SANT'AGOSTINO

CONFESSIONI LIBRI I - VI


LIBRO PRIMO
[L'INFANZIA]

1.1. Sei grande, Signore, e degno di altissima lode: grande è la tua potenza e incommensurabile la tua sapienza. E vuole celebrarti l'uomo, questa particella della tua creazione, l'uomo che si porta dietro la sua morte, che si porta dietro la testimonianza del suo peccato, e della tua resistenza ai superbi: eppure vuole celebrarti l'uomo, questa particella della tua creazione. Tu lo risvegli al piacere di cantare le tue lodi, perché per te ci hai fatti e il nostro cuore è inquieto finché in te non trovi pace. Di questo, mio Signore, concedimi intelligenza e conoscenza: bisogna invocarti prima di renderti lode? E bisogna invocarti prima di incontrarti? Come si può invocarti senza conoscerti? Si rischia, non sapendolo, di invocare una cosa per un'altra, e cader nell'equivoco. O piuttosto bisogna invocarti, per incontrarti? Ma come invocheranno quello in cui non hanno ancora creduto? E come credere, se nessuno l'annuncia?Loderà Dio chi ne sente la mancanza. Perché chi lo cerca lo troverà e chi lo trova gli renderà lode. Voglio cercarti, mio Signore, invocandoti, e invocarti credendo in te: perché l'annuncio di te ci è dato. Ti invoca, mio signore, la mia fede - quella che tu mi hai dato, che l'umanità del tuo figlio e l'ufficio di chi ti annuncia mi hanno ispirato.

2.2. E come invocherò il mio Dio, il mio Dio e Signore, se in-vocarlo è chiamarlo entro di me? E dov'è in me lo spazio per accogliere il mio Dio? Dio entrare in me, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra? Come? C'è in me un luogo capace di comprenderti, mio Dio e Signore? Il cielo e la terra, che tu hai fatto e in cui hai fatto anche me, ti comprendono forse? O forse perché senza di te non sarebbe cosa alcuna, avviene che ogni cosa ti comprenda? Ma se anche io per questo esisto, perché mai ti chiedo di venire in me, io che non sarei io, se tu non fossi in me? Già: io non sono ancora all'inferno, eppure tu sei anche là. Sì, quando sarò disceso all'inferno, tu sei là. Io dunque non esisterei, mio Dio, non sarei assolutamente nulla, se tu non fossi in me. O piuttosto, non esisterei se io non fossi in te: perché da te, per te, in te ogni cosa esiste. Sì, mio Signore, eppure, eppure... Dove mi volgerò a invocarti se sono già in te, e tu da dove mai verresti in me? In che recessi oltre la terra e il cielo ritirarmi, perché da loro venga in me il mio Dio, che ha detto: io riempio il cielo e la terra?

3.3. Ti comprendono forse il cielo e la terra, perché tu li riempi? O non li riempi piuttosto eccedendoli, perché non ti comprendono? E dove riversi tutto ciò che resta di te quando hai riempito cielo e terra? O forse non hai bisogno di essere in alcun modo contenuto, tu che contieni ogni cosa, perché per te riempire è contenere? Certo non sono i vasi pieni di te a renderti stabile, perché se anche si spezzassero tu non ti verseresti. E quando ti riversi su di noi tu non ti spandi a terra, ma sollevi noi invece; e non vai perduto tu: ma fai che noi siamo raccolti in te. Pure, ciascuna cosa che riempi, la riempi di tutto te stesso. Forse allora, non potendo ciascuna cosa comprenderti intero, tutte comprendono di te solo una parte, e la stessa? Oppure ciascuna comprende di te una parte maggiore o minore a seconda della sua grandezza? Allora vi sarebbero parti di te maggiori e minori? O sei tutto intero in ogni punto, e nulla ti comprende tutto?

4.4. Dio mio, che cosa sei dunque? Che cosa se non un Dio che è signore? Già - chi è signore oltre al Signore? E chi è dio oltre al nostro Dio? Tu - il supremo, il migliore, il più potente - sì, l'onnipotente - il più misericordioso e il più giusto, il più segreto e il più presente, il più bello e il più forte, immobile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo e mai vecchio, che ogni cosa rinnovi e porti a vecchiezza i superbi e non s'accorgono; tu che sei sempre in atto e sempre in quiete, senza bisogno accumuli, sostieni e riempi e proteggi, crei e nutri e porti a compimento, tu cercatore che di nulla manca. Ami e non ti scomponi, sei geloso e imperturbabile, ti penti e non provi rimorso, ti infurii e resti in pace, muti le opere ma non l'idea; accogli ciò che trovi senza aver mai perduto, ignori la miseria e godi dei guadagni, ignori l'avarizia e pretendi ad usura. Ti si dà oltremisura per farti debitore: eppure, chi ha una sola cosa che non ti appartenga? Tu paghi i debiti senza dovere nulla, e li condoni senza perder nulla. E noi - mio Dio, mia vita, mia divina dolcezza, che cosa abbiamo detto? Che cosa può mai dire, chi parla di te? Eppure guai a chi di te non parla, perché parla, ed è muto.

5.5. Chi mi farà trovare quiete in te, chi ti farà venire nel mio cuore a ubriacarlo? Che io dimentichi i miei mali e abbracci l'unico mio bene: te. Che cosa sei per me? Abbi pietà di me, lascia che parli. Che cosa sono io per te, perché tu mi ingiunga di amarti e t'accenda d'ira contro di me se non lo faccio, fino a lanciarmi la minaccia di tristezze enormi? Come fosse da poco già quella di non amarti. Un po' di indulgenza, ti supplico: mio Signore, dimmi che cosa sei per me. Dillo a quest'anima: sono la tua salvezza. Dillo in modo che io l'oda. Ecco, sono davanti a te le orecchie del mio cuore: aprile e dillo all'anima, sono la tua salvezza. E io correrò dietro a questa voce e ti troverò. Non celarmi il tuo volto: io morirò per non morire, e vederlo.

- 6. Angusta è la casa dell'anima perché tu venga da lei: falla più ampia. È in rovina: rimettila tu in piedi. Ha di che offendere i tuoi occhi, lo so e lo confesso. Ma chi la ripulirà - a chi, se non a te, potrò gridare: liberami, Signore, dalle cose nascoste anche a me stesso, e proteggi il tuo servo dagli altrui segreti. Credo, e per questo parlo. Signore, tu sai. Di fronte a te non ho forse accusato me stesso dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto l'empietà del mio cuore? Io non discuto con te che sei la verità; e non voglio ingannarmi, perché la mia iniquità non menta a se stessa. No, non discuto con te, perché se terrai conto dei torti, Signore, Signore, chi potrà resistere?


[Nascita e infanzia]

6.7. E tuttavia consentimi di parlare davanti alla tua misericordia: sono terra e cenere, eppure consentimi di parlare - perché è alla tua misericordia che parlo, non a un uomo, che riderebbe di me. Anche tu forse ridi di me, ma se ti volgerai a guardarmi avrai pietà. Perché in fondo altro non voglio dire se non che io non so da dove son venuto - qui, in questa vita mortale dico, o morte vitale. Non lo so. E mi accolsero i conforti della tua compassione, per quanto ho appreso dai genitori della mia carne, che tu hai formato nel tempo da lui, in lei: non ne ho memoria, io. Mi accolsero dunque i conforti del latte umano: ma non erano mia madre o le mie balie a riempirsi da sé le poppe - eri tu che per mezzo loro nutrivi la mia infanzia secondo la regola che hai stabilito e le risorse che hai disposto sin nel fondo delle cose. E anche per tua volontà era dato a me di non voler di più di quanto davi, e a quelle che mi nutrivano di voler dare a me ciò che tu davi loro: perché era nell'ordine delle cose il desiderio che avevano di darmi ciò che avevano in abbondanza da te. Era un bene per loro il bene che da loro traevo, e che non da loro, ma per loro mezzo era fatto. Perché da te vengono tutti i beni, Dio, dal mio Dio mi viene tutta intera la salute. E me ne sono accorto poi, quando hai cominciato a gridarmelo proprio attraverso queste tue elargizioni, interiori ed esterne. Sì, perché tutto quello che sapevo fare allora era succhiare e godermi in pace i piaceri o piangere dei fastidi della mia carne, nient'altro.

- 8. Poi cominciai anche a sorridere, dapprima nel sonno, più tardi da sveglio. Così almeno mi dissero, e io ci credo, perché è quello che vediamo negli altri bambini: io di tutto questo non ho memoria. Ed ecco che a poco a poco mi rendevo conto del luogo in cui mi trovavo, e volevo manifestare i miei desideri alle persone capaci di soddisfarli, e non ci riuscivo, perché gli uni erano dentro e le altre fuori di me, e quelle persone non avevano un senso che le facesse accedere all'anima mia. E così mi mettevo a lanciare in aria braccia e gambe e grida, segnali con cui per poco che mi riuscisse esprimevo i miei desideri, e che erano simili a questi, in qualche modo, non al vero. E se non mi davano soddisfazione, o per non riuscire a intendermi o per non farmi danno, montavo su tutte le furie: solo perché i grandi non si piegavano ai miei capricci e delle persone libere rifiutavano d'essere schiavizzate, e a forza di pianti mi vendicavo di loro. Così son fatti i bambini: l'ho imparato più tardi, da quelli che ho conosciuto, e che cosí fossi anch'io me l'hanno rivelato meglio loro senza saperlo, che i miei educatori con tutto il loro sapere.

- 9. Ecco: è morta tanto tempo fa la mia infanzia, e io vivo. Tu invece mio Signore sempre vivi e nulla muore in te, perché prima dei primordi dei secoli e prima di ogni cosa che può dirsi prima, tu sei e sei Dio e Signore di tutte le cose che hai creato. Ferme in te stanno le cause di tutte le cose instabili e restano immutabili le origini di tutte le cose mutevoli e vivono eterne le ragioni di tutte le cose irrazionali e temporali. Tu parla dunque a uno che ti supplica e abbi pietà di un miserabile e dimmi: è a un'altra età, già morta anch'essa, che seguì la mia infanzia? Quella che ho vissuto nelle viscere di mia madre? Qualcosa me ne fu detto invero, e donne incinte ne ho vedute io stesso. Ma prima ancora, mia dolcezza, dimmi... Ero da qualche parte, ero qualcuno? Non ho nessun testimone di questo: né mio padre e mia madre, né l'esperienza d'altri né la mia memoria. Ma forse tu ridi di me che ti faccio queste domande, e vuoi piuttosto che io ti renda lode e testimonianza per quello che so?

- 10. Ti riconosco, Signore del cielo e della terra, e ti rendo lode per i primordi della mia infanzia. Io non ne ho memoria, ma tu hai dato all'uomo di farsene un'idea ricavandola dall'infanzia di altri, e di formarsi molte opinioni sul proprio conto perfino in base all'autorità di qualche vecchia serva. Sì, esistevo, e anche allora ero un essere vivente, e già verso la fine dell'infanzia ero alla ricerca dei segni con cui farmi comprendere dagli altri. Da dove viene un essere vivente come questo se non da te, Signore? A meno che qualcuno possa esser l'artefice di se stesso. O l'esistenza e la vita scorrono in noi per una sola vena che abbia origine diversa da te, nostro autore? Da te per cui esistere non è altro che vivere, perché l'esistenza al suo massimo è il colmo della vita, non altro. E tu esisti in grado sommo: non muti, e in te l'oggi non ha termine, eppure ha termine in te, perché in te sono anche tutte le cose di quaggiù: non avrebbero vie per cui passare, se tu non le contenessi. E poiché non vengono meno, sono l'oggi i tuoi anni: e quanti giorni nostri e dei nostri padri sono già passati attraverso il tuo oggi e da esso han ricevuto il modo e la misura in cui sono esistiti, eppure altri ne passeranno ancora per riceverne quel tanto d'esistenza, a loro volta. Tu invece sei sempre il medesimo e tutte le cose di domani e dopo, e tutte quelle di ieri e di prima ancora, oggi le compirai, oggi le hai già compiute. Che posso farci, se c'è chi non capisce? Si rallegri anche lui e dica che significa questo? Si rallegri anche così e gli sia più caro trovarti senza fare scoperte che farne senza trovarti.


[L'innocenza dei bambini: un'illusione]

7.11. Dio, ascolta. Maledetti i peccati degli uomini! È l'uomo che lo dice, e tu hai pietà di lui, perché tu lo hai fatto, ma non hai fatto anche il peccato che ha in sé. Chi mi rammenterà il peccato della mia infanzia, se nessuno è innocente davanti a te, neppure il neonato che ha un giorno solo di vita sulla terra? E chi, se non qualunque bimbo piccolissimo, in cui vedo quello che non ricordo di me stesso? Qual era dunque il mio peccato, allora? Forse l'avidità con cui boccheggiavo piangendo per il seno? Se lo facessi ora, boccheggiando a quel modo non per poppare ma per un'esca adeguata ai miei anni, mi farei ridere in faccia e riprovare, e giustissimamente. Dunque era riprovevole anche quello che facevo allora, e solo perché non ero in grado di capirle le riprovazioni erano fuori luogo, e sarebbero state irragionevoli. Queste sono in effetti abitudini che la crescita stessa sradica ed elimina: e non s'è mai visto che uno facendo pulizia getti via deliberatamente quello che ha di buono. A meno che non fossero buoni per quell'età anche altri vezzi: come quello di strepitare per cose che a ottenerle ci avrebbero fatto male o di montare su tutte le furie se delle persone libere e adulte, magari i nostri stessi genitori e le persone più autorevoli non si facevano tiranneggiare, o non erano lì, pronti al minimo cenno della propria volontà; e gli sforzi per vendicarsi per quanto possibile di loro picchiandoli, solo perché non obbedivano a degli ordini che sarebbe stato pericoloso per noi eseguire? Dunque è nella debolezza del corpo infantile l'innocenza dei bambini, non nell'anima. Io ho visto e conosciuto bene un bambino geloso: non parlava ancora e già guardava livido, con occhi torvi il suo fratello di latte. Chi non le sa, queste cose? Le madri e le balie si vantano d'averci chissà quali rimedi: ma non la si può chiamare innocente questa insofferenza, questo rifiuto di condividere con altri il latte per abbondante e ricco che fluisca alla fonte, e per bisognoso che altri sia di quell'aiuto, il solo alimento da cui trae la vita. Ma a questo riguardo si è tolleranti e indulgenti, non perché sian cose da nulla o da poco, ma perché son destinate a venir meno coll'avanzare dell'età. Lo prova il fatto che questi stessi atteggiamenti non si possono più sopportare tranquillamente, quando li si riscontrano in una persona più matura.

- 12. Tu dunque, mio Dio e Signore, che hai dato al bambino vita e corpo, che come vediamo lo hai dotato di sensi e di membra ben compaginate, hai reso grazioso il suo aspetto e hai insinuato in lui tutti gli impulsi vitali adatti a preservarne l'incolumità in ogni condizione, tu mi ordini di renderti lode per tutto questo e di riconoscerti e di inneggiare al tuo nome, Altissimo. Perché sei un Dio onnipotente e buono e lo saresti anche se questa fosse la tua sola opera, che non poteva esser compiuta da alcuno se non da te, unico, da cui viene ogni misura, modello di bellezza che ogni cosa modelli e ordini secondo la tua norma. Ebbene, mio Signore: questa età, che non ricordo di aver vissuta, riguardo alla quale mi affido ad altrui resoconti e che solo osservando altri bimbi arguisco di aver avuto anch'io, per affidabile che sia questa congettura, ecco: mi pesa doverla considerare parte di questa mia vita che sto vivendo, quaggiù nel secolo. Quanto a tenebre d'oblio in effetti è pari a quella che ho vissuto nell'utero di mia madre. Ma se son stato perfino concepito nella colpa, e mia madre mi ha nutrito nell'utero fra i peccati, dove, ti chiedo, dove, mio Signore, io servo tuo, dove o quando sono stato innocente? Ma via, di quel tempo io non mi occuperò: che cosa posso avere in comune, oggi, con qualcosa di cui non trovo traccia nella memoria?


[L'apprendimento della lingua]

8.13. È proseguendo dall'infanzia a qui che sono arrivato alla fanciullezza? O piuttosto è questa che è venuta a compiersi in me succedendo all'infanzia? Del resto quest'ultima non se ne era andata: e dove, andava? Eppure non c'era più. Non ero più un infante, privo della parola, ma un bambino parlante, ormai. E di questo mi ricordo bene, mentre del modo in cui avevo appreso a parlare mi sono reso conto solo più tardi. Non erano gli adulti, in effetti, a insegnarmi le parole presentandomele con un qualche ordine didattico, come poco più tardi fecero con l'alfabeto; ma ero io che me le insegnavo da solo con l'intelligenza che tu mi hai dato, Dio mio. Perché a forza di gemiti e gorgheggi e gesti mi sforzavo di manifestare i miei stati d'animo, in modo da farmi obbedire: ma non riuscivo a esprimere tutto quello che volevo, e neppure ci riuscivo con chi volessi. Ma la memoria era come prensile: quando gli adulti menzionavano qualche oggetto e in base a quel suono protendevano il corpo nella sua direzione, io osservavo e tenevo a mente che così, con quel suono, che emettevano quando volevano indicare l'oggetto, essi lo chiamavano. E che fosse questo ciò che volevano si capiva chiaramente dal movimento del corpo come pure da quella sorta di linguaggio naturale di tutti i popoli, fatto di espressioni del volto e cenni degli occhi e di gesti delle altre membra e di toni di voce, sintomi questi dei diversi affetti che accompagnano lo sforzo di acquisire qualcosa o il suo possesso, la ripulsa o la fuga. Così a poco a poco, a furia di udire le stesse parole ricorrere in una certa posizione in diverse frasi, capivo quali fossero le cose di cui quelle parole erano segni, e ormai vi avevo addestrato abbastanza gli organi della bocca per riuscire a formulare i miei desideri col loro aiuto. E così arrivai a comunicare con le persone circostanti mediante i segni che danno espressione verbale alla volontà, ed entrai più profondamente nella tempestosa comunità della vita umana, senza cessar di dipendere dall'autorità dei genitori e dal minimo cenno degli adulti.


[La vuota disciplina della scuola]

9.14. Dio, Dio mio, quante ne ho viste di miserie e di raggiri allora, quando ancora bambino mi proponevano come ideale di vita l'obbedienza a quelli che volevano fare di me un uomo di successo e un vincitore nelle arti della chiacchiera, che servono a procacciare prestigio fra gli uomini e false ricchezze. Fui mandato a scuola, a imparare a leggere e a scrivere, senza avere la minima idea, infelice, di che uso se ne potesse fare. E tuttavia, se ero tardo nell'apprendere, mi battevano. Perché era un metodo approvato dagli adulti, e molti venuti al mondo prima di noi avevano aperto le dolorose vie per cui ci costringevano a passare, tanto per accrescere un po' la dose di fatica e affanno riservata ai figli di Adamo. Là però trovammo anche, mio Signore, persone che pregavano te, e da loro venimmo a sapere, per quanto era nelle nostre possibilità, che tu esistevi: eri grande, un personaggio capace di ascoltarci e soccorrerci anche senza apparire ai nostri sensi. E da bambino infatti cominciai a pregare te, soccorso e rifugio mio, e sfrenavo del tutto la mia lingua quando ti invocavo: e ti pregavo, per piccolo che fossi, con passione non piccola, di fare che non mi battessero. E siccome non mi esaudivi, a tutto svantaggio della mia ignoranza, gli adulti e perfino i miei genitori, che pure non volevano mi accadesse nulla di male, ridevano delle botte che mi toccavano: come non fossero allora, per me, un male grande e angoscioso.

- 15. Esiste, mio Signore, un animo così grande, capace di un'adesione cosí appassionata al tuo essere? Esiste, dico - perché a tanto può condurre anche un certo genere di insensatezza - un animo che in questo suo religioso aderire a te sia preso da una passione tanto sublime da fargli ritener cosa da poco cavalletti e unghioni e simili forme di tortura, che in tutti i paesi della terra la gente ti supplica terrorizzata di tener lontane? E che per giunta li ami teneramente, questi altri che ne hanno una tremenda paura? Come facevano i nostri genitori: i quali sorridevano delle torture che i nostri maestri infliggevano a noi bambini? Ma non per questo noi ne avevamo meno paura, e non erano meno ferventi le suppliche che ti rivolgevamo perché ce ne scampassi. Certo, avevamo la nostra colpa, che era di scrivere o leggere o studiare di meno di quanto si esigeva da noi. Perché non erano la memoria o l'ingegno a farci difetto: di questi, mio Signore, hai voluto dotarci a sufficienza per quell'età. Ma ci piaceva giocare, e questo era motivo per esser puniti da persone che poi si comportavano proprio come noi. Ma i giochi degli adulti si chiamano occupazioni, mentre quelli dei bambini, che lo sono anch'essi, sono puniti dagli adulti: e nessuno ha pietà degli adulti o dei bambini, o di entrambi. Magari un giudice onesto approverebbe le busse che mi venivano date, perché giocavo a pallone da bambino e il gioco m'impediva di imparare rapidamente le lettere, grazie alle quali da grande avrei giocato giochi più vituperandi. Ma si comportava diversamente proprio la persona da cui venivo percosso? Se in qualche discussioncella era vinto da un suo collega d'insegnamento, si rodeva per la bile e l'invidia più di me quando in una partita di pallone venivo sconfitto da un mio compagno di giochi.

10.16. Eppure io peccavo, Signore Dio, ordinatore e creatore di tutte le cose in natura, ma dei peccati solo ordinatore, Signore Dio mio, peccavo perché facevo il contrario di quello che i genitori e quei maestri mi imponevano. Perché più tardi avrei saputo come far buon uso della grammatica, quale che fosse l'intento che i miei perseguivano nel volermela fare apprendere. Io poi non disubbidivo perché mi garbasse far di meglio, ma per amore del gioco: mi piaceva vincere le gare - lo trovavo esaltante - e farmi solleticare le orecchie dalle storie fantastiche, e farne crescere il prurito: con la stessa curiosità, sempre più intensa, che mi faceva scintillare gli occhi di fronte agli spettacoli, questi giochi degli adulti. Eppure chi li fa, gli spettacoli, ne acquista un prestigio tale che quasi tutti lo augurerebbero ai propri figli: salvo consentire volentieri che questi siano puniti se gli spettacoli li distolgono dallo studio - che pure, nei loro desideri, è il mezzo per arrivare a produrne di propri. Guarda tutto questo, Signore, con cuore indulgente, e libera noi che ti invochiamo ormai, e libera anche chi ancora non invoca te, perché ti invochi e sia liberato.


[La religione materna. Una grave malattia]

11.17. Ancora bambino avevo sentito parlare della vita eterna che ci era stata promessa per l'umiliazione del Signore Dio nostro, disceso fino a noi e al nostro orgoglio: e già ero stato segnato col segno della sua croce e spruzzato del suo sale, appena uscito dall'utero di mia madre, che aveva molto sperato in te. Tu lo vedesti, Signore, quando ero ancora un bambino e un giorno improvvisamente un'occlusione di stomaco mi fece venire una febbre altissima e quasi stavo per morire, vedesti, Dio mio, tu che fin d'allora m'eri custode, con che emozione e con che fede chiesi il battesimo del tuo Cristo, del mio Dio e Signore, alla devozione di mia madre e della madre di noi tutti, la tua Chiesa. E la mia madre secondo la carne, che più di ogni altra cosa desiderava partorire ancora la mia salvezza eterna dal fondo puro del suo cuore, nella tua fede, già si apprestava con angoscia ad affrettare la mia iniziazione ai sacramenti della salvezza, in modo che ne fossi lavato e ti glorificassi, Signore Gesù, per la remissione dei miei peccati, quando improvvisamente guarii. E così la mia purificazione fu differita, quasi fosse stato inevitabile che mi insozzassi ancora continuando a vivere: perché certamente ritrovarsi nel fango di ogni colpa dopo quel lavacro avrebbe comportato uno stato d'accusa più grave e più pericoloso. Dunque anch'io già credevo, come lei e tutti, in casa, salvo mio padre, che tuttavia non riuscì a soffocare in me i diritti dell'amore materno fino a impedirmi di credere in Cristo, come non ci credeva - ancora - lui. Ella infatti faceva il possibile perché tu mi fossi padre, Dio mio, invece di lui, e in questo tu l'aiutavi ad essere da più del marito - che ella pur essendo migliore di lui serviva: e in questo servizio, che tu hai comandato, era ancora te che serviva.

- 18. Lo chiedo a te, Dio mio: vorrei sapere - purché anche tu lo voglia - per quale disegno fu allora differito il mio battesimo: e se fu per il mio bene che mi furono per così dire allentate le briglie al peccato, o se non è vero che lo furono. Ma se no, perché ancora oggi sentiamo dire dappertutto, a proposito di questi o di quelli: "E lascialo fare, tanto non è ancora battezzato!" Eppure se è in questione la salute fisica non diciamo: "E lascia che si ferisca ancora, tanto non è ancora guarito!" In quella circostanza dunque sarebbe stato meglio per me essere guarito, e subito, e che si provvedesse a me con tutta la premura del caso, da parte mia e dei miei, in modo che una volta ricevuta, la salute dell'anima mia restasse sicura, affidata alla cura di chi l'aveva data. Sì, meglio davvero.
Ma quante onde di tentazioni, altissime, si profilavano già minacciose, oltre l'infanzia! E lei, mia madre, lo sapeva bene: e preferiva arrischiarvi la terra che solo più tardi avrebbe preso la mia forma, piuttosto che la forma già restaurata a tua immagine.

12.19. Eppure proprio durante l'infanzia, che suscitava meno apprensioni al mio riguardo dell'adolescenza, io non amavo lo studio e detestavo d'esservi costretto: e vi ero tuttavia costretto e mi faceva bene, pur se non facevo bene io: non avrei studiato, senza costrizione. Perché nessuno fa bene controvoglia, anche se è bene che lo faccia. Neppure quelli che mi costringevano facevano bene, ma mi faceva bene lo stesso, Dio mio, per opera tua. Loro infatti non vedevano altro fine agli studi cui mi costringevano che quello di saziare un insaziabile desiderio di miserabili ricchezze e d'ingloriosa fama. Ma tu - per cui sono contati i capelli sulla nostra testa - impiegavi a mio vantaggio l'errore di tutti quelli che mi assillavano perché studiassi, e quello mio di non voler studiare lo usavi a mio castigo: e non ingiustamente ne ero oppresso, da quel ragazzino e grande peccatore che ero. E così tu da chi non faceva bene traevi del bene per me, e la mia giusta pena era quello stesso me che peccava. Perché tu hai stabilito che ogni anima che è nel disordine sia la sua propria pena: e così è.


[Prime passioni letterarie: Virgilio]

13.20. Per quale ragione poi odiassi il greco, di cui mi riempivano la testa da bambino, non mi è chiaro ancora oggi. Mi ero infatti appassionato al latino, non quello dei maestri elementari, ma quello insegnato dai cosiddetti grammatici. Perché le prime classi, dove si insegna a leggere e scrivere e far di conto, mi erano un peso e un supplizio non minore di tutte quante le classi di greco. Ma anche questo rifiuto da cosa derivava se non dal peccato e dalla frivolezza... per la quale ero carne e soffio che vaga e non ritorna? Dopotutto quei primi rudimenti, coi quali si formava in me la capacità di leggere tutto ciò che è scritto e di scrivere io stesso tutto ciò che mi aggrada - e l'ho acquisita e la posseggo ora, questa capacità - erano quelli che valevano di più, perché più certi. Di più, dico di tutta quella letteratura, a cominciare dalle avventure di un tale che andava errando, un certo Enea: e dovevo imparare a memoria quelle, e dimenticare che anch'io andavo errando, e piangere la morte di Didone che si uccide per amore, mentre intanto nella mia estrema infelicità morivo in queste storie lontano da te, Dio, vita mia, senza versare una lacrima sola.

- 21. Niente è più triste di un miserabile che non si commisera e piange la morte di Didone per l'amore di Enea, e non piange la sua propria morte per il disamore di te, Dio, lume del mio cuore e pane nella bocca dell'anima, potenza che sposa la mia mente e seme nel ventre dei pensieri. Io non ti amavo e ti tradivo da lontano, e mentre lo facevo un coro di "bravo! bravo!" mi risuonava tutt'intorno. Sì, l'amicizia di questo mondo è un modo di prostituirsi via da te, e "bravo! bravo!" lo si dice perché l'uomo si vergogni se non lo fa. E io non piangevo su tutto questo, ma piangevo sulla morte di Didone che a spada tratta inseguiva gli estremi mentre io stesso inseguivo le cose estreme della creazione, lontano da te, terra che torna in terra: e se mi fosse stata proibita, questa lettura, me ne sarei rattristato: per non poter leggere di che rattristarmi! E questa follia passa per essere un livello di istruzione letteraria superiore, e più proficuo di quello che mi servì a imparare a leggere e scrivere.

- 22. Ma ora il mio Dio me lo gridi nell'anima, e la tua stessa verità mi dica: no, no, non è così, son molto meglio i primi rudimenti. Sì, perché adesso sono più disposto a dimenticare le avventure di Enea e tutte le cose di quel genere, piuttosto che come si fa a leggere e scrivere. Sulla soglia delle scuole di grammatica pendono dei veli: ma più che il prestigio dei loro misteri stanno a indicare la copertura dei loro errori. E non si mettano a gridarmi contro adesso, che tanto non ne ho più paura ora che ti confesso i desideri dell'anima, Dio mio, e ritrovo la calma nel condannare le mie torte vie, per apprezzare le tue che son buone. Non si mettano a gridarmi contro i venditori e compratori di grammatica: perché se li interrogo su questo punto - è vero o no che Enea venne a Cartagine, come dice il poeta? - i meno dotti risponderanno di non saperlo, e i più dotti negheranno addirittura che sia vero. Ma se chiedo come si scriva il nome di Enea, con quali lettere, tutti quelli che hanno studiato mi risponderanno dicendo il vero - secondo la convenzione arbitraria con cui gli uomini hanno convenuto di fissarne i segni. E così se chiedo quale di queste due cose sia peggio dimenticare, agli scopi di questa vita, il saper leggere e scrivere o quelle finzioni poetiche, chi non vedrebbe che cosa deve rispondere uno che non abbia smarrito la memoria di se stesso? Dunque peccavo da bambino, con la mia predilezione per quelle frivolezze, che preferivo a queste più utili nozioni: o piuttosto queste le odiavo, e amavo quelle. E già: l'"uno e uno due, due più due fa quattro" m'era una cantilena odiosa, e adoravo quello spettacolo di leggerezza che è il cavallo di legno pieno di guerrieri e l'incendio di Troia e l'ombra stessa di Creusa.


["Una sapiente alchimia di amarezze"]

14.23. Perché dunque odiavo la letteratura greca, che pure non è da meno quanto a poemi? Indubbiamente anche Omero è un sapiente tessitore di favole, deliziosamente leggero. Eppure da bambino mi riusciva indigesto. Credo che questo succeda anche ai bambini greci con Virgilio, se sono costretti a studiarlo come lo ero io con Omero. Era la difficoltà, nient'altro che la difficoltà di apprendere una lingua straniera a cospargere come di fiele tutte le greche delizie di quelle narrazioni favolose. Io non sapevo una parola di greco, e mi assillavano furiosamente perché lo imparassi, torturandomi con la minaccia di terribili castighi. C'è stato un tempo, nella primissima infanzia, in cui neppure di latino sapevo una parola: e tuttavia m'è bastata un po' d'attenzione a impararlo, senza spaventi e torture, anzi fra le carezze delle balie e i loro giochi e le risa. L'ho imparato senza esservi incalzato sotto il giogo della disciplina, quando era il mio cuore a incalzarmi perché dessi alla luce quello che concepiva: il che non sarebbe avvenuto, se alcune parole non le avessi imparate non dagli insegnanti, ma da altri parlanti con le orecchie pronte ad accogliere tutto ciò che mi veniva in mente e che io vi riversavo. E questa è un'illustrazione abbastanza chiara della maggior efficacia che la libera curiosità ha rispetto a un pavido affannarsi sotto costrizione, per quanto riguarda questo genere di apprendimento. D'altra parte è questa costrizione a ridurre sotto le tue leggi, Dio, il flusso dispersivo di quella: sì, sotto le tue leggi, le tue leggi che dalla frusta dei maestri alle prove dei mártiri dispensano una sapiente alchimia di amarezze. Salutari: perché ci richiamano a te dalla pestifera gaiezza che da te ci ha allontanati.

15.24. Ascolta, Signore, la mia preghiera, che quest'anima non crolli sotto la tua disciplina e io non cessi di renderti lode per l'indulgenza che mi hai dimostrato strappandomi dalle mie perfide vie. Perché tu mi sia più dolce di tutte le seduzioni di cui ero preda, e io ti ami profondamente e mi stringa alla tua mano con tutte le viscere e tu mi strappi a ogni tentazione, fino all'ultimo. Ecco Signore, sei tu il mio re e il mio Dio: se da bambino ho appreso qualcosa di utile, sia posto al tuo servizio, e al tuo servizio sia tutto il mio parlare e scrivere e leggere e calcolare, perché quando studiavo cose vane tu mi imponevi una disciplina e il peccato di appassionarmi a quelle fatuità lo perdonavi. Sì, in fondo studiandole ho imparato molte parole utili; benché le si possano imparare anche occupandosi di cose meno vane, ed è una via più sicura da far percorrere a dei bambini.

16.25. Ma guai a te, fiumana del vivere umano! Chi ti resisterà? Quando sarai a secco, finalmente? Fino a quando trascinerai i figli di Eva nel gran mare irto d'angosce, che a malapena riesce a traversare chi s'è imbarcato sul legno? Non è dentro di te che ho letto un Giove tonante e adultero? E che sia tutt'e due le cose, è impossibile: ma così lo si fa apparire sulle scene, per avere un modello da imitare in un vero adulterio, con la ruffianata di un tuono finto. E quale dei togati professori diede ascolto - senza infuriarsi - a quell'uomo che dalla loro stessa arena proclamava a gran voce: È la fantasia di Omero, che prestava agli dèi qualità umane: vorrei ne avesse piuttosto prestate a noi divine? Comunque è più vero che erano sì fantasie, ma attribuivano qualità divine a uomini viziosi, in modo che i vizi non paressero vizi, e chi li praticava sembrasse avere a modello non uomini perduti, ma gli dèi del cielo.


[Il teatro e la cultura pagana]

- 26. Fiume infernale, eppure si gettano dentro di te i figli degli uomini, e pagano per imparare tutto questo, e passa per una cosa seria, dato che si rappresenta pubblicamente in piazza, sotto la tutela delle leggi che stanziano uno stipendio in aggiunta ai compensi privati: e nel fragore dei sassi che urti vai gridando: "Qui si imparano le parole, qui s'acquista l'eloquenza indispensabile a persuadere e a esprimere il proprio pensiero." Perché, non le conosceremmo queste espressioni, "pioggia d'oro" e "grembo" e "trucco" e "templi del cielo", e altre che stanno scritte in questo passo di Terenzio? Macché, per questo bisognava che costui mettesse in scena il suo giovinastro che prende Giove a modello di seduttore, mentre osserva un quadro alla parete, dove era raffigurata questa scena: Giove che, come si narra, fa cadere una pioggia d'oro in grembo a Danae, un trucco per ingannare la donna. E guarda come si eccita al piacere, imparando per così dire alla scuola celeste:

E che dio! - dice - Sì, quello che i templi
del cielo scuote con fragore immenso.
E io che sono un pover'uomo no?
Anch'io l'ho fatto, e molto volentieri.

Non è vero, non è affatto vero che questa spudoratezza aiuti ad apprendere più facilmente queste parole: sono queste parole che invitano a concedersi più leggermente questa spudoratezza. Non accuso le parole, che sono come vasi eletti e preziosi, ma il vino dell'errore che in essi ci veniva propinato da quegli ebbri dottori, e che dovevamo sorbire per non esser picchiati, e non c'era un giudice sobrio cui appellarsi. Eppure io, Dio mio, al cui cospetto ormai pacificato è il mio ricordo, amavo quegli studi e - infelice - ne ricavavo un gran piacere e per questo ero giudicato un ragazzo di belle speranze.


[Prime glorie scolastiche]

17.27. Consentimi, mio Dio, di dire qualche cosa anche del mio ingegno, questo tuo dono, e dei vaneggiamenti in cui lo consumavo. Mi assegnavano un compito che bastava a mettere in ansia quest'anima, fra la speranza di un riconoscimento e il timore delle busse, come ad esempio quello di esporre il discorso di Giunone furente e addolorata di non poter stornare dall'Italia il re dei teucri, un discorso che non le avevo mai sentito fare. Ma eravamo costretti anche noi ad andare errando dietro alle fantasie dei poeti, e a dire in prosa quello che il poeta aveva detto in versi: e più lodato era chi più plausibilmente, tenendo conto del rango del personaggio abbozzato, sapeva interpretarne l'ira e il dolore, scegliendo adeguatamente le parole con cui rivestire questi sentimenti. Ah vita vera, Dio mio, che vantaggio ricavavo io dagli applausi tributati alla mia recitazione, davanti a molti coetanei e condiscepoli? Eccoli lì, era tutto fumo e vento. Dunque non c'era altro mezzo di esercitare il mio ingegno e la lingua? Le tue lodi, Signore, stese da un capo all'altro delle tue scritture: le tue lodi mi avrebbero sorretto il vitigno del cuore: e non mi sarebbe stato razziato e trascinato via per i deserti della frivolezza, come preda sconciata dagli uccelli. Già: in molti modi si sacrifica agli angeli caduti.

18.28. Ma che c'è di strano se mi lasciavo trascinare a questo modo fra le vanità e uscivo sempre più da te, Dio mio, quando mi si proponevano a modello degli uomini che, se li si rimproverava di essere incorsi in qualche barbarismo o solecismo nel raccontare qualche loro azione per nulla indegna, restavano confusi, ma andavano ben fieri dei complimenti che ricevevano se riuscivano a parlare dei loro impulsi viziosi in una lingua da puristi, costruendo le frasi a regola d'arte "con facondia ed eleganza". Tu vedi tutto questo Signore, e sei longanime, molto pietoso e veridico, e taci. Ma tacerai per sempre? E ora strappi da questa vertiginosa profondità l'anima che ti cerca e ha sete dei tuoi piaceri, mentre ti dice il cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto mi manca, signore: lontano dal tuo volto nel buio degli affetti. Già: non è a piedi o attraversando lo spazio che ci sia allontana da te e a te si ritorna. Non aveva bisogno di cavalli e di carri o di navi, non prese il volo con un vistoso sbatter d'ali, non consumò la strada a forza di garretti quel tuo figlio minore, quello prodigo, per andare a vivere in un paese lontano, dove dissipare quello che alla partenza tu gli avevi dato. Tenero padre che molto gli desti, e più tenero ancora quando ritornò, povero ormai. Perché chi vive fra gli impulsi del desiderio è nel buio degli affetti, cioè lontano dal tuo volto.

- 29. Vedi, Signore Dio, vedi con la pazienza del tuo sguardo con quanta diligenza i figli degli uomini osservano gli accordi sanciti dai parlanti più antichi in materia di lettere e sillabe, riservando un'estrema noncuranza agli accordi per la salute perpetua da te sanciti in eterno. Così che se uno di quelli che custodiscono o insegnano quelle vecchie convenzioni sui suoni pronunciasse la parola homo senza aspirazione della prima sillaba, contro la regola grammaticale, sarebbe riprovato più che se, essendo un uomo, odiasse un uomo, contro i tuoi precetti.
Come se ci fosse nemico più pericoloso dell'odio suscitato contro un nemico, anche il peggiore, o se perseguitando un altro gli si potesse mai procurare una rovina più grave di quella che l'inimicizia stessa provoca nel proprio cuore. E certo la conoscenza della grammatica non è iscritta più profondamente nell'intimo della coscienza, in cui sta scritto di non fare agli altri quello che non si vuol soffrire per sé. E come sei segreto tu che abiti nell'alto, nel silenzio, grande Dio solo, che con legge implacabile spargi sui desideri di seduzione la pena d'esser ciechi! Ecco invece un uomo in cerca di gloria, quella dei rètori, davanti a un giudice umano, circondato da una folla: e mentre attacca con odio ferocissimo il suo avversario pone la massima attenzione a evitare che gli sfugga un errore nella pronuncia della parola "uomo", ma non che un uomo, per un accesso di follia, sia cancellato dal consorzio umano.


[Alle soglie dell'adolescenza: passioni e talento]

19.30. E io bambino me ne stavo infelice sulla soglia di quella vita, ed era degna palestra di quel genere di competizioni la scuola dove più ansiosamente mi guardavo dai barbarismi che dall'invidia verso quelli che non ne commettevano, se capitava a me. E per questo, Dio mio, lo dico e lo confesso a te, ero apprezzato da quelle persone la cui approvazione allora costituiva tutto l'onore della mia vita. Non la vedevo, la voragine di bruttura in cui m'ero sprofondato lontano dai tuoi occhi. E nella loro luce nulla, ne sono certo, fu allora più detestabile di me, se riuscivo a dispiacere perfino a quella gente, a furia di bugie con cui ingannavo l'istitutore e i maestri e i genitori: per la voglia che avevo di giocare, e la passione per gli spettacoli leggeri, con l'istrionica smania di imitarli che mi mettevano addosso. Rubavo anche, dalla dispensa di casa e da tavola, o per gola o per avere di che far doni agli altri bambini: perché la loro compagnia per giocare, benché ci si divertissero quanto me, me la vendevano. Nel gioco poi ero dominato dalla vana ambizione di eccellere, al punto che spesso rapinavo vittorie fraudolente. Lo facevo agli altri, ma non lo sopportavo da parte loro: e se li coglievo in fallo protestavo fierissimamente: ma se ero io ad essere colto in fallo e redarguito, preferivo arrivare alla violenza piuttosto che cedere. E questa sarebbe l'innocenza dei bambini? No, non esiste, Signore, non esiste: ma figuriamoci, Dio mio! Sempre la stessa storia, prima per noci e palline e passeri, sotto gli istitutori e i maestri, e poi sotto i prefetti e i re per l'oro, i poderi, gli schiavi: sempre la stessa storia mentre le età si succedono sempre più avanzate, come alla verga succedono più gravi supplizi. Per questo tu che sei il nostro re non hai voluto approvare, nella statura infantile, che il simbolo dell'umiltà, quando hai detto: È di chi assomiglia a loro, il regno dei cieli.

20.31. E tuttavia, Signore che altissimo e ottimo fondi e governi tutto ciò che esiste, a te, Dio nostro, grazie: anche se mi avessi voluto davvero soltanto bambino. Sì, anche allora esistevo, vivevo e sentivo, e mi prendevo cura della mia conservazione, questo ricordo o traccia della tua misteriosa unità, da cui venivo; e avevo l'intima percezione dei miei sensi per custodirne l'integrità, e anche in quei miei piccoli pensieri di piccole cose prendevo gusto alla verità. Non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero dotato della parola, mi lasciavo intenerire dall'amicizia, fuggivo il dolore, l'avvilimento, l'ignoranza. Che cosa c'era in quell'essere vivo che non fosse mirabile e degno di lode? Ma tutti questi sono doni del mio Dio. Non sono stato io a darmeli: e sono beni, e tutto questo sono io. Dunque è buono quello che ha fatto me, ed è lui il mio bene, e rendo onore a lui per tutti i beni che costituivano il mio essere, anche da bambino. Il mio peccato era soltanto di non cercare in lui, ma nelle sue creature, in me stesso e negli altri, piaceri, distinzioni, verità: e così precipitavo incontro a dolori, equivoci ed errori. Grazie, mia dolcezza e mia gloria, mia fiducia. Grazie Dio mio dei tuoi doni: ma tu conservameli. E così mi salverai, e crescerà e si compirà quello che tu mi hai dato, e io sarò con te, perché se sono è soltanto per te.


LIBRO SECONDO
[A SEDICI ANNI]

1.1. Voglio ricordare le passate brutture e le devastazioni inflitte dalla carne all'anima: non perché io le ami ma per amare te, Dio mio. È per amore del tuo amore che lo faccio, e ripercorro le vie della mia infamia nell'amarezza di questa rimemorazione: perché tu possa addolcirmela, dolcezza senza inganno, tu felice dolcezza senza angosce. Che mi raccogli dalla dispersione e ricomponi i mille pezzi in cui mi sono frantumato, quando volgendo le spalle all'uno - a te - sono svanito nel molteplice. Vi fu un tempo, l'adolescenza, in cui bruciavo dalla voglia di provare le cose più basse, e fino in fondo: e mi lasciai pullulare una selva di ombrosi amori, e la mia bella forma ne fu devastata e qualcosa marcì dentro di me ai tuoi occhi, mentre a me stesso piacevo e volevo piacere agli occhi degli uomini.


[Gli amori dell'adolescenza]

2.2. Niente mi deliziava quanto amare ed essere amato. Ma non ne mantenevo la misura, da anima ad anima, il luminoso limite dell'amicizia. Come una nebbia saliva dal limo del desiderio sensuale e dagli umori della pubertà e mi oscurava, mi offuscava il cuore, fino a che il chiaro cielo dell'affetto si confondeva alla foschia dell'erotismo. E tutt'e due m'accendevano dentro un solo incendio e cacciavano allo sbaraglio improvviso delle passioni quella malcerta età e la sprofondavano in un pozzo di vergogna. La tua collera era cresciuta sopra di me, e non me ne accorgevo. Mi lasciavo assordare dallo stridore di catena della mia mortalità, pena per l'orgoglio dell'anima, e andavo via più lontano da te che mi lasciavi andare, ed ero agitato e traboccante e colavo fuori ribollendo di voglie, e tu tacevi. Mia tardiva allegrezza! Tacevi allora, e io lontano da te sempre più mi perdevo in mille e mille sterili semi di dolori, superbo nell'abiezione e nella fatica inquieto.

- 3. Nessuno avrebbe potuto porre un limite alla mia affannosa tristezza e volgere a buon uso le fugaci bellezze delle infime cose, e indicare una meta al piacere che mi davano, fino a che i marosi della mia età si frangessero sulla spiaggia del matrimonio, se non potevano placarsi e contenersi entro i limiti della procreazione di figli. Come prescrive la tua legge, Signore che plasmi perfino la propaggine della nostra morte, tu che puoi temperare con mano leggera le spine che nel tuo paradiso non c'erano. Perché non è lontana da noi la tua onnipotenza, anche quando siamo lontani da te. Fossi stato più lucido! Avrei certo avvertito il tuono delle tue nubi: Costoro avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele, e: È bene per l'uomo non toccare donna! E: Chi è senza moglie pensa alle cose di Dio, e a piacere a Dio; ma chi è vincolato dal matrimonio pensa alle cose del mondo, e a piacere alla moglie. Sì, fossi stato più lucido avrei prestato ascolto a queste voci, e una volta castrato per amore del regno dei cieli più felice mi sarebbe stata l'attesa dei tuoi abbracci.

- 4. Infelice: invece ruppi gli argini, abbandonandomi a quel mio impeto fluviale, e ti lasciai e oltrepassai tutti i limiti della tua legge e non scampai al tuo staffile - e chi vi scampa fra i mortali? Tu eri sempre là, con feroce tenerezza, a tormentarmi, a cospargere di amarezza e disgusto tutte le mie allegrie di seduttore, perché cercassi l'allegria che non disgusta. E ci fossi riuscito, là niente avrei trovato all'infuori di te, Signore, di te che mascheri di dolore la legge e ci colpisci per guarirci e ci uccidi per non lasciarci morire lontano da te. Dov'ero, in quale esilio lontano dalle dolcezze della tua casa, in quel sedicesimo anno d'età della mia carne? Fu allora che si impadronì di me (e io mi ero consegnato con le mani legate) una frenesia di piacere amoroso, disonore dell'uomo quando è sfrenato, illecito per le tue leggi. I miei non si curarono di arginare col matrimonio quel fiume in piena che ero: la loro unica preoccupazione era che imparassi a comporre i discorsi migliori e a persuadere con l'arte oratoria.


[Interruzione degli studi]

3.5. E proprio quell'anno i miei studi erano stati interrotti. Ero stato richiamato da Madaura, vicina città dove già mi ero trasferito per studiare letteratura e retorica, e ora si tentava di trovare il denaro per un mio soggiorno molto più lontano, a Cartagine. E questo era più consono all'ambizione che ai mezzi di mio padre, assai modesto cittadino di Tagaste. A chi racconto tutto questo? No, non a te, Dio mio, ma alla tua presenza io lo racconto al genere umano, al genere che è mio, per quanto piccola sia la parte di esso che si imbatterà in queste mie pagine. E a che scopo? Perché io stesso e chiunque mi legge consideriamo da che profondità debba levarsi a te il nostro grido. Eppure che cos'è più vicino al tuo orecchio di un cuore che ti riconosce, di un vivere di fede? Allora non c'era nessuno che non approvasse incondizionatamente un uomo come mio padre, che per mantenere agli studi lontano da casa il figlio non badava a spendere al di là delle sue possibilità patrimoniali. Molti concittadini assai più ricchi si guardavano bene dall'affrontare per i loro figli un impegno del genere. E intanto quello stesso padre non si preoccupava di come io crescessi ai tuoi occhi, o di quanto fossi casto, purché fossi un coltivato oratore - cioè del tutto incolto nelle cose tue, Dio che sei l'unico, vero e buon padrone del tuo campo, del mio cuore.

- 6. Ma quando - ero appunto nel sedicesimo anno - dovetti interrompere la scuola per queste ragioni familiari, e nell'intermezzo di vacanza tornai a stare coi miei genitori, altissimi mi crebbero i rovi della libidine, tanto che ne fui soverchiato: e non c'era mano che li sradicasse. Anzi mio padre, una volta che, ai bagni, si accorse guardandomi che ero già in piena pubertà, con tutti i segni di un'adolescenza inquieta, preso da una specie di esaltazione all'idea dei futuri nipoti, lo fece notare a mia madre: ed era pieno di gioia, di quella sbornia di gioia in cui questo mondo s'è dimenticato di te, del suo creatore, e s'è innamorato delle tue creature, ubriaco di un vino invisibile: la sua volontà perversa, incline a ciò che è più basso. Però nel cuore di mia madre tu avevi già gettato le fondamenta del tuo tempio, della tua sacra dimora: mentre lui era soltanto un catecumeno, e per di più di fresca data. Fu un duro colpo per lei, che fu presa da trepidazione e religioso timore: benché ancora non fossi battezzato paventava le vie tortuose in cui cammina chi volge a te la schiena e non la faccia.

- 7. Infelice! E oso dire che tu tacevi, Dio mio, mentre mi allontanavo da te? Tacevi davvero, allora, per me? E di chi erano se non tue le parole che mi cantavi nelle orecchie per bocca di mia madre, a te fedele? Ma non mi scendevano in cuore, nemmeno una ci arrivava per tradursi in fatti. Lei voleva che io rinunciassi agli amorazzi - e mi ricordo l'ansia enorme con cui mi ammoniva in segreto - soprattutto di guardarmi dall'adulterio con qualunque donna sposata. E a me parevano consigli da donne, che mi sarei vergognato di seguire. E invece erano i tuoi, e io non lo sapevo e credevo che tu tacessi e che a parlare fosse solo lei, quella di cui tu ti servivi per non tacere: e in lei io disprezzavo te, io, sì, suo figlio, figlio della tua ancella, servo tuo. Ma lo ignoravo e correvo a precipizio, talmente cieco da vergognarmi di esser meno svergognato dei miei coetanei. Li stavo a sentire mentre si vantavano dei loro vizi e più erano brutti più se ne gloriavano, e quel che piaceva era fare non solo per il piacere del fatto, ma anche per il prestigio che ne conseguiva. Che cosa meriterebbe di esser biasimato più del vizio? Ma io diventavo più vizioso per non essere biasimato, e quando per difetto di colpe non arrivavo alla pari coi peggiori, mi inventavo azioni che non avevo commesso, per paura di apparire tanto più meschino quanto meno ero colpevole, e di esser giudicato tanto più vile quanto più ero casto.

- 8. Erano questi i miei compagni di vagabondaggio per le piazze di Babilonia: e io mi rotolavo in quel fango come fosse un balsamo o un profumo prezioso. E per incollarmi ancora più tenacemente al suo ombelico mi cavalcava l'avversario invisibile e mi seduceva - e facilmente mi lasciavo sedurre. Perché perfino lei che era già fuggita dal centro di Babilonia, e però si attardava ancora alla sua periferia, dico la madre della mia carne, mi aveva sì raccomandato il pudore, ma poi non si preoccupava abbastanza della cosa che da suo marito era venuta a sapere di me: e se non poteva eliminarla tagliando nel vivo, arginarla nei limiti di un affetto coniugale le pareva fin d'allora devastante e pericoloso per il mio futuro. Non se ne preoccupò perché temeva che l'impaccio di una moglie potesse frustrare le mie speranze. Non la speranza della vita futura, che mia madre riponeva in te, ma quelle degli studi letterari, che entrambi i genitori erano troppo desiderosi di vedermi portare a compimento: lui, perché su di te non nutriva alcun pensiero o quasi, e su di me solo pensieri fatui; lei, perché riteneva che l'educazione letteraria tradizionale non solo non sarebbe stata un ostacolo, ma anzi in qualche misura un aiuto, nel mio cammino verso di te. Questa è almeno la congettura che posso avanzare, in questo tentativo di richiamare alla mente il carattere dei miei genitori. E mi allentavano anche le briglie ai divertimenti, ben oltre il tenore di una severità moderata, fino a dare via libera a tutta la varietà delle mie passioni. E su tutte le cose gravava una foschia che mi precludeva il cielo sereno della tua verità, mio Dio. E come dal grasso mi spuntava l'occhio della malignità.


[Il furto di pere]

4.9. Certamente la tua legge punisce il furto, Signore, e così la legge scritta nel cuore degli uomini, che neppure la loro ingiustizia può cancellare. Non a caso non c'è ladro che si lasci derubare senza batter ciglio! Neppure se è ricco e l'altro ruba per sfamarsi. E io volli commettere un furto, e lo commisi senza essere in miseria: o forse sì, povero com'ero di giustizia, che avevo a noia, e straricco di iniquità. Rubai quello che avevo in abbondanza e di qualità molto migliore, e del resto non era per goderne che volevo rubarlo, ma per il furto stesso, per il peccato. C'era un pero nelle vicinanze della nostra vigna, carico di frutti non particolarmente invitanti all'aspetto o al sapore. Era una notte fosca, e noi giovani banditi avevamo tirato così in lungo i nostri scherzi per le strade, secondo un'abitudine infame: e ce ne andammo a scuotere la pianta per portar via le pere. Ce ne caricammo addosso una quantità enorme, e non per farne un'abbuffata noi, ma per gettarle ai porci - e se anche ne assaggiammo qualcuna fu solo per il gusto della cosa proibita. Ecco il mio cuore, Dio, ecco il cuore che in fondo all'abisso ha suscitato la tua pietà. E questo cuore ora ti deve dire che cosa andava cercando laggiù: volevo fare una cattiveria gratuita, senza avere altra ragione d'essere malvagio che la malvagità. Era brutta, e l'ho amata: ho amato la mia morte, il venire a mancare - e non l'oggetto di questa mancanza, no, ma la mia mancanza stessa ho amato, anima vergognosa che si schioda dal tuo fondamento per annientarsi, e non per qualche bruttura particolare, ma per il suo desiderio del brutto.

5.10. I corpi belli, l'oro e l'argento e tutte le cose colpiscono per l'aspetto visibile; nel tatto ciò che conta di più è la proporzione, e a ciascuno degli altri sensi corrisponde un particolare aspetto dei corpi. Anche il prestigio temporale e il potere e il prevalere hanno un loro pregio, da cui nasce anche la voglia di vendetta: tuttavia nel perseguire tutti questi beni non c'è bisogno di uscire da te, Signore, né di trasgredire la tua legge. E la vita che viviamo qui ha un suo fascino, dovuto a una certa misura di dignità e di accordo con tutte queste bellezze inferiori. E anche l'amicizia degli uomini è dolce nel suo caro nodo che stringe molte anime in una. Per tutte queste cose, o altre del genere, si commette peccato soltanto se una immoderata inclinazione verso di esse induce ad abbandonare per loro, che sono beni infimi, i migliori o i supremi. Cioè te, nostro Signore e Dio, e la tua verità e la tua legge. Anche le cose più basse hanno le loro attrattive, ma non come il mio Dio che di tutte è l'autore, perché in lui trova il suo piacere il giusto, ed è lui la delizia dei puri di cuore.

- 11. Quando si cerca il movente di un delitto, di solito non si resta convinti finché non viene in luce la possibilità almeno che si tratti del desiderio di uno di quei beni che abbiamo definito inferiori, o la paura di perderlo. Son pur sempre cose belle e degne, ancorché spregevoli e basse di fronte a quelle fonti di beatitudine che sono i beni superiori. Uno ha ammazzato un uomo. Perché l'ha fatto? Desiderava sua moglie o il suo podere, o voleva procurarsi di che vivere con una rapina, o temeva di perdere una di queste cose per colpa della vittima, o si è lasciato infiammare dal desiderio di vendicarsi di un'offesa. Avrebbe mai ammazzato un uomo senza una ragione, per il puro piacere dell'omicidio? E chi potrebbe crederlo? Di un uomo crudele fino alla pazzia è stato scritto che era malvagio e crudele in modo gratuito: ma perfino in questo caso viene data una ragione, subito prima: perché, diceva, non gli si intorpidisse la mano o la mente, nell'ozio. E anche questo, a che scopo? Perché? È evidente: quell'allenamento ai delitti gli serviva per impadronirsi di Roma, ottenere cariche pubbliche, potere e ricchezze; per liberarsi dal timore delle leggi e dai problemi derivanti dalla povertà della sua famiglia e dal rimorso per i delitti compiuti. In conclusione, perfino Catilina non amava i propri delitti, ma un'altra cosa: il fine per cui li perpetrava.


[Un gesto gratuito]

6.12. E a me, infelice, cosa piaceva in te, mio furto, notturna bravata dei miei sedici anni? Non eri bello, dato che eri un furto. Ma sei qualcosa tu, perché io ti rivolga la parola? Erano belli i frutti che rubammo perché erano creature tue, bellissimo fra tutte le cose, loro autore, Dio buono, Dio sommo bene e mio bene vero; erano belli quei frutti, ma non erano la cosa desiderata da quest'anima miserabile. Perché io ne avevo in abbondanza di migliori, ma colsi proprio quelli, soltanto per rubare. E infatti una volta che li ebbi colti li gettai per abbuffarmi soltanto della mia ingiustizia, che mi dava un grande piacere. E se qualcuno di quei frutti mi finì sotto i denti, era la brutta azione che gli faceva da condimento. E ora, mio Signore e Dio, io mi chiedo che cosa mi piacesse tanto in quel furto, e non ci vedo un'ombra di bellezza: non dico di quella che si trova nella giustizia e nella saggezza, ma neppure di quella che sta nella mente dell'uomo e nella sua memoria, nei suoi sensi e nella vita vegetativa. Non un'ombra: non lo splendido rango delle stelle, non la bellezza della terra e del mare folti di vite in potenza, nella vicenda di nascite e morti; neppure, infine, quella bellezza evanescente e umbratile che è il fascino ingannevole dei vizi.


[La perversa imitazione di Dio]

- 13. In fondo, l'orgoglio è un omaggio alla grandezza, quando tu solo sei l'eccelso Dio al di sopra del tutto. E l'ambizione che cosa cerca se non onori e gloria, quando a te solo fra tutte le cose sono dovuti onori e gloria eterna? E la ferocia dei potenti vuol essere temuta: ma di chi è che bisogna aver timore se non del solo Dio? Al suo potere chi è che può strapparsi o comunque sottrarsi, quando, dove, da chi, per fuggir dove? E le carezze degli amanti vogliono farsi amare: ma non c'è carezza più lieve del tuo amore e non c'è passione più salutare di quella per la tua verità, lucente e bella sopra ogni altra cosa. E la curiosità si atteggia a brama di conoscenza, quando il conoscitore massimo di tutto sei tu. Perfino l'ignoranza e l'idiozia si coprono col nome di semplicità e innocenza, perché nulla c'è di più semplice di te. E nulla di più innocente, se sono le azioni dei malvagi a rivoltarsi contro di loro. E l'ignavia è una sorta di aspirazione alla quiete: ma c'è una quiete certa come Dio? Il lusso poi si fa chiamare soddisfazione e abbondanza: ma sei tu la pienezza e ricchezza senza fine di un indistruttibile benessere. Lo sperpero si nasconde all'ombra della generosità: ma sei tu il più abbondante dispensatore di ogni bene. L'avidità vuol molto possedere: e tu possiedi tutto. L'invidia contende il primato: e cosa è migliore di te? L'ira cerca vendetta: chi nella vendetta è più giusto di te? La paura si sgomenta d'ogni insolita e repentina minaccia all'integrità delle cose amate: e cerca nella prevenzione la sua sicurezza. E cosa c'è di insolito per te? Di repentino? Chi può togliere a te quello che ami? Dove se non da te è la vera sicurezza? La tristezza si strugge per le cose perdute che lusingavano il desiderio, perché vorrebbe che nulla le si potesse strappare, come a te.

- 14. Ed è così che l'anima tradisce, quando ti volta le spalle per cercare fuori di te qualcosa che non trova puro e limpido se non tornando a te. Ti scimmiottano tutti, quelli che si allontanano da te e ti si levano contro. Ma anche scimmiottandoti mostrano che sei tu il creatore di ogni genere di cose, e che perciò non c'è luogo a sfuggirti. Che cosa mi piaceva in quel mio furto dunque, e in che cosa imitai, sia pure colpevolmente e a rovescio, il mio Signore? Forse prendevo gusto a violare la tua legge almeno con la frode, visto che con la forza non potevo? Per imitare, prigioniero com'ero, un'azzoppata libertà facendo impunemente una cosa proibita, buia caricatura d'onnipotenza? Eccolo qui lo schiavo fuggitivo, che lasciò il suo padrone e trovò l'ombra. O putredine, bestia mostruosa della vita, profondità della morte. È possibile che mi attirasse una cosa proibita, solo perché proibita, e niente altro?

7.15. Come ricambierò il Signore del fatto che la mia memoria rievoca tutto questo senza che l'anima se ne sgomenti? Io saprò amarti Signore, e ringraziarti e riconoscere il tuo nome, perché mi hai perdonato azioni tanto malvagie e brutte. Lo debbo alla tua grazia e alla tua compassione, che tu abbia sciolto il ghiaccio dei miei peccati. Alla tua grazia debbo anche il male che non ho fatto: perché cosa non avrei potuto fare io che ho amato persino la colpa gratuita? Eppure sento che tutto è stato perdonato, il male che spontaneamente ho fatto e quello che mi hai indotto a non commettere. E poi qual è quell'uomo che considerando la propria incostanza osa attribuire alle proprie forze la propria castità e incolpevolezza? Per poi amarti di meno, quasi gli fosse stata meno necessaria la compassione con cui condoni i peccati a chi si ti si rivolge. E allora se qualcuno ha udito il tuo richiamo e ha seguito la tua voce e ha evitato il male di cui legge in queste pagine il mio ricordo e la mia confessione, non voglia ridere di me: ero malato e fui guarito da quel medico stesso cui deve di non essersi ammalato, o forse d'essersi ammalato meno. E voglia amarti altrettanto, anzi di più, vedendo me liberato da tanta malinconia di colpe in grazia di colui che non volle ne fosse egli stesso avviluppato.


[Complicità di gruppo]

8.16. Povero me: che frutto raccolsi allora dalle cose che ora mi fanno arrossire a ricordarle? E soprattutto, dico, da quel furto: commesso per amore del furto e per nient'altro, dunque per niente, niente essendo il furto, così da farmi più povero ancora. Eppure non l'avrei fatto da solo - se ricordo l'animo mio di allora - da solo non l'avrei compiuto affatto. Dunque era anche la complicità dei miei compagni d'avventura ad attrarmi.
Dunque non è vero che era il furto in se stesso a piacermi, e nient'altro. Ma sì invece: nient'altro, perché anche quella complicità non era niente. Già, che cos'è in realtà? Che cosa sia può insegnarmelo solo colui che illumina il mio cuore e discerne le sue ombre. Che significa questo, che mi viene in mente di indagare e discutere e valutare quel fatto? Se allora fossi stato attratto dai frutti che rubai, e avessi desiderato di godermeli, avrei potuto compiere anche da solo quell'ingiustizia - ammesso che uno solo bastasse - e arrivare così a cavarmene la voglia, senza star lì a sfregarci le coscienze per infiammare il mio prurito di arraffare. Ma siccome non era in quei frutti, il mio piacere era solo nella colpa, e a suscitarlo era la complicità.

9.17. Che stato d'animo era quello? Il meno che si possa dire è che era brutto: guai a me che lo provavo. Ma pure in che cosa consisteva? I peccati chi li capisce? Un riso ci solleticava il cuore all'idea di far torto a della gente che non se l'aspettava proprio da parte nostra, e si sarebbe infuriata. Perché allora mi divertiva tanto non farlo da solo? Forse perché non è facile ridere da soli? Non è facile, eppure capita anche a singole persone quando son sole e nessun altro è presente, di scoppiare a ridere se vedono o gli viene in mente qualcosa di irresistibilmente comico. Però io non l'avrei fatto da solo, da solo no, assolutamente. Eccolo davanti a te, mio Dio, il vivido ricordo di quest'anima. Da solo non l'avrei compiuto, quel furto commesso non per la cosa rubata, ma per il piacere di rubare: a farlo da solo non c'era nessun gusto, e non lo avrei mai fatto. Inimicissima amicizia, inspiegabile seduzione della mente, ansia di male nata dal gioco e dallo scherzo e desiderio di far danno agli altri senza frenesia di guadagno o di vendetta, quando qualcuno dice "andiamo, facciamo", e si ha pudore a non essere impudenti.

10.18. Chi scioglierà questo groviglio tanto intricato e attorto? È brutto: non voglio più rivolgergli il pensiero, non voglio più vederlo. Te voglio, innocenza e giustizia, bella e preziosa di nobili luci, di sazietà insaziabile. Da te c'è grande quiete, e vita ignara d'ogni turbamento. Chi entra in te, entra nella gioia del suo Signore e non avrà più paura e si troverà sovranamente bene nel bene sovrano. Come acqua mi sono dissipato, scorrendo via da te e ho errato per tutta la mia adolescenza, Dio mio, troppo lontano dalla tua immobilità. E sono divenuto a me stesso un paese di miseria.


LIBRO TERZO
[A CARTAGINE: GLI STUDI]

1.1. Arrivai a Cartagine e mi trovai a bagno in una caldaia ribollente di amori colpevoli. Io non amavo ancora e amavo l'amore: e una più segreta povertà mi faceva odiare in me stesso proprio questo non esser povero abbastanza. Cercavo qualcosa da amare, amando l'amore, e odiavo la serenità di una via senza trappole. Avevo fame e rifiutavo il nutrimento interiore, cioè te, Dio mio: non era quello il cibo per cui mi consumavo, ma se non smaniavo per un cibo eterno non era perché ne fossi sazio: anzi più digiuno ne ero, e più nausea mi dava. Non era in buona salute l'anima, era come esulcerata e si gettava fuori, infelice, nel desiderio di farsi toccare e graffiare dai corpi: che nessuno amerebbe, se non avessero un'anima. Amare ed essere amato mi era più dolce se possedevo anche nel corpo la persona amata. E così inquinavo la sorgente dell'amicizia con i veleni della passione e offuscavo la sua chiarezza con l'inferno del sesso. Eppure, sgraziato e volgare com'ero, mi studiavo follemente, nella mia straripante vanità, d'essere raffinato ed elegante. Infine precipitai nell'amore, da cui volevo esser fatto prigioniero. Dio mio di compassione, di quanto fiele mi hai cosparso quella dolcezza! Tale è la tua bontà. Fui amato, giunsi a un segreto vincolo di intimità, e mi avvolgevo voluttuosamente in grovigli d'angoscia per cedere ai colpi delle fruste di fuoco: sì, gelosie e sospetti e paure e rabbie e litigi.


[Il teatro: una passione. Psicologia dello spettatore]

2.2. Mi affascinavano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie angosce e di paglia per il mio fuoco. Come mai vuole piangere l'uomo in questi luoghi, davanti agli spettacoli di tragedie e morti che mai vorrebbe egli stesso soffrire? Pure, soffrire è proprio quello che lo spettatore vuole, e questa sofferenza gli è un piacere. Cos'è, se non la nostra povera follia? Meno si è immuni da quelle passioni, e più ci si commuove: anche se il proprio soffrire si chiama passione, e il soffrire per gli altri compassione. Ma infine che razza di compassione è se son solo finzioni, effetti da teatro? Al punto che lo spettatore non è indotto a portare soccorso, ma viene solo invitato a una dolorosa immedesimazione, e apprezza tanto più l'attore tragico quanto più questa riesce. E se la recitazione di quelle disgrazie antiche o immaginarie non fa soffrire abbastanza lo spettatore, quello se ne va annoiato e protesta; se invece soffre, rimane attento e piange, e così si diverte.

- 3. Dunque amiamo le lacrime e il dolore. Senza dubbio ogni uomo desidera la gioia. E se a nessuno piace essere infelice, forse è il piacere della compassione, che non può esser senza qualche dolore, la sola ragione di amare il dolore? E anche questo è un rivolo di quella sorgente, l'amicizia. Ma dove va? Dove scorre? E perché sfocia in un fiume di pece bollente, nei gorghi di un piacere malinconico, in cui la stessa amicizia si muta e si stravolge, sviandosi e precipitando di propria iniziativa dalla sua limpida serenità? E allora bisogna rifiutare la compassione? Niente affatto. Si ami pure la sofferenza, talvolta. Ma guardati dall'impurità anima mia! Resta sotto la protezione del mio Dio, il Dio dei nostri padri glorificato e celebrato in ogni tempo, guardati dall'impurità. Non sono privo di compassione, ora: ma allora a teatro io godevo insieme con gli amanti stretti nei loro abbracci colpevoli anche se simulati soltanto per il gioco della scena, e in una sorta di compassione mi rattristavo delle loro separazioni; e in tutt'e due i modi mi divertivo. Oggi veramente provo maggior compassione di chi sguazza nelle gioie colpevoli che non di chi soffre duramente per la privazione di un piacere distruttivo e di una felicità grama. E questa è certo compassione più autentica, ma in questo caso non è un piacere rattristarsi. Anche se si approva per dovere di carità chi soffre per gli infelici, uno che abbia una compassione genuina preferirebbe che non ci fosse di che soffrire. Se esiste una benevolenza maligna - che è impossibile - allora anche chi prova vera e sincera compassione può desiderare che esistano degli infelici di cui avere compassione. La sofferenza dunque a volte la si può approvare: amarla, mai. Tu, Dio che ami le anime, senti per loro una compassione tanto più pura e incorruttibile della nostra, quanto sei invulnerabile al dolore. Ma chi può tanto?

- 4. Ma io allora amavo quella pena, infelice, e cercavo di che procurarmela: e in quelle angosce estranee e immaginarie, da commediante, più lacrime riusciva a strapparmi l'attore e più mi piaceva la sua recitazione, e tanto più fortemente subivo il suo potere di seduzione. Non c'è da meravigliarsene, perché la povera pecora che ero, smarrita lontano dal tuo gregge e insofferente della tua sorveglianza, era deturpata da una volgarissima scabia. E perciò questo amore della pena - non per farmene penetrare molto in profondità, perché certo non avrei amato patire io stesso quello che amavo negli spettacoli - ma quasi per farmene sfiorare l'epidermide, da quelle pene immaginarie e teatrali che erano. Ma come quando ci si gratta la scabia, le conseguenze erano infiammazioni, gonfiori e infezioni disgustose. Ma era vita quella vita, Dio mio?


[Vita studentesca. Il piacere delle trasgressioni]

3.5. Ma alta su di me, lontana, fedele, volteggiava la tua misericordia. In che malvagie cose mi sono disperso. Ho ceduto a una curiosità sacrilega, fino a farmi trascinare, dimentico di te verso le cose più basse e infide, e a un insidioso culto dei demoni, ai quali offrivo le mie peggiori azioni in sacrificio. Ma intanto tu continuavi a fustigarmi! Perfino in mezzo alla folla delle tue cerimonie, fra le pareti della tua chiesa ho osato desiderare il frutto della morte, e darmi da fare per ottenerlo. E allora tu mi hai staffilato duramente, ed era ancora nulla in confronto alla mia colpa, o tu grandiosa misericordia mia, mio Dio, rifugio che mi scampi alla gente nefasta e devastante fra cui vagavo carico di boria, e sempre più lontano per le mie vie che amavo invece delle tue: mia fuggitiva libertà, che amavo.

- 6. Anche gli studi cosiddetti liberali avevano il loro sbocco nei fori litigiosi dove avrei dovuto eccellere: e dove la gloria è proporzionale all'abilità negli imbrogli. Tale è la cecità degli uomini, che perfino della cecità si gloriano. Ormai ero fra i primi alla scuola di retorica e ne andavo superbo: gonfio di vento ero, benché di gran lunga più tranquillo - Signore, tu lo sai - e del tutto estraneo alle gazzarre dei "perturbatori" - già, questo soprannome sinistro e diabolico è come una patente di snobismo - fra i quali vivevo. Serbavo dunque un certo pudore nell'impudenza, perché io non ero come loro: stavo con loro a volte, e mi divertiva la loro amicizia, ma evitavo sempre con orrore di partecipare alle loro imprese, cioè alle gazzarre prepotenti con cui aggredivano la timidezza dei nuovi arrivati e li spaventavano a furia di scherzi gratuiti, giusto per sfogare la loro maligna allegria. Niente è più simile alle azioni dei demoni. Non ci sarebbe stato nomignolo più adatto di "perturbatori", perturbati com'erano essi stessi per primi e pervertiti da quegli spiriti beffardi: vittime delle loro seduzioni e dei loro raggiri, per il solo fatto di prender tanto gusto alle beffe e ai raggiri.


[L'incontro con la filosofia]

4.7. Erano questi i compagni di un'età ancora oscillante, che trascorsi studiando i libri d'arte oratoria: in cui aspiravo a emergere, col fine fatuo e deplorevole di godermi i fasti della vanità umana. E già, secondo il consueto ordine degli studi, mi era venuto in mano un libro di un certo Cicerone, la cui lingua è oggetto di universale ammirazione: cosa che non si può dire del suo spirito. Ma quel suo libro contiene un'esortazione alla filosofia: Ortensio, è intitolato. Ed è proprio quel libro che ha mutato il mio modo di sentire: ha convogliato verso di te, mio signore, tutte le mie suppliche e mi ha fatto nascere altre ambizioni, altri progetti. Erano all'improvviso senza alcun valore, tutte quelle speranze della mia vanità: e nel mio cuore divampò un'incredibile passione per l'immortalità della sapienza. Cominciava il risveglio che mi avrebbe ricondotto a te. Quel libro io non lo usai per affinare il mio linguaggio, cioè per l'acquisto cui parevano destinati i soldi di mia madre: avevo diciott'anni, e mio padre era morto due anni prima. Non lo usai per affinare il mio linguaggio: perché era ciò che diceva ad avermi persuaso, e non come lo diceva.

- 8. Che incendio, mio Dio, che incendio questo in cui mi struggevo di levarmi in volo per ritornare a te, via dalle cose terrene, e non sapevo cosa volevi far di me! Sta presso di te la Sapienza. Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo. Si può sedurre, con la filosofia: c'è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all'autore, sono segnalati e bollati in quel libro. Là si mostra salutare il consiglio donato dal tuo spirito per bocca del tuo buon servo devoto: Badate che nessuno vi inganni con la filosofia e la vana seduzione conforme alla tradizione umana, conforme agli elementi di questo mondo e non conforme a Cristo, perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. A quel tempo, lo sai, lume del mio cuore, ancora non conoscevo queste parole dell'Apostolo: ma in quell'esortazione bastava ad avvincermi l'invito, che il discorso mi faceva, ad amare non questa o quella setta ma la sapienza stessa, dovunque fosse: e a cercarla, conseguirla, possederla e stringerla a sé con forza. Quel discorso mi accendeva e mi faceva ardere, e in tanto fuoco una cosa sola mi raffreddava, che non vi comparisse il nome di Cristo, perché questo nome - secondo la tua bontà, Signore - questo nome del mio Salvatore, tuo figlio, il mio cuore ancora intatto l'aveva fiduciosamente succhiato col latte materno e lo conservava nel profondo. E senza questo nome qualunque opera, per quanto dotta e raffinata e veridica, non mi conquistava del tutto.


[Primo approccio alla Bibbia...]

5.9. Così decisi di mettermi a leggere le Sacre Scritture, per vedere com'erano. E cosa mi trovo davanti? Qualcosa di oscuro ai superbi ma non più accessibile ai piccoli, basso all'approccio e sublime a procedere e velato di misteri: e io non ero il tipo da riuscire a passarci, magari chinando la testa, per quel suo ingresso. Perché quello che sto dicendo non ha niente a che fare con l'impressione che quel modo di scrivere mi fece allora, quando mi misi a occuparmene: ma mi sembrò semplicemente indegna del confronto con la dignità ciceroniana. La mia tronfiaggine rifuggiva dalla sua misura, e tutto il mio acume non riusciva a penetrare al suo interno. E invece era fatta per crescere coi piccoli, ma io disdegnavo di farmi piccolo, ed ero gonfio di boria a furia di darmi delle arie.


[...e incontro col manicheismo]

6.10. Fu così che mi trovai in mezzo a persone pazze d'orgoglio, eccessivamente attaccate alla carne e alla chiacchiera, che in bocca avevano i lacci del diavolo e il vischio di una rimasticatura di sillabe: mozziconi del tuo nome, e di quelli del signore Gesù Cristo e del Paracleto nostro consolatore, lo Spirito Santo. Li avevano sempre sulle labbra, questi nomi: ma non erano che strepito e vento. Del resto avevano il cuore vuoto - di verità.
"Verità, verità" ripetevano, e ne facevano un gran parlare con me, e in loro non ce n'era un'ombra. E ne facevano tante di asserzioni false: e non soltanto su di te, che veramente sei la verità, ma anche sugli elementi di questo mondo, creatura tua: e figuriamoci che su questo punto son dovuto passare oltre i filosofi che ne parlavano in modo veridico, per amor tuo, padre mio e bene sommo, bellezza di ogni cosa bella. O verità, verità, come si struggevano per te fin da allora le viscere della mia mente, mentre quelli mi rintronavano continuamente e in tutte le maniere col suono del tuo nome e il peso enorme dei loro numerosi libri! E quelli erano i vassoi in cui al posto di te si offriva alla mia fame il sole e la luna, opere tue: belle, sì, ma pur sempre tue creature, ben diverse da te e anche dalle prime cose. Perché prima di questi corpi per quanto luminosi e celesti vengono le tue creature spirituali. E io neppure di quelle, ma di te sola avevo fame e sete, verità in cui non c'è mutamento né passa l'ombra delle stagioni. E invece mi ammannivano su quei vassoi splendidi fantasmi, così che tanto valeva amare questo sole che almeno per questi occhi è vero, piuttosto che quelle fantasie di una mente incline a farsi illudere dagli occhi. Eppure le prendevo per te e le bevevo: non avidamente però, perché in bocca poi non era quello il tuo sapore - infatti con quelle vacue invenzioni tu non avevi nulla a che fare - e non me ne sentivo nutrito, ma sempre più affamato. Il cibo dei sogni è quanto di più simile a quello degli uomini desti: ma i dormienti non ne sono nutriti, perché dormono. Ma quei sogni non erano neppure affatto simili a te che mi parli ora: perché erano fantasmi di corpi, corpi immaginari, meno certi di questi veri corpi che vediamo con occhi di carne, celesti o terreni. Li vediamo e come noi li vedono le bestie e gli uccelli, e sono più certi di quando li immaginiamo. E questi corpi immaginati a loro volta son più certi di quelli più grandi, infiniti, che immaginiamo per analogia, e che non sono più niente del tutto. Come quelle vuotaggini appunto di cui allora mi nutrivo, senza nutrirmi affatto. Ma tu, amore mio, cui m'abbandono per essere forte, tu non sei questi corpi che vediamo, e sia pure in cielo, e nemmeno sei quelli che lassù non vediamo: perché ne sei l'autore e neppure li annoveri fra le tue opere più alte. E allora quanto più lontano sei da quelle mie immaginazioni, fantasmi di corpi che non esistono affatto! Son più certe di loro le immagini fantastiche dei corpi che esistono, e più certi di queste i corpi stessi: ma non sono te. Ma neppure sei l'anima, che è la vita dei corpi - e indubbiamente vale più dei corpi, la loro vita. Tu sei la vita delle anime, vita delle vite, che vivi di te stessa e non ti muti, tu vita di quest'anima.


[Il Dio dell'intimo e le favole]

- 11. Dov'eri allora, e quanto eri lontano? E io vagavo lontano da te, respinto perfino dalle ghiande dei porci, che di ghiande nutrivo. Già: quant'eran meglio le favole dei letterati e dei poeti di quelle trappole! I versi e la poesia e il volo di Medea servono certo più dei cinque elementi variamente cucinati per i cinque antri delle tenebre, che non hanno nemmeno un'ombra di esistenza e uccidono chi ci crede. Perché da versi e poesia io traggo anche un vero nutrimento: ma se cantavo il volo di Medea non pretendevo di asserirlo, e se lo udivo cantare non ci credevo: a quelle fantasie invece credetti. E guai a me! Quanti gradini ho disceso verso il fondo dell'inferno, affannato e riarso dalla carestia del vero, al tempo in cui, Dio mio - io lo confesso a te che allora fosti indulgente, quando non ti confessavo ancora - ti cercavo con gli occhi della carne. Non con l'intelligenza della mente, per cui tu m'hai voluto superiore alle bestie. Ma tu m'eri più interno del mio intimo stesso, e superiore al sommo di me stesso. Su quella via incontrai la donna sfrontata e sprovveduta, l'allegoria di Salomone che siede alla porta di casa e va dicendo: il pane nascosto è più buono, più dolce è l'acqua rubata. Costei mi sedusse, perché mi trovò allo scoperto, insediato nell'occhio della carne, a ruminare quello che attraverso di lui avevo divorato.

7.12. Ignaro dell'Altro, che solo è vero, ero quasi capziosamente indotto ad approvare i miei stolti ingannatori, quando mi interrogavano sull'origine del male e se Dio fosse delimitato da una forma corporea e avesse capelli e unghie, e se si dovessero stimare giuste persone che avevano molte mogli contemporaneamente e ammazzavano altri uomini e facevano sacrifici animali. Io che ignoravo tutto questo ne restavo scosso: e mi sembrava di avvicinarmi alla verità proprio mentre me ne allontanavo, perché non sapevo che il male non è che privazione di bene fino al nulla assoluto. E come avrei potuto vederlo, se i miei occhi non vedevano oltre i corpi e la mia mente oltre i fantasmi? Non sapevo che Dio è spirito, e non ha lunghezza e larghezza di corpo e non ha massa: perché la parte di una massa è minore del tutto, e se la massa è infinita, la parte delimitata entro un certo spazio è minore del tutto illimitato, e non è tutta intera dappertutto come lo spirito, come Dio. E che cosa sia in noi che ci fa essere, e come dice giustamente la Scrittura, a immagine di Dio, lo ignoravo del tutto.


[La Legge e le leggi]

- 13. Neppure conoscevo la giustizia vera, interiore, che non giudica in base alle consuetudini, ma secondo la legge rettissima di Dio onnipotente, da cui ricevono forma gli usi dei paesi e dei giorni, che a questi appunto sono relativi, mentre quella è la stessa sempre e dovunque e non varia nello spazio e nel tempo. In base a quella legge sono giusti Abramo e Isacco e Giacobbe e Mosè e Davide e tutti quelli lodati per bocca di Dio; ma gli ignoranti li giudicano ingiusti perché giudicano in base alla giornata umana e la totalità delle usanze del genere umano la misurano con la parte che è toccata a loro. Come se uno che ignora a quali parti del corpo si adattino i vari pezzi di un'armatura volesse ficcarsi in testa un gambale e calzare l'elmo ai piedi, e poi si lamentasse che non vanno bene. Come se in un pomeriggio dichiarato festivo uno si irritasse di non avere il permesso di girare con la sua mercanzia, solo perché di mattina l'aveva; o se uno vedendo in una stessa casa un servo che mette le mani dove al coppiere è proibito di metterle, o vede fare dietro le stalle cose vietate davanti alla mensa, si indignasse perché nella stessa abitazione e nella stessa famiglia non si danno a tutti e in ogni luogo le stesse funzioni. Così si comportano costoro, indignandosi quando vengono a sapere che a quel tempo era lecito ai giusti qualcosa che oggi non lo è, e che Dio ha imposto a quelli una condotta, a questi un'altra, per ragioni determinate dalle circostanze: mentre gli uni e gli altri servono la medesima giustizia. Come in uno stesso uomo, in uno stesso giorno, in una stessa casa a ciascun membro si addice una diversa funzione; e un comportamento che era lecito fino a una certa ora non è più consentito scaduta quella, e un'azione è consentita o addirittura comandata in un angolo, e nell'angolo vicino è vietata e punita. Forse che la giustizia è varia e mutevole per questo? Ma i tempi cui essa presiede non vanno di pari passo: altrimenti non sarebbero diversi tempi. E gli uomini hanno vita breve sopra la terra, e non riescono a vedere i nessi fra le loro ragioni, di cui hanno esperienza, e quelle di epoche passate e di altri popoli, perché non le hanno vissute. Eppure in un corpo, in un giorno, in una casa possono facilmente vedere che ogni membro, ogni momento, ogni locale o persona hanno quello che loro conviene: ma in questo caso son pronti a sottomettersi, mentre nell'altro restano urtati.

- 14. Io stesso allora ignoravo tutto questo e non me ne rendevo conto, e benché l'avessi dappertutto sotto gli occhi non lo vedevo. E componevo poesie e non mi permettevo di collocare un piede qualunque in una qualunque posizione: ma a seconda della forma metrica dovevo adoperare piedi diversi in diverse sedi, e anche nel corpo dello stesso verso non potevo collocare lo stesso piede in qualunque posizione; eppure l'arte che seguivo nel comporre non era distribuita in pezzi diversi da caso a caso, ma li contemplava tutti simultaneamente. Però non vedevo che quella giustizia al cui servizio erano uomini di Dio, uomini dabbene, contemplava anch'essa simultaneamente - e da una posizione molto più elevata e sublime - tutte le sue prescrizioni: e senza variazioni in alcuna delle sue parti impartiva comportamenti appropriati alle varie epoche; non tutti in una volta, ma a ciascuna i suoi. E nella mia cecità criticavo i nostri padri devoti, che non soltanto si adeguavano alle necessità del presente secondo la legge e l'ispirazione divina, ma preannunziavano gli eventi futuri, secondo le rivelazioni di Dio.


[I generi di infrazioni]

8.15. C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore e tutta l'anima e tutta la mente, e amare il prossimo come se stessi? Così le azioni contro natura, com'erano quelle dei sodomiti, dovunque e sempre vanno odiate e punite. E se anche tutti i popoli le praticassero, sarebbero imputati dello stesso reato dalla legge divina, che non ha fatto gli uomini come sono perché facessero di se stessi un uso simile. Si viola l'accordo che deve sussistere fra noi e Dio quando si inquina la natura di cui egli è l'autore con passioni che la sovvertono. Quanto poi alle azioni contro le usanze degli uomini, queste vanno evitate dove le usanze le proibiscano, affinché il patto che la legge o la consuetudine stabilisce fra gli abitanti di una città o di una nazione non sia violato dall'arbitrio di un cittadino, o di uno straniero. Perché ogni parte che non s'accorda col suo intero è brutta. Ma se è Dio a imporre un comportamento contrario a qualunque usanza o patto, anche se in quel luogo non s'era mai visto, bisogna adottarlo, e se lo si era tralasciato, instaurarlo, e stabilirlo se non era stabilito. Infatti è lecito a un re nel suo regno emettere un decreto che non era mai stato emesso prima né dai suoi predecessori né da lui, e obbedirvi non è rompere gli accordi di una società civile, anzi lo è disobbedirvi: perché il patto su cui si regge in generale una società umana è l'obbedienza al suo re. Dunque a maggior ragione bisognerà sottomettersi senza esitare ai decreti del Dio che regna sull'universo creato.
Come nella gerarchia delle società umane il potere maggiore impone obbedienza al minore, così Dio la impone a tutti.

- 16. Lo stesso dicasi per i crimini riconducibili alla volontà di offendere con parole o con azioni o con entrambi, quale che ne sia il movente: quello di vendicarsi, come avviene fra nemici, o di impadronirsi di un bene altrui, come fa il bandito da strada, o di evitare un danno, come accade a chi incute paura, o il movente dell'invidia, che l'infelice prova nei confronti del più felice, e chi ha avuto successo in qualche cosa prova verso un temuto o mal tollerato concorrente; o anche il semplice gusto del male altrui, tipico di chi assiste agli spettacoli dei gladiatori o anche di chi si diverte a schernire il suo prossimo o a prendersene gioco. Sono questi i capi dell'ingiustizia che rampollano dalle passioni del potere, del vedere e del godere - da una o due di esse o da tutt'e tre insieme - e con loro si vive male, stonando sulle tre e sulle sette corde della tua arpa, il decalogo, Dio altissimo e dolcissimo. Ma quali vizi possono offendere te, che non sei intaccabile? E che delitti si possono compiere contro di te, cui nessuno può nuocere? Ma tu vendichi appunto il male che gli uomini fanno a se stessi, perché anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro le proprie anime: e la loro iniquità mente a se stessa, intaccando e sovvertendo la loro natura, da te creata e ordinata, o usando senza misura del lecito o bruciando dalla voglia dell'illecito per farne un uso che è contro natura.
Colpevoli sono al tuo cospetto anche quelli che con la mente e il linguaggio si rivoltano contro di te e tentano di sfuggire al tuo pungolo scalciando, o quelli che infrangono le barriere della società umana per godersi sfrontatamente i loro accordi o i loro tradimenti privati, senza altra legge che i propri gusti o disgusti. E tutto questo avviene quando si abbandona te, fonte di vita, unico e vero autore e principe dell'universo: e nel proprio orgoglio solitario ci si apparta ad amarne uno solo, ma falso. Così è con la devozione degli umili che si ritorna a te, e tu ci liberi dall'abitudine al male e sei indulgente verso i peccati che si confessano e ascolti i lamenti di chi giace in ceppi e ci sciogli dai nodi con cui noi stessi ci siamo legati, purché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà, nella nostra avidità di possedere di più e nel rischio di perdere tutto, per amare il nostro bene particolare più di te, che sei il bene universale.

9.17. Ma accanto a vizi, infrazioni e torti di tanti generi ci sono i peccati di chi progredisce verso la perfezione, che col metro di questa vengono biasimati dai buoni giudici, ma anche apprezzati nella speranza del raccolto, come l'erba in vista del grano. E ci sono azioni che somigliano a vizi e a infrazioni e tuttavia non sono peccati, perché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio civile. Ad esempio l'accumulazione di beni d'uso corrente, quando è dubbio che si tratti di avidità di possesso, o la punizione ordinata dall'autorità con intento correttivo, quando è dubbio che si tratti del piacere di infliggere una sofferenza. E così molte azioni che agli uomini sembrano riprovevoli trovano approvazione ai tuoi occhi, e molte che gli uomini lodano sono condannate dalla tua testimonianza. Perché spesso l'apparenza dell'azione è diversa dall'intenzione dell'agente e diversa l'opportunità dell'attimo, che ci resta segreta. Ma accade che tu all'improvviso dia un ordine inconsueto e inatteso, rovesciando un divieto che avevi imposto in altri tempi, e mettiamo pure che al momento tu mantenga segreta la ragione di quest'ordine, e mettiamo pure che esso sia contro il patto che ha riunito un gruppo di uomini in una società. Bene: chi avrebbe un dubbio che bisogna obbedire, quando giusta è solo quella società umana che serve te! Ma beati quelli che sanno che da te viene l'ordine. Perché tutte le azioni di chi serve te si compiono per rivelare ciò che il presente richiede, o per preannunziare il futuro.


[Il fico e le scintille divine]

10.18. Ignaro di tutto questo io ridevo di quei santi servi e profeti tuoi. E con che risultato, se non quello di farti ridere di me, che a poco a poco mi lasciavo infarcire di sciocchezze fino al punto di credere che il fico piange quando lo si coglie, e anche la pianta sua madre: lacrime di latte. Però se un santo lo mangiasse, quel fico - una volta commesso il delitto di coglierlo, da un altro, non da lui, s'intende - e lo digerisse ben bene, fra i gemiti dell'orazione farebbe venir su fiati e rutti d'angeli, o addirittura particelle di Dio: le quali particelle sarebbero rimaste imprigionate in quel frutto, se non ne fossero state liberate dai denti e dallo stomaco dell'eletto. E arrivai al punto di credere, infelice, che bisognasse esser più pietosi coi frutti della terra che con gli uomini, per i quali essi nascono. Se uno che moriva di fame ma non era manicheo avesse chiesto aiuto, il boccone concesso mi sarebbe sembrato condannato alla pena capitale.


[Il sogno di Monica. Una donna tenace]

11.19. E tu stendesti la tua mano dall'alto e strappasti l'anima mia a questa nebulosa profondità. Intanto mia madre che credeva in te piangeva per amor mio più di quanto una madre piangerebbe la morte fisica di suo figlio. Vedeva la mia morte grazie alla fede e allo spirito ricevuto da te, e tu le porgesti ascolto, Signore. L'hai ascoltata e non hai disprezzato i fiumi di lacrime di cui rigava il terreno sotto i suoi occhi in ogni luogo di preghiera: l'hai ascoltata. Perché da dove le venne il sogno con cui l'hai confortata nella decisione di vivere con me e dividere la mensa nella stessa casa? Dopo che inizialmente aveva rifiutato di farlo, non potendo tollerare i miei blasfemi errori. Si vide in piedi sopra un metro di legno, e le veniva incontro un giovane luminoso e lieto e le sorrideva, a lei che era afflitta e anzi sopraffatta dall'afflizione. E questi le chiese le ragioni della sua tristezza e delle sue lacrime quotidiane: più per darle un consiglio che per sapere, come spesso accade: e lei rispose che piangeva sulla mia rovina. Al che l'altro per tranquillizzarla la esortò a guardar bene: non vedeva che dove era lei ero anch'io? Ella allora guardò bene e mi vide accanto a sé, in piedi sulla stessa asta. Qual era l'origine di questo sogno, se non che il tuo orecchio era sul suo cuore, o bene onnipotente che ti prendi cura di ciascuno di noi come se avessi solo lui da curare, e di tutti come di ciascuno.

- 20. E come si spiega anche questo, che avendomi raccontato il sogno, e tentando io di dedurne che era lei piuttosto ad apprestarsi a divenire quale io ero, e non doveva disperarsene, subito senza un attimo di esitazione "No," replicò "perché non mi ha detto: dove è lui sei anche tu, ma dove sei tu è anche lui". Ti confesso, Signore, quello che mi riaffiora alla memoria, e non ne ho mai fatto mistero: ancora più del sogno mi colpì questo tuo responso che mia madre mi diede a mente desta, quando, senza lasciarsi per nulla turbare da un'interpretazione falsa ma plausibile come la mia, vide tanto prontamente quello che era da vedere - e che io certo non avevo visto prima che lei me lo dicesse. Un sogno che con tanto anticipo annunciava a quella religiosa donna, a consolarla dell'angoscia presente, la gioia che tanto più tardi doveva toccarle. Ben nove anni passarono infatti: e io continuavo a rivoltarmi nel fango di un abisso e nel buio dei pensieri falsi, e spesso tentai di rialzarmi per ricadere più pesantemente. Intanto lei, che era una di quelle vedove caste, devote e sobrie che tu ami, sempre pronta alle lacrime e ai sospiri anche se ora aveva un po' di sollievo dalla speranza, non tralasciava mai durante le sue preghiere di invocare il tuo aiuto per me, e le sue preghiere giungevano al tuo cospetto: eppure ancora mi lasciavi avvolgere e rivoltare nella nebbia.

12.21. E un altro responso mi hai dato a quell'epoca, che ora torna alla memoria (molte cose tralascio nella fretta di arrivare a ciò che più mi preme confessarti, e molte altre non le ricordo). Un responso, dunque, dato attraverso un tuo sacerdote, un vescovo allevato nella chiesa ed esperto dei tuoi libri. Quando quella donna lo pregò - come era solita fare con tutte le persone che le parevano adatte allo scopo - perché si degnasse di parlare con me e di confutare i miei errori e di distogliermi dalle male dottrine per insegnarmi quelle giuste, quello rifiutò, e saggiamente, come capii più tardi. Rispose infatti che ero ancora sordo a ogni insegnamento, perché tutto gonfio della novità di quell'eresia, e con le mie sottigliezze avevo già messo in agitazione parecchi sprovveduti, come aveva saputo da lei. "Ma," disse, "lascialo stare dov'è. Prega soltanto il Signore per lui. Troverà da solo, leggendo, che errore sia quello e quanto grande la sua empietà". Poi le raccontò come anche lui da ragazzino fosse stato affidato ai Manichei da sua madre, che ne era rimasta affascinata, e disse che non solo aveva letto quasi tutti i loro libri, ma se li era anche trascritti, e mentre lo faceva gli si era reso evidente, senza che nessuno discutesse con lui e cercasse di convincerlo, che bisognava fuggirla, quella setta. E così aveva fatto. Ma lei nonostante queste parole non voleva rassegnarsi e insisteva, con implorazioni e lacrime sempre più abbondanti, perché mi vedesse e parlasse con me: e quello, che ormai non ne poteva più, concluse: "Lasciami in pace e continua a vivere così, non è possibile che il figlio di tante lacrime perisca". Parole che ella, nelle nostre conversazioni, ricordava spesso di aver accolto come se fossero risuonate dal cielo.


LIBRO QUARTO
[LA RETORICA COME PROFESSIONE]

1.1. Per tutto questo tempo - nove anni, dai miei diciotto ai miei ventisette anni - fummo sedotti e seduttori, ingannati e ingannatori in preda alle passioni più svariate: e pubblicamente lo eravamo attraverso le discipline cosiddette liberali, ma in segreto nel falso nome della religione: coltivando con quelle l'orgoglio, con questa la superstizione, la vanità in ogni caso. Da una parte, sempre all'inseguimento di una vacua popolarità - sì, fino a cercare l'applauso delle platee, a scendere in lizza per i premi letterari con le loro corone di paglia, fra le frivolezze degli spettacoli e i più sregolati capricci. Dall'altra, in un continuo desiderio di espiazione, non si faceva che portare ai santi e agli eletti, come li chiamavano, alimenti da cui costoro nell'officina della loro pancia potessero fabbricare angeli e dèi, a nostra liberazione. E io correvo dietro a cose simili, e lo facevo con i miei amici, da me e come me illusi. Ridano pure di me gli arroganti, ancora non atterrati e schiacciati da te, Dio mio, e ignari della tua salvezza: io ti confesserò lo stesso le mie vergogne a tua gloria. Concedimi, ti prego, di ripercorrere nel presente della memoria il circolo vizioso del passato, e di offrirti una vittima di gioia. Già, io stesso per me che cosa sono senza di te - solo una guida al precipizio. E se sto bene cosa sono se non un poppante che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile. E chi è un uomo, uno qualunque, dato che è un uomo? Ma ridano di noi i forti e i potenti: noi deboli, noi poveri, ci confessiamo a te.


[L'insegnamento. Fedeltà a una donna]

2.2. In quegli anni insegnavo retorica e vendevo l'arte di vincere con le chiacchiere, io che ero vinto dalla mia ambizione. Tuttavia preferivo, tu lo sai, Signore, quelli che si chiamano buoni allievi: e senza imbroglio insegnavo loro gli imbrogli con cui potevano, non dico far condannare un innocente, ma se capitava difendere un colpevole. Dio, tu vedevi da lontano scivolare sul viscido e scintillare in mezzo al fumo la mia buona fede, che in quell'insegnamento offrivo a gente attaccata alla vanità, in cerca di menzogne, e in questo io ero come loro. In quegli anni avevo una donna, che non avevo conosciuta in quello che si dice un connubio legittimo: ma me l'aveva procurata la mia furia errabonda e del tutto sprovveduta. Una sola, comunque: e per di più le ero fedele come un marito. Eppure con lei ho sperimentato di persona tutta la distanza che c'è fra la misura di un patto coniugale, stretto in vista della procreazione, e l'intesa di un amore arbitrario, dove i figli vengono benché indesiderati, anche se una volta al mondo non si può non amarli.

- 3. Ricordo anche di una volta che avevo deciso di partecipare a un concorso di composizioni poetiche per il teatro e una specie di mago mi mandò a chiedere che cosa fossi disposto a pagarlo per farmi vincere: gli risposi che detestavo e aborrivo quegli sporchi sortilegi, e neppure se quella corona fosse stata d'oro e immortale avrei permesso che si ammazzasse una mosca per la mia vittoria. Perché mi era chiaro che costui nei suoi riti propiziatori avrebbe sacrificato degli animali e con simili omaggi attirato il favore dei démoni. Rifiutai dunque questa azione malvagia: ma non per amore della tua purezza, Dio del mio cuore. Non sapevo amare te, io che non sapevo concepire che splendori di corpi. E non tradisce, svendendosi, te l'anima che sospira dietro a quelle fantasie, confida in cose false e nutre i venti? Io non volevo che per me si facessero sacrifici ai démoni, e poi mi offrivo loro in sacrificio con quella mia superstizione. Che altro è infatti nutrire i venti se non nutrire i démoni, cioè farsi loro zimbello e spasso con il proprio errare?


[L'arte divinatoria]

3.4. E neppure desistevo dal consultare quei ciarlatani, i cosiddetti "matematici", con la scusa che non praticavano sacrifici e non rivolgevano preghiere agli spiriti per la divinazione. Che tuttavia la vera e cristiana devozione respinge e condanna, coerentemente. Perché è bello riconoscere il tuo nome, signore, e dire: Abbi pietà di me: guariscimi quest'anima, perché ho peccato contro di te. E non abusare della tua indulgenza per farsene licenza di peccare, ma ricordare le parole divine: Ecco, sei guarito. Ora non peccare più, perché non ti accada di peggio. Una salute che quelli fanno di tutto per distruggere quando dicono: "È scritto in cielo che tu debba peccare, è inevitabile", oppure "È colpa di Venere, o di Saturno, o di Marte". Come a dire che l'uomo è senza colpa, lui carne e sangue e orgogliosa putredine, ma colpevole è il creatore e ordinatore del cielo e delle stelle. E questo chi è se non il nostro Dio, dolcezza e origine della giustizia, che rendi a ciascuno secondo le sue opere e non disprezzi il cuore avvilito e dolente?

- 5. C'era, a quei tempi, un uomo di spirito, bravissimo medico di gran fama, che da proconsole mi aveva con le sue stesse mani imposto la corona di uno di quei concorsi letterari sulla testa malata: e non da medico. Di quel genere di malattia sei tu il guaritore, che resisti ai superbi, ma agli umili doni la grazia. Eppure anche attraverso quel vecchio tu continuavi a esserci, e non cessavi di medicarmi l'anima. Avevo preso a frequentarlo più assiduamente, lui e la sua conversazione - che era senza pretese di eleganza, ma vivace, e insieme sorridente e seria - e quando parlando con me venne a sapere che mi appassionavo ai libri degli oroscopi mi consigliò, con paterna benevolenza, di buttarli via, e di non sprecare dietro a quelle cose vacue la fatica e il lavoro necessari per quelle utili. Diceva di avere egli stesso studiato quei libri, al punto che nei primi anni della sua vita aveva voluto farsene una professione di cui vivere: e se aveva capito Ippocrate, certo poteva capire anche quei testi. E invece poi li aveva lasciati perdere e si era messo a studiare medicina, per il semplice motivo che, come aveva potuto constatare, erano falsissimi: e lui che era una persona seria non voleva guadagnarsi la vita imbrogliando la gente. "Ma tu," mi disse, "per farti un posto nel mondo possiedi la retorica: e questo imbroglio lo coltivi liberamente, per tuo interesse, non per bisogno di soldi. A maggior ragione in questa materia devi dar credito a me, che l'avevo studiata tanto a fondo da voler vivere solo di quella." E siccome io gli chiedevo perché allora molti responsi risultavano veri, rispose molto plausibilmente che era un effetto del caso, così diffuso ovunque, in natura. Aprendo a caso il libro di un poeta che contiene tutt'altre canzoni e riflessioni, spesso vien fuori un verso mirabilmente consono alla questione che ci occupa: e allora nessuna meraviglia, diceva, se per una sorta di istinto superiore l'anima umana, senza sapere cosa avvenga in lei, dà voce qualche volta a parole che per caso, e non per qualche arte, si accordano con la situazione di chi chiede un responso.

- 6. E anche questo consiglio tu mi hai procurato da parte sua o per suo mezzo, abbozzando nella mia memoria le linee di una ricerca che più tardi avrei per mio conto intrapreso. Ma allora non riuscì a persuadermi a gettar via quella roba: e neppure ci riuscì il mio carissimo Nebridio, ragazzo limpido e di indole felice, con tutto il ridere che faceva di quella sorta di oracoli. Perché l'autorità dei miei autori aveva maggior presa su di me, e non avevo ancora trovato la prova irrefutabile che andavo cercando, per convincermi al di là di ogni dubbio che le predizioni vere fornite su consultazione erano dovute solo al caso o alla fortuna, e non all'arte di osservare gli astri.


[Un grande amico]

4.7. In quegli anni, in cui avevo cominciato a insegnare nella mia città natale, m'ero fatto un amico che gli studi comuni mi rendevano particolarmente caro, mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Da bambini eravamo cresciuti insieme, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo sempre giocato. Ma così amici come allora non eravamo stati mai - un'amicizia, certo, che non era ancora quella vera, perché vera è solo quella che tu stringi fra persone unite a te dall'amore diffuso nei nostri cuori tramite lo Spirito Santo, che ci è stato dato. Eppure era così dolce, come fusa nel fuoco di studi tanto simili. Perché io lo avevo perfino distolto dalla vera fede, che professava da ragazzo benché senza profonda convinzione, per introdurlo a quelle favole ossessive e nefaste che facevano piangere mia madre. Ormai la mente di quella persona andava errando con me, e non poteva stare senza lui, il mio cuore. E all'improvviso tu c'eri alle spalle e la fuga era vana, Dio delle vendette e insieme fonte di accorate tenerezze, che ci converti a te per vie mirabili: e l'hai spazzato via da questa vita quando durava solo da un anno la nostra amicizia, dolce per me più di ogni altra dolce cosa di quegli anni.

- 8. Chi può contare da solo tutte le tue grazie che in sé solo ha provato? Dio mio, cosa facesti allora? Come è insondabile l'abisso dei tuoi giudizi! Bruciava di febbre, e restò a lungo incosciente in un sudore d'agonia: siccome non c'era più speranza lo si fece battezzare in stato di incoscienza. Io non me ne curai, nella presunzione che la sua anima avrebbe ritenuto quello che aveva appreso da me, piuttosto che un'operazione fatta sul suo corpo privo di sensi. Ma le cose stavano in tutt'altro modo. Infatti si riprese e sembrò fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli - e fu molto presto, appena anche lui fu in grado di farlo, perché non mi allontanavo da lui, eravamo troppo legati - tentai, come se anche lui ne avesse voglia quanto me, di farlo ridere di quel battesimo che aveva ricevuto mentre era del tutto privo di sensi e di coscienza. Ma lui aveva già saputo di averlo ricevuto. E trasalendo inorridito come di fronte a un nemico, con una improvvisa libertà di giudizio in lui insospettabile mi avvertì che, se volevo rimanergli amico, dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Da parte mia rimasi stupefatto e sconvolto, e trattenni per allora tutti i miei impulsi, per dargli il tempo di guarire e riacquistare le forze, e poi trattarlo come avessi voluto. Ma fu strappato alla mia demenza, per conservarsi in te a mia consolazione. Pochi giorni dopo, in mia assenza, è nuovamente assalito dalla febbre, e muore.

- 9. La tristezza calò buia sul cuore, e dovunque guardavo era la morte. E il mio paese divenne un patibolo, e la casa paterna m'era penosa e strana, e tutto quello che avevo condiviso con lui, senza di lui si convertiva in uno strazio enorme. I miei occhi lo cercavano invano dappertutto, e odiavo tutte le cose perché non lo tenevano fra loro e non potevano più dirmi "eccolo, viene", come quando era in vita e mi mancava. Ero divenuto un enigma angoscioso a me stesso e chiedevo a quest'anima perché fosse triste e mi opprimesse tanto e lei non sapeva rispondermi. E se dicevo: "Spera in Dio" lei non ubbidiva, giustamente, perché quella persona concreta che le era tanto cara e che aveva perduta era migliore e più vera del fantasma in cui le si ordinava di sperare. Solo il pianto mi era gradito e aveva preso il posto del mio amico fra i piaceri dell'anima.


[Psicologia del lutto]

5.10. E ora, Signore, tutto questo è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Posso sapere da te che sei la verità perché il pianto sia dolce a chi è infelice, posso accostare alla tua bocca l'orecchio del cuore, perché tu me lo dica? O forse tu, per quanto onnipresente, hai respinto lontano la nostra tristezza, e te ne resti in te stesso mentre noi rotoliamo di prova in prova? E tuttavia se non potessimo piangere alle tue orecchie, non resterebbe nulla della nostra speranza. Da dove viene questo frutto delicato dell'amaro di vivere, che si coglie nel pianto e nei sospiri, nei lamenti e nei gemiti? Forse è nella speranza che tu ci ascolti, la dolcezza? Nelle preghiere, è giusto che sia così, perché il desiderio che ti raggiungano ne è parte costitutiva. Ma nel dolore di una cosa perduta e nel lutto che allora mi opprimeva? Certo non speravo di farlo rivivere e non chiedevo questo fra le lacrime: mi limitavo al dolore e al pianto. Ero infelice e avevo perduto la mia gioia. Forse anche il pianto è cosa amara, e ci solleva solo in confronto alla nausea delle cose godute un tempo, e ora aborrite?

6.11. Ma perché dico questo? Non è tempo di indagini questo, ma di confessioni. Ero infelice, come è infelice ogni mente conquistata dall'amicizia di cose mortali, che è fatta a pezzi quando poi le perde. E solo allora sente tutta l'infelicità di cui soffriva anche prima di perderle. Così mi accadeva a quel tempo e molto amaro era il mio pianto e solo nell'amarezza trovavo pace. Ero così infelice, eppure più del mio amico avevo cara la mia stessa vita infelice. Certo, desideravo che mutasse, ma non di perderla in vece sua: non so se avrei accettato anche soltanto di morire per lui, come fecero a quanto si racconta Oreste e Pilade, che vollero - se non è solo una favola - morire almeno insieme, uno per l'altro, perché per tutt'e due peggiore della morte era il non poter vivere con l'altro. Ma in me era nato come un sentimento contrario a questo, e la noia di vivere m'era non meno opprimente della paura di morire. E quanto più lo amavo, credo, tanto più odiavo come nemica atroce la morte che me lo aveva rubato e la temevo e mi pareva sul punto di polverizzare all'improvviso ogni uomo, come aveva potuto far con quello. Sì, ero proprio in questo stato, ricordo. Tu vedi il mio cuore, mio Dio, lo vedi dentro: vedi come ricordo, speranza mia, che spazzi via questi miei sentimenti in ciò che hanno di impuro, dirigendo verso di te i miei occhi e liberando i miei piedi dal laccio. Ero stupito che vivessero ancora gli altri mortali, quando era morto lui che avevo amato come fosse immortale, e ancor più ero stupito di vivere io stesso, che ero un altro lui, quando lui era morto. Qualcuno ha detto bene del suo amico, che era metà dell'anima sua. Io sentivo infatti che la mia e la sua erano un'anima sola in due corpi: perciò la vita mi faceva orrore - io non volevo vivere a metà - e perciò mi faceva paura la morte, con cui sarebbe morto ormai del tutto anche lui, lui che avevo molto amato.

7.12. Che follia non saper amare gli uomini come uomini! E sciocco l'uomo che non ha misura, insofferente dei limiti umani. L'uomo che allora ero: tutto furori e sospiri e pianti e turbamenti, senza pace e senza equilibrio. E mi portavo dietro l'anima mutilata e sanguinante, che ormai non ne poteva più di farsi trascinare in giro, e non trovavo modo di metterla giù, da qualche parte. No, non trovava pace: non nella frescura dei boschi, negli svaghi e nei canti, non nei giardini profumati o nell'eleganza delle feste, non nei piaceri dell'amore e del sonno, neppure infine nei libri e nella poesia. Tutto mi faceva orrore, perfino la luce, e qualunque cosa non fosse lui era opprimente e odiosa oltre ogni sfogo di pianto: l'unica cosa in cui l'anima trovava un po' di requie. Ma quando la si distoglieva da quello, subito mi schiacciava sotto il peso della tristezza. Verso di te, signore, avrei dovuto sollevarla per curarla: lo sapevo, ma non volevo e non ce la facevo, tanto più in quanto se pensavo a te non mi eri niente di solido e fermo. Perché non eri tu, era un vuoto fantasma, era il mio errore il mio Dio. E se tentavo di appoggiarla lì, l'anima, per farla riposare, scivolava nel vuoto e di nuovo mi crollava addosso, e per me io restavo un luogo gramo, dove non potevo stare e da cui non potevo allontanarmi. Dove, via dal mio cuore, poteva fuggire il mio cuore? Dove fuggire io, via da me stesso? Dove non esser braccato da me stesso? Dal mio paese sì, però, riuscii a fuggire. I miei occhi l'avrebbero cercato meno, dove non eran soliti vederlo: e così dal borgo di Tagaste me ne venni a Cartagine.


[Il dolore, il tempo, l'amicizia]

8.13. Non passa invano il tempo e non gira a vuoto sui nostri sentimenti: ha strani effetti sull'anima. E venivano i giorni e passavano uno dopo l'altro, e venendo e passando mi insinuavano dentro altre speranze, altri ricordi: e a poco a poco mi restituivano agli antichi piaceri, e a questi il mio dolore ormai cedeva il passo. Ma gli succedevano, se non altri dolori, altre cause di dolore. E del resto perché quello era penetrato in me tanto facilmente e tanto in profondità, se non perché avevo fondato l'anima sulla sabbia, affezionandomi a un uomo destinato a morte come se non dovesse mai morire. Soprattutto mi aiutava a riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e seduzioni ci solleticava le orecchie e ci corrompeva la mente. E quella favola non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti consensi, e l'insegnare e l'imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde molte anime in una.

9.14. Questo è ciò che si ama negli amici, e lo si ama al punto che la coscienza rimorde se non si ama quando si è riamati o se non si ricambia l'amore di un altro, senza altro chiedere al suo corpo che qualche indizio di affetto. Di qui viene il cordoglio per l'amico che muore, e il buio della tristezza e il cuore madido di una dolcezza mutata in amaro: e la vita perduta dei morti che si fa morte dei vivi. Beato chi ama te e ha te per amico e nemici per te. Il solo che non perde chi gli è caro è quello al quale tutti sono cari, in Uno che non si perde. E questo chi è se non il nostro Dio, che fece il cielo e la terra e li riempie, e riempiendoli li crea. Nessuno perde te a meno che ti lasci, e dove va, dove fugge, se non dal tuo sorriso al tuo furore. Dovunque in fondo alla sua pena troverà la tua legge. E la tua legge è verità, e la verità sei tu.

10.15. Dio delle potenze, facci volgere a te e mostraci il tuo volto, e noi saremo salvi. Da qualunque parte si volti, è in un dolore che s'imbatte l'anima dell'uomo: dovunque tranne che in te, perfino se fissa lo sguardo su ciò che di bello esiste fuori di te e di se stessa. E nulla di bello esisterebbe se non venisse da te. Ciò che nasce e declina, nascendo quasi comincia a essere e cresce per giungere a compiutezza, e quando l'ha toccata invecchia e muore. Non tutto invecchia, ma ogni cosa muore. Perciò nel nascere, nella tensione a esistere, le cose più in fretta crescono all'essere e più si affrettano a non essere. Questa è la loro misura. Questa e non altra hai concesso alle cose, in quanto fanno parte di altre cose che non esistono tutte in una volta, ma cedono e succedono le une alle altre per formare l'universo, di cui tutte son parti. E così accade anche ai nostri discorsi, che si realizzano in suoni significanti. Un discorso non potrebbe esistere nella sua totalità se una parola, risuonata che sia nelle sue parti, non cedesse a un'altra che la segue. Canti pure le tue lodi per la bellezza delle cose l'anima mia, Dio creatore di tutto, ma non si attacchi a loro con la colla dell'amore, attraverso i sensi. Dove dovevano andare se ne vanno, verso l'inesistenza, e la straziano di nostalgie mortifere, perché lei vuole esistere e ama riposare fra le cose amate. Ma non c'è luogo a farlo: non consistono. Fuggono, e chi le segue! Coi sensi del corpo non si può, e neppure le si può afferrare, quand'anche sian vicine. È tarda la carne a percepire, perché è carne: è questa la sua misura. Basta per altre cose, quelle per cui è fatta: non basta a questo, a trattenere le cose che dal principio loro fissato trascorrono al loro fissato termine. Nella tua parola, in cui sono create, ascoltano il loro limite: "Di qui, fino a qui".


[Il paese della morte e la felicità]

11.16. Non essere vana anima mia, non assordare le orecchie del cuore col frastuono della tua vanità. Tu pure ascolta: la parola stessa ti chiama per farti tornare: là, al luogo della quiete imperturbabile, dove l'amore non è tradito se non è lui che tradisce. Vedi le cose: quelle se ne vanno per lasciare il posto ad altre e costituire nella sua totalità la parte inferiore dell'universo. "Me ne vado io?" domanda la parola di Dio. Stabiliscila lì la tua dimora, affida a lei quanto da lei ti viene, anima mia stanca di delusioni. Affida alla verità tutto quello che dalla verità ti viene, e non perderai nulla, e ciò che era appassito in te rifiorirà e saranno guarite le tue malinconie e il flusso del tuo vivere sarà ricostituito e rinnovato e si conterrà in te: e non precipiterà per deporti in fondo alla cascata ma resterà con te: durando immobile, rivolto al Dio che è sempre perdurante e immobile.

- 17. A che scopo ti stravolgi a seguir la tua carne? È lei che deve volgersi verso te e seguirti. Qualunque cosa lei ti faccia sentire, non è che parte: e ignori il tutto di cui è parte, e tuttavia ti dà piacere. Ma se la sensibilità della tua carne fosse fatta per afferrare il tutto e non fosse per tua pena giustamente stata confinata nei limiti di una parte dell'universo, tu vorresti che ciascuna delle cose esistenti e presenti passasse, per meglio apprezzarle tutte. Così è la stessa sensibilità che ti fa udire ciò che diciamo: ma non vuoi che le sillabe restino immobili, ma che volino via lasciando il posto ad altre e tu possa udire l'intera frase. E così è sempre per tutte le parti che costituiscono un intero e non hanno tutte un'esistenza simultanea: il tutto è più apprezzato delle singole parti, quando può essere percepito. Ma ancora meglio è chi tutto ha fatto, e questo è il nostro Dio che non dilegua, perché nulla gli succede.

12.18. Se sono i corpi a piacerti tu ringraziane Dio e raddrizza il tuo amore rivolgendolo al loro artefice: evita che nel tuo piacere sia tu a spiacere. Se a piacerti sono le anime, amale in Dio, perché anche loro sono mutevoli e in lui si fissano e son fatte stabili: altrimenti se ne andrebbero a morire. Tu dunque amale in lui e strappale con te verso di lui, più numerose che puoi e dì loro: "Lui, lui bisogna amare: Lui ha fatto tutto questo, e non è lontano. Non se ne è andato dopo averle fatte, ma vengono da lui e in lui sussistono. Dov'è la verità, dov'è il suo gusto? Nell'intimo del cuore: ma il cuore vaga lontano da lui. Tornate al vostro cuore voi che gli avete fatto violenza, e stringetevi a quello che vi ha fatti. State con lui e consisterete, riposate in lui e troverete pace. Dove andate, per faticose strade? Dove andate? Tutto il bene che amate è da lui: ma in quanto riconduce a lui è una carezza e un bene, e sarà invece giustamente amaro per chi ama qualunque cosa sia da lui, abbandonando, ingiustamente, lui. Che guadagnate a camminare ancora e sempre per vie ardue e penose? No, non c'è pace dove la cercate. Cercate pure quello che cercate: non è dove voi lo cercate. Cercate la felicità nel paese della morte: non è lì. E come può esserci vita felice dove non c'è neppure vita?

- 19. E discese quaggiù la vita vera a caricarsi della nostra morte e la uccise con la sovrabbondanza della sua vita e tuonò il suo richiamo: perché da qui ritornassimo a lui, a quel mistero da cui venne a noi, prima in quell'utero di vergine dove sposò la natura umana, carne mortale, perché non rimanesse per sempre mortale; e poi come sposo che esce dal talamo si avviò con un balzo da gigante a traversare di corsa la terra. E senza indugio corse gridando con parole e fatti e con la vita e la morte, la caduta e l'ascesa, gridando che tornassimo da lui. E scomparve alla vista, perché rientrassimo nel cuore a trovarlo. Se ne è andato, ed eccolo qui. Non volle restare a lungo con noi eppure non ci abbandonò. Se ne è andato in un luogo da cui mai si era allontanato, perché il mondo è stato fatto attraverso di lui, ed era in questo mondo, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. A lui si confessa quest'anima, e ne è guarita, perché ha peccato contro di lui. Figli dell'uomo, fino a quando questa oppressione del cuore? Come, la vita è discesa quaggiù, e voi non volete salire a viverla? Ma dove salirete, voi che siete già in alto e avete messo la bocca in cielo? Dovete scendere, per salire a Dio. Perché siete caduti dando la scalata al cielo suo malgrado. Tu di' queste parole anima mia, che piangano anche loro nella valle del pianto e rapiscili a Dio così, con te. Queste parole è lui che te le ispira, se le dici nel fuoco dell'amore.


[Ambizioni letterarie: il primo libro]

13.20. Tutto questo non lo sapevo allora, e amavo la bellezza delle cose inferiori e camminavo verso il vuoto. E agli amici dicevo: "Noi non amiamo che le cose belle. Ma che cos'è bello? E cos'è la bellezza? Cos'è che ci seduce e ci attrae, nelle cose che amiamo? Perché se non avessero qualche fascino e splendore non ci attirerebbero affatto." E avvertivo, anzi mi era evidente, che nei corpi stessi una cosa è per così dire l'insieme e cioè quel che è bello, un'altra la perfetta adattabilità ad altro, come una parte dell'organismo al suo complesso, o una scarpa al piede: vale a dire, la convenienza. E questa riflessione mi scaturì dall'intimo del cuore e allora scrissi sul tema Bellezza e convenienza: due o tre libri, credo. Tu lo sai, Dio: a me è uscito di mente. Noi non li abbiamo più: si sono smarriti, non so come.

14.21. Che cosa poi mi mosse, mio Signore e Dio, a dedicare quei libri a Gerio, un oratore di Roma? Neppure lo conoscevo di persona, ma mi piaceva l'uomo: per la sua chiara fama di erudito, e per certe parole sue che mi erano state riportate, e che apprezzavo. Ma soprattutto mi piaceva perché piaceva agli altri: suscitava ammirazione e lodi il fatto che da un siriano d'origine, già profondo conoscitore dell'eloquenza greca, fosse venuto fuori anche uno straordinario dicitore latino, e per di più estremamente addentro agli studi di filosofia. Si sente lodare qualcuno, e lo si ama senza averlo mai visto: capita. Forse questo amore passa dalla bocca di chi loda al cuore di chi gli presta orecchio? No certo. È solo un amore che ne accende un altro. Si ama chi ha successo quando si crede alla sincerità delle lodi: cioè quando la lode proviene già dall'amore.

- 22. Così appunto amavo gli uomini allora: in base al giudizio degli uomini, e non al tuo, Dio mio, che non è mai fallace. Non però come si loda un auriga famoso, o un cacciatore che sia oggetto delle passioni popolari: ma in modo molto diverso e più serio, come io pure avrei voluto esser lodato. Mentre non avrei voluto essere lodato e amato al modo degli attori, per quanto poi li amassi e li lodassi anch'io. Ma preferivo l'oscurità a una notorietà del genere, e piuttosto che farmi amare a quel modo avrei voluto farmi detestare. Dove si distribuiscono in una sola anima i diversi pesi di questi vari amori? Cos'è che amo in un altro, quando se non l'odiassi non lo rifiuterei con orrore per me stesso? Eppure siamo uomini entrambi. Voglio dire: per l'attore, che condivide la nostra natura, non è come per un buon cavallo, che uno può amare senza desiderare d'esserlo egli stesso, anche se fosse possibile. Dunque amo in un uomo ciò che mi farebbe orrore in me, come uomo? Profondo abisso è l'uomo stesso, al quale tu hai contato perfino i capelli, e non uno di essi lasci andar perduto: eppure è più facile contare i suoi capelli che i sentimenti e i moti del suo cuore.

- 23. Ma quel retore era del genere di persone che amavo nel senso che io stesso avrei voluto esser così: ero sviato dalla superbia, ero una banderuola a tutti i venti, eppure in segreto eri tu che mi guidavi. E come so, come faccio a confessartelo con certezza che lo amavo più per la devozione dei suoi ammiratori che per le cose che gliela procuravano? Se invece di lodarlo quelle stesse persone ne avessero parlato male, raccontando le stesse cose ma con disprezzo e biasimo, non mi sarei acceso d'entusiasmo per lui: e certo i suoi meriti non sarebbero stati minori né diverso l'uomo - sarebbe bastata la diversità dei sentimenti di chi ne parlava. Ecco qual è lo stato di un'anima vacillante, non ancora piantata sul solido della verità. A seconda di come soffia il fiato delle chiacchiere che fanno opinione si fa trasportare e rigirare, voltare e rivoltare, e le si annebbia la luce e non discerne la verità. Eppure ce l'ha davanti! Per me poi era un gran risultato che quell'uomo venisse a conoscenza della mia prosa e dei miei studi: se li avesse apprezzati, il mio entusiasmo sarebbe divampato anche più forte, e se invece li avesse giudicati negativamente ne sarebbe stato spezzato il cuore, vano e vuoto della tua forza. E intanto Bellezza e Convenienza di cui gli avevo scritto mi divertivo a rigirarmele nella mente e stavo lì incantato a rimasticarmele e ad ammirarle tutto da solo, in mancanza di uno che applaudisse.


[L'anima e la bellezza]

15.24. Ma come una cosa tanto grande fosse incardinata nell'arte che è tua, io ancora non lo vedevo, onnipotente unico autore delle meraviglie: e la mente percorreva le forme dei corpi, e bello io definivo ciò che ha in sé la sua grazia, conveniente ciò che la trova adattandosi ad altro, e questa distinzione argomentavo con esempi dal mondo dei corpi. E mi rivolsi alla natura del mentale, e la falsa opinione che avevo delle cose spirituali mi impediva di distinguere il vero. La verità mi balzava agli occhi con tutta la sua forza: ma distoglievo la mente palpitante dalla realtà incorporea per rivolgerla alle linee, ai colori, ai volumi, e non potendoli vedere nell'anima, ritenevo mi fosse impossibile vedere l'anima stessa. E siccome nella forza morale amavo la pace, nel vizio detestavo la discordia, osservando in quella l'unità, in questa invece una certa divisione, e in quell'unità mi parevano consistere la mente razionale e la natura della verità e del sommo bene, in quella divisione non so che sostanza della vita irragionevole e la natura del sommo male. Io, infelice, nutrivo l'opinione che quest'ultima fosse non solo sostanza, ma a tutti gli effetti vita e tuttavia non venuta da te, Dio mio, da cui viene tutto. E la prima io la chiamavo "monade", sorta di intelligenza asessuata, l'altra "diade", cioè violenza nei delitti contro la società e arbitrio negli atti contro la morale: e non sapevo quello che dicevo. Ancora non sapevo, non avevo imparato che il male non è una sostanza, né la nostra mente è il bene supremo e immutabile.

- 25. Sono delitti le azioni compiute sotto un impulso della psiche che è vizioso, e si scatena con una opaca violenza; e vizi le abitudini contratte quando è senza misura l'inclinazione al piacere fisico. In modo analogo gli errori e le false opinioni inquinano la vita quando la stessa mente razionale è viziosa. Qual era allora in me, che ignoravo che un'altra luce deve illuminarla perché sia partecipe della verità, non essendo di per se stessa sostanza della verità. Poiché alla mia lucerna darai luce tu, Signore: Dio mio, darai luce al mio buio. Tutti abbiamo attinto dalla tua pienezza. Perché sei tu la luce vera, che illumina ogni uomo venuto a questo mondo, tu che non sei soggetto a mutamento né all'ombra alterna dei giorni.

- 26. Eppure io tendevo a te e tu mi respingevi per farmi assaporare la morte, perché resisti ai superbi. Ma cosa era più superbo di quella strana pazzia che mi induceva ad asserire di essere io stesso per natura ciò che tu sei? Io ero soggetto a mutamento e questo mi era evidente già dal fatto che desideravo la sapienza, per passare da una condizione peggiore a una migliore: eppure preferivo credere mutevole anche te, piuttosto che riconoscere la mia diversità da te. Perciò mi respingevi e resistevi alla mia cocciutaggine piena di vento e io continuavo a immaginare forme di corpi e la mia carne accusava la carne, ero un soffio vagante e non sapevo ritornare a te, e girovagando mi perdevo fra cose che non esistono: né in te né in me né nel mondo fisico. Cose che non era la tua verità a creare, ma la mia vanità a inventare fantasticando sui corpi, e dicevo ai tuoi piccoli, a quei miei concittadini che credevano in te, senza neppur sapere di esiliarmi lontano da loro, dicevo con petulanza cretina: "Perché è soggetta all'errore l'anima, se l'ha fatta Dio?" E non tolleravo che mi si ribattesse: "Ma perché poi dovrebbe errare Dio?" E preferivo sostenere che la tua sostanza immutabile era costretta a errare piuttosto di ammettere che la mia, mutevole, spontaneamente avesse deviato e si fosse condannata a errare.

- 27. Avevo forse ventisei o ventisette anni quando scrissi quei libri, rimuginando le fantasticherie materialistiche che mi rintronavano le orecchie del cuore: eppure io le tendevo, dolce verità, verso la tua interiore melodia, riflettendo sul bello e il conveniente, in un profondo desiderio di fermarmi ad ascoltarti, a esultare di gioia per la voce dello sposo, e non potevo, perché le grida del mio errore mi trascinavano fuori e il peso del mio orgoglio mi precipitava in basso. Già: tu non davi gioia e letizia al mio orecchio, e non esultavano le mie ossa, che ancora non erano state umiliate.


[Le Categorie di Aristotele]

16.28. E a che mi serviva aver letto e capito da solo, a circa vent'anni, un'opera aristotelica che m'era capitata fra le mani, le cosiddette Dieci categorie? Un titolo di cui il retore mio maestro a Cartagine si riempiva boriosamente la bocca fino a farla scoppiare, come del resto facevano altri che passavano per dotti: al punto che io restavo a bocca aperta come di fronte a un che di grande e divino. Più tardi ne discussi con persone che dicevano di averle capite a fatica, con l'aiuto di maestri che non si limitavano a spiegarle a voce, ma le illustravano addirittura con schemi tracciati nella polvere. Ma costoro non furono in grado di dirmi nulla di più di quanto avevo appreso io stesso leggendolo semplicemente per conto mio: mi pareva che l'opera parlasse abbastanza chiaramente delle sostanze - come l'uomo, ad esempio, e delle loro proprietà: come l'aspetto, quale sia; la statura, di quanti piedi; la parentela, di chi sia fratello; o dove risieda o quando sia nato, se sia in piedi o seduto, se abbia calzature o armi indosso, o se faccia o subisca qualcosa. Insomma, di tutte le innumerevoli determinazioni che cadono sotto questi nove generi, di cui ho specificato qualche esempio, o sotto lo stesso genere della sostanza.

- 29. A che mi serviva? Se anzi addirittura mi ostacolava, visto che mi sforzavo di intendere perfino te, Dio mio, meravigliosamente semplice e immutabile, mediante quei dieci predicamenti, nella convinzione che essi comprendessero assolutamente tutto ciò che esiste, quasi fossi tu pure soggetto alla tua grandezza e bellezza, quasi queste fossero in te come in un soggetto, al modo in cui ineriscono ai corpi. E invece tu sei la tua grandezza e bellezza, mentre un corpo non è grande e bello per il semplice fatto d'essere un corpo: e se anche fosse meno grande e meno bello, resterebbe sempre un corpo. Era il falso quello che pensavo di te, non il vero, erano le invenzioni della mia infelicità, non le stellate fortezze della tua beatitudine. Tu l'avevi ordinato: e così accadeva in me, che la terra mi producesse spine e tribolazioni e con dura fatica mi guadagnassi il pane.


[Una formazione enciclopedica]

- 30. E a cosa mi serviva aver letto e capito da solo tutti i libri che potevo delle arti cosiddette liberali, servo senza misura come ero allora di desideri malvagi? E mi ci appassionavo, e ignoravo l'origine di quanto di vero e certo contenessero. Volgevo le spalle alla luce e il viso alle cose illuminate: così che il viso stesso che osservava le cose illuminate restava in ombra. Tutto quello che intesi - senza gran fatica e senza maestri umani - dell'arte dell'espressione e dell'argomentazione, delle proprietà geometriche delle figure e delle cose musicali e dei numeri tu lo sai, Signore Dio, perché anche un'intelligenza rapida e un acuto discernimento sono doni tuoi. Ma io non te li offrivo in sacrificio. E così non mi tornavano utili, ma piuttosto rovinosi: perché mi sforzai di tenere strettamente in mio possesso una parte così buona della mia sostanza, e non ti affidavo in custodia la mia forza, ma me ne andai da te in un paese lontano, per dissiparla e svenderla nei bordelli del desiderio. A che mi serviva una cosa buona se non ne facevo buon uso? Neppure mi rendevo conto delle grandi difficoltà di comprensione che quelle arti oppongono anche a chi studia e ha ingegno, se non quando tentavo di esporle a persone del genere: e se uno non risultava eccessivamente tardo nel seguirmi, era il più bravo di loro.

- 31. A che mi serviva tutto ciò quando credevo che tu, Signore e Dio-verità, fossi un corpo luminoso e immenso e io una briciola di quel corpo? Enorme stortura! Eppure ero così e non arrossisco, Dio mio, di confessarti i tuoi gesti di bontà nei miei confronti, e di invocarti, io che non arrossivo allora di professare in pubblico le mie idee blasfeme e di abbaiarti contro. A che mi serviva dunque tutta l'agilità mentale con cui mi muovevo per quelle dottrine? O i tanti libri intricatissimi e districati senza alcun ausilio di insegnamento umano, se poi erravo in modo vergognoso, mostruoso, sacrilego nei concetti della mia devozione? Li ostacolava poi tanto, i tuoi piccoli, una mente assai più tarda della mia? Anzi, impediva loro di allontanarsi di molto da te, in modo che potessero metter su le piume, sicuri nel nido della tua chiesa, mentre col nutrimento di una sana fede si facevano crescere le ali dell'amore. Signore nostro Dio, all'ombra delle tue ali si rifugi la nostra speranza, e tu proteggi e sorreggi noi. Tu lo farai, sorreggerai i tuoi piccoli, tu li sorreggerai finché saranno bianchi di capelli: perché la nostra fermezza sei tu: se è solo nostra, è fragilità. Il nostro bene vive eterno in te, ed è perché gli abbiamo rivolto la schiena che siamo stravolti. È tempo di tornare a volgere la faccia a te, Signore, per non essere travolti. Vive in te, indeperibile, il nostro bene: che sei tu stesso. E non abbiamo paura che non ci sia più luogo a ritornare, là da dove siamo precipitati: anche in nostra assenza non crolla la nostra casa, la tua eternità.


LIBRO QUINTO
[A ROMA E A MILANO]

1.1. Accetta in sacrificio queste confessioni che ti porge di sua propria mano la mia lingua, da te formata e risvegliata a celebrare il tuo nome, e guarisci tutte le mie ossa, che dicano: signore, chi è simile a te? Già, non è per informarti di quello che ci passa dentro che ci si confessa a te - un cuore chiuso non sfugge ai tuoi occhi e la durezza umana non basta a respingerti: e tu la sciogli quando vuoi, a forza di vendetta o di pietà, e non c'è riparo alcuno alla tua vampa. Ti renda lode per amarti, l'anima, e ti confessi i tuoi gesti di pietà per lodarti. L'universo non cessa di cantare le tue lodi: né gli spiriti tutti che levano verso di te la bocca, né gli animali né i semplici corpi, attraverso la bocca di chi li contempla. Così in te l'anima si risvegli dalla sua stanchezza, e delle tue creature si faccia un valico per passare a te, loro meraviglioso autore: e lì trovare il suo ristoro e la sua vera forza.

2.2. Vadano, fuggano via da te gli inquieti, iniqui. E tu li vedi e distingui le ombre, ed ecco: l'insieme delle cose, loro inclusi, è bello: eppure di per sé son brutti. E quale danno mai ti hanno arrecato? In cosa hanno potuto macchiare lo splendore del tuo impero, che dai cieli agli estremi del creato è intatto e giusto? E dove son fuggiti, quando sono fuggiti dal tuo volto? Dov'è che non li troveresti? Ma sono fuggiti per non vedere te che li vedevi e così accecati andare a schiantarsi contro di te - che non lasci una sola delle cose che hai creato. A schiantarsi contro di te, gli ingiusti: giusto supplizio, per gente che si sottrae alla tua mitezza per scontrarsi con il tuo rigore, fino a provare tutta la tua durezza. Non sanno, a quanto pare, che sei dappertutto e non circoscritto nello spazio, tu, il solo essere presente anche a chi si allontana da te. Tornino dunque a rivolgersi a te, a cercarti, perché se hanno abbandonato il loro autore, tu non l'hai abbandonata, la creatura. Che siano loro a rivolgersi a te: e lì nel loro cuore ti ritroveranno, nel cuore di chi ti riconosce e si abbandona a te e piange in braccio a te, stanco delle sue vie difficili. E facilmente asciugherai le loro lacrime, e piangeranno ancora ma di gioia: perché tu, Signore, non un uomo, che è sempre carne e sangue, ma tu, Signore che li hai creati, li ricrei e li consoli. E io dov'ero quando ti cercavo? E tu eri davanti a me, io invece ero fuggito anche da me stesso e non mi ritrovavo: e ancora meno ritrovavo te.


[I manichei e il sapere profano]

3.3. E parlerò al cospetto del mio Dio di quell'anno, il mio ventinovesimo. Era arrivato a Cartagine un vescovo manicheo di nome Fausto, gran laccio del demonio: molti vi incappavano, attratti dalla soavità del suo eloquio. E anch'io la ammiravo, distinguendola però dalla verità sostanziale, che ero avido di apprendere: perciò non badavo al recipiente del suo ragionamento ma al contenuto di conoscenza che quel Fausto, di cui parlavano tanto i suoi seguaci, aveva da offrire alla mia fame. La sua fama lo annunciava come uomo assai esperto negli studi letterari e dottissimo nelle discipline liberali. E poiché avevo letto molte pagine dei filosofi e le avevo imparate a memoria, ne confrontavo qualcuna con le lunghe favole dei manichei, e mi pareva più plausibile, il pensiero di quelli che furono capaci di calcolare il corso del mondo, anche se non di trovare il suo Signore. Perché sei grande, Signore, e posi lo sguardo sulle cose vicine alla terra, e quelle eccelse le osservi da lontano, e non ti avvicini che a un cuore avvilito e dai superbi non ti fai trovare, neppure se la loro avida scienza sa contare le stelle e i grani della sabbia e misurar gli spazi siderali e investigare le strade degli astri.

- 4. In questa ricerca investono tutta l'intelligenza e l'ingegno che tu hai dato loro, e hanno fatto molte scoperte e predizioni in anticipo di molti anni, ad esempio sulle eclissi del sole e della luna: il giorno e l'ora e la misura in cui sarebbero avvenute, e i loro calcoli erano esatti. È accaduto proprio come avevano predetto: misero per iscritto le regolarità scoperte e oggi si possono leggere in queste loro predizioni l'anno e il mese dell'anno e il giorno del mese e l'ora del giorno e la misura in cui si eclisserà il disco luminoso del sole o della luna: e avverrà tutto come è già predetto. E gli uomini ne restano ammirati, e i profani ne sono stupefatti, mentre gli esperti esultano e si esaltano, e il loro orgoglio dissacrante li toglie alla tua luce e li eclissa: ma prevedono con tanto anticipo l'eclissi di sole e il loro presente non lo vedono - perché non indagano con mente religiosa l'origine dell'intelligenza indagatrice - o se scoprono che sei tu il loro autore non si danno a te perché li conservi come tu li hai fatti, e ciò che loro han fatto di se stessi non lo annientano per te e non abbattono come uccelli in volo i loro entusiasmi e le loro avide curiosità, questi pesci del mare che vagano per i segreti sentieri del profondo, e neppure ammazzano le loro lussurie, bestiame da pascolo, perché tu, fuoco che divora, Dio, consumi in loro la morte e l'angoscia e li ricrei, immortali.

- 5. Ma non conoscono la via, la tua Parola, per mezzo della quale hai fatto le cose che essi calcolano, e loro stessi che calcolano: e la tua sapienza è incalcolabile. L'unigenito stesso s'è fatto per noi sapienza e giustizia e santificazione, fu annoverato fra noi e pagò il tributo a Cesare. Non conoscono questa via per cui discendere da sé a lui, e a lui attraverso di lui risalire. Non conoscono questa via e si credono alti e scintillanti come le stelle, e invece son precipitati in terra, e il buio è sceso loro sul cuore insipiente. E dicono molte cose vere sul creato eppure non hanno abbastanza pietà per cercare la verità stessa, che del creato è artefice: e perciò non la trovano, o se la trovano conoscono Dio ma non gli rendono onore e grazie come a Dio, e si svaniscono nei loro pensieri e si proclamano sapienti, attribuendo a se stessi ciò che è tuo e la loro cecità li stravolge al punto che si sforzano anche di attribuire prerogative loro a te: ad esempio conferiscono una natura capace di menzogna a te, che sei la verità, trasformando la gloria di Dio incorruttibile nell'immagine dell'uomo corruttibile e degli uccelli e dei quadrupedi e dei serpenti, e convertono la tua verità in menzogna e adorano e servono la creatura invece del creatore.

- 6. Tuttavia molte cose vere appresi da loro, ricavate dal creato stesso: e me ne rendevo razionalmente conto attraverso i calcoli e l'ordine delle stagioni e la testimonianza visibile delle stelle, e confrontavo tutto questo con le proposizioni di Mani, che scrisse di questi argomenti con delirante abbondanza. E non vi trovavo alcuna spiegazione razionale né dei solstizi e degli equinozi né delle eclissi dei corpi celesti né alcunché di simile a quello che avevo appreso nei libri della sapienza profana. E tuttavia mi si imponeva di credervi, anche se non trovava alcun riscontro nei calcoli e nei dati della vista, da cui divergeva ampiamente.

4.7. Signore Dio di verità, basta sapere questo genere di cose per piacerti? Veramente infelice è l'uomo che sa tutto questo e non conosce te: beato chi ti conosce invece, anche se ignora quelle verità. Chi poi conosce sia te sia quelle non è per questo più felice, ma per te solo è felice, se oltre a conoscerti ti rende gloria e grazie per quello che sei e non si svaga via nei suoi pensieri. Chi sa di possedere un albero e ti rende grazie dell'usufrutto che ne ha, anche se ignora quanti cubiti misura in altezza o quale è l'ampiezza della sua chioma, è migliore di chi lo misura e conta tutti i suoi rami ma non lo possiede, e neppure conosce e ama il suo autore. Così l'uomo di fede, che ha per sé tutte le ricchezze del mondo, e senza nulla avere tutto possiede nell'unione con te, che hai tutte le cose al tuo servizio: anche se ignora perfino il giro dell'Orsa maggiore, è da sciocchi dubitare che sia in assoluto migliore di chi sa misurare il cielo e contare le stelle e pesare gli elementi, e non si cura di te, che di ogni cosa hai stabilito misura, numero e peso.


[La presunzione di Mani]

5.8. Eppure chi lo chiedeva a un Mani qualunque di mettersi a scrivere di questi argomenti, la competenza nei quali non è necessaria ad apprendere la pietà? Tu hai detto all'uomo: temere Dio: è questa la sapienza. Dunque poteva anche non saper nulla di questa, anche se avesse posseduto perfettamente quella competenza: ma siccome per giunta non l'aveva, dato che il suo insegnamento era il colmo dell'impudenza, a maggior ragione non poteva conoscere la sapienza. È vanità far professione di questa conoscenza mondana, anche quando la si possiede: pietà è farne confessione come di cosa tua. Dunque egli ne ha parlato molto e a sproposito affinché, una volta confutato dai veri esperti di queste materie, risultasse ben chiaro quale poteva essere la sua penetrazione in argomenti ancor meno accessibili. Non intese infatti aver piccola stima di sé, dato che tentò di far credere che lo Spirito Santo, il consolatore e il tesoro di chi ha fede in te, risiedeva in lui stesso con autorità plenaria. Così quando si scopriva che aveva detto il falso a proposito del cielo e delle stelle, e del moto del sole e della luna, quantunque questi non siano argomenti pertinenti all'insegnamento religioso, emergeva con molta evidenza che la sua temerarietà era stata sacrilega. Non solo spacciava per verità la propria ignoranza, ma anche proposizioni positivamente false, e il delirio della sua superbia era tale che si ingegnava di contrabbandarle in base all'autorità divina della propria persona.

- 9. Quando sento che l'uno o l'altro dei miei fratelli cristiani non conosce questa materia e piglia lucciole per lanterne, io guardo con una certa pazienza alle sue convinzioni, e non vedo che gli possa nuocere l'ignoranza della posizione o del comportamento di qualche corpo nel creato, purché non abbia su di te, creatore di ogni cosa, opinioni sconvenienti. Gli nuocerebbe invece se pensasse che questo tipo di conoscenze debba essere di specifica pertinenza dell'insegnamento religioso, e si ostinasse a fare affermazioni temerarie su ciò che non conosce. Ma anche questa debolezza è protetta nella culla della fede dall'amore materno, finché si levi l'uomo nuovo nella sua compiutezza virile e non si lasci più trascinare da ogni vento di dottrina. Ma pensa a quell'uomo che come maestro e autorità, guida e principe di tutti i discepoli che aveva persuaso ebbe addirittura l'audacia di far credere ai suoi seguaci che non correvano dietro a un uomo qualunque, ma al tuo Spirito Santo! Una tale follia, una volta dimostrato che faceva asserzioni false, chi non l'avrebbe giudicata odiosa e assolutamente inaccettabile? E tuttavia io non riuscivo ancora a rendermi chiaramente conto se fosse o no possibile spiegare nei suoi termini l'alternarsi di giorni e notti di diversa lunghezza, o di giorno e notte semplicemente, e gli svanimenti dei corpi celesti, e quant'altro del genere avevo letto in altri libri. Perché se per caso era possibile sarei rimasto in dubbio su come stavano veramente le cose, ma in quel caso avrei creduto a lui, e preferito la sua autorità per la fama di santo che lo circondava.


[L'incontro con Fausto, vescovo manicheo]

6.10. E per tutti i nove anni di vagabondaggio mentale durante i quali prestai loro ascolto, aspettavo e desideravo con un'incredibile tensione che venisse finalmente questo Fausto. Se per caso mi imbattevo in qualcuno di loro e non sapeva rispondere alle mie obiezioni su quegli argomenti - e non ce n'era uno che fosse in grado di farlo - invariabilmente mi rinviavano a un colloquio diretto con lui: bastava che lui arrivasse, mi assicuravano, e in men che non si dica avrebbe sbrogliato perfettamente le mie perplessità, e altre anche più gravi, se ne avevo. Venne finalmente, e mi trovai di fronte un uomo gradevole, conversatore affascinante, che gorgheggiava sui soliti temi dei loro discorsi, ma con molta più grazia. Ma che cosa se ne faceva la mia sete di un garbatissimo servitore, con tutte le sue coppe preziose? Avevo già le orecchie sazie di roba del genere, e non mi sembrava migliore solo perché detta meglio, o più vera perché meglio ornata. E neppure mi pareva sapiente il suo cuore solo perché la sua espressione era composta ed elegante il suo eloquio. Quelli poi che me lo vantavano non erano buoni estimatori, e il piacere che provavano ad ascoltarlo bastava a farglielo sembrare saggio e sapiente. Ho conosciuto del resto un altro genere di persone, pronte a diffidare perfino della verità e non disposte a consentire se gliela si presentava con parole ornate e ricchezza d'eloquio. Quanto a me, la mia lezione già l'avevo ricevuta dal mio Dio per vie strane e segrete - e credo che sia stato tu a insegnarmelo perché è vero, e non c'è al di fuori di te alcun maestro di verità. Avevo già appreso da te, dunque, che se non si deve credere vera una cosa perché è detta con eloquenza, neppure bisogna ritenerla falsa perché suona male all'orecchio; e neppure vera, però, soltanto perché è detta senz'arte, o falsa perché il discorso è brillante. Ma sapienza e idiozia sono esattamente come i cibi nutrienti e quelli nocivi: possono esser servite con parole eleganti o disadorne né più né meno che entrambe le sorte di cibo in recipienti raffinati o rustici.

- 11. L'ansia dunque con la quale per tanto tempo avevo atteso quell'uomo era in qualche modo piacevolmente placata dalla vivacità e dalla passione che egli metteva nelle discussioni, e dall'eleganza e facilità con cui rivestiva di parole i suoi pensieri. Sì, ne ero compiaciuto, ed ero come gli altri e più degli altri prodigo di lodi e ammirazione; però mi seccava che la folla degli uditori non mi consentisse di farlo partecipe dei problemi che mi stavano a cuore, in una conversazione privata in cui potessi dialogare con lui, punto per punto. Quando poi questo fu possibile e cominciai - insieme coi miei amici - ad assediare le sue orecchie, in un momento in cui non era disdicevole una conversazione a botta e risposta, e gli proposi i dubbi che mi inquietavano, mi trovai per la prima volta di fronte a un uomo che nelle arti liberali era un profano, eccetto per la grammatica, dove comunque le sue conoscenze non uscivano dall'ordinario. Aveva letto alcune orazioni ciceroniane e pochissimi libri di Seneca e qualche poeta, e forse qualcosa dei suoi correligionari, il poco che c'era di scritto in buon latino: il resto era quotidiano esercizio di oratore. Erano queste le fonti da cui attingeva tutta la sua eloquenza, che il suo ingegno e una certa innata grazia rendevano più gradevole e seducente. Non è così come ricordo mio Signore e Dio, arbitro della mia coscienza? Cuore e ricordo stanno davanti a te, che allora mi muovevi nel segreto misterioso della tua provvidenza, e già rivoltavi sotto i miei occhi la vergogna dei miei errori, perché potessi vederla, e odiarla.

7.12. Quando mi fu ben chiaro che quell'uomo era inesperto in quelle discipline in cui l'avevo creduto eccellente, presi a disperare che egli fosse in grado di chiarire e dissolvere i problemi che mi agitavano. È vero, avrebbe potuto, pur nella sua ignoranza, possedere la verità religiosa: ma solo se non fosse stato manicheo. I loro libri sono pieni di favole lunghissime sul cielo e le stelle e il sole e la luna. Ora, che egli fosse sottile abbastanza da spiegarmi - secondo il mio profondo desiderio - se, dati i risultati dei calcoli che avevo letto altrove, le cose stessero veramente come nei libri di Mani, o almeno si potessero con pari evidenza descrivere in quei termini: no, questo ormai non lo speravo più. Ma quando sottoposi questi dubbi alla sua attenzione, per discuterli con lui, con vera modestia ricusò un carico così pesante e rischioso. Sapeva infatti di non conoscere quegli argomenti, e non si vergognò a confessarlo. Non era della razza di quei chiacchieroni che avevo dovuto sopportare, e che tentavano di farmi lezione e non dicevano nulla. Questo se non altro aveva un cuore, se non retto verso di te, almeno non troppo incauto verso se stesso. Non era a tal punto ignaro della sua ignoranza da volersi arrischiare con una discussione in una situazione da cui non c'era per lui né via d'uscita né facile ritorno. E per questo mi piacque anche di più. Infatti la modestia di una mente che ammette i suoi limiti è più bella della conoscenza che io desideravo. E quell'uomo lo trovavo tale in tutte le questioni un po' difficili e sottili.


[Delusione e crisi]

- 13. E così si infranse la passione di cui avevo investito le dottrine di Mani: e ancor meno speranza riponevo negli altri loro maestri, quando il più famoso di loro aveva fatto una figura del genere sulle molte questioni che mi agitavano. Cominciai a frequentarlo in grazia della passione ardente che egli nutriva per quegli studi letterari che erano allora materia del mio insegnamento di retorica a Cartagine, e a leggere con lui le cose che si struggeva di conoscere, per averne sentito parlare, o quelle che io stesso stimavo congeniali a un talento come il suo. Per il resto ogni mio tentativo di salire di grado, come mi ero proposto, in quella setta, fu completamente stroncato dall'incontro con quell'uomo: non che per questo io tagliassi completamente i ponti con loro, ma, non trovando di meglio, avevo deciso di accontentarmi per ora della situazione in cui m'ero bene o male cacciato, finché non si chiarisse che cosa era meglio fare. Così quel Fausto, che per molti era stato un cappio mortale, aveva già cominciato senza saperlo né volerlo a sciogliere quello in cui ero preso io. Perché le tue mani, Dio mio, nel segreto della tua provvidenza non abbandonavano quest'anima, e giorno e notte mia madre ti offriva di cuore in sacrificio lacrime e sangue per me: e tu hai agito su di me per vie mirabili. Sì, eri tu ad agire, Dio mio. Perché il signore dirige i passi dell'uomo, e sceglie la sua strada. Che altra salvezza c'è se non è la tua mano a ricreare quello che tu hai creato?

8.14. Agisti dunque su di me fino a farmi maturare la decisione di partire alla volta di Roma, per insegnare là invece che a Cartagine la mia disciplina. Come poi venni a questa convinzione io non te lo voglio tacere, dato che anche in questi fatti bisogna riconoscere e celebrare le tue profondità segrete e la tua attenzione costante e tenerissima per noi. Non volevo andare a Roma per le prospettive di maggiori guadagni e maggior prestigio con cui gli amici volevano allettarmi - benché anche queste cose allora avessero peso sulle mie decisioni. Ma la ragione prima e forse unica era la fama che gli studenti di là avevano d'essere più tranquilli, e disciplinati da un ordinamento più rigoroso: e non avevano l'abitudine di irrompere alla spicciolata e alla rinfusa in una scuola se non erano allievi di quel maestro, anzi non vi erano affatto ammessi senza il suo permesso. A Cartagine invece l'indisciplina degli studenti è vergognosa e sfrenata: hanno l'impudenza di cacciarsi dove vogliono, sono come furie che turbano l'ordine istituito per il profitto degli allievi. Commettono ogni sorta di insolenze di una scempiaggine incredibile, che le leggi dovrebbero punire, se l'usanza non li proteggesse. E si rivelano tanto più miserabili, in quanto agiscono come se ciò che fanno fosse lecito, mentre per la tua legge non lo sarà mai; e credono di passare impuniti quando è la stessa cecità del loro agire la pena, e soffrono cose incomparabilmente peggiori di quelle che fanno. E io che da studente m'ero sempre rifiutato di indulgere a quegli usi, adesso da professore ero costretto a sopportarli da parte altrui: per questo aspiravo ad andarmene dove questo, stando a chi ne era informato, non sarebbe accaduto. Ma eri tu, speranza e parte mia sulla terra dei vivi, che mi spingevi per la mia salvezza a cambiare il mio luogo in terra: e a Cartagine mi pungolavi a strapparmi di lì, mentre a Roma mi allettavi a forza di lusinghe: e tutto servendoti di uomini attaccati a questo vivere già morto, che qui imperversavano nella loro demenza, là prodigavano vacue promesse, e per correggere i miei passi sfruttavi segretamente la perversità: la mia e la loro. Perché se quelli che turbavano la mia pace contemplativa erano ciechi come cani rabbiosi e quelli che mi invitavano a un'altra vita assaporavano il gusto della terra, io a mia volta odiavo un'infelicità reale per agognare a una felicità fasulla.


[Fuga a Roma]

- 15. Ma la vera ragione di questo mutamento di luogo tu la sapevi, Dio, e non la palesavi né a me né a mia madre, che pianse disperatamente la mia partenza e mi seguì fino al mare. Dovetti ingannarla, perché cercava di trattenermi con la forza e costringermi o a rinunciare o a prenderla con me: e finsi di voler solo andare a tener compagnia a un amico che stava per partire, in attesa che si levasse il vento. Ho mentito a mia madre, a quella madre: e sono fuggito. Sì, e anche questo tu mi hai condonato se la tua indulgenza poi mi salvò dalle acque del mare, pieno di sozzure com'ero, per preservarmi all'acqua della tua grazia: quando scorrendo su di me fece asciugare i fiumi di lacrime di cui mia madre ogni giorno ti irrigava il suolo ai suoi piedi. Eppure, poiché si rifiutava di tornare a casa senza di me, io la convinsi a fatica a passare la notte in un luogo vicino alla nostra nave, una cappella dedicata al beato Cipriano. Ma quella notte io partii clandestinamente e lei rimase a piangere e a pregare. E cosa ti chiedeva, Dio mio, fra tante lacrime, se non che tu mi impedissi di prendere il mare? Ma nella profondità del tuo pensiero tu esaudisti la sostanza del suo desiderio, senza curarti della preghiera del momento, per far di me quello che lei ti aveva sempre chiesto. Il vento si levò e ci gonfiò le vele, e il lido scompariva ai nostri occhi, quel mattino, quando lei pazza di dolore ti tempestava le orecchie di lamenti e gemiti. Tu nella tua sprezzante indifferenza intanto mi strappavi alle mie passioni per stroncarle, e lasciare che un giusto staffile di dolore punisse quel suo carnale struggimento. Amava avermi con sé, come tutte le madri, ma molto più della gran maggioranza di loro; e non sapeva quali gioie tu le avresti fatto nascere dalla mia assenza. Non lo sapeva e perciò si scioglieva in gemiti e singhiozzi, e questo tormento rivelava in lei l'eredità di Eva, che cercava fra i lamenti quello che fra i lamenti aveva partorito. E però dopo aver maledetto la mia slealtà e crudeltà ricominciò a supplicarti per me: lei se ne andava di nuovo alla sua solita vita, io a Roma.

9.16. E là mi piomba addosso la mazzata di una malattia che per poco non mi trascina all'inferno con tutto il male che avevo commesso contro di te e di me e contro gli altri, tanto e grave, oltre alla catena del peccato originale, per cui tutti moriamo in Adamo. Non una sola di queste colpe ancora mi avevi condonato nel Cristo, che ancora non aveva sciolto sulla sua croce le inimicizie nei tuoi confronti, i miei peccati. E come poteva scioglierle sulla croce con le fantasticherie che mi facevo sul suo conto? Quanto credevo falsa la sua morte carnale, tanto era vera la mia spirituale, e quanto era vera la morte della sua carne, tanto era falsa la vita di quest'anima incredula. E la febbre cresceva, e già me ne andavo. In rovina, certo: se quella fosse stata la mia ora, dove sarei andato se non al fuoco di tormenti degni delle mie azioni, nella verità del tuo ordine. E lei non lo sapeva e pregava lontano per me. Ma tu, ovunque presente, laggiù l'esaudivi e lì dov'ero io t'impietosivi di me: tanto che recuperai la salute del corpo quand'ero ancora malato nel cuore sacrilego. Perché anche in un pericolo così grande io non volevo il tuo battesimo: ero stato migliore da bambino, quando lo avevo affannosamente richiesto alla devozione di mia madre, come ho già ricordato in questa confessione. Ma ero cresciuto a mia vergogna ed ero pazzo al punto di ridere delle ricette della tua medicina: e tu non hai permesso che morissi due volte in quello stato. Da una ferita così il cuore di mia madre non sarebbe più guarito. Non mi basta il linguaggio a dire che cosa provava per me e come fu più grande la sua angoscia nel farmi nascere allo spirito di quella che aveva provato nel partorirmi.

- 17. No, non vedo come sarebbe guarita, se la mia morte, una morte così, avesse trafitto le viscere del suo affetto. E che ne sarebbe stato di tante preghiere, e tanto ardenti, che recitava senza interruzione? Sarebbero tornate a te. Ma tu, Dio delle misericordie potevi diprezzare il cuore avvilito e umiliato di una vedova casta e sobria, assidua nelle elemosine, piena di devozione e rispetto per i tuoi santi, che non lasciava passare giorno senza portare un'offerta al tuo altare, che due volte al giorno, mattino e sera, veniva senza fallo alla tua chiesa, e non per amor di chiacchiere e tiritere da vecchie donnette ma per ascoltare le tue parole e farti ascoltare le sue preghiere? Le sue lacrime, che non versava per chiederti oro e argento né qualche bene mutevole e caduco, ma la salvezza dell'anima di suo figlio, tu che l'avevi fatta tale col tuo dono, potevi disprezzarle, e negarle il tuo aiuto? No mio Signore, non era possibile. Tu eri con lei e le prestavi ascolto e agivi secondo l'ordine predestinato del tuo agire. È inconcepibile che tu abbia potuto ingannarla in quelle visioni e in quei responsi che le inviasti, quelli che ho già ricordato e quelli che non ho ricordato, e che lei serbava nel suo petto fedele e ti ripresentava ogni volta nelle sue suppliche, quasi impegni firmati di tua mano. Perché eterna è la tua fedeltà, e ti degni di farti debitore degli uomini, dopo aver condonato tutti i loro debiti.


[Lento distacco dai manichei]

10.18. Tu dunque mi rendesti la vita e la salute, salvando il figlio della tua ancella: solo fisicamente per allora, per avere poi l'uomo a cui donare una salute migliore e più certa. Anche allora, a Roma, mantenevo contatti con quei falsi santi, quei falsari: non soltanto con i loro uditori, fra i quali si contava anche la persona che mi aveva ospitato durante la malattia e la convalescenza; ma anche con i cosiddetti eletti. Ero infatti ancora dell'opinione che non fossimo noi a peccare, ma fosse una qualche altra natura a farlo, in noi: e piaceva al mio orgoglio, sentirmi estraneo alla colpa, e se facevo del male, non ammettere di averne fatto - perché tu salvassi quest'anima, colpevole verso di te - ma preferivo scusarla per accusare non so che altra entità che sarebbe stata in me senza esser me. E invece io ero un unico tutto, era la mia empietà a scindermi in due, mettendomi contro me stesso. Ed era il peccato più inguaribile, quello di non considerarmi in colpa: com'era condannabile perversione preferire che tu, Dio onnipotente, fossi sconfitto a mia rovina in me piuttosto che lo fossi io da te, e per la mia salvezza. Ancora non mi avevi posto una guardia alla bocca, e la porta della continenza attorno alle mie labbra, perché il mio cuore non indulgesse alle parole inique, a offrire scuse per giustificare i peccati, con gli uomini che fanno il male: e perciò ancora frequentavo i loro eletti. E tuttavia disperavo ormai di fare qualche progresso in quella falsa dottrina, e anche quei principi dei quali avevo deciso di ritenermi pago finché non avessi trovato di meglio, li conservavo in modo sempre più fiacco e distratto.


[La fase scettica]

- 19. In realtà mi si era insinuata in mente anche l'idea che più saggi degli altri fossero quei filosofi detti accademici, i quali avevano sostenuto che si dovesse dubitare di tutto ed erano giunti alla conclusione che l'uomo non potesse afferrare alcunché di vero. Allora credevo anch'io che fosse semplicemente questa la loro tesi, com'è opinione comune, perché neanch'io avevo compreso la loro vera intenzione. E non mi peritai di scoraggiare l'eccessiva fiducia che il mio ospite, come mi avvidi, prestava alle cose favolose di cui sono pieni i libri manichei. Tuttavia ero in rapporti di amicizia più con i loro iniziati che con altre persone, estranee a quell'eresia. E non la difendevo più con l'animosità di un tempo, ma la loro familiarità - perché Roma ne nasconde molti - mi rendeva meno intraprendente nella ricerca d'altre cose, visto che allora disperavo che nella tua Chiesa, Signore del cielo e della terra, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, potesse trovarsi la verità: quest'avversione me l'avevano inculcata loro, e mi sembrava molto indecoroso credere che tu avessi una figura di carne umana e fossi circoscritto nei lineamenti materiali del nostro corpo. E siccome, volendo farmi un'idea del mio Dio, non riuscivo a pensare se non a masse corporee - né d'altra parte credevo esistesse qualcosa di diverso - era questa la maggiore e forse la sola causa del mio inevitabile errore.

- 20. Perciò credevo che tale fosse anche la sostanza del male, e avesse una sua massa tetra e informe, qui densa - quella che chiamano terra - là tenue e sottile, come è il corpo dell'aria, che loro immaginano come spirito maligno strisciante sopra la terra. E poiché la pietà mi costringeva a credere che un Dio buono non poteva aver creato alcun genere di male sostanziale, mi costruivo due masse contrarie, due infinità, ma più limitata quella del male, più pervasiva quella del bene, e da questo principio maligno conseguivano le altre mie convinzioni sacrileghe. Se la mente si sforzava di ritornare alla fede cattolica se ne sentiva respinta, perché la fede cattolica non era quella che credevo io. Mi pareva vi fosse maggior senso del divino, Dio mio, che ora ricevi il grazie delle tue indulgenze per me, nel crederti infinito in tutte le dimensioni eccetto quella in cui ti si opponeva la massa del male, piuttosto che ritenerti limitato tutt'intorno dalla figura del corpo umano. E meglio mi pareva credere che tu non avessi creato nessun male - che alla mia ignoranza appariva non solo come una sostanza, ma addirittura di natura materiale, dato che perfino la mente non sapevo pensarla se non come un corpo sottile, diffuso tuttavia per lo spazio - piuttosto che credere derivata da te la natura del male, quale la immaginavo. Perfino il nostro salvatore, tuo unigenito, lo consideravo come emanato dalla tua luminosissima massa per la nostra salvezza: al punto che non credevo di lui che quanto la mia vanità riusciva a immaginare. Ritenevo tale la sua natura che non avrebbe potuto nascere dalla vergine Maria, se non andandosi a compromettere con la carne. Ma compromettervisi senza restarne contaminato non vedevo come si potesse, perché me lo figuravo come ho detto. Avevo ritegno a crederlo nato nella carne, per non esser costretto a crederlo contaminato dalla carne. Ora gli uomini del tuo spirito rideranno di me con tenera indulgenza, se leggeranno queste mie confessioni: ma io ero proprio così.

11.21. Inoltre non ritenevo difendibili i luoghi delle tue Scritture che erano oggetto delle loro critiche. Ma a volte provavo il desiderio di sottoporre certi passi a qualche espertissimo conoscitore di quei libri, e conoscere la sua opinione in proposito. Già a Cartagine mi avevano fatto una certa impressione i discorsi di un tale Elpidio che teneva in pubblico conferenze e discorsi contro gli stessi manichei: egli allegava passi dalle Scritture da cui non era facile difendersi. E la risposta di costoro m'era parsa debole: tanto più che essi non la proponevano apertamente e in pubblico, ma soltanto a noi iniziati, sostenendo che i testi del Nuovo Testamento erano stati falsificati non si sa bene da chi, con l'intenzione di innestare la fede cristiana sul tronco della legge ebraica; peraltro non erano in grado di esibire di quei testi almeno un esemplare senza manomissioni. Ma io ero talmente impedito, schiacciato e come soffocato dalle masse materiali che mi occupavano il pensiero che ansavo sotto il loro peso senza riuscire a respirare l'aria limpida e pura della tua verità.


[L'ambiente studentesco romano]

12.22. Con impegno dunque cominciai a svolgere l'attività per cui ero venuto a Roma, cioè a insegnare retorica: e in un primo tempo raccoglievo a casa un certo numero di persone, alle quali e grazie alle quali cominciavo a farmi conoscere. A questo punto vengo a sapere che a Roma succedono cose che non avevo dovuto subire in Africa. Mi confermarono, sì, che qui non c'erano quei dannati ragazzi sempre pronti a creare disordini. "Ma all'improvviso ti capita," mi dicevano, "che un bel po' di ragazzi si mettono d'accordo per non pagare il compenso al maestro, e ti piantano in asso passando a un altro: gente che tradisce la tua buona fede e che per amor del denaro non fa gran conto della giustizia". Il mio cuore provò dell'odio per questa gente, benché non un odio perfetto: perché li odiavo probabilmente più per il torto che avrei dovuto subire io da parte loro che per gli illeciti di cui si rendevano colpevoli verso il prossimo in generale. Certo però che sono brutte persone queste che se ne vanno via da te a prostituirsi dietro ai loro amori sfarfallanti, di cui riderà il tempo, e al loro fangoso guadagno che ad afferrarlo insudicia la mano, tentando d'abbracciare il mondo che fugge e disprezzando te che resti e chiami e la perdoni, questa donna di strada, l'anima umana che ritorna a te. Anche ora la odio questa gente torta e ignobile, benché mi stia a cuore correggerla e indurla a preferire al denaro la disciplina che impara, e a questa te, Dio, verità feconda di un bene certo e castissima pace. Ma allora mi stava più a cuore al mio amor proprio sfuggire alle angherie di quella mala specie d'uomini, che renderla buona per amor tuo.


[A Milano: l'incontro con Ambrogio]

13.23. E così quando da Milano giunse a Roma, al prefetto dell'urbe, il mandato per la nomina di un maestro di retorica da assegnare a quella città, addirittura col viaggio compreso, a spese pubbliche, io mi diedi personalmente da fare proprio servendomi di quei vacui esaltati dei manichei - e il bello è che me ne andavo per liberarmi di loro, ma né io né loro lo sapevamo - perché il prefetto allora in carica, Simmaco, una volta superata la consueta prova di tecnica oratoria, nominasse me. E arrivai a Milano dal vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, tuo devoto cultore, la cui eloquenza dispensava allora con vigore al tuo popolo il fiore del tuo frumento e la gioia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino. A lui eri tu a guidarmi, inconsapevole, perché da lui fossi consapevolmente guidato a te. Mi accolse paternamente, quell'uomo di Dio, e quel mio pellegrinaggio gli fu gradito come si conviene a un vescovo. E io presi dapprima ad amarlo non come maestro di una verità che disperavo di trovare nella tua Chiesa, ma come un uomo che aveva per me dell'affetto. E con interesse lo ascoltavo parlare al popolo, non con l'atteggiamento che avrei dovuto avere, ma come per vedere se la sua eloquenza fosse all'altezza della sua fama, e scorresse più o meno abbondante di come si diceva: pendevo dalle sue labbra con tutta l'attenzione rivolta alle parole che usava, ma senza curarmi del contenuto, che anzi disdegnavo, mentre restavo lì incantato, preso nella fascinazione del suo eloquio: più dotto, benché meno spiritoso e seducente di quello di Fausto, quanto al modo di porgere. Ma quanto al contenuto non c'era confronto: l'uno si perdeva per le inconseguenze manichee, l'altro insegnava la salvezza, nel modo più salutare. Ma la salvezza è lontana dai peccatori come ero io che pure ascoltavo, allora. E tuttavia, senza saperlo, sensibilmente mi ci avvicinavo.

14.24. È vero, non ponevo mente, nell'ascoltare, a ciò che diceva, ma al modo in cui lo diceva - già, era tutta qui la vana occupazione che mi restava, perduta ormai la speranza che all'uomo fosse data una via verso di te. Alla mente però con le parole, di cui mi curavo, mi venivano anche le cose, che trascuravo. Non potevo staccare le une dalle altre. E mentre aprivo il cuore all'eleganza delle sue parole, parimenti vi entrava, a poco a poco, il vero che esprimevano. Dapprima infatti cominciai a rendermi conto che quelle opinioni si potevano difendere, e a pensare che non fosse poi così impudente sostenere la fede cattolica, che avevo ritenuto impossibile salvare dalle obiezioni dei manichei. Soprattutto dopo aver sentito risolvere uno dopo l'altro quegli enigmi dell'Antico Testamento di fronte ai quali, presi alla lettera, mi sentivo morire. Una volta intesa l'interpretazione spirituale della maggior parte di quei passi ero già disposto a riprovare quella disperazione di prima, almeno in quanto m'aveva indotto a credere che fosse impossibile per i libri della Legge e dei Profeti resistere a quelli che li trovavavano odiosi e ridicoli. Tuttavia non mi sentivo di seguire la via cattolica solo perché anche questa risultava in grado di avere i suoi dotti sostenitori, capaci di respingere con eloquenza e ragionevolezza le obiezioni. O di condannare la posizione su cui m'ero attestato, solo perché i due partiti si difendevano ad armi pari. In conclusione la fede cattolica non mi appariva sconfitta, benché ancora non mi sembrasse vincitrice.

- 25. Allora impegnai tutta la mia intelligenza nella ricerca di una prova certa con cui confutare i manichei. Se solo fossi riuscito a concepire una sostanza dello spirito, subito tutte le loro macchine mentali sarebbero state abbattute e spazzate via dalla mia mente. Ma non ci riuscivo. È vero però che riguardo al mondo fisico e a ogni cosa del genere sensibile, propendevo ormai a credere, a forza di riflessioni e di confronti, che le opinioni della maggior parte dei filosofi fossero molto più verosimili. E così dubitando di tutto al modo degli Accademici - o a quello che gli si attribuisce - e oscillando a ogni proposito, decisi che bisognava comunque abbandonare i manichei. Mi pareva di non potere, in quella mia stagione di dubbi, restare in seno a quella setta, se ormai le preferivo alcuni filosofi. Filosofi ai quali d'altra parte ricusavo di affidare completamente la cura dell'anima nello stato di depressione in cui versava: perché facevano a meno del nome salutare di Cristo. Risolsi perciò di essere catecumeno della Chiesa cattolica, raccomandatami dai genitori, fino a quando non fossi illuminato da qualche certezza in base a cui orientare i miei passi.


LIBRO SESTO
[A TRENT'ANNI]

1.1. Speranza mia venuta dalla giovinezza, dov'eri allora, dove eri nascosta? Non eri stato tu a farmi come sono, distinto dai quadrupedi, più sapiente degli uccelli del cielo? E camminavo nel buio sopra il viscido e ti cercavo fuori di me e non trovavo il Dio del mio cuore, ed ero sceso fino in fondo al mare e non avevo più fiducia e disperavo di trovare il vero. Già mi aveva raggiunto, forte di devozione, mia madre che mi seguiva per terra e per mare, in te sicura anche in mezzo ai pericoli. Lei che in ogni frangente avventuroso confortava i marinai, invece di riceverne conforto, come succede ai viaggiatori inesperti ancora dell'abisso quando li prende la paura: e prometteva loro che sarebbero approdati sani e salvi, perché tu stesso glielo avevi promesso mandandole una visione. E mi trovò nel mezzo del pericolo estremo, che disperavo fosse possibile la ricerca della verità: e tuttavia quando le accennai al fatto che non ero più manicheo, ma neppure cristiano cattolico, non esultò come di una bellissima sorpresa: già si sentiva tranquilla, per quella parte della mia condizione infelice, dato che mi piangeva come un morto in attesa di resurrezione, e mi offriva a te sul catafalco del suo pensiero, perché dicessi al figlio della vedova: Giovane, dico a te, alzati - ed egli tornasse a vivere e prendesse a parlare e tu lo rendessi a sua madre. Non si lasciò dunque sconvolgere da una gioia violenta alla notizia che già in così buona parte era accaduto ciò che ogni giorno ti implorava di far accadere: non avevo ancora conseguito la verità, ma ero ormai stato sottratto alla menzogna. Anzi poiché era certa che anche il resto lo avresti concesso, tu che tutto avevi promesso, mi rispose tranquillissima che riponeva piena fiducia nel Cristo e credeva che prima di andarsene da questa vita mi avrebbe visto cattolico credente. E questo fu ciò che disse a me: a te, fonte di accorate dolcezze, offrì tanto più fitte lacrime e preghiere, perché affrettassi il tuo aiuto e illuminassi la mia oscurità. E con maggior passione correva in chiesa e pendeva dalle labbra di Ambrogio, questa fonte d'acqua che zampilla verso la vita eterna. Amava quell'uomo come un angelo di Dio, da quando aveva saputo che era stato lui a guidarmi nel frattempo almeno fino a quella perplessità oscillante attraverso la quale - ne era certa - sarei passato dalla malattia alla salute, superando, per dirla coi medici, il rischio più grave di un accesso critico.

2.2. Una volta portò della farinata, del pane e del vino per la commemorazione funebre dei santi, come aveva l'abitudine di fare in Africa. Si trovò di fronte al divieto del custode: alla notizia che era stato il vescovo a imporlo, lo accettò con tanta devozione e obbedienza che io stesso restai meravigliato dalla prontezza con cui ripudiò la propria consuetudine piuttosto di contestare quella proibizione. Certo il suo spirito non si lasciava offuscare dal gusto del bere fino a indurla a odiare il vero per amor del vino, come accade a molti uomini e donne che a sentire un inno alla sobrietà si fanno prendere dalla nausea come gli ubriachi davanti a una bevanda annacquata. Mia madre, quando portava il paniere con le vivande rituali da assaggiare e offrire, non brindava che con un bicchierino di vino diluito a misura del suo palato davvero sobrio, tanto per cortesia; e se erano molti i defunti da commemorare a quel modo, lei si portava in giro e levava sempre quell'unico bicchiere, ormai non solo annacquatissimo ma anche affatto tiepido, e a piccoli sorsi se lo divideva con gli altri astanti: perché era pietà questa, non piacere. Così quando seppe che quel predicatore famoso, quel maestro di fede aveva ordinato di evitare quei riti anche a quelli che li avrebbero eseguiti con sobrietà, per non dare ai bevitori occasione di ubriacarsi solennemente, e per l'estrema somiglianza che quella sorta di parentali avevano con le cerimonie dei gentili, mia madre fu ben lieta di astenersene. In luogo di un canestro pieno di frutti della terra aveva imparato a portare alle commemorazioni dei martiri un cuore pieno di desideri più puri, e dava ai poveri quanto poteva, così che là venisse celebrata la comunione del corpo del Signore: perché fu a imitazione della sua passione che si immolarono e ottennero la loro corona i martiri. Eppure io credo, mio Signore e Dio - e la mia convinzione è davanti ai tuoi occhi - che forse non sarebbe stato così facile a mia madre rinunciare a questa sua consuetudine se a proibirla fosse stato un altro, uno meno caro al suo cuore di Ambrogio. E Ambrogio lo amava soprattutto per amor mio, della mia salute: e lui amava lei per il suo religiosissimo modo di vivere, che la induceva a tante buone opere e all'ardore di spirito con cui frequentava la chiesa: tanto che spesso, vedendomi, nel bel mezzo di un sermone non si peritava di congratularsi con me per avere una madre come quella: non sapendo quale figlio lei aveva in me, che dubitavo di tutto questo ed ero assai scarsamente convinto si potesse trovare la via della vita.


[La figura di Ambrogio]

3.3. Ancora non gemevo implorando il tuo aiuto, avevo la mente intenta alla ricerca e inquieta per le dispute. Lo stesso Ambrogio lo ritenevo un uomo fortunato in questo mondo, dato il prestigio di cui godeva presso le più alte istanze del potere: la sua unica tribolazione mi pareva fosse il celibato che osservava. Quale speranza si portasse dentro, che lotte dovesse sostenere contro le tentazioni stesse della sua eccellenza o che conforti avesse nelle situazioni avverse, e come la segreta bocca del suo cuore, poi, assaporasse le delizie del tuo pane, io tutto questo non solo non lo conoscevo per esperienza, ma non ero neppure in grado di supporlo. Neppure lui sapeva delle mie tempeste né del burrone sopra il quale mi trovavo in bilico. Non gli potevo chiedere quello che volevo e come volevo, date le caterve di gente affannata che con tutte le loro magagne mi bloccavano l'accesso alle sue orecchie e alla sua bocca, e al cui servizio egli viveva. E il pochissimo tempo che non passava con loro lo impiegava a ricrearsi il fisico con il minimo indispensabile, o la mente con la lettura. Leggeva scorrendo le pagine con gli occhi, il cuore intento a penetrare il senso, mentre voce e lingua riposavano. Spesso eravamo presenti (a nessuno era proibito entrare e non c'era l'uso di farsi annunciare) e lo vedevamo leggere in silenzio, mai in altro modo: e restavamo magari seduti a lungo, muti - chi avrebbe osato disturbare una persona così concentrata? - e poi ce ne andavamo, pensando che egli disponeva di quel poco tempo per dare alla mente un po' di riposo e vacanza dallo strepito degli affari altrui: certo non avrebbe gradito d'essere nuovamente distratto; e forse tentava di evitare d'esser costretto da un uditore attento e curioso a spiegare qualche passo oscuro che stava leggendo o a discutere qualche questione un po' difficile, così che questa perdita di tempo gli avrebbe impedito di scorrere tutti i volumi che desiderava. Benché anche per conservare la voce, che facilmente gli si abbassava, poteva esser più conveniente leggere in silenzio. Insomma qualunque fosse la sua intenzione in questo comportamento, non poteva che essere buona, dato l'uomo.


[La lezione di Ambrogio: lo spirito e la lettera]

- 4. Certo è che non avevo grandi occasioni di interrogare a mio talento quel tuo santo oracolo, nel suo intimo - a meno di non fare domande assai brevi. Ma quelle mie tempeste lo volevano veramente libero e disponibile per potersi riversare su di lui, e tale non lo trovavano mai. E ogni domenica l'ascoltavo spiegare bene la parola della verità in mezzo al popolo, e sempre più mi confermavo nella convinzione che tutti i grovigli di malizia e calunnie stretti intorno ai libri divini da quei nostri ingannatori potevano esser sciolti. Infine appresi che la creazione dell'uomo a tua immagine non è intesa dai tuoi figli spirituali, che tu hai rigenerato per mezzo della grazia dalla madre cattolica, nel senso che essi credano te delimitato dalla forma del corpo umano: anche se non avevo la minima idea, neppure oscura come in un enigma, di cosa fosse una sostanza spirituale. Questo mi riempì di gioia e di vergogna per aver abbaiato tanti anni non contro la fede cattolica, ma contro le fantasticherie di un pensiero inchiodato alla carne. Certo io ero stato temerario ed empio, perché avevo fatto asserzioni e accuse là dove avrei dovuto invece fare domande e studi. Perché tu, altissimo e vicinissimo, mistero ed evidenza assoluti, che non hai membra più piccole e più grandi, ma sei ovunque tutto e non sei in nessun luogo, non certo per aver tu questa forma corporea hai fatto l'uomo a tua immagine e somiglianza: l'hai fatto, ed eccolo lì da capo a piedi nello spazio.

4.5. Siccome ignoravo il modo in cui bisognava intendere questa tua immagine, avrei dovuto, bussando, porre questo problema di quale fosse il modo giusto di credere, non sbattere la porta con disprezzo contro la credenza che immaginavo io. Tanto più mi rodeva, dunque, l'angoscioso bisogno di qualcosa che potessi ritenere certo, quanto più mi vergognavo di essermi fatto per tanto tempo illudere e ingannare da una promessa di certezze e di aver commesso l'errore puerile di spacciare per certe, con tanto entusiasmo, tutte quelle dottrine malcerte. Che fossero positivamente false mi si chiarì solo più tardi. Era però certo almeno che erano incerte e che io le avevo una volta ritenute certe, al tempo delle mie cieche requisitorie contro la tua chiesa cattolica, e per quanto ignorassi i suoi insegnamenti veri certo non insegnava ciò di cui la rimproveravano le mie gravi accuse. Mi sentivo confuso e prossimo a una svolta: e anche pieno di gioia, Dio mio, che l'unica Chiesa, il corpo del tuo unigenito, in cui da bambino mi fu inculcato il nome di Cristo, non prendeva gusto a delle sciocchezze infantili, e non era un articolo della sua sana dottrina che tu, creatore dell'universo, fossi confinato in uno spazio, alto e largo quanto si voglia, e tuttavia limitato tutt'intorno dalla figura del corpo umano.

- 6. Un altro motivo di gioia era che i libri della Legge e dei Profeti non mi venivano più proposti alla lettura in quella visuale che me li aveva fatti parere assurdi, quando li attaccavo per le concezioni che falsamente attribuivo ai tuoi santi: in realtà non era affatto quello il loro modo di pensare. Ero ben contento di sentire Ambrogio raccomandare così spesso e colla massima sollecitudine nel corso dei suoi pubblici sermoni, come una regola, la massima che la lettera uccide, lo spirito invece vivifica. E quando, rimuovendo il loro velo mistico, dava un'interpretazione spirituale a certi passi che presi alla lettera sembravano insegnamenti perversi, faceva asserzioni che riuscivano a non ferirmi, benché ancora ignorassi se erano vere. Trattenevo il mio cuore da ogni assenso per paura del precipizio, eppure restando così sospeso mi sentivo morire anche di più. Già: volevo aver sulle cose invisibili una certezza pari a quella che due più due fa quattro. Non ero infatti così pazzo da credere che neppure questo si potesse afferrare, ma volevo afferrare allo stesso modo tutte le altre verità: sia quelle concernenti cose tangibili ma non attualmente sotto i miei occhi, sia quelle relative alle cose dello spirito, di cui non ero capace di farmi un'idea se non in termini materiali. E avrei potuto esser guarito dalla fede, così che lo sguardo dell'intelligenza potesse dirigersi più puro verso la tua verità che dura eterna senza venir meno: ma, come spesso succede a chi ha avuto esperienza di un cattivo medico, che ha paura di affidarsi anche a uno buono, così quel mio male dell'anima era tale che da una parte non poteva esser guarito che dal credere, dall'altra per paura di prestar fede al falso ricusava di farsi curare e resisteva alle tue mani. A te che pure hai preparato i rimedi della fede e li hai sparsi sulle malattie del mondo, dotandoli di tanto potere.


[Meditazioni sulla natura del credere]

5.7. Da quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle. A poco a poco, mio Signore, mentre con mano dolcissima e pietosa lavoravi e riordinavi questo cuore, mi inducevi a considerare che erano innumerevoli i fatti a cui credevo senza vederli e senza esser presente mentre accadevano: tanti avvenimenti della storia umana, tante notizie di luoghi e paesi mai visti, tante cose sentite dire dagli amici, dai medici, da questa o quella persona, che bisogna credere se non si vuole rinunciare del tutto ad agire in questa vita. Infine pensavo alla fede incrollabile che avevo nell'identità dei miei genitori, che pure non conoscevo se non per aver creduto a ciò che m'avevano detto. Mi persuadesti che colpevoli e inattendibili non erano quelli che prestavano fede ai tuoi libri, la cui autorità hai stabilito in quasi tutto il mondo, ma quelli che non credendovi venivano a dirmi: "Come fai a sapere che quei libri sono stati trasmessi al genere umano dallo spirito dell'unico Dio vero e assolutamente veritiero?" Proprio questo bisognava soprattutto credere, e nessuna battaglia di calunnie e dispute menate attraverso i tanti libri che avevo letto dai filosofi in conflitto fra loro poté impedirmi anche solo per un attimo di credere alla tua esistenza, qualunque cosa tu fossi, o che a te appartenesse il governo delle cose umane.

- 8. Ma era una fede, questa, robusta a volte, a volte assai più esile. E tuttavia in un modo o nell'altro ci credevo, che tu esistessi e ti prendessi cura di noi, anche se ignoravo tanto il concetto che bisognava farsi della tua sostanza quanto la via che conduceva o riconduceva a te. E appunto in considerazione di questo nostro tentennare senza la forza di scoprire la verità con la chiara ragione, e del conseguente bisogno che abbiamo dell'autorità dei sacri testi, io avevo cominciato a credere che mai tu avresti conferito un'autorità così grande su tutta la terra a quelle scritture, se non avessi voluto che proprio per loro mezzo si credesse a te e attraverso di loro ti si cercasse. E ormai l'assurdità da cui una volta mi sentivo ferito, dopo aver ascoltato tante plausibili interpretazioni di quei testi, me la spiegavo con la profondità dei sacri simboli. Tanto più degna di venerazione e di sacrosanta fiducia mi pareva la loro autorità: era una lettura alla portata di tutti, che allo stesso tempo custodiva per un'intelligenza più profonda tutta la dignità del suo mistero: si offriva a tutti con parole chiarissime e nei registri più bassi dello stile e metteva alla prova l'attenzione di quelli che non sono leggeri di cuore, accoglieva tutti nel suo democratico abbraccio e solo a pochi concedeva accesso fino a te per angusti spiragli. E ancora meno sarebbero stati se la scrittura non avesse raggiunto un così alto prestigio d'autorità da attrarre le folle nel suo grembo, umile e sacro. Andavo così riflettendo e tu m'eri vicino, sospiravo e mi prestavi ascolto, beccheggiavo e tu mi timonavi, andavo per le larghe vie del mondo e non m'abbandonavi.


[L'allegro bevitore]

6.9. Aspiravo al successo, ai soldi, al matrimonio, e tu te ne ridevi. Per queste mie passioni soffrivo tutto l'amaro delle contrarietà, ed era tuo favore questo, tanto più grande quanto era minore la dolcezza che mi lasciavi assaporare in cose diverse da te. Guarda il mio cuore, Signore, se al tuo volere devo queste memorie e queste confessioni. Si stringa a te quest'anima, che hai liberato dal tenacissimo vischio della morte. Com'era infelice! E il tuo pungolo acuiva il senso della sua ferita, perché lasciasse tutto e si rivolgesse a te che sei sopra ogni cosa e senza cui tutto sarebbe nulla, si rivolgesse a te e fosse guarita. Quanto ero infelice e cosa hai fatto tu per farmela sentire tutta, la mia infelicità. Come quel giorno in cui mi preparavo a un discorso in lode dell'imperatore: avrei detto un mucchio di bugie e sarei stato applaudito da gente che lo sapeva. Col cuore affannato e febbricitante di pensieri nefasti passavo per un certo vicolo di Milano, quando notai un pezzente che credo fosse già gonfio di vino, tanto era allegro e in vena di scherzare. Trassi un profondo sospiro e agli amici che mi accompagnavano presi a dire dei molti dispiaceri che la nostra follia ci procurava: perché tutti i nostri sforzi - quelli che ora mi angustiavano ad esempio, mentre sotto la sferza delle mie ambizioni trascinavo il carico della mia infelicità, e trascinandolo lo ingrossavo - non miravano ad altro che ad arrivare a quella spensierata contentezza dove quel pezzente ci aveva già preceduto, mentre forse noi non ci saremmo arrivati mai. Quello che lui s'era già guadagnato con pochi spiccioli avuti in elemosina, io lo inseguivo per vie scoscese e torte, a gran fatica: era questa, la soddisfazione di una felicità terrena. Non era vera gioia la sua: ma io con quelle mie ambizioni ne cercavo una assai più falsa. E lui comunque era contento, io pieno d'ansia; lui era spensierato, io tesissimo. E se qualcuno mi avesse domandato se preferivo l'euforia o la paura, avrei risposto: "L'euforia"; se poi mi avessero chiesto come avrei preferito essere, come lui o come me allora, avrei scelto me stesso, con tutte le mie ansie e le paure. Scelta perversa, che non faceva onore al vero. Non dovevo preferirmi a lui perché avevo maggiore cultura, dato che non ne traevo motivo di gioia, ma solo un mezzo per cercar di piacere alla gente: e per di più non per indurla a imparare, ma soltanto per piacere. Perciò anche tu col bastone della tua disciplina mi spaccavi le ossa.

- 10. Via, lontano dall'anima chi dice: "Ciò che conta è il motivo della gioia. Quel pezzente la trovava nella sua sbornia, tu la cercavi nella gloria". Quale gloria, Signore? Quella che non è in te. E come quella non era vera gioia, così anche questa non era vera gloria e fuorviava ancor più la mia mente. E quel poveraccio la notte stessa avrebbe smaltito la sua sbronza, io dovevo dormire e levarmi con la mia, e poi ancora dormire e levarmi, vedi quanti giorni! Certo che conta il motivo della gioia, lo so, e la gioia che l'uomo di fede trova nella speranza è incomparabilmente al di sopra di quella vana esaltazione. Ma anche fra noi allora c'era una differenza: che lui era senza dubbio più felice. Non solo perché affogava nella sua allegria, mentre io mi facevo ulcerare dall'ansia, ma anche perché lui s'era guadagnato il suo vino in cambio di buoni auguri, io inseguivo la mia boria a furia di menzogne. Parlai a lungo su questo tono con gli amici, quel giorno, e spesso in seguito era in questi termini che percepivo la mia condizione: e stavo male, lo sentivo, e me ne affliggevo e così raddoppiavo il mio male, e se la fortuna mi sorrideva per un attimo, quasi mi dispiaceva coglierlo: perché io non facevo in tempo a stringerlo che era già volato via.


[Alipio: storia di un'amicizia]

7.11. Condividevo angoscia e lamenti con le persone con cui vivevo in amicizia, e soprattutto coi miei veramente intimi Alipio e Nebridio. Alipio, nato nella mia stessa cittadina - dove i suoi genitori erano fra i notabili - era più giovane di me. E infatti era venuto alla mia scuola quando avevo cominciato a insegnare a Tagaste, e poi a Cartagine, e mi amava molto, perché mi credeva uomo nobile e colto, e io amavo lui per la sua grandezza d'animo, che saltava agli occhi nonostante la giovane età. Ma la vorticosa vita di Cartagine, scintillante di spettacoli frivoli, lo aveva risucchiato in una folle passione per i giochi del circo. Ma al tempo in cui ne era infelicemente travolto, e io tenevo una pubblica scuola di retorica, ancora non frequentava le mie lezioni, a causa di una contesa che era sorta fra me e suo padre. Ero venuto a conoscenza della sua rovinosa passione per il circo, e ne ero molto angustiato, perché mi pareva che avrebbe compromesso, se non l'aveva già fatto, tutta la speranza che si riponeva in lui. Ma di avvertirlo o richiamarlo con qualche forma di disciplina non avevo modo: né per via d'amicizia e d'affetto, né in veste di maestro. Supponevo infatti che su di me la pensasse come suo padre, il che non era vero. Tanto che su questo punto mise da parte la volontà di suo padre e prese a salutarmi: veniva nella mia classe, ascoltava per un po' e se ne andava.

- 12. Intanto però a me era uscito di mente il proposito di comportarmi con lui in modo da impedirgli di dissipare il suo bel talento in una passione così cieca e impetuosa per degli spettacoli fatui. Ma tu, Signore, tu che governi il timone di ogni tua creatura, non dimenticavi che sarebbe stato fra i tuoi figli ministro del tuo sacro simbolo, e perché la sua correzione ti venisse attribuita senz'ombra di dubbio, la operasti attraverso di me, ma a mia insaputa. Un giorno me ne stavo nel solito posto con gli allievi davanti: lui arriva, saluta, si siede e si mette a seguire con attenzione l'argomento che trattavo. Avevo per mano un certo testo, e mentre lo spiegavo mi parve opportuno usare una similitudine tratta dai giochi del circo, per rendere più piacevole e più chiaro quello che era mia intenzione suggerire: con una pungente derisione di quelli che erano incappati nella rete di quella follia. E tu lo sai, Dio nostro, che in quel momento non pensavo affatto a guarire Alipio da quella sua malattia mortale. Ma lui riferì subito la cosa a se stesso e credette che io non l'avessi detta che per lui: e dove un altro se la sarebbe presa con me, quel leale ragazzo incassò per prendersela con se stesso e amarmi anche di più. Tu l'avevi già detto un tempo, e accolto nelle tue scritture: Rimprovera il sapiente, e ti amerà. Ma non ero stato io a rimproverarlo: tu, che ti servi di chiunque, consapevole o ignaro, in vista dell'ordine noto a te solo - e quell'ordine è giusto - hai fatto del mio cuore e della lingua carboni ardenti, con cui cauterizzare il marcio di quella intelligenza piena di speranze, e guarirla. Non canti le tue lodi chi trascura i tuoi gesti di pietà, che ti celebrano dal fondo delle mie ossa. È un fatto che Alipio, dopo quel discorso, si lanciò fuori dalla fossa così profonda in cui stava lietamente affondando, vinto da una strana voluttà d'accecamento; si scosse l'anima col vigore della rinuncia e ne schizzarono via tutte le sozzure del circo, dove non mise più piede. Poi vinse la riluttanza del padre ad avermi come suo maestro: quello cedette e concedette. E riprendendo a frequentarmi, fu con me irretito in quella superstizione, apprezzando nei manichei la continenza che ostentavano, e che lui credeva vera e genuina. E invece era vile seduzione, fatta per catturare le anime preziose non ancora capaci di saggiare la profondità del valore, e facilmente ingannate dalla sua superficie, dall'ombra e dalla contraffazione del valore.


[Una passione oscura]

8.13. Senza per questo abbandonare, è vero, la via del mondo, di cui i genitori gli avevano magnificato l'incanto, mi aveva preceduto a Roma per studiare diritto, e là in circostanze incredibili fu ripreso da un' incredibile passione per gli spettacoli gladiatori. Lui rifiutava di andarci e li aveva in odio, quando un giorno incontrò dei suoi amici e condiscepoli, forse di ritorno da un pranzo, e quelli, nonostante le sue vigorose proteste e i tentativi di resistere a quella cameratesca violenza, lo trascinarono in teatro: erano giorni di giochi crudeli, mortali. Diceva: "Sì, trascinate pure il mio corpo e mettetelo lì: potete forse rivolger la mia mente e gli occhi a quegli spettacoli? Ci sarò senza esserci, l'avrò vinta su di voi e di quelli". Non per questo rinunciarono a tirarselo dietro, forse desiderosi di metterlo alla prova. Una volta arrivati si sistemarono nei posti che riuscirono a trovare: ovunque imperversava già il piacere della ferocia. Serrò le porte degli occhi e proibì all'anima di uscire in mezzo a tanto male. Magari si fosse turato anche le orecchie! A un certo punto del combattimento, l'immane boato della folla ruppe le sue difese: vinto dalla curiosità e come fosse stato pronto, qualunque cosa fosse accaduta, a disdegnare quello spettacolo e ad averne ragione, aprì gli occhi. E soffrì nell'anima una ferita più grave di quella inferta al corpo del gladiatore che aveva voluto vedere; e cadde, più infelice di lui che con la sua caduta aveva scatenato quell'urlo. Il quale gli era penetrato per le orecchie e gli spalancò gli occhi, per aprire un varco al colpo che avrebbe ferito e abbattuto quell'animo ancora più temerario che forte, e tanto più debole quanto più s'era fidato di sé, quando la fiducia doveva riporla in te. Veduto che ebbe quel sangue, già ne aveva bevuta la ferocia e non se ne distolse: tenne lo sguardo fisso e assorbiva il furore e non sapeva, e prendeva gusto a quel combattimento atroce e s'ubriacava di un piacere crudele. E già non era più quello che era stato entrando, ma uno della folla alla quale s'era unito, vero complice di quelli che l'avevano prima trascinato. Che altro dire? Guardò, gridò, prese fuoco e si portò via con sé quella pazzia che lo avrebbe pungolato a tornarci con quelli che prima lo avevano trascinato, anzi di più, davanti a loro, trascinandone altri a sua volta. E tuttavia lo hai strappato di là con tutta la forza e la tenerezza della tua mano, e gli hai insegnato a non avere fiducia in sé, ma in te: questo però molto più tardi.

9.14. Comunque questo fatto gli si impresse nella memoria come una medicina per il futuro. Lo stesso si può dire della disavventura in cui incappò quando ancora era mio allievo a Cartagine. Passeggiava nel foro verso mezzogiorno, imparando a memoria un discorso da recitare, come fanno di solito gli studenti per esercizio, quando fu arrestato come un ladro dai guardiani del foro. Io credo che tu l'abbia permesso, Dio nostro, al solo scopo che quell'uomo destinato a diventare così importante cominciasse a capire quanta cautela deve usare chi istruisce un processo prima di condannare un uomo sulla base di accuse incerte e di una convinzione arbitraria. Alipio passeggiava da solo davanti al tribunale con stilo e tavolette, quand'ecco un altro studente, un ragazzo, il vero ladro, senza farsi scorgere da lui si avvicina con una scure che teneva nascosta ai cancelli di piombo che dominano dalla parte superiore il vicolo dei banchieri, e comincia a tagliare il piombo. Al suono della scure un mormorio corre per i banchi sottostanti dei cambiavaluta, e quelli mandano gente ad arrestare chiunque si fosse trovato sul posto. Il ladro sente la loro voce e scappa abbandonando il suo strumento, per paura di farselo trovare in mano. Alipio, che non lo aveva visto entrare, lo scorge all'uscita e lo vede allontanarsi di corsa, e incuriosito entra per scoprirne la causa e trova la scure. Stava lì a osservarla meravigliato quando piombano dentro quelli mandati alla ricerca del ladro e lo trovano solo con in mano il ferro che col suo fragore li aveva spaventati e fatti accorrere: lo afferrano, lo trascinano via, e di fronte alla gente del foro che faceva capannello si vantano di aver preso il ladro in flagrante, e si avviano a consegnarlo nelle mani della giustizia.

- 15. Ma la lezione doveva finire qui. Perché subito intervenisti, Signore, a sostegno della sua innocenza, di cui eri il solo testimone. Mentre veniva condotto alla prigione o alla gogna, si fa incontro a loro un tale, un architetto che era il sovraintendente massimo agli edifici pubblici. Quelli si rallegrano moltissimo di aver incontrato proprio lui, che li sospettava di aver parte in certi furti avvenuti nel foro: così finalmente avrebbe constatato coi suoi occhi chi era, il ladro. Ma l'uomo aveva visto spesso Alipio in casa di un certo senatore, al quale usava portare i suoi omaggi, e appena lo ebbe riconosciuto lo prese per mano e portandolo in disparte gli chiese la ragione di un fatto così grave. Apprese l'accaduto e ordinò alla folla in subbuglio, che premeva minacciosa, di seguirlo. E li guidò alla casa di quel giovane, il vero colpevole. C'era un ragazzo davanti alla porta, quasi un bambino: tanto che non sospettò di nuocere al padrone se diceva tutto, e che lo aveva accompagnato al foro. E poi anche Alipio l'aveva riconosciuto, e ne avvertì l'architetto. Quello mostrò la scure al ragazzo e gli chiese di chi fosse. "Nostra" rispose immediatamente: e poi interrogato svelò il resto. Così l'accusa fu trasferita sopra quella casa e la folla, che già credeva di trionfare di Alipio, ne restò confusa: e il futuro dispensatore della tua parola, che tante cause avrebbe esaminato nella tua Chiesa, se ne andò, e quell'esperienza gli servì da lezione.


[Un funzionario incorruttibile]

10.16. Lo ritrovai a Roma, e si strinse a me di un legame fortissimo e partì con me alla volta di Milano, un po' per non abbandonarmi e un po' per mettere a frutto i suoi studi di diritto, secondo un desiderio che era più dei suoi che suo. E già tre volte era stato assessore in tribunale facendo meravigliare gli altri con la sua integrità, meno di quanto si meravigliava lui di vederli anteporre l'oro all'innocenza. Il suo temperamento fu messo alla prova non soltanto con le seduzioni dell'avidità, ma anche col pungolo della paura. A Roma era assessore presso il conte amministratore delle finanze italiche. C'era a quel tempo un senatore potentissimo, che aveva obbligato molte persone a forza di favori e molte altre se le era assoggettate col sistema del terrore. Voleva concedersi non so che azione illecita per le leggi, secondo l'abitudine dei potenti come lui: Alipio resistette. Gli fu promesso un premio: rise di cuore. Gli furono fatte delle minacce: le calpestò fra lo stupore di tutti: con inusitato coraggio rifiutava l'amicizia e non temeva l'avversione di un uomo tanto importante, famosissimo per gli innumerevoli mezzi di cui disponeva per arrecare vantaggi o rovina. Il giudice stesso di cui Alipio era consigliere, quantunque fosse anch'egli contrario a concedere quel favore, non osava ricusarlo apertamente, e ne scaricava la responsabilità su Alipio, affermando che era lui a non permetterglielo, perché - e questo era vero - se l'avesse fatto, se ne sarebbe andato. La sola passione da cui si lasciò quasi sedurre era quella per la letteratura: avrebbe potuto farsi copiare alcuni codici a spese della prefettura: ma rifletté sulla giustizia di quell'azione e decise per il meglio. Più del potere che lo permetteva gli parve utile l'equità che lo proibiva. È una piccola cosa: ma chi è fedele nel piccolo è fedele anche nel grande, e non saranno mai vane le parole che uscirono dalla bocca della tua verità: Se non siete stati affidabili con le false ricchezze, chi vi darà quelle vere? E se non siete stati affidabili con la proprietà altrui, chi vi affiderà la vostra? Tale l'uomo che allora m'era vicino, e con me ondeggiava nell'incertezza sul modo in cui bisognava decidersi a vivere.


[Nebridio. Gli amici riuniti a Milano]

- 17. Anche Nebridio aveva lasciato il suo paese vicino a Cartagine e la stessa Cartagine, che frequentava moltissimo, e la splendida tenuta paterna e casa sua e sua madre che non lo avrebbe seguito: ed era venuto a Milano senz'altro scopo che quello di vivere con me nella passione di cercare il vero e la sapienza. E anche lui sospirava e ondeggiava come me, da quel furioso indagatore della vita felice che era, e acutissimo analista delle più ardue questioni. Ed erano le bocche di tre poveri, che pendevano l'una dall'altra per una boccata di povertà e sospiravano che tu dessi loro il cibo a tempo opportuno. E nelle amarezze che la tua bontà faceva sempre seguire alle nostre azioni mondane, ci sforzavamo di vedere un fine per soffrirle e non c'era che il buio, e allora ci rivolgevamo indietro piangendo a chiederci "fino a quando?". E ce lo ripetevamo spesso e non la troncavamo quella vita, perché non s'accendeva il lume d'una sola certezza cui aggrapparci dopo averla troncata.


[Angoscia]

11.18. E uno stupore grande mi prendeva e un'angoscia, quando pensavo al tempo che era passato dai miei diciott'anni, dal giorno in cui m'aveva preso la passione per la ricerca della sapienza e avevo deciso, appena l'avessi trovata, di farla finita con le speranze vacue e le follie bugiarde dell'ambizione. Quanto tempo! E ormai avevo trent'anni e ancora mi dimenavo nello stesso fango con l'ansia di godere le gioie presenti che fuggivano e mi dissipavano...E io mi dico "domani, domani troverò, tutto mi sarà chiaro, l'avrò in pugno... domani verrà Fausto e spiegherà ogni cosa... O grandi uomini dell'Accademia! Non c'è alcuna certezza cui ci si possa attenere a guida della vita... Ma no, cerchiamo con più impegno e senza disperare... Guarda, non sono assurdi questi passi dei libri della chiesa, che parevano assurdi, c'è un'altra interpretazione possibile e degna. Ma dove cercarla? Quando? Ambrogio non ha tempo, di leggere non c'è il tempo... E i libri stessi, dove cercarli? Dove procurarseli, quando? Da chi farseli prestare? Bisogna trovarlo, il tempo, bisogna dedicarla qualche ora alla salute dell'anima! È nata una speranza enorme: e non insegna, la fede cattolica, quello di cui stupidamente noi l'accusavamo. Per i suoi dotti è sacrilego credere Dio limitato dalla figura del corpo umano. E tu esiti a bussare perché le altre verità ti siano aperte? Gli studenti ti prendono le ore del mattino: delle altre che fai? Perché non occuparti di questo? E quando andremo a rendere omaggio agli amici importanti, il cui appoggio ci serve? Quando prepareremo la merce da vendere a scuola? Quando potremo riposarci e concedere alla mente qualche attimo di distensione fra le ansie e le fatiche?

- 19. E vada tutto alla malora, basta con questi giorni vuoti e insulsi. Votarsi solo alla ricerca della verità... La vita è triste, la morte incerta; venisse all'improvviso, come te ne andresti di qui? E dove imparerai ciò che hai trascurato qui? O non dovrai piuttosto scontarla, questa negligenza? E se la stessa morte coi sensi tagliasse via ogni angoscia, e le mettesse fine? Anche su questo bisogna indagare... Ah no, non deve, non voglio credere che sia così. Non è senza significato, non è invano che la fede cristiana ha raggiunto un prestigio così alto da diffondersi su tutta la terra. Mai tali e tante opere divine si sarebbero compiute per noi se con la morte del corpo si consumasse anche la vita dell'anima. E cosa aspetti allora a lasciare le speranze del mondo per dedicarti completamente alla ricerca di Dio e della felicità? No, un momento: è pur lieto questo mondo, ce l'ha una sua dolcezza, sì, non piccola... no, sta attento, non essere impulsivo nello stroncare così lo slancio di tutta la tua vita, ché sarebbe avvilente poi tornare indietro... Ormai hai tutto ciò che occorre per una buona carriera. E cosa si può desiderare di più? Hai molti amici importanti. Anche senza darti troppo da fare per avere di meglio, una presidenza puoi ottenerla senz'altro. E sposare una donna con un po' di soldi, che non ti pesi troppo a mantenerla, e il desiderio vedrai troverà una misura. Molti grandi uomini più che degni d'essere imitati si sono dedicati alla filosofia con la loro donna accanto".

- 20. E mi dicevo tutto questo e il mio cuore oscillava ai venti alterni, e intanto il tempo passava, e io tardavo a convertirmi al Signore e differivo di giorno in giorno la vita in te e non differivo la morte quotidiana in me stesso: l'amavo, sì, la felicità, ma mi faceva paura, là dov'era, e la cercavo fuggendola. Mi pareva che sarei stato troppo infelice senza l'amore di una donna, e non pensavo che a guarire questa debolezza c'era la medicina della tua indulgenza, perché non l'avevo provata, e credevo che la continenza la si dovesse alle proprie forze, forze che a me non risultava di avere: perché ero tanto stupido da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente se tu non lo concedi. E certamente l'avresti concessa, se avessi bussato alle tue orecchie col mio pianto segreto, e con fede robusta lanciato contro di te la mia angoscia.


[L'amicizia e le donne]

12.21. Alipio, in verità, faceva di tutto per impedirmi di prendere moglie. Sempre lo stesso ritornello: non avremmo assolutamente avuto l'agio necessario per vivere insieme nel culto della sapienza come già da tempo desideravamo fare, se io mi fossi sposato. A questo riguardo in effetti lui era castissimo, e in maniera stupefacente se si pensa che nella sua prima giovinezza aveva conosciuto l'amore di una donna. Ma non era rimasto attaccato a tutto questo, anzi caso mai ne aveva provato dolore e disgusto, e da allora in poi era vissuto in perfetta continenza. Io gli resistevo opponendogli l'esempio di quelli che anche da sposati avevano coltivato la sapienza e acquistato meriti presso Dio e conservato fedeltà e affetto verso gli amici. Anche se io ero ben lontano dalla loro grandezza d'animo, ero solo prigioniero della carne e del suo male e questa mia catena era per me una mortale dolcezza: e avevo paura di esserne sciolto e respingevo i buoni consigli come la mano capace di scioglierla, simile a uno che non vuole farsi toccare una ferita. E oltretutto chi per bocca mia parlava ad Alipio era il serpente che nelle mie parole gli insinuava lungo la strada altrettante dolci insidie di lacci in cui si sarebbero impigliati i suoi piedi leali e liberi.

- 22. Era stupito che io, per cui egli nutriva non poca stima, fossi invischiato in quel genere di piaceri al punto da affermare, ogni volta che se ne discuteva tra noi, che non avrei potuto assolutamente menare una vita da scapolo: e vedendolo stupefatto mi difendevo sostenendo che c'era una bella differenza fra l'amore che aveva conosciuto lui, tanto breve e furtivo che quasi ormai non se ne ricordava più - e allora non era un gran merito disprezzarlo, da parte sua - e i miei piaceri abituali: e se per di più a questi si fosse aggiunto l'onorato nome di matrimonio non avrebbe più avuto ragione di stupirsi, se quella vita io non riuscivo a disprezzarla. E così aveva preso anche lui a desiderare il matrimonio, e non certo perché fosse sopraffatto dalla voglia di questo piacere, ma per curiosità. Voleva sapere, diceva, che cosa fosse mai quella cosa senza cui la mia vita, che a lui piaceva tanto, per me non era vita, ma castigo. La sua mente libera da quel legame restava stupefatta della mia schiavitù, e nello stupore si avventurava anche lui a precipizio in quella stessa esperienza, per un'avidità di sapere: destinato forse a cadere di lì in quella schiavitù che lo lasciava stupefatto, perché voleva stringere un patto con la morte e chi ama il pericolo ne resta vittima. Se il matrimonio acquista una sua dignità nell'impegno di governare la vita coniugale e di allevare i figli, nessuno dei due ne era attratto se non in misura minima. Io che ero già prigioniero ero soprattutto e furiosamente tormentato dalla consuetudine di saziare una sensualità insaziabile, lui che stava per diventarlo era trascinato dalla meraviglia. Così eravamo, finché tu, Altissimo, che non abbandoni la terra di cui siamo fatti non prendesti pietà della nostra miseria, venendoci in aiuto per vie mirabili e segrete.


[Matrimonio o vita in comune?]

13.23. E intanto mi assillavano perché prendessi moglie. Già avevo fatto la mia domanda, e già la ragazza mi era stata promessa, soprattutto per il gran da fare che si dava mia madre in questo senso: con lo scopo di vedermi lavato con l'acqua salutare del battesimo, una volta sposato. Vedeva che me ne rendevo di giorno in giorno più degno e ne era felice, e sentiva che le sue preghiere e le tue promesse si compivano nella mia fede. Per mia richiesta e per suo desiderio ogni giorno ti rivolgeva una supplica, levando a te l'applauso alto del cuore, perché le rivelassi qualche cosa a proposito del mio futuro matrimonio: ma questo tu non volevi concederlo. Aveva delle visioni evanescenti e bizzarre, prodotte dall'impulso di uno spirito umano fortemente occupato da questo argomento: e me le raccontava, ma non con la fiducia che le era abituale quando eri tu a inviargliele, ma con una sorta di disprezzo. La capiva da qualcosa come un sapore, diceva, che non era in grado di descrivere a parole, la differenza fra le tue rivelazioni e i sogni dell'anima sua. Non per questo la smettevano di assillarmi. E la ragazza fu domandata, e siccome le mancavano ancora due anni interi all'età nubile, e questo stato di cose non dispiaceva a nessuno, si aspettava.

14.24. Eravamo in molti amici a odiare le tempeste e le noie della vita umana, tanto che a forza di rimuginarla e di parlarne fra noi quasi avevamo preso la decisione di ritirarci a una vita di contemplazione, lontani dalle folle: una vita che avevamo pensato di organizzare in modo che ciascuno contribuisse per quanto poteva alla sostanza comune, così da mettere insieme fra tutti un patrimonio. L'autenticità dell'amicizia comportava che non si distinguesse fra il tuo e il mio, ma che fosse una sola la ricchezza di tutti e tutto fosse di ciascuno e ogni cosa di tutti. Ci pareva di poter costituire una comunità di una decina di persone e fra noi ce n'erano di veramente molto ricche: soprattutto il nostro concittadino Romaniano, che in quel momento arrivava a corte sulla gran piena dei suoi affari, e che conoscevo tanto bene fin dalla mia infanzia. Era lui soprattutto a insistere per questo progetto e il suo parere aveva grande influenza, perché il suo vasto patrimonio era di molto superiore a quelli degli altri. E avevamo anche pensato che due di noi ogni anno avrebbero a mo' di magistrati provveduto alla necessaria gestione di ogni cosa, perché gli altri potessero starsene in pace. Ma quando ci si cominciò a chiedere se le donnette che volevamo avere, e che alcuni di noi già avevano, ci avrebbero mai permesso tutto questo, il nostro bel progetto così ben architettato ci crollò fra le mani e andò a pezzi e fu gettato via. E tornammo ai sospiri e ai pianti e alle larghe battute vie del mondo, in fila, al passo: perché molti pensieri ci affollavano il cuore, ma il tuo disegno permane in eterno. Un disegno dall'alto del quale tu ridevi dei nostri progetti e preparavi i tuoi, pronto a darci il cibo al momento opportuno e ad aprire la mano e a riempirci l'anima della tua benedizione.


[Un'altra donna]

15.25. Intanto i miei peccati si moltiplicavano. E quando mi fu strappata dal fianco la donna con la quale ero solito andare a letto, dovettero tagliarmi via il pezzo di cuore che le era attaccato: e la ferita sanguinò molto. Se ne tornò in Africa, facendo voto a te di non conoscere mai altro uomo, e lasciando con me il figlio naturale che da lei avevo avuto. Ma io sventurato, incapace perfino di imitare una femmina, non ebbi la pazienza di aspettare ancora due anni per prendermi in casa quella che avevo domandato in moglie: e siccome non ero tanto desideroso di nozze quanto servo delle voglie, me ne procurai un'altra: e non certo come sposa, ma per alimentare e prolungare, sotto la scorta di una ininterrotta consuetudine, fino al regno di una moglie legittima, quella malattia della mia anima. Ma non guariva la ferita di quell'amputazione: solo, dopo il furore e il dolore acutissimo, andava in cancrena e faceva un male come più freddo: ma più disperato.

16.26. Lode a te, gloria a te, fonte di misericordie! Io mi facevo più infelice, e tu più vicino. Era già quasi su di me la tua destra pronta a rapirmi e ripulirmi dal fango, e io non lo sapevo. A trattenermi dallo sprofondare ancora nel vortice dei piaceri sensuali non era se non la paura della morte e del tuo futuro giudizio, che per quanto mutassero le mie opinioni non aveva mai lasciato il mio cuore. E discutevo coi miei amici Alipio e Nebridio Sul massimo dei beni e dei mali. In cuor mio avrei dato la preferenza a Epicuro, se non avessi creduto alla vita che resta all'anima dopo la morte, e alla retribuzione delle sue azioni, cosa che Epicuro si rifiutò di credere. E mi domandavo: se fossimo immortali e vivessimo in un perpetuo stato di piacere fisico senza il minimo terrore di perderlo, perché mai non dovremmo essere felici o che altro dovremmo cercare? E non sapevo che era di per sé un segno di grande infelicità quel mio essere tanto affogato e cieco da non poter concepire la luce di quella nobiltà e bellezza per se stesse amabili, che l'occhio della carne non vede, ma è visibile dall'intimo di sé. Infelice! Neppure mi chiedevo da che sorgente venisse la dolcezza che trovavo nel conversare con gli amici sia pure di queste laide cose, o l'impossibilità che avevo di essere felice senza amici, felice anche secondo il senso che attribuivo alla parola, cioè immerso nell'abbondanza di ogni sorta di piaceri sensuali. Certo, li amavo disinteressatamente gli amici, e a mia volta sentivo il loro disinteressato amore per me. Vie tortuose! Guai all'anima avventurosa che s'allontanò da te nella speranza di trovare di meglio. Voltati e rivoltati, sui fianchi e sulla schiena e sulla pancia: è sempre duro, e il riposo sei tu solo. Ecco, sei qui e ci liberi dagli errori della nostra miseria e ci metti sulla tua strada e ci consoli e dici: "Correte, io vi sosterrò, vi guiderò al traguardo e lì vi sosterrò ancora."