sulla vita
del grande deserto, dove splende la Libertà rapita
foreste, soli, rive, savane! - Si aiutava
con giornali illustrati dove, rosso, egli guardava
ridere le Italiane e le Spagnole!
Quando veniva, occhi scuri, folle, in vesti indiane,
- otto anni - la figlia degli operai vicini,
la piccola brutale, e gli saltava
in un angolo sulla groppa, e scuotendo le sue trecce
e lui restava sotto di lei, le mordeva le natiche,
perché lei non portava mai mutandine;
- e straziato dai suoi pugni e calci,
riportava i sapori della sua pelle nella sua camera.
Paventava le smorte domeniche di Dicembre
in cui, impomatato, su un tavolino di mogano,
leggeva una Bibbia dal taglio verde cavolo;
i sogni l'opprimevano ogni notte nell'alcova.
Non amava Dio; ma gli uomini che nelle rosse serate,
neri, in blusa, vedeva rientrare nel sobborgo
dove i banditori, con tre rulli di tamburo,
fanno, attorno agli editti, ridere e urlare le folle.
Sognava i prati amorosi, dove onde
luminose, sani profumi, pubescenze d'oro,
si muovono lentamente e spiccano il volo!

E come gustava soprattutto cose oscure,
quando, nella nuda stanza, con le persiane chiuse,
alta e blu, acremente intrisa d'umidità,
leggeva il suo romanzo meditato senza sosta,
pieno di gravi cieli d'ocra e di foreste sconosciute,
di fiori di carne spietati in boschi siderali,
vertigine, crolli, disfatti e pietà!
- mentre cresce il rumore del quartiere,
in basso, - solo e sdraiato su pezzi di tela grezza,
e presentendo violentemente la vela!

26 maggio 1871.

I POVERI IN CHIESA

Recintati tra i banchi di quercia, agli angoli della chiesa,
che il loro fetido respiro intiepidisce, tutti i loro occhi
verso lo sfarzoso coro e la cantoria
di venti bocche sbraitanti cantiche pie;

annusando come un profumo di pane l'odore di cera,
gioiosi, umiliati come cani battuti,
i poveri al buon Dio, padrone e signore,
offrono i loro oremus ridicoli e testardi.

Alle donne piace allisciare i banchi
dopo il sesto nero giorno in cui Dio le fa soffrire!
E cullano, avvolti in strane pellicce,
una specie di bimbi che piangono da morire.

I loro seni sporchi di fuori, queste mangiazuppe,
con una preghiera negli occhi, ma mai pregando,
guardano malvagiamente sfilare un gruppo
di birichine con i loro cappelli deformati.

Di fuori il freddo, la fame, l'uomo che gozzoviglia:
gli piace. Ancora un'ora; dopo, mali senza nome!
- Intanto tutt'intorno geme, grugnisce, borbotta
una collezione di vecchie pappagorge:

ci sono i rimbambiti epilettici ai
quali ieri ci si voltava lungo il cammino;
e, col famelico naso in vecchi messali,
i ciechi che un cane guida per il viale.

E tutti, sbavando sciocca e mendica fede
recitano l'infinito compianto a Gesù,
che in alto sogna, ingiallito attraverso pallidi vetri,
lontano dai magri malvagi e dai cattivi panciuti,

lontano dai sentori di carne e di stoffe ammuffite,
farsa prostrata e oscura dai gesti ripugnanti;
- e la preghiera fiorisce d'espressioni ricercate
e le misticità prendono toni pressanti,

quando, da navate dove perisce il sole, pieghe di seta
banali, verdi sorrisi, le Dame del quartiere
distinto, - o Gesù - le malate di fegato,
baciano le acquasantiere con le loro lunghe dita gialle.

1871.

CUORE DI BUFFONE

Il mio triste cuore sbava a poppa,
il mio cuore coperto di trinciato:
su di lui sputano schizzi di zuppa,
mio triste cuore che sbava a poppa:
sotto i turpi lazzi della truppa
che scoppia in un riso generale,
il mio triste cuore sbava a poppa,
mio triste cuore coperto di trinciato!

Itifallici e soldateschi,
i loro insulti l'hanno depravato!
E nel vespero dipingono affreschi
Itifallici e soldateschi.
O flutti abracadabranteschi
prendete il mio cuore, che sia salvato:
Itifallici e soldateschi,
i loro insulti l'hanno depravato!

Quando avranno consumato le loro cicche
come agire, o cuore defraudato?
Ci saranno bacchici rutti
quando avranno consumato quelle cicche;
io avrò conati di vomito
se il mio triste cuore è avvilito;
Quando avranno consumato le loro cicche,
come agire, o cuore defraudato?

Maggio 1871.

L'ORGIA PARIGINA
OVVERO PARIGI SI RIPOPOLA

O vigliacchi, eccola! Riversatevi nelle stazioni!
Il sole ha asciugato coi suoi polmoni ardenti
i viali che una sera affollarono i Barbari.
Ecco la Città santa, seduta ad occidente!

Forza! si eviteranno i riflussi d'incendio,
ecco i lungosenna, ecco i viali, ecco
le case sull'azzurro leggero che s'irradia
e che una sera il rosseggiare delle bombe stellava!

Nascondete i morti palazzi nelle nicchie di legno!
L'antica sbigottita luce rinfresca i vostri sguardi.
Ecco il rosso branco delle ancheggiatrici:
Siate folli, essendo truci sarete buffi!

Stuolo di cagne infoiate mangiatrici di cataplasmi,
il grido della casa d'oro vi richiama. Rubate!
Mangiate! Ecco la notte di spasmodica gioia profonda
che scende per la strada. O desolati bevitori,

Bevete! Quando arriva la pazza e intensa luce,
frugandovi accanto i lussi sfrenati,
non sbaverete forse, senza un gesto, senza una parola,
nei vostri bicchieri, con gli occhi perduti in bianche lontananze?

Brindate, per la Regina dalle chiappe cadenti!
Ascoltate l'azione dei vostri sciocchi singhiozzi
strazianti! Ascoltate saltare nella ardente notte
i rantolanti idioti, i vecchi, le marionette, i lacchè!

O cuori di sporcizia, abominevoli bocche,
funzionate più forte, bocche puzzolenti!
Ancora vino per questi torpori ignobili, su questi tavoli...
I vostri ventri si fondono di vergogna, o Vincitori!

Aprite le vostre narici alle nausee superbe!
Bagnate in forti veleni le corde dei vostri colli!
Posate le sue mani incrociate sulle vostre nuche di bambini
il Poeta vi dice: «O vigliacchi, siate pazzi!

Perché frugate il ventre della Donna,
voi paventate da lei una nuova convulsione
che gridando asfissi la vostra infame nidiata
sul suo petto, in una stretta orribile.

Sifilitici, pazzi, re, marionette, ventriloqui,
che cosa importa a Parigi la puttana
delle vostre anime, dei vostri corpi, dei vostri veleni e stracci?
Lei si libererà di voi, putridi ringhiosi!

E quando sarete a terra, gemendo sui vostri rifiuti
sfiancati, perduti, reclamando i vostri soldi,
la rossa cortigiana, dai seni rigonfi di battaglie
lontana dal vostro stupore torcerà i suoi pugni avari!

Quando i tuoi piedi avranno danzato con forza nella collera,
Parigi! Quando hai ricevuto tante coltellate,
quando sei caduta, conservando nelle tue chiare pupille
un po' della bontà di selvaggia rinascita,

O città dolorosa, o città quasi morta,
con la testa ed i seni rivolti all'Avvenire
che apre al tuo pallore i suoi miliardi di porte,
città che il Passato oscuro potrebbe benedire:

corpo rimagnetizzato dagli enormi tormenti,
tu riassapori dunque la terribile vita! Tu senti
sgorgare il flusso dei lividi vermi nelle tue vene,
e sul tuo chiaro amore passare gelide dita!

E questo non è un male. I vermi, i lividi vermi
non turberanno più il tuo soffio di Progresso
più di quanto le Strigi non spegnessero l'occhio delle Cariatidi
dove pianti d'oro astrale cadevano dalle celesti scalinate.»

Per quanto sia orrendo vederti oppressa
così, e per quanto non si sia mai fatta d'una città
una piaga più puzzolente nella verde Natura,
il Poeta ti dice: «Splendida è la tua Bellezza!»

La bufera t'ha consacrato suprema poesia;
l'immenso tumulto delle forze ti soccorre;
la tua opera ribolle, la morte tuona, o Città eletta!
Accumula gli stridori nel cuore della sorda tromba.

Il Poeta prenderà il singhiozzo degli Infami,
l'odio dei Forzati, il clamore dei Maledetti;
e i suoi raggi d'amore flagelleranno le Donne.
Le sue strofe balzeranno: Ecco! Ecco! banditi!

- Società, tutto è ristabilito: - le orge
piangono il loro rantolo antico negli antichi lupanari:
e i gas in delirio, contro le mura rosse,
fiammeggiano sinistri verso gli azzurri smorti!

Maggio 1871.

LE MANI DI JEANNE-MARIE

Jeanne-Marie ha mani forti,
mani scure che l'estate abbronza,
mani pallide come mani di morti
- sono queste le mani di Juana?

Han forse preso le brune creme
sui mari della voluttà?
Si sono immerse nelle lune
negli stagni delle serenità?

Hanno bevuto i cieli barbari,
calme su incantevoli ginocchia?
Hanno arrotolato sigari
o trafficato diamanti?

Sugli ardenti piedi di Madonne
hanno forse appassito fiori d'oro?
È il sangue nero di belledonne
che nel loro palmo esplode e dorme.

Mani cacciatrici di dìtteri
le cui azzurrità vibrano
aurorali, verso i nettari?
Mani decantatrici di veleni?

Oh, quale Sogno le ha afferrate
nei loro abbandoni?
Un sogno inaudito di Asie
di Khenghavar o di Sion?

- Queste mani non hanno mai venduto arance,
né si sono scurite ai piedi degli dei:
queste mani mai hanno lavato le fasce
di pesanti neonati senza occhi.

Non sono mani di cugina
né di operaia dalla fronte ampia
che brucia, nel fetido bosco d'una fabbrica,
un sole ebbro di catrame.

Sono curvatrici di schiene,
sono mani che mai fanno male,
più fatali di macchine,
più forti di un intero cavallo!

Irrequiete come fornaci
e scuotendosi di brividi
la loro carne canta Marsigliesi,
non gli Eleison!

Potrebbero stringervi al collo, o donne
malvage, stritolarvi le mani,
nobildonne, le vostre mani infami
piene di bianco e di carminio.

Lo splendore di queste amorevoli mani
fa girare la testa alle pecore!
Nelle loro falangi saporite
il grande sole mette un rubino!

Una macchia di plebaglia
le brunisce come un seno di ieri:
il dorso di queste Mani è la terra
baciata da tutti i fieri rivoltosi!

Sono impallidite, meravigliose,
al gran sole carico d'amore,
sul bronzo delle mitragliatrici
attraverso l'insorta Parigi!

- Ah! Talvolta, o mani benedette,
ai vostri polsi, mani dove tremano le nostre
labbra mai disincantate,
stride una catena con due chiari anelli!

E c'è uno strano soprassalto
nel nostro essere, quando talvolta
vi si vede sbiancare, Mani d'angelo,
quando vi fanno sanguinare le dita!