ARTHUR RIMBAUD POESIE IV |
VERSI NUOVI E CANZONI «CHE COSA SONO PER NOI, MIO CUORE, LE DISTESE DI SANGUE» Che cosa sono per noi, mio cuore, le distese di sangue, e di bragia, e mille delitti, e i lunghi gridi di rabbia, singulti di ogni Inferno che sovverta ogni ordine; e l'Aquilone ancora sui rottami; e la vendetta? Niente... - La voglio tutta, tutta, fino in fondo! Industriali, principi, senati perite! Potenza, giustizia, storia: abbasso! Ci è dovuto. Il sangue! Il sangue! Oh fiamma d'oro! Sii solo per la guerra, la vendetta, i terrori, o mio spirito! Mettiamo il dito sulla piaga: Ah passate, Repubbliche di questo mondo. Basta con imperatori, reggimenti, coloni, popoli, basta! Chi può smuovere i turbini del fuoco furibondo più di noi, e di quelli che sentiamo fratelli? Ma no! Amici romanzeschi: sarà una gran felicità. Mai lavoreremo, mai, o flutti infuocati! Europa, Asia, America, sparirete! La nostra marcia vendicatrice occuperà tutto: città e campagne! - Noi saremo schiacciati! I vulcani salteranno! E l'oceano colpito! o miei amici! - Mio cuore, è sicuro, sono fratelli: neri sconosciuti, se noi andassimo! Andiamo! Andiamo! O sciagura! Mi sento fremere la vecchia terra su di me che sempre più sono vostro! La terra si scioglie, non è nulla! Io sono qui, sono sempre qui. LACRIMA Lontano dagli uccelli, dalle greggi, dalle villane, io bevevo, accovacciato in qualche brughiera circondata da teneri boschi di nocciuoli, in una tiepida e verde foschia pomeridiana. Che mai potevo bere in quella giovine Oise, olmi senza voci, erba senza fiori, cielo coperto. Che mai sorbivo alla zucca di colocasia? Un liquore d'oro, insipido e che fa sudare. Cosi, sarei stato una brutta insegna di locanda. Poi il temporale mutò il cielo, fino a sera. E furono neri paesi, con laghi ed alti pali, colonnati sotto la notte blu, stazioni. L'acqua dei boschi si perdeva nelle sabbie vergini, il vento, dal cielo, scagliava ghiacciuoli agli stagni... Ora! come un pescatore d'oro, o di conchiglie, dire che non ho pensato neanche di bere. Maggio 1872. LA FIUMARA DI CASSIS La Fiumara di Cassis rotola ignorata per strani valloni; l'accompagna la voce di cento corvi, vera e buona voce d'angeli; coi grandi movimenti delle abetaie quando vi si tuffano i venti più svariati. Tutto rotola con ripugnante mistero di campagne di tempi antichi, di torrioni rivisitati, di parchi solenni: è da queste sponde che puoi sentire le passioni morte dei cavalieri erranti; ma com'è salubre il vento! Il passante osservi a queste grate: proseguirà con più coraggio. Soldati delle foreste che il Signore invia, cari corvi deliziosi! Mandate via di qui il bifolco furbastro che brinda con un vecchio moncherino. Maggio 1872. COMMEDIA DELLA SETE 1 • I parenti Noi siamo i tuoi Antenati, I Grandi! Coperti dai freddi sudori della luna e delle fronde. I nostri vini secchi hanno un cuore! Sotto il sole senza imposture di cosa ha bisogno l'uomo? bere. IO - Morire nei fiumi barbari. Noi siamo i tuoi Antenati Dei Campi. L'acqua è in fondo ai vimini: guarda la corrente del fossato attorno al castello bagnato. Discendiamo nelle nostre cantine; e poi il sidro e il latte. IO - Andare dove si abbeverano le vacche. Noi siamo i tuoi Antenati, tieni, prendi i liquori nelle nostre credenze; il Tè, il Caffè, cosi rari, fremono nei bollitoi. - Guarda le immagini, i fiori. Noi torniamo dal cimitero. IO - Ah! Prosciugare tutte le tombe! 2 • Lo spirito Eterne Ondine spartono l'acqua fine. Venere, sorella d'azzurro, solleva i puri flutti. Ebreo Errante Norvegese, parlatemi della neve. Antichi esuli, cari parlatemi dei mari. IO - No, non più bevande pure, questi fiori d'acqua da bicchiere; né le leggende né le figure possono dissetarmi; o canzoniere, la tua figliola è la mia folle sete, intima idra senza gola, che strugge e desola. 3 • Gli amici Vieni, vanno alle spiagge i vini e i flutti a milioni! Guarda i Bitter selvaggi rotolare giù dall'alto dei monti! Raggiungiamo, saggi pellegrini, l'assenzio dei verdi pilastri... IO - Nulla più di questi paesaggi. Cos'è l'ebbrezza, amici? Amo di più, meglio, lo stesso imputridirmi in stagni, sotto l'orribile crema accanto ai boschi fluttuanti. 4 • Il povero sogno Può darsi che sera mi attenda dove tranquillo berrò in qualche vecchia città e morirò più felice perché sono paziente! Se il mio male si rassegna, se mai avessi un po' d'oro sceglierei forse il Nord o il paese delle vigne? - Ah, sognare m'indigna, poiché è pura perdita! E se ritornerò al viaggiatore antico, mai il verde ostello mi sarà aperto. 5 • Epilogo I colombi tremanti sui prati, la selvaggina che corre e affronta la notte, gli esseri acquatici, le bestie in cattività le ultime farfalle!... Tutti hanno sete! Fondersi dove affonda quella nube senza guida, - oh, favorito da tutte le frescure! Spirare tra le umide viole di cui le aurore caricano queste foreste? Maggio 1872. BUON PENSIERO DEL MATTINO Alle quattro del mattino, d'estate, il sonno d'amore dura ancora e sotto i boschetti l'alba svapora l'odore di sere festive. Ma laggiù nell'immenso cantiere verso il sole delle Esperidi in maniche di camicia i carpentieri già s'agitano. Nel loro deserto di muschio, quieti preparano l'intonaco prezioso dove la ricchezza della città riderà sotto i falsi cieli. Ah! Per questi affascinanti Operai schiavi d'un re di Babilonia o Venere, lascia per un po' gli amanti dall'anima incoronata. O Regina dei Pastori! Porta ai lavoratori l'acquavite perché si plachino le loro forze in attesa del bagno nel mare, al meriggio. Maggio 1872. FESTE DEL PATIMENTO 1 • Bandiere di maggio Tra i chiari rami dei tigli muore un malato hallalì. Ma argute canzoni volteggiano tra le vigne. Che il nostro sangue rida nelle vene, ecco che s'aggrovigliano le viti. Il cielo è dolce come un angelo. L'azzurro e l'onda si baciano. Esco. Se un raggio mi ferisce soccomberò nel muschio. Esser pazienti ed annoiati è troppo semplice. Derido le mie pene. Voglio che la drammatica estate mi leghi al suo carro di fortuna. Che per te molto, o Natura - ah, meno solo e meno nullo! - io muoia. Mentre i Pastori, è strano, muoiono quasi per il mondo. Voglio che le stagioni mi consumino. A te, Natura, reco me, la mia fame, e tutta la mia sete. E, se puoi, nutri, disseta. Più nulla m'illude; e come ridere ai parenti, ridere al sole, ma io non voglio ridere più a niente; che sia libera questa sfortuna. Maggio 1872. 2 • Canzone della più alta torre Pigra giovinezza a tutto asservita, per delicatezza ho perduto la vita. Ah! Vengano i tempi in cui i cuori s'innamorano. Mi son detto: abbandona e non farti vedere: e senza la promessa di più grandi gioie. Che nulla t'arresti, augusta ritirata. Tanta pazienza ho avuto di scordare tutto, sempre; timori e sofferenze sono volate ai cieli. E la malsana sete intorbida le mie vene. Così la Prateria abbandonata nell'oblio più grande, e fiorita d'incenso e di loglio al feroce ronzio di cento sporche mosche. Ah! Mille vedovanze dell'anima sl povera non ha che l'immagine della Nostra Signora! Stanno forse pregando la Vergine Maria? Pigra giovinezza a tutto asservita, per delicatezza ho perduto la vita. Ah! Vengano i tempi in cui i cuori s'innamorano! Maggio 1872. 3 • L'Eternità È ritrovata. Che? - L'Eternità. È il mare alleato del sole. Anima sentinella, lo sfogo confessiamo della notte così nulla e del giorno di fuoco. Dai suffragi umani, da comuni slanci là tu ti disciogli e voli a seconda... Poiché da voi soli, tizzoni di raso, il Dovere si esala senza dire: infine. Là, nessuna speranza, nessun orietur, scienza con pazienza, il supplizio è sicuro. È ritrovata. Che? - L'Eternità. È il mare alleato del sole. Maggio 1872. 4 • Età dell'oro Taluna delle voci sempre angelica - si tratta di me - vivace si spiega: queste mille domande che si ramificano non portano, alla fine, che ebbrezza e follia; riconosci questo gioco così facile e gaio; tutto onde e giardini: è la tua famiglia! E poi canta. Oh così facile e gaio, a occhio nudo visibile... - Io canto con lei, - riconosci lo stile così facile e gaio; tutto onde e giardini: è la tua famiglia!... ecc... E poi una voce - quanto, quanto angelica! - si tratta di me, e vivace si spiega; e canta all'istante, sorella degli aliti; con un tono tedesco, ma piena e ardente: il mondo è vizioso; se ciò ti stupisce! Vivi e al fuoco abbandona l'oscura sfortuna. O! dolce castello! Come la tua vita è chiara! Di quale Età tu sei, principesca natura del nostro grande fratello? ecc... Io canto, canto, io! Multiple sorelle; voci per niente pubbliche, di gloria pudica ora incoronatemi... ecc... Giugno 1872. GIOVANE COPPIA La stanza è aperta al cielo blu turchino; niente spazio: madie e cofanetti! Oltre il muro è pieno d'aristologie dove vibrano le gengive dei folletti. È proprio un intrigo di genietti questo sperpero e vago disordine! È la fata africana che porta more, e ragnatele negli angoli. Entrano in molte le madrine scontente in un lembo di luce delle credenze, e poi restano! La coppia se ne va poco seriamente, e nulla è stato fatto. Al marito il vento porta imbroglio durante la sua assenza, di continuo. Anche gli spiriti dell'acqua, malfattori vagano tra le sfere dell'alcova. La notte, o amica! La luna di miele coglierà il loro sorriso e riempirà di mille bende di rame il cielo, poi dovranno affrontare il topo maligno - se non giunge un pallido fuoco fatuo come un colpo di fucile, dopo i vespri - o santi spettri e bianchi di Betlemme, esorcizzate il blu delle loro finestre! 27 giugno 1872. BRUXELLES Luglio. Boulevard du Régent, Aiuole d'amaranto fino al bel palazzo di Giove. - Lo so, sei Tu che in questi luoghi infondi il tuo blu quasi sahariano! Poi, come la rosa e l'abete del sole e la liana han qui chiuso i loro giochi, o gabbia della piccola vedova!... Oh, quegli stormi d'uccelli! O iaiò iaiò! - Quiete case, antiche passioni! Il chiosco della Pazza per amore. Dietro le natiche dei rosai i balconi ombrosi e molto bassi di Giulietta. La Giulietta, rammenta l'Enrichetta, affascinante stazione ferroviaria nel cuore d'un monte come in fondo a un verziere dove mille diavoli blu danzano in aria! Verde panchina dove canta il paradiso di rabbia sulla chitarra la bianca Irlandese. Poi dalla sala da pranzo guianese un cicaleccio di fanciulli e di gabbie. Finestra del duca che mi fa pensare al veleno delle lumache e del bosso che dorme sotto il sole. E poi questo è troppo, troppo bello! Osserviamo il nostro silenzio. Boulevard senza moto né commercio, muto, tutto dramma e commedia, riunione di infinite scene, io ti conosco e in silenzio t'ammiro. «È QUESTA ALMÈA? NELLE PRIME ORE BLU» È questa almèa? Nelle prime ore blu si distruggerà come i fiori già morti... davanti alla stupenda distesa ove si sente soffiare la città immensamente florida! È troppo, troppo bello! Ma è necessario - per la Pescatrice e la canzone del Corsaro e così per le ultime maschere credenti ancora alle notturne feste sul mare puro! Luglio 1872. FESTE DELLA FAME O mia fame, Anna, Anna, fuggi via sul tuo asinello. Se ho appetito, non l'ho che per la terra e le pietre. Din! Din! Din! Io mangio l'aria la roccia, le Terre e il ferro. Che le fami vadano e vengano a tempo di musica! Poi l'amabile e vibrante veleno dei convolvoli; i sassi che un povero spacca, le vecchie pietre delle chiese le ghiaie, figlie dei diluvi, pani adagiati nelle valli grige! Mie fami, sono stracci d'aria nera; l'azzurro sonante; - è lo stomaco che mi tira e la sfortuna. Le foglie hanno ornato il suolo: vado verso carni di frutta marcita. In seno ai solchi colgo l'erba dolce e la violetta. O mia fame, Anna, Anna, fuggi via sul tuo asinello. «ASCOLTA COME BRAMISCE» Ascolta come bramisce vicino alle acacie in aprile il ramo virente del pisello! Puro nel suo vapore verso Febe! Vedi scuotere la testa dei santi d'un tempo... Lontano dai chiari letami dei capi, dai bei tetti i cari Antichi vogliono questo filtro sornione... Né feriale né astrale! Non è che la bruma che esala l'effetto notturno. Neppure loro rimangono, - Sicilia, Germania, in quel triste vapore e scialbo, giustamente! MICHEL E CRISTINE Al diavolo allora, se il sole lascia queste sponde! Fuggi, limpido diluvio! Ecco l'ombra delle strade. Tra i salici, nella vecchia corte d'onore il temporale scaglia le sue larghe gocce. - Oh cento agnelli, biondi militi dell'idillio, dagli acquedotti, dalle scarne brughiere, fuggite! Pianura, prati deserti, orizzonti sono alla toletta rossa dell'uragano! - Cane nero, bruno pastore avvolto nel gonfio mantello, fuggi l'ora dei superiori lampi; biondi armenti, quando l'ombra nuota e inzolfa, tentate la discesa verso migliori rifugi. - Ma io, Signore! Ecco che il mio Spirito vola, dietro i cieli ghiacciati di rosso, sotto le nuvole celesti che corrono e volano su cento Sologne, lunghe come un railway. - Ecco mille lupi, mille selvaggi semi che porta, non senza amare i rampicanti, questo sacro pomeriggio diluviante sull'antica Europa dove passarono centinaia di orde! E dopo, il chiar di luna! Dovunque le terre arrossate e le loro fronti ai neri cieli, guerrieri che lenti cavalcano i loro pallidi corsieri! I ciottoli risuonano sotto la fiera banda! - E vedrò il bosco giallo e la valle chiara, la Sposa dagli occhi azzurri, l'uomo dal viso arrossato, o Gallia, e il bianco Agnello Pasquale ai loro cari piedi, - Michel e Cristine - e, Cristo! - fine dell'idillio! ONTA Finché la lama non avrà tagliato questo cervello, questo biancoverde e grasso ammasso dal vapore sempre uguale, (Ah! Dovrebbe tagliarsi il suo naso, le sue labbra, le sue orecchie, il suo ventre! E abbandonare le sue gambe! O meraviglia!) no; credo che mai davvero, fintanto che per la sua testa la lama che i sassi per il suo fianco che nelle sue budella fiamme non avranno agito, il fanciullo incomodo, la cosi sciocca bestia non cesserà un istante di ingannare ed esser tradito come un gatto del Monte Roccioso; d'infestare tutte le sfere! Quando la morte lo avrà, o mio Dio, fa che s'alzi qualche preghiera! MEMORIA I L'acqua chiara; come il sale di lacrime bambine, l'assalto al sole dei candori di corpi di donna; la seta, tra la folla, e di giglio puro, di bandiere sulle mura la cui difesa è qualche vergine; il folleggiare d'angeli; no... la corrente d'oro in cammino muove le braccia nere e pesanti e fragili dell'erba. Lei oscura, col cielo azzurro per baldacchino, chiede per tenda l'ombra della collina e dell'arco. II Uh! L'umido vetro stende i suoi limpidi tepori! L'acqua arreda d'oro bianco e infinito i letti pronti. Le verdi vesti stinte di fanciulle fanno salici, dove sfrenati saltano gli uccelli. Più pura d'un Luigi, gialla e calda palpebra la Ninfea - tua fede coniugale, o Sposa! - nel veloce meriggio, dal suo specchio spento, gelosa del cielo grigio d'afa la Sfera rosa e cara. III Madame sta troppo in piedi nel prato dove i fili del lavoro fioccano; l'ombrello tra le dita; calpesta l'umbella; è per lei troppo fiera; fanciulli leggono nel verde fiorito il loro libro di rosso marocchino! Ahimè, lui, come mille angeli bianchi che in strada si separano, s'allontana al di là delle vette! Lei, tutta fredda e nera, corre! Dopo la dipartita dell'uomo! IV Rimpianto di braccia forti e giovani dell'erba pura! Oro delle lune d'Aprile al cuore del santo letto! Gioia dei cantieri deserti sulle rive, in preda alle sere d'Agosto, che fanno gemmare la putredine! Che pianga ora sotto le mura! Il respiro dei pioppi in alto è la sola brezza. Poi è lo specchio d'acqua senza riflesso, senza fronte, grigio: un vecchio rematore pena nella sua barca immobile. V Io, gioco di quest'occhio d'acqua scura, non posso prendere - o scafo immobile! - oh! Braccia troppo corte! - né l'uno né l'altro fiore; né il giallo che m'importuna laggiù; né l'azzurro, amico dell'acqua color cenere. Ah! La polvere dei salici che scuote un'ala! Le rose dei rosai da tempo sbranate! La mia barca, sempre fissa, e le catene incagliate al fondo di quest'acqua senza limiti - verso quale fango? «OH STAGIONI, OH CASTELLI» Oh stagioni, oh castelli, quale anima è senza difetti? Oh stagioni, oh castelli. Ho compiuto il magico studio del Fato, che nulla elude. Evviva lui, ogni volta che il suo celtico gallo canta. Ma! Non avrò più invidia, lui s'è sobbarcato la mia vita. Quale fascino! M'ha preso anima e corpo e dissipa ogni mio sforzo. Chi intenderà la mia parola? Egli fa che fugga e voli via. Oh stagioni, oh castelli! [E se mi travolgesse la sfortuna mi è certa la sua disgrazia. Bisogna che il suo sdegno, ahimè! Mi liberi col più veloce trapasso! - Oh Stagioni, oh Castelli!] UNA STAGIONE ALL'INFERNO «UN TEMPO, SE MI RICORDO BENE» Un tempo, se mi ricordo bene, la mia vita era un festino in cui tutti i cuori si aprivano, tutti i vini scorrevano. Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. - E l'ho trovata amara. - E l'ho ingiuriata. Mi sono armato contro la giustizia. Sono fuggito. O streghe, o miseria, o odio, a voi è stato affidato il mio tesoro! Riuscii a far svanire nel mio spirito tutta la speranza umana. Su ogni gioia per soffocarla ho fatto il balzo sordo della bestia feroce. Ho invocato i carnefici, per addentare, morendo, il calcio dei loro fucili. Ho invocato i flagelli per soffocarmi con la sabbia, il sangue. La sventura è stata il mio Dio. Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E ho giocato dei brutti tiri alla follia. E la primavera mi ha portato l'orribile risata dell'idiota. Ora, proprio di recente, sul punto di fare l'ultimo crac! ho pensato di ricercare la chiave del festino antico, dove avrei forse ritrovato l'appetito. La carità è questa chiave. - Questa ispirazione prova che ho sognato! «Resterai iena ecc...» ribatte il demonio che mi incoronò di così amabili papaveri. «Raggiungi la morte con tutti i suoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali.» Ah, ne ho avuto fin troppo: - Ma, caro Satana, te ne scongiuro, una pupilla meno irritata! e in attesa delle piccole vigliaccherie in ritardo, per voi che amate nello scrittore l'assenza delle facoltà descrittive o istruttive, stralcio questi pochi turpi foglietti dal mio taccuino di dannato. CATTIVO SANGUE Dei miei antenati galli ho l'occhio azzurro-bianco, il cervello stretto, e la goffaggine nella lotta. Il mio modo di vestire mi sembra barbaro quanto il loro. Ma io non mi ungo di burro i capelli. I Galli erano scorticatori di bestie, gli incendiari di erbe più inetti del loro tempo. Di loro, ho: l'idolatria e l'amore del sacrilegio; - oh! tutti i vizi, collera, lussuria - magnifica, la lussuria, - soprattutto menzogna e accidia. Ho orrore di tutti i mestieri. Padroni e operai, tutti contadini, ignobili. La mano da penna vale la mano d'aratro. - Che secolo manuale! - Io non avrò mai la mia mano. E poi, la domesticità porta troppo lontano. L'onestà della mendicità mi deprime. I delinquenti disgustano come dei castrati: io, io sono integro, e ciò mi è indifferente. Ma! Chi ha fatto la mia lingua così perfida da averle fatto guidare e salvaguardare fino ad ora la mia pigrizia? Senza servirmi per vivere nemmeno del mio corpo, e più ozioso di un rospo, ho vissuto ovunque. Non una famiglia in Europa che io non conosca. - Intendo famiglie come la mia, che devono tutto alla dichiarazione dei Diritti dell'Uomo. - Ho conosciuto tutti ragazzi di buona famiglia! *** Se almeno avessi degli antecedenti in un punto qualunque della storia di Francia! Ma no, niente. Mi è molto chiaro che appartengo alla razza inferiore. Non posso comprendere la rivolta. La mia razza non si è mai ribellata se non per predare: come i lupi con la bestia che non hanno ucciso. Ricordo la storia della Francia, figlia primogenita della Chiesa. Avrei fatto, da becero, il viaggio di terra santa; ho in mente certe strade sulle pianure di Svevia, certe vedute di Bisanzio, bastioni di Solima; il culto di Maria, l'intenerimento sul crocifisso si svegliano in me tra mille fantasmagorie profane. - Sto seduto, lebbroso, sui vasi rotti e le ortiche, ai piedi di un muro divorato dal sole. Più tardi, soldataccio, avrei bivaccato sotto le notti tedesche. Ah! Ancora: danzo il sabba in una rossa radura, assieme a vecchie e bambini. Non riesco a ricordare al di là di questa mia terra e del cristianesimo. E non finirò mai di rivedermi in questo passato. Ma sempre solo; senza famiglia; anzi, quale lingua parlavo? Non mi riconosco mai nei consigli di Cristo, o nei disegni dei Signori, - rappresentanti del Cristo. Che cos'ero nel secolo scorso: mi ritrovo soltanto oggi. Non più vagabondi, non più guerre vaghe. La razza inferiore ha coperto tutto il popolo, come si dice, la ragione; la nazione e la scienza. Oh! la scienza! Tutto è stato ripreso. Per il corpo e per l'anima, - il viatico, - ci sono la medicina e la filosofia, - i rimedi delle donnette e le canzoni popolari arrangiate. E i divertimenti dei principi e i giochi che essi proibivano! Geografia, cosmografia, meccanica, chimica!... La scienza, la nuova nobiltà! Il progresso. Il mondo cammina! E perché non dovrebbe girare? È la visione dei numeri. Andiamo verso lo Spirito. È certo, come un oracolo, ciò che dico. Comprendo, e non riuscendo a spiegarmi senza parole pagane, vorrei tacere. *** Il sangue pagano riaffluisce! Lo Spirito è vicino, perché Cristo non m'aiuta, dando alla mia anima nobiltà e libertà? Ahimè! Il Vangelo è passato! Il Vangelo! Il Vangelo! Aspetto Dio avidamente. Sono di una razza inferiore da tutta l'eternità. Eccomi sulla spiaggia armoricana. Risplendano, nella sera, le città. La mia giornata è compiuta; lascio l'Europa. L'aria marina brucerà i miei polmoni; i climi perduti mi abbronzeranno. Nuotare, pestare l'erba, cacciare, fumare soprattutto; bere forti liquori come bollente metallo, - come facevano quei cari antenati intorno ai fuochi. Ritornerò, con membra d'acciaio, la pelle scura, l'occhio furioso: dalla mia maschera, mi crederanno di una razza forte. Avrò oro: sarò ozioso e brutale. Le donne curano questi feroci infermi di ritorno dai paesi caldi. Sarò mischiato alla politica. Salvo. Ora sono maledetto, ho orrore della patria. La cosa migliore è un sonno da ubriaco, sulla spiaggia. *** Non si parte. - Riprendiamo le strade abituali, appesantito dal mio vizio, il vizio che ha sprofondato le sue radici di sofferenza al mio fianco, fin dall'età della ragione - che sale al cielo, mi batte, mi atterra, mi trascina. L'estrema innocenza e l'estrema timidezza. È detto. Non recare al mondo i miei disgusti e i miei tradimenti. Andiamo! La marcia, il fardello, il deserto, la noia e la collera. A chi offrirmi? Quale bestia bisogna adorare? Quale sacro simulacro aggredire? Quali cuori spezzerò? In quale menzogna devo ostinarmi? - In quale sangue camminare? Piuttosto, guardarsi dalla giustizia. - La vita dura, l'abbrutimento semplice - sollevare, col pugno inaridito, il coperchio della bara, sedersi, soffocare. Così niente vecchiaia né pericoli: il terrore non è francese. - Ah! mi sento talmente derelitto da offrire a qualsiasi immagine divina slanci verso la perfezione. O la mia abnegazione, o la mia carità meravigliosa! quaggiù, tuttavia! De profundis Domine, quanto sono stupido! Ancora fanciullo, ammiravo il forzato intrattabile su cui sempre si richiude l'ergastolo; visitavo le locande e le camere ammobiliate che egli avrebbe potuto consacrare soggiornandovi; vedevo «con la sua mente» il cielo azzurro e il travaglio fiorito dei campi; annusavo la sua fatalità nelle città. Aveva più forza di un santo, più buonsenso di un viaggiatore - e lui, lui solo! come testimone della sua gloria e della sua ragione. Per le strade, nelle notti d'inverno, senza dimora, senza abiti, senza pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: «Debolezza o forza: ecco, è la forza. Non sai né dove vai né perché vai, entra dovunque, rispondi a tutto. Non potranno più ucciderti, come se tu fossi già cadavere.» Al mattino avevo lo sguardo così perso e un aspetto così smorto che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto. Nelle città il fango mi appariva improvvisamente rosso e nero, come uno specchio quando la lampada circola nella stanza vicina, come un tesoro nella foresta! Buona fortuna, gridavo, e vedevo un mare di fiamme e di fumo nel cielo; e a sinistra, a destra, tutte le ricchezze fiammeggiare come un miliardo di tuoni. Ma l'orgia e l'amicizia delle donne mi erano negate. Neppure un compagno. Mi vedevo davanti una folla esasperata, di fronte al plotone d'esecuzione, piangere per il dolore che essi non avessero potuto capire, e perdonare! - Come Giovanna d'Arco! - «Preti, professori, padroni, voi vi sbagliate, consegnandomi alla giustizia. Io non sono mai stato di questo popolo; non sono mai stato cristiano; sono della razza che cantava al supplizio; non capisco le leggi; non ho il senso morale, sono un bruto: voi vi sbagliate...» Sl, ho gli occhi chiusi alla vostra luce. Io sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Siete dei falsi negri, voi maniaci, feroci, avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro: generale, tu sei negro; imperatore vecchia piaga, tu hai bevuto un liquore di contrabbando; della fabbrica di Satana. - Questo popolo è ispirato dalla febbre e dal cancro. Gli infermi e i vecchi sono tanto rispettabili, che richiedono di essere bolliti. - La cosa più astuta è lasciare questo continente in cui la follia si aggira per provvedere di ostaggi quei miserabili. Entro nel vero regno dei figli di Cam. Conosco ancora la natura? Mi conosco? - Basta con le parole. Seppellisco i morti nel ventre. Grida, tamburi, danza, danza, danza, danza! Non vedo neppure il momento in cui, sbarcando i bianchi, precipiterò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza, danza! *** I bianchi sbarcano. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, vestirsi, lavorare. Ho ricevuto al cuore il colpo di grazia. Ah! non l'avevo previsto! Non ho mai commesso il male. I giorni mi saranno leggeri, il pentimento mi sarà risparmiato. Non avrò conosciuto i tormenti dell'anima quasi morta al bene, in cui risale la luce severa come i ceri funebri. La sorte del figlio di famiglia, bara prematura coperta di limpide lacrime. Senza dubbio la dissolutezza è stupida, il vizio è stupido; bisogna gettare da parte il marcio. Ma l'orologio non sarà giunto a suonare solo l'ora del dolore puro! Sarò dunque rapito come un fanciullo, per giocare in paradiso nell'oblio di ogni sventura! Presto! ci sono altre vite? - Il sonno nella ricchezza è impossibile. La ricchezza è sempre stata bene pubblico. L'amore divino solamente concede le chiavi della scienza. Io vedo che la natura non è che uno spettacolo di bontà. Addio chimere, ideali, errori. Il canto ragionevole degli angeli s'innalza dalla nave salvatrice: è l'amore divino. - Due amori! posso morire dell'amore terrestre, morire di dedizione. Ho lasciato delle anime la cui pena s'accrescerà dopo la mia partenza! Voi scegliete me fra i naufraghi; quelli che rimangono non sono amici miei? Salvateli! Mi è nata la ragione. Il mondo è buono. Benedirà la vita. Amerò i miei fratelli. Non sono più promesse infantili. Né la speranza di sfuggire alla vecchiaia e alla morte. Dio fa la mia forza, e io lodo Dio. *** La noia non è più il mio amore. Le rabbie, le dissolutezze, la follia, di cui io so tutti gli slanci e le catastrofi, - tutto il mio fardello è deposto. Apprezziamo senza vertigine la vastità della mia innocenza. Io non sarei più capace di chiedere il conforto di una bastonata. Non mi credo imbarcato per un matrimonio con Gesù Cristo come suocero. Non sono prigioniero della mia ragione. Ho detto: Dio. Voglio la libertà nella salvezza: come perseguirla? I gusti frivoli mi hanno abbandonato; più bisogno di dedizione né di amore divino. Non rimpiango il secolo dei cuori sensibili. Ognuno ha le sue ragioni, disprezzo e carità: mi fisso un posto alla sommità di questa angelica scala di buon senso. Quanto alla felicità prestabilita, domestica o no... no, non posso. Sono troppo dissipato, troppo debole. La vita fiorisce grazie al lavoro, vecchia verità: quanto a me, la mia vita non è abbastanza pesante, vola via e galleggia lontano più in alto dell'azione, questo caro punto del mondo. Divento come una vecchia zitella, a mancare di coraggio nell'amare la morte. Se Dio mi accordasse la calma celeste, aerea, la preghiera - come i santi antichi. - I santi! dei forti! gli anacoreti, artisti come non ce ne sono più! Farsa perpetua! La mia innocenza mi fa quasi piangere. La vita è la farsa che tutti devono recitare. *** Basta! ecco la punizione. - In marcia! Ah! i polmoni bruciano, le tempie mi battono! la notte rotola nei miei occhi, con questo sole! il cuore... le membra... Dove si va? a combattere? Sono debole! gli altri avanzano. Gli arnesi, le armi... il tempo!... Fuoco! fuoco su di me! Là! o mi arrendo. - Vigliacchi! - Mi ammazzo! Mi getto ai piedi dei cavalli! Ah!... - Mi ci abituerò. Sarebbe la vita francese, il sentiero dell'onore! NOTTE DELL'INFERNO Ho inghiottito una fenomenale sorsata di veleno. - Sia tre volte benedetto il consiglio che mi è giunto! - Le viscere mi bruciano. La violenza del tossico contorce le mie membra, mi deforma, mi annienta. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. È l'inferno, l'eterna pena! Guardate come il fuoco si ravviva. Brucio come si deve. Va', demonio! Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Come potrei descrivere questa visione, l'aria dell'inferno non tollera inni! Erano milioni di creature affascinanti, un soave concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che so io? Le nobili ambizioni! Ed è ancora la vita! - Se la dannazione è eterna! Un uomo che vuole mutilarsi è dannato sul serio, vero? Io mi credo nell'Inferno, dunque ci sono. È il compimento del catechismo. Sono schiavo del mio battesimo. Genitori, voi avete fatto la mia infelicità e voi avete fatto la vostra. Povero innocente! - L'inferno non può scalfire i pagani. - È la vita, ancora! Più tardi, le delizie della dannazione saranno più profonde; un delitto, presto, affinché io cada nel nulla secondo la legge umana. Taci, ma taci!... Qui è la vergogna, il rimprovero: Satana che dice che il fuoco è ignobile, che la mia collera è terribilmente stupida. - Basta! Con gli errori suggeriti dagli altri, magie, falsi profumi, musiche puerili. - E dire che io possiedo la verità, che vedo la giustizia: il mio giudizio è sano e sicuro, sono pronto per la perfezione... Orgoglio. - La pelle del mio cranio si prosciuga. Pietà! Signore, io ho paura. Ho sete, tanta sete! Ah! l'infanzia, l'erba, la pioggia, il lago sulle pietre, il chiaro di luna quando il campanile suonava dodici... il diavolo sta sul campanile, a quell'ora. Maria! Santa Vergine!... - Orrore della mia stupidità. Laggiù, non sono forse delle anime oneste che mi vogliono bene... Venite... Ho un cuscino sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. E poi, nessuno pensa a nessuno, mai. Non avvicinatevi. Puzzo di bruciato, certamente. Le allucinazioni sono innumerevoli. È proprio ciò che ho sempre avuto: più nessuna fiducia. nella storia, l'oblio dei principi. Tacerò: poeti e visionari sarebbero gelosi. Sono mille volte il più ricco, cerchiamo di essere avari come il mare. Questa poi! L'orologio della vita si è fermato poco fa. Non sono più al mondo. - La teologia è seria, l'inferno è certamente in basso - e il cielo in alto. - Estasi, incubo, sonno in un nido di fiamme. Quante malizie nell'osservare la campagna... Satana, Ferdinando corre con le sementi selvatiche... Gesù cammina sui rovi porporini, senza incurvarli... Gesù camminava sulle acque in tempesta. La lanterna ce lo mostrò in piedi, bianco e con le trecce brune, sul fianco di un'onda di smeraldo... Svelerò tutti i misteri: misteri religiosi o naturali, morte, nascita, avvenire, passato, cosmogonia, nulla. Sono maestro in fantasmagorie. Ascoltate!... Ho tutti i talenti! - Non c'è nessuno qui e c'è qualcuno: non vorrei spandere il mio tesoro. - Volete canti negri, danze di urì? Volete che io sparisca e che mi tuffi alla ricerca dell'anello? Lo volete? Farò dell'oro, dei farmaci. Fidatevi di me, dunque, la fede conforta, guida, guarisce. Venite tutti - anche i fanciulli che io vi consoli, che sia sparso per voi il suo cuore, - il cuore meraviglioso! - Poveri uomini, lavoratori! Io non chiedo preghiere; con solo la vostra fiducia io sarò felice. - E pensiamo a me. Ciò mi fa rimpiangere ben poco il mondo. Sono fortunato a non soffrire più. La mia vita non fu che dolci follie, è deplorevole. Bah! Facciamo tutte le smorfie immaginabili. Decisamente, siamo fuori del mondo. Più alcun suono. Il mio tatto è scomparso. Ah! il mio castello, la mia Sassonia, il mio bosco di salici. Le sere, le mattine, le notti, i giorni... Sono stanco! Dovrei avere il mio inferno per la collera, il mio inferno per l'orgoglio, - e l'inferno della carezza; un concerto di inferni. Muoio di stanchezza. È la tomba, vado verso i vermi, orrore dell'orrore! Satana, burlone, tu vuoi dissolvermi, con i tuoi incantesimi. Protesto! Protesto! Un colpo di forcone, una goccia di fuoco. Ah! Risalire alla vita! Buttar l'occhio sulle nostre deformità. E quel veleno, quel bacio mille volte maledetto! La mia debolezza, la crudeltà del mondo! Dio mio, pietà, nascondetemi, mi comporto troppo male! - Sono nascosto e non lo so. È il fuoco che si ravviva con il suo dannato. DELIRI I • Vergine folle Lo sposo infernale Ascoltiamo la confessione di un compagno d'inferno: «O divino Sposo, mio Signore, non rifiutate la confessione della più triste fra le vostre serve. Sono perduta. Sono ubriaca. Sono impura. Che vita! «Perdono, divino Signore, perdono! Ah! perdono! Quante lacrime. E quante lacrime più tardi, spero! «Più tardi conoscerò il divino Sposo! Sono nata sottomessa a Lui. - L'altro può picchiarmi, adesso! «Per ora, sto in fondo al mondo! O amiche mie!... no, non amiche mie... Mai deliri né torture simili... Com'è stupido! «Ah! soffro, grido. Soffro veramente. Eppure tutto mi è permesso, carica del disprezzo dei più miserabili cuori. «Insomma, facciamo dunque questa confidenza, a costo di doverla ripetere altre venti volte, - non meno squallida, non meno insignificante! «Sono schiava dello Sposo infernale, quello che ha dannato le vergini folli. Proprio lui, quel demonio. Non è uno spettro, non è un fantasma. Ma io che ho perduto la saggezza, che sono dannata e morta per il mondo - non mi uccideranno! - Come descriverlo! Non so più neppure parlare. Sono in lutto, piango, ho paura. Un po' di refrigerio, Signore, se volete, se appena volete! «Io sono vedova... - Ero vedova... - ma sl, sono stata molto seria, un tempo, e non sono nata per diventare scheletro!... - Lui era quasi un bambino... Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Ho dimenticato tutti i miei doveri umani per seguirlo. Che vita! La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo. Io vado dove va lui, è necessario. E spesso va in collera con me, me, la povera anima. Demonio! - È un demonio, sapete, non è un uomo. «Dice: 'Le donne non le amo. L'amore bisogna reinventarlo, si sa. Sanno soltanto desiderare una posizione sicura. Conquistatasi la posizione, cuore e bellezza vengono messi da parte: non resta che un freddo disprezzo, l'alimento del matrimonio, oggi. Oppure incontro donne dall'aspetto felice, di cui avrei potuto fare buone compagne, divorate improvvisamente da bruti sensibili come roghi...' «L'ascolto mentre fa dell'infamia una gloria, della crudeltà un fascino. 'Sono di una razza lontana: i miei padri erano Scandinavi: si trafiggevano il costato, bevevano il loro sangue. - Mi farò tagli in tutto il corpo, mi tatuerò, voglio diventare repugnante come un mongolo: vedrai, urlerò per le strade. Voglio diventare proprio pazzo di rabbia. Non farmi mai vedere dei gioielli, mi trascinerei e contorcerei sul tappeto. La mia ricchezza, la vorrei macchiata di sangue, dappertutto. Io non lavorerò mai...' Molte notti, quando demonio s'impadroniva di me, rotolavamo, io lottavo con lui! - Le notti, spesso, ubriaco, si apposta nelle strade o nelle case, per spaventarmi a morte. 'Mi taglieranno veramente la testa; sarà disgustoso.' Oh! i giorni in cui vuole camminare all'aria del delitto! «A volte parla, in una specie di dialetto commosso, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano il cuore. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva osservando quelli che ci stavano intorno, bestiame della miseria. Rialzava gli ubriachi nelle strade nere. Aveva la pietà di una madre cattiva per i bambini. - Andava in giro con delle gentilezze da fanciullina al catechismo. - Fingeva di essere informato su tutto, commercio, arte, medicina. - Io lo seguivo, è necessario! «Vedevo tutto lo scenario, di cui, in spirito, si circondava; vestiti, drappi, mobili: gli attribuivo delle armi, un altro volto. Vedevo tutto ciò che lo riguardava, come egli avrebbe voluto crearlo per sé. Quando mi sembrava avere lo spirito inerte, lo seguivo, io, in azioni strane e complicate, lontano, buone o cattive: ero sicura di non entrare mai nel suo mondo. Accanto al suo caro corpo addormentato, quante ore della notte ho vegliato, chiedendomi perché volesse tanto evadere dalla realtà. Mai nessun uomo ebbe un simile desiderio. Riconoscevo, - senza temere per lui, - che nella società poteva essere un serio pericolo. Ha forse dei segreti per cambiare la vita? No, non fa che cercarne, mi rispondevo. Comunque, la sua carità è stregata, e io ne sono prigioniera. Nessun'altra anima avrebbe avuto abbastanza forza, - forza della disperazione! - per sopportarla, - per essere protetta e amata da lui. D'altronde, non me lo figuravo con un'altra anima: vediamo il nostro Angelo, mai l'Angelo di un altro, - credo. Ero nella sua anima come in un palazzo che sia stato svuotato per non vedere una persona ignobile come voi: ecco tutto. Ahimè! dipendevo proprio da lui. Ma che cosa voleva coll'esistenza squallida e vigliacca che era mia? Non mi rendeva migliore, anche se non mi faceva morire! Tristemente delusa, gli dissi qualche volta: 'Ti capisco.' Lui alzava le spalle. «Così, rinnovandosi la mia sofferenza in continuo, e trovandomi più smarrita ai miei occhi, - come a tutti gli occhi che avrebbero voluto fissarmi, se non fossi stata condannata per sempre all'oblio di tutti! - avevo sempre di più fame della sua bontà. Con i suoi baci e abbracci amichevoli, era davvero un cielo, un cupo cielo quello in cui entravo, in cui avrei voluto essere lasciata, povera, sorda, muta, cieca. Già ne prendevo l'abitudine. Vedevo noi due come due buoni fanciulli, liberi di passeggiare nel Paradiso di tristezza. Ci accordavamo. Molto commossi, lavoravamo insieme. Ma, dopo una penetrante carezza, diceva: 'Come ti sembrerà strano, quando io non ci sarò più, ciò che hai passato. Quando non avrai più le mie braccia sotto il collo, né il mio cuore per riposarvi, né questa bocca sui tuoi occhi. Perché bisognerà che me ne vada, molto lontano, un giorno. Poi bisogna che io ne aiuti degli altri: è il mio dovere. Benché sia un po' stomachevole..., anima cara...' Immediatamente mi prefiguravo dopo la sua partenza in preda alla vertigine, precipitata nell'ombra più orrenda: la morte. Gli facevo promettere che non mi avrebbe lasciato. L'ha fatta venti volte, questa promessa d'amante. Ed era frivolo quanto lo ero io mentre dicevo: 'Ti comprendo.' «Ah! non sono mai stata gelosa di lui. Non mi lascerà, credo. Cosa potrebbe diventare? Non ha una conoscenza, né lavorerà mai. Vuole vivere da sonnambulo. Sole, la sua bontà e la sua carità potrebbero dargli diritto al mondo reale? A tratti, dimentico la pietà in cui sono caduta: lui mi renderà forte, viaggeremo, cacceremo nei deserti, dormiremo sui selciati delle città sconosciute, senza affanni, senza pene. Oppure mi risveglierò, e le leggi e i costumi saranno cambiati, - grazie al suo potere magico, - il mondo, pur restando identico, mi lascerà ai miei desideri, gioie, noncuranze. Oh! La vita d'avventure che esiste nei libri dei bambini, per ricompensarmi, ho sofferto tanto, me la darai. Non può. Ignoro il suo ideale. Mi ha detto di avere dei rimpianti, delle speranze: questo non deve riguardarmi. Parla con Dio? Forse dovrei rivolgermi a Dio. Sono nel più profondo dell'abisso, e non so più pregare. «Se mi spiegasse le sue tristezze, le capirei più del suo scherno? Mi attacca, passa ore a farmi sentire la vergogna di tutto quello che al mondo ha potuto commuovermi, e si indigna se piango. «- 'Vedi quell'elegante giovanotto, che entra in quella bella casa tranquilla: si chiama Duval, Dufour, Armand, Maurice, che so? Una donna si è consacrata all'amore di quel cattivo idiota: è morta, è certamente una santa in cielo, adesso. Tu mi farai morire come lui ha fatto morire quella donna. È la nostra sorte, di noi, cuori caritatevoli...' Purtroppo! aveva giorni in cui tutti gli uomini che agivano gli sembravano burattini di deliri grotteschi: rideva orribilmente, a lungo. - Poi, riprendeva le sue maniere di giovane madre, di sorella diletta. Se fosse meno selvatico, saremmo salvi! Ma anche la sua dolcezza è mortale. Io gli sono sottomessa. - Ah! sono pazza! «Un giorno forse sparirà meravigliosamente; ma devo saperlo, se deve risalire in un cielo, che io veda un po' l'assunzione del mio amichetto!» Strana coppia! II • Alchimia del verbo A me. La storia di una delle mie follie. Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo derisorie le celebrità della pittura e della poesia moderna. Amavo le pitture idiote, soprapporte, scenari, tele di saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura passata di moda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle bisavole, racconti di fate, libretti per l'infanzia, vecchie opere, ritornelli stupidi, ritmi ingenui. Sognavo crociate, spedizioni di cui non è rimasta relazione, repubbliche senza storie, guerre di religione soffocate, rivoluzioni di costumi, spostamenti di razze e di continenti: credevo a tutti gli incantesimi. Inventai il colore delle vocali! - A nero, E bianco, I rosso, O blu, U verde. - Regolavo la forma e il movimento di ogni consonante, e, con dei ritmi istintivi, mi lusingai d'inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l'altro, a tutti i sensi. Me ne riservavo la traduzione. All'inizio fu uno studio. Scrivevo silenzi e notti, annotavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini. *** Lontano dagli uccelli, dai greggi, dalle contadine, che bevevo, in ginocchi in quella brughiera circondata da teneri boschetti di noccioli, in una foschia di un pomeriggio tiepido e verde? Che mai potevo bere in quella giovine Oise, - olmi senza voce, erba senza fiori, cielo coperto! - bere a quelle zucche gialle, lontano dalla mia cara capanna? Qualche liquore d'oro che fa sudare. Facevo una losca insegna di locanda. - Un temporale venne a fugare il cielo. A sera l'acqua dei boschi si perdeva sulle sabbie vergini, il vento di Dio gettava ghiaccioli sugli stagni; Piangendo, vedevo l'oro - ma non potei bere. - *** Alle quattro di mattina, l'estate, il sonno d'amore dura ancora. Sotto i boschetti svapora l'odore della sera di festa. Laggiù, nel loro grande cantiere sotto il sole delle Esperidi, si agitano di già - scamiciati - i Carpentieri. Nei loro Deserti di muschio, tranquilli, preparano i preziosi pannelli su cui la città dipingerà falsi cieli. Oh, per questi Artigiani deliziosi sudditi di un re di Babilonia, Venus! lascia un attimo gli Amanti che hanno l'anima incoronata. O Regina dei Pastori, porta ai lavoratori l'acquavite, che le loro forze siano tranquille aspettando il bagno in mare a mezzogiorno. *** Tutto il ciarpame poetico fuori moda aveva una buona parte nella mia alchimia del verbo. Mi abituai all'allucinazione semplice: vedevo veramente una moschea al posto di un'officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi sulla strada del cielo, un salone sul fondo di un lago; i mostri, i misteri; un titolo di operetta faceva sorgere di fronte a me spaventi improvvisi. Poi spiegai i miei sofismi magici con l'allucinazione delle parole! Finii per trovare sacro il disordine del mio spirito. Ero ozioso, in preda ad una attossicata febbre: invidiavo la felicità degli animali, - i bruchi che rappresentano l'innocenza dei limbi, le talpe, il sonno della verginità! Il mio carattere s'inaspriva. Dicevo addio al mondo in una specie di romanze: CANZONE DELLA PIÙ ALTA TORRE Venga dunque, venga il tempo che di sé innamora. Tanta pazienza ho avuto da scordare tutto, infine. Timori e sofferenze sono partite in cielo. E la sete malsana intorbida le mie vene. Venga dunque, venga il tempo che di sé innamora. Come la prateria lasciata all'oblio ingrandita, e fiorita d'incenso e di loglio, al feroce ronzio delle sporche mosche. Venga dunque, venga il tempo che di sé innamora. Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe sbiadite, le bevande intiepidite. Mi trascinavo nei vicoli puzzolenti, e con gli occhi chiusi, mi offrivo al sole, dio del fuoco. «Generale, se rimane ancora un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra secca. Nelle vetrine di negozi splendidi! nei salotti! Fai mangiare alla città la sua polvere. Ossida le grondaie. Riempi i casini di polvere di rubino rovente...» Oh! il moscerino inebriato nel pisciatoio della locanda, innamorato della borraggine, e dissolto da un raggio! |