SANT'AGOSTINO

CONFESSIONI LIBRI VII - X


LIBRO SETTIMO
[L'INCONTRO COL NEOPLATONISMO]

1.1. Era già morta la mia giovinezza trista e dannata, e mi avviavo alla maturità: e più gli anni crescevano e più la mia vanità si faceva impudente. Tanto che non riuscivo a concepire una sostanza che non fosse visibile dagli occhi. Non ti pensavo, Dio, sotto l'aspetto di un corpo umano, da quando avevo cominciato a intender qualche cosa della sapienza: questa tentazione l'avevo d'altra parte sempre respinta, e ora mi riempiva di gioia ritrovare questo atteggiamento nella fede della nostra madre di spirito, la tua chiesa cattolica; ma non sapevo che altro concetto dovessi formarmi di te. E mi sforzavo di concepirti: io, uomo - e che uomo - concepire te, il sommo e unico e vero Dio! E con tutte le mie viscere ti credevo incorruttibile e inviolabile e immutabile, perché pur ignorando come e perché potessi esserlo, era per me evidente e certo che le cose corruttibili sono peggiori di quelle incorruttibili, e non esitavo a preferire le cose inviolabili a quelle che si possono violare, e a ritenere quelle che non subiscono mutamenti migliori di quelle che possono mutare. Il mio cuore protestava a gran voce contro tutti i miei fantasmi, ed era solo su questa base che mi sforzavo di sgombrare in un solo colpo l'orizzonte mentale dalla loro folla impura e svolazzante: e appena scacciata in un batter d'occhio si ricomponeva fittissima per avventarsi contro i miei occhi e offuscarli. E mi costringeva a pensarti, se non nella forma di un corpo umano, pur sempre come un che di corporeo, che fosse interno al mondo, permeandone lo spazio, oppure esterno a questo, illimitatamente diffuso. Qualcosa appunto di incorruttibile e inviolabile e immutabile, che anteponevo a ogni cosa passibile di corruzione e violenza e mutamento. Perché senza queste dimensioni spaziali qualunque ente mi pareva un niente: niente del tutto, non un semplice spazio vuoto, come quando si rimuove un corpo dal luogo che occupava e resta il luogo che è sì svuotato di ogni corpo, di terra o d'acqua, aereo o etereo che sia, ma che è pur sempre un luogo vuoto, un nulla esteso.


[Vani sforzi di pensare Dio]

- 2. Tardo di mente, oscuro anche a me stesso, io ritenevo che un ente che non avesse né estensione né diffusione né concentrazione né espansione spaziale, e neppure assumesse o potesse assumere una qualità simile, fosse un assoluto non ente. Le forme che l'occhio incontrava lungo la sua via erano le immagini per cui vagava il cuore: e non vedevo che l'atto mentale con cui formavo quelle immagini non era a sua volta una di esse; eppure era qualcosa di grande, se aveva questa capacità di formarle. E così pensavo anche te, vita della mia vita, come qualcosa di immenso che attraversava illimitati spazi penetrando dappertutto l'intera massa del mondo, e ne tracimava di fuori in ogni direzione, smisuratamente, interminabilmente esteso: in modo che la terra ti accogliesse, ti accogliesse il cielo e ogni cosa, e tutte trovassero in te il loro limite, e tu in nessuna cosa il tuo. Ma come alla luce del sole non fa ostacolo il corpo dell'aria, di quest'aria che è sopra la terra, o almeno se ne lascia attraversare senza esserne lacerata o squarciata, anzi se ne lascia interamente pervadere, così pensavo fossero a te permeabili non solo cielo e aria e mare ma anche il corpo della terra: penetrabile lo pensavo, e fatto per accogliere in ogni sua massima e minima parte la tua presenza, respiro segreto di ogni cosa creata, che dall'interno o dall'esterno tutte le governa. Erano queste le mie congetture, perché io non sapevo pensare in altro modo: e tutte false. Perché a quella stregua più o meno estesa era la porzione di terra, e maggiore o minore parte di te avrebbe contenuto, e avresti riempito sì ogni cosa, ma in modo che il corpo di un elefante contenesse rispetto a quello di un passero una parte di te tanto più grande, quanto il primo è più grande del secondo e maggiore lo spazio che occupa. Così tu saresti immanente all'universo a pezzi, più grandi o più piccoli secondo la dimensione delle sue parti. E invece non è così. Ma tu non avevi ancora illuminato la mia oscurità.

2.3. Quanto a quegli illusi illusionisti - che parlano e parlano e son muti, perché non è alla tua parola che prestano voce - contro di loro sarebbe bastato l'argomento che già dai tempi di Cartagine Nebridio soleva avanzare, e che aveva colpito tutti noi, all'udirlo: che cosa ti avrebbe fatto quel supposto popolo delle tenebre, che ti oppongono come una sorta di massa contraria, se tu non avessi voluto combattere contro di lui? Se si rispondeva che in qualche maniera del male te l'avrebbe fatto, allora tu saresti stato violabile e corruttibile. Ma se si sosteneva che non avrebbe potuto farti alcun male, allora non ci sarebbe stata alcuna ragione di guerra, e di una guerra tale che una parte di te, delle tue membra, o qualcosa di generato dalla tua stessa sostanza si mescolasse alle potenze avverse e alle nature non create da te e ne fosse corrotto e deteriorato al punto da passare dalla beatitudine all'infelicità e da aver bisogno di un soccorso per esserne liberato e purificato. E questa filiazione della tua sostanza sarebbe l'anima, che il tuo logos dovrebbe liberare da questa servitù, contaminazione e corruzione: lui libero e puro e integro, e tuttavia corruttibile, perché derivato da una sola e identica sostanza. Insomma, in qualunque modo ti concepissero: se sostenevano la tua incorruttibilità, cioè quella della sostanza del tuo essere, allora tutto questo sarebbe stato falso e condannabile; se invece ti ritenevano corruttibile, già in partenza affermavano una proposizione falsa e da rigettarsi fin dalla prima parola. Bastava questo argomento a liberare il petto del loro peso e a vomitarli fuori: perché con queste opinioni e asserzioni sul tuo conto non c'era altra via per cui farli uscire, senza mostruosa profanazione del cuore e della lingua.


[Il problema del male]

3.4. Eppure anch'io, quantunque sostenessi e fossi fermamente convinto che tu non sei soggetto ad alcuna contaminazione e trasformazione e mutamento, in nessuna tua parte, Dio nostro, Dio vero autore non solo dell'anima ma anche del corpo che abbiamo, e non solo di anima e corpo ma di tutte le persone e di tutte le cose, anch'io non disponevo di una spiegazione chiara e lineare della causa del male. Ma, qualunque fosse, mi pareva si dovesse cercarla evitando ipotesi che mi obbligassero a ritenere mutevole il Dio immutabile, se non volevo divenire io stesso quello che cercavo. Così cercavo senza affanno, sicuro almeno che non fosse vero quello che sostenevano loro: ne rifuggivo con tutto il mio cuore, perché cercando l'origine del male vedevo in loro la malignità: che li riempiva al punto da indurli a credere capace di subire il male la tua sostanza, piuttosto che la loro di farne.

- 5. E mi sforzavo di vedere chiaro in quello che m'ero sentito dire, che cioè la causa del male fosse il libero arbitrio della volontà, e il tuo giusto giudizio quella della nostra sofferenza, e questo no, non mi era trasparente. E allora tentavo di far affiorare dall'abisso la punta almeno dell'intelligenza e di nuovo affondavo, e ritentavo con accanimento ed affondavo un'altra volta, e un'altra ancora. Mi sollevava nella tua luce una cosa: che sapevo di avere una volontà, almeno quanto sapevo di vivere. Se volevo una cosa o non ne volevo un'altra ero certissimo d'esser io e non un altro a volere e non volere, e a poco a poco mi rendevo conto che era lì, la causa del mio peccato. Quello che io facevo mio malgrado, io lo subivo piuttosto che farlo, questo mi era evidente, e piuttosto che una colpa lo giudicavo una pena di cui non ingiustamente mi affliggevi, come subito riconoscevo riflettendo sulla tua giustizia. Ma poi ricominciavo a chiedermi: "Chi mi ha fatto? Non è il mio Dio, che non è solo buono, è il bene stesso? Da dove viene allora questo mio volere il male e non volere il bene, se dev'essere giusto scontarne la pena? Chi ha deposto e seminato in me questo vivaio d'amarezze, se io derivo tutto dal mio dolcissimo Dio? Se è il diavolo il suo autore, da dove viene il diavolo? E se anche nel suo caso è la volontà perversa che di un angelo buono ha fatto il diavolo, donde veniva all'angelo quel malvolere che ne avrebbe fatto il diavolo, se l'angelo era interamente opera dell'ottimo creatore?" E di nuovo mi sentivo oppresso e soffocato da questi pensieri, ma non fino a sprofondare in quell'inferno dove nessuno ti riconosce, perché si è disposti a credere che tu subisca il male piuttosto di ammettere che sia l'uomo a farlo.

4.6. C'erano altre verità che mi sforzavo di trovare, analoghe a quelle che avevo già trovato: come ad esempio che una natura incorruttibile è migliore di una corruttibile, ragione per professare, qualunque cosa tu fossi, la tua incorruttibilità. Perché nessun'anima mai ha potuto o potrà concepire qualcosa che sia migliore di te, il sommo bene, l'ottimo. Dunque, poiché è verissimo e certissimo che una cosa incorruttibile è da preferirsi a una corruttibile, e io così facevo, se tu non fossi stato incorruttibile avrei potuto arrivare a concepire qualcosa di migliore del mio Dio. Poiché dunque vedevo l'essere incorruttibile superiore a quello corruttibile, in quello appunto dovevo cercarti e quindi rendermi conto di dove sia il male, cioè da dove provenga la corruzione stessa, se la tua sostanza non può in alcun modo esserne violata. In nessun modo appunto la corruzione viola il nostro Dio: non c'è volontà né necessità né imprevisto caso per cui possa intaccarlo. Appunto perché è Dio e ciò che egli vuole è buono, anzi è lui il bene stesso: e la corruzione non è un bene. E non ti si può costringere ad agire controvoglia, perché la tua volontà non è più grande della tua potenza. Lo sarebbe, se tu fossi più grande di te stesso: perché la volontà e la potenza di Dio sono Dio stesso. E cosa c'è di imprevisto per te che sai tutto? Nessuna cosa è se tu non la conosci. Ma perché infine dilungarsi tanto sulle ragioni per cui la sostanza che è Dio non è corruttibile, quando se lo fosse non sarebbe Dio?

5.7. E cercavo l'origine del male: e la cercavo male, e non vedevo il male della mia stessa indagine. E squadernavo il creato, l'universo davanti agli occhi della mente: quello che ci è visibile, come la terra e il mare e l'aria e gli astri e gli alberi e gli animali mortali, e le cose invisibili, come il firmamento del cielo superiore e tutti gli angeli e gli altri spiriti dell'universo: ma questi, la mia immaginazione li distribuiva in vari luoghi, come fossero corpi. E facevo della tua creazione un'unica enorme massa distinta in vari generi di corpi, comprendenti tanto i corpi reali quanto quelli che io mi inventavo in luogo degli spiriti: e me l'immaginavo grande a piacere - non come era di fatto, non potevo saperlo - ma pur sempre finita in ogni direzione. Te, invece, Signore, immaginavo come un che di avvolgente che la penetrava in ogni punto, ma infinito in tutti i sensi, come un mare che fosse ovunque e fluisse unico e infinito da ogni punto dello spazio immenso e contenesse una sorta di spugna grande a piacere ma sempre finita, e quella spugna fosse pregna di quel mare immenso, fino all'ultimo poro: così mi figuravo la tua creazione finita e piena dell'infinito che tu sei. E dicevo: "Eccolo Dio, ecco le cose che ha creato Dio, Dio che è buono, è incomparabilmente migliore di esse, certo, ma pur sempre buone devono essere se lui così buono ne è autore: ed ecco come le avvolge e le riempie di sé. E allora dov'è il male, e come e da dove ha potuto insinuarsi fin qui? Qual è la sua radice, il suo seme? O forse non esiste affatto? E come mai allora evitiamo e temiamo ciò che non esiste? E poi se anche la paura è vana, un male è la paura stessa, che invano pungola e tormenta il cuore: e un male tanto più grave in quanto ciò di cui abbiamo paura non esiste, e noi ne abbiamo paura lo stesso. Perciò o c'è il male di cui abbiamo paura, oppure la stessa paura è il male. Dunque da dove viene, se Dio che è buono ha fatto buona ogni cosa? Certo, un bene maggiore, anzi il sommo, deve aver fatto beni inferiori, e tuttavia beni sono tutti, creatore e creature. Da dove viene il male? Forse da ciò che usò per farle? Che fosse un materiale cattivo, cui egli diede forma e ordine, ma lasciandovi un residuo incapace di esser trasformato in bene? E anche questo, perché? Era impotente a elaborarlo e trasformarlo completamente, senza residuo di male, lui che è onnipotente? Infine perché proprio da quella materia volle ricavare qualcosa invece di usare la sua onnipotenza per non farla esistere affatto? O forse essa poteva esistere contro la sua volontà? Oppure, se era eterna, perché l'ha lasciata esistere per infiniti intervalli di tempo prima di decidersi a farne qualcosa? O ancora, se volle compiere un'azione improvvisa, perché non quella - vista la sua onnipotenza - di annientarla per conservarsi in essere da solo, come l'intero e vero e sommo e infinito bene? O se non era bene che rinunciasse a edificare e fondare qualcosa di buono lui che era buono, perché non levar di mezzo e distruggere quella materia cattiva per produrne egli stesso di buona, con cui creare tutto? Non sarebbe stato onnipotente, se non avesse potuto conferire esistenza a qualcosa di buono senza l'aiuto di una materia non creata da lui". Di questo genere erano le cose che rimuginavo dentro il cuore triste, penetrato dai denti dell'angoscia di morire senza aver trovato il vero; però vi era saldamente ancorata anche la fede nella chiesa cattolica del tuo Cristo, Signore e Salvatore nostro. Una fede per molti aspetti ancora informe e fluida, non soggetta alla norma del suo insegnamento, che tuttavia la mente non abbandonava, rimanendone anzi di giorno in giorno più pregna.


[La libertà e il fatalismo astrale]

6.8. Ormai avevo respinto anche i falsi oracoli degli astrologi e i loro sacrileghi deliri. Anche di questo ti rendano gloria dalle profonde viscere di quest'anima i favori della tua compassione. Dio mio! Tu, sì, tu solo - e chi mai ci richiama da quella morte che è ogni errore, se non una vita incapace di morire, una sapienza che illumina le menti affamate e non consuma luce, e governa il mondo fino al tonfo leggero delle foglie! Tu provvedesti alla mia pervicacia, che m'aveva fatto resistere a Vindiciano, vecchio signore di mente sottile, e a Nebridio, giovane anima meravigliosa, quando il primo affermava con vigore, il secondo invece con qualche esitazione e tuttavia sovente, che non c'è un'arte di prevedere il futuro, ma accade spesso che le congetture umane sian favorite dal caso e che a furia di far previsioni se ne azzecchino parecchie: non perché si sia a conoscenza delle cose a venire, ma perché le si imbroccano semplicemente a furia di parlarne. Mi procurasti dunque un amico, grande appassionato di consulti astrologici, non addentro egli stesso in quella letteratura, ma, come ho detto, pieno di un'avida curiosità per i responsi. Ebbene, costui sapeva un fatto che diceva di aver sentito raccontare da suo padre, anche se ignorava quanto fosse efficace per sradicare la fama di quell'arte. Quest'uomo, dunque, di nome Firmino, colto umanista e fine conversatore, venne a chiedermi consiglio - come si fa con un amico carissimo - a proposito di certe questioni cui erano legate le sue speranze terrene: voleva sapere quale fosse il mio parere relativamente all'oroscopo basato sulle sue cosiddette costellazioni. Ma io, che avevo ormai una certa propensione verso il punto di vista di Nebridio, pur senza rifiutarmi di avanzare qualche congettura e dirgli quello che mi veniva alla mente perplessa, gli feci capire che ormai ero quasi convinto fossero tutte sciocchezze e ridicolaggini. Allora mi raccontò che suo padre aveva una sfrenata curiosità per i libri di quel genere, e un amico altrettanto appassionato a quegli studi, che vi si dedicava insieme con lui. Con pari entusiasmo e interesse i due alimentavano l'intimo fuoco con quelle sciocchezze, al punto che osservavano perfino i parti delle bestie di casa, prendendo nota delle posizioni celesti, in modo da raccogliere dati per la loro arte - per così dire. E diceva di aver sentito raccontare dal padre che mentre sua madre era incinta di lui, Firmino, anche una donna dell'amico paterno, una della servitù, si gonfiava nell'attesa di un figlio. Il che non poteva sfuggire al padrone, abituato a seguire scrupolosamente in ogni particolare i parti delle sue cagne. E così avvenne che entrambi calcolarono con minuziosa precisione, l'uno per la moglie e l'altro per la serva, il giorno, l'ora e il minuto di sgravarsi. E partorirono entrambe nello stesso momento, così che furono costretti ad assegnare rispettivamente al figlio e al piccolo servo le stesse identiche costellazioni fino al più minuto dettaglio. Infatti quando tutt'e due le donne entrarono in travaglio, i due padroni di casa si fecero reciprocamente sapere a che punto stavano le cose in casa propria, e disposero di servi da mandarsi l'un l'altro, appena fosse stata loro annunciata la nascita dei piccoli: cosa di cui non era loro difficile venire immediatamente informati, poiché ciascuno dei due era come un re nel proprio regno. E così, diceva, i messaggeri delle due parti si erano incontrati tanto esattamente a metà strada che i due padroni di casa non avrebbero assolutamente potuto registrare la minima differenza nella posizione delle stelle e nel computo degli istanti. Eppure Firmino, nato signore, se ne andava spedito e brillante per le vie del secolo, vedeva accrescersi il patrimonio, saliva di successo in successo: e quel servo, che non si era per nulla scrollato di dosso il giogo della sua condizione, continuava a servire i suoi padroni: era Firmino stesso, che l'aveva conosciuto, a confermarlo.

- 9. Dopo questo racconto - al quale non potevo che prestar fede, visto il narratore - tutte le mie resistenze crollarono e per prima cosa tentai di levar dalla mente quella curiosità allo stesso Firmino. Nel suo oroscopo, gli dicevo, per dargli un responso veridico avrei dovuto leggere la posizione primaria dei suoi genitori fra i concittadini, il prestigio della famiglia, la sua stessa origine nobiliare, l'educazione aristocratica e gli studi liberali: ma se quel servo mi avesse consultato sullo stesso oroscopo - perché era appunto identico - per dare anche a lui un responso veridico avrei questa volta dovuto leggervi la famiglia umilissima, la condizione servile e tutte le altre caratteristiche, ben diverse e lontane da quelle del primo caso. Ne conseguiva che osservando uno stesso stato di cose ne avrei fornito descrizioni diverse, se dovevano esser vere; se invece avessi dato descrizioni identiche, dovevano essere false. E ne dedussi senza più incertezza che i responsi veri ottenuti consultando gli oroscopi non sono opera d'arte ma di sorte, come quelli falsi non sono effetto dell'incompetenza ma dell'infido caso.

- 10. Da quel momento in poi diedi via libera alle mie elucubrazioni di argomenti irrefutabili contro i folli che ricavano un lucro da un imbroglio simile: ormai cresceva in me la voglia di attaccarli, ridicolizzarli e confutarli. Per far fronte all'eventuale insinuazione che il racconto di Firmino o di suo padre non fosse vero, presi a considerare il caso dei gemelli, che per la maggior parte escono dall'utero a distanza tanto breve l'uno dall'altro, che per quanto ci si sforzi di prestare a questo intervallo di tempo un potere sul corso naturale delle cose, l'osservazione umana non riesce assolutamente a rilevarlo. E neppure trova posto nelle tabelle che l'astrologo consulterà per le sue previsioni vere. Vere non saranno allora, perché osservando simboli identici dovrebbe fare identiche predizioni su Esaù e Giacobbe: ma non sono identiche le cose capitate a ciascuno dei due. L'astrologo direbbe dunque il falso: o, se dicesse il vero, non farebbe predizioni identiche; eppure identici sono i dati che osserva. Se dicesse il vero dunque non sarebbe in virtù dell'arte, ma della buona sorte. Infatti tu, Signore, regolatore giustissimo dell'universo, all'insaputa di chi chiede e di chi offre responsi ti servi di un segreto istinto per far sentire dall'abisso del tuo giusto giudizio a chi è in cerca di un responso quello che gli si confà, secondo i meriti segreti delle anime. E nessun uomo allora si domandi "Che significa questo?" , "A che scopo?" Non lo chieda, non lo chieda: perché non è che un uomo.


[Soffrire una metafisica]

7.11. Mio difensore, mi avevi ormai sciolto dalle catene: e cercavo l'origine del male, senza fine. Ma tu non mi lasciavi strappar via dalle onde del pensiero a quella fede che mi faceva credere alla tua esistenza e all'immutabilità del tuo essere e al tuo governo e giudizio sugli uomini e alla via da te stabilita per la salvezza umana. La via per quella vita che sarà dopo la morte, e che passa per Cristo, figlio tuo e nostro Signore, e per le Sacre Scritture, garantite dall'autorità della tua Chiesa cattolica. Dati questi incrollabili principi, salvi in fondo alla mente, io cercavo furioso l'origine del male. Che tormenti, Dio mio, questo parto del cuore, che lungo pianto. E le tue orecchie erano lì, e non lo sapevo. E quando ritrovavo la forza di cercare in silenzio, era la mente coi suoi muti spasimi che chiamava a gran voce la tua compassione. Tu lo sapevi quello che soffrivo: gli uomini no, nessuno. Quanta vuoi che la mia lingua potesse scaricarne, di questa sofferenza, dentro alle orecchie degli amici intimi? Gli arrivava forse il frastuono di tutta quella rivoluzione dell'anima, che a dirla non bastava né il tempo né la bocca? Al tuo orecchio però arrivava tutto, il ruggito del cuore, del mio pianto, davanti a te moriva il desiderio e non era con me il lume dei miei occhi. Era dentro di me, ma io ero fuori; dentro, ma non come in un luogo. E io tendevo lo sguardo alle cose che occupano un luogo, senza trovarne uno in cui posare, e quelli che trovavo non m'accoglievano tutto, finché potessi dire "Basta", e "Sto bene", e neppure mi lasciavano tornare dove abbastanza bene sarei stato. Ero al di sopra di loro ma al di sotto di te: mia vera gioia - se a te mi fossi assoggettato, come tu avevi assoggettato a me ciò che avevi creato a me inferiore. Sarebbe stata questa la giusta misura e il paese mediano della mia salvezza: continuare a esistere a tua immagine, servire te e dominare il corpo. Ma l'orgoglio mi sollevava contro di te e mi lanciavo a collo duro contro il mio Signore: e così anche le infime cose m'erano sopra, e mi schiacciavano, fino a non lasciarmi più tregua e respiro. Ce n'erano a caterve, mi venivano incontro da ogni parte, affollavano tutto il visibile: e se mi mettevo a pensare erano le immagini stesse dei corpi che mi sbarravano la via del ritorno, quasi dicessero: "Dove vai, così sordido e indegno?" E anche queste immagini crescevano dalla mia ferita, perché come un ferito hai umiliato il superbo: era il tumore della mia superbia a separarmi da te, a farmi la faccia gonfia fino a chiudermi gli occhi.

8.12. Ma tu, Signore, permani in eterno, e non dura in eterno la tua ira, perché hai preso pietà della terra e della cenere, e ai tuoi occhi è piaciuto riformare le mie deformità. E a furia di spronarmi interiormente mi facevi impazzire d'inquietudine, perché non mi dessi per vinto finché la vista interiore non m'avesse fatto certo di te. E sotto la segreta potenza della tua medicina quel mio tumore si sgonfiava, e alla vista offuscata e ottenebrata della mia mente l'aspro collirio del dolore rendeva di giorno in giorno la salute.


[I libri dei Platonici e Il Prologo di Giovanni]

9.13. E in primo luogo volevi mostrarmi come tu resisti ai superbi, ma agli umili doni la grazia, e l'accorato amore con cui hai indicato agli uomini la via dell'umiltà, poiché la tua parola si fece carne e abitò fra gli uomini. Così attraverso un uomo che scoppiava di boria, un pallone gonfiato, mi procurasti alcuni libri di platonici in versione latina dal greco originale: e in quei libri trovai scritto, non con queste parole ma in un senso identico e sostenuto da molte e varie argomentazioni, che in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio: esso era in principio presso Dio; tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla fu fatto; ciò che fu fatto in lui è vita, e vita era la luce degli uomini; e la luce risplende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno compresa; e come l'anima dell'uomo, benché renda testimonianza del lume non è il lume stesso, ma Dio-Verbo è il lume vero che illumina ogni uomo venuto a questo mondo; e come era in questo mondo, e il mondo fu fatto per mezzo suo, e il mondo non lo conobbe. Ma che egli venne in casa sua, e i suoi non lo accolsero, e a tutti quelli che lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio, a loro che avevano creduto nel suo nome: questo non lo lessi in quei libri.

- 14. E anche vi lessi che la Parola, Dio, nasce non dalla volontà dell'uomo né dalla volontà della carne, ma da Dio; però non vi trovai che la Parola fu fatta carne e abitò in noi. In quei testi scopersi anche, è vero, variamente e diversamente formulato, il pensiero che il figlio essendo conforme al Padre non ritenne usurpata la sua parità a Dio, poiché è per natura a lui identico. Ma non sanno, quei libri, perché annichilò se stesso / prese forma di servo / fatto simile all'uomo / uomo fin nell'aspetto / e si umiliò ubbidendo / fino a morire: / e a morire in croce. / Perciò Dio l'ha levato / dai morti, e gli ha donato un nome / sopra ogni nome / perché nel nome di Gesù si pieghi / il ginocchio a ciascuno dei viventi / del cielo, della terra e dell'inferno / e ogni lingua proclami / che vive nella gloria di Dio padre / Gesù, il Signore. Che prima del tempo e al di sopra del tempo permane immutabile il tuo figlio unigenito a te coeterno; che le anime attingono la propria beatitudine dalla sua pienezza, e che partecipando di quella sapienza che in se sola siede si rinnovano per divenir sapienti, questo sì, c'è scritto. Ma che morì per gli empi al tempo stabilito e tu non risparmiasti il tuo unico figlio, ma lo consegnasti prigioniero per amore di tutti noi, questo non c'è scritto. Già, queste cose le hai nascoste ai sapienti e rivelate ai piccoli, perché venissero da lui quelli che portano il peso del dolore e della fatica e trovassero conforto in lui che è mite e umile di cuore, e conduce i miti alla giustizia e indica ai mansueti la via, e vede la nostra miseria e la nostra pena e ci condona tutti i peccati. Ma quelli che dall'alto dei loro coturni di dottrina vanno insegnando cose più sublimi non ascoltano le sue parole: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per l'anima. Costoro, è vero, conoscono Dio, ma non gli rendono la gloria e le grazie dovute a Dio, e si svagano nei loro pensieri e il loro cuore insipiente si fa buio, e proclamando la propria sapienza diventano pazzi .

- 15. E in quei libri leggevo dunque anche la tua gloria incorruttibile trasformata in idoli e simulacri di ogni genere, nelle sembianze di uomo corruttibile, di volatili, quadrupedi e serpenti. Tutto cibo d'Egitto questo, per il quale Esaù perdette la sua primogenitura, come fece il tuo popolo primogenito che adorò in tua vece una testa di quadrupede, col cuore rivolto all'Egitto e l'anima, immagine tua, piegata davanti all'immagine di un vitello ruminante. Anche questo ho trovato in quei libri, ma non ne ho mangiato. Infatti piacque a te, Signore, liberare Giacobbe dal disprezzo della sua inferiorità, perché il maggiore servisse il minore, e chiamasti i pagani a raccogliere la tua eredità. E io che dai pagani ero venuto a te puntai lo sguardo sull'oro che hai voluto il tuo popolo portasse dall'Egitto, perché era tuo, dovunque fosse. E hai detto agli Ateniesi per bocca dell'Apostolo che in te viviamo, ci muoviamo e siamo, come disse anche qualcuno dei loro autori: e senza dubbio di là venivano anche quei libri. E io non degnai di uno sguardo gli idoli degli egiziani, ai quali sacrificavano il tuo oro quelli che trasformarono la verità di Dio in menzogna e prestarono culto e servizio alla creatura invece che al creatore.


[Lezione platonica: il ritorno a se stessi]

10.16. Ne accolsi il consiglio di tornare a me stesso e con la tua guida entrai nel mio mondo interiore: e ci riuscii perché t'eri fatto mio sostegno. Vi entrai, e con l'occhio di quest'anima, quale che fosse, vidi al di sopra dell'occhio stesso di quest'anima, al di sopra di questa mente, la luce che non muta. Non era questa ordinaria e visibile a ogni carne, e neppure era una luce più intensa ma dello stesso genere, come se questa facendosi molto, ma molto più chiara si diffondesse con la sua potenza per l'universo intero. Altro era, ben altra cosa che tutte queste luci... E non era al di sopra della mia mente come sta l'olio sopra l'acqua, o anche il cielo sopra la terra: era più in alto di me perché era lei ad avermi fatto, e io ero più in basso, perché fatto da lei. Conoscere la verità è conoscer lei, conoscer lei è conoscere l'eternità. L'amore la conosce. Eterna verità e amore vero e amata eternità! Tu sei il mio Dio, per te sospiro giorno e notte. La prima volta che ti ho conosciuto tu mi hai raccolto, perché vedessi che c'era da vedere, e che ancora non ero io a vedere. E m'hai abbacinato gli occhi incerti con il fulgore del tuo raggio, e ho tremato d'amore e di spavento: e ho scoperto che ero lontano da te nel paese della difformità, e mi pareva di udire la tua voce dall'alto: "Sono il cibo dei grandi: cresci e mi mangerai. E non io sarò assimilato a te come cibo della tua carne, ma tu sarai assimilato a me". E capii che per punire la sua malvagità hai istruito l'uomo e come ragnatela hai ridotto quest'anima, e domandai: "La verità non esiste, se non occupa lo spazio finito o infinito?" - E tu gridasti da lontano: "Sono io, io che sono" . Udii, con l'udito del cuore: e non avevo più ragione di dubitare, e mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza che di quella della verità, la quale si rende visibile all'intelligenza mediante le cose che per suo mezzo furono fatte.

11.17. E considerai tutte le cose che sono al di sotto di te e vidi che non si può dire in modo assoluto né che esistono né che non esistono: a loro modo esistono, perché derivano da te, non esistono perché non sono ciò che sei tu: ed esiste veramente ciò che permane immutabile. Ma il mio bene è l'adesione a Dio: perché se non durerò in lui, neppure in me potrò durare. Invece lui tutto rinnova restando in se stesso: e sei tu il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni.


[Valore di tutto ciò che esiste]

12.18. E mi fu chiaro che sono buone le cose soggette a corruzione: perché non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi né se non fossero beni. Se fossero sommi beni sarebbero incorruttibili, ma se non fossero beni affatto non avrebbero in sé di che farsi corrompere. La corruzione infatti è un danno: e se non c'è diminuzione di bene non c'è danno. Dunque o la corruzione non arreca alcun danno, il che è impossibile, oppure - il che è certissimo - tutto ciò che si corrompe subisce una privazione di valore. Ma se la privazione di valore è totale, una cosa cesserà di esistere. Se infatti una cosa continua a esistere senza poter più essere corrotta, allora sarà migliore, perché perdurerà incorruttibile. E che cosa è più mostruoso dell'asserzione che una cosa diventa migliore per aver perduto ogni valore? Dunque se un ente sarà privato di ogni valore, sarà un assoluto niente: dunque in quanto esiste, è buono. Dunque tutto ciò che esiste è buono, e quel male di cui io cercavo l'origine non è una sostanza, perché se fosse una sostanza sarebbe un bene. Infatti sarebbe o una sostanza incorruttibile, certamente quindi un grande bene, o una sostanza corruttibile, che se non fosse buona non potrebbe essere corrotta. E così mi fu chiaro ed evidente che tu hai fatto buone tutte le cose, e non esistono assolutamente sostanze che non abbia fatto tu. E poiché non le hai fatte tutte uguali, tutte esistono in quanto sono singolarmente buone e tutte insieme molto buone. Già, il nostro Dio fece tutte le cose molto buone.

13.19. E in te il male non esiste affatto: e non soltanto in te, ma neppure in tutto l'universo creato, perché nulla può irrompere da fuori e corrompere l'ordine che tu gli hai imposto. Tra le parti dell'universo poi alcune, solo perché non si adattano ad altre, sono ritenute cattive; eppure ad altre si adattano, queste stesse cose, e per loro sono buone, e sono buone in se stesse. E tutte queste che non s'adattano a vicenda si adattano alla parte inferiore delle cose, che chiamiamo terra, e che ha un suo cielo pieno di nuvole e vento, a lei congruo. Ormai mi guarderò bene dal dire "Ah se non esistessero cose del genere!" Perché se anche non potessi vederne altre, certo sentirei la mancanza di cose migliori, ma anche così dovrei renderti lode per queste sole. Perché ti additano a lode su dalla terra i draghi e il fondo di tutti gli abissi, / e fuoco e grandine e neve e ghiacci / e il soffio di tempesta in cui tu parli / e i monti e le colline e gli alberi da frutta, / e tutti i cedri, le fiere e il bestiame, / e i rettili e i volatili pennuti, / e tutti i re della terra e i popoli, / tutti i principi e i giudici, / le vergini e i ragazzi, / i giovani coi vecchi / lodino il nome, il tuo. Ma anche dai cieli salgono a te le lodi: e allora ti lodino, Dio nostro, tutti i tuoi angeli dalle case celesti, / tutte le tue potenze, e sole e luna, / tutte le luminarie delle stelle, / e il cielo estremo dei cieli, e le acque / che stanno in alto, al di sopra dei cieli / lodino il nome, il tuo. E ormai non la sentivo, la mancanza di cose migliori, perché tutte le contemplavo col pensiero: e certamente stimavo le cose più alte migliori di quelle più basse, ma anche il tutto migliore delle sole più alte. Questo era il mio più ponderato giudizio.


[Il dualismo e la superbia]

14.20. Non c'è niente di sano in quelli a cui qualcosa dispiace nel creato: come non c'era in me quando non mi piacevano molte delle tue opere. E poiché quest'anima non osava avere a fastidio il mio Dio, non voleva fosse tuo ciò che le dispiaceva. Ed era questo che l'aveva indotta a credere in due sostanze, e a non trovare requie e a usare un linguaggio non suo. E poi, ritornando sui suoi passi, si era fabbricata un dio nello spazio illimitato dell'universo e s'era immaginata che questo fossi tu e se l'era insediato in cuore e s'era ricostituita diventando un tempio del suo idolo, abominio ai tuoi occhi. Ma dopo che posasti sul tuo petto la mia testa ignara, e mi chiudesti gli occhi, che non vedessero più cose vane, mi ritirai un poco da me stesso, e si assopì la mia pazzia. E in te mi risvegliai, e ti vidi infinito in altro modo, di una visione che non era la carne a portare.

15.21. E posi mente alle altre cose e vidi che a te debbono l'esistenza e tutte hanno in te il loro limite, ma non in senso spaziale: bensì in quanto sei tu che tieni in mano il tutto nella verità: e ogni cosa è vera in quanto è, e non esiste il falso se non in quanto si crede che sia ciò che non è. E vidi che ogni cosa non soltanto ha il suo posto, ma il suo tempo: e che tu, il solo essere eterno, non hai dato inizio alla tua opera dopo un intervallo di tempo incalcolabile e vuoto, perché nessun intervallo di tempo passato sarebbe passato, e nessuno a venire verrebbe, se non sul fondamento del tuo operare e permanere.

16.22. E capii per esperienza che non c'è da stupirsi se al palato non sano riesce penoso il pane, che a quello sano è gradevole, e agli occhi ammalati riesce odiosa la luce, che quelli limpidi trovano amabile. La tua giustizia dispiace ai malvagi: figuriamoci poi la vipera e il verme, che tu hai creato buoni, adatti alle parti più basse del creato. Come vi si adattano i malvagi, del resto, quanto più dissimili sono da te - essi che pure sono adatti alle parti più alte, quanto più simili si fanno a te. E ricercai l'essenza della malvagità, e non trovai una sostanza, ma la perversione della volontà che si distoglie dalla sostanza somma, la tua, Dio, per torcersi verso le cose più basse, con le viscere proiettate fuori e il ventre gonfio.


[Trascendenza della verità]

17.23. Ed ero meravigliato di amarti già, te e non un fantasma. Eppure non pervenivo a un possesso stabile del mio Dio: il tuo fascino mi rapiva a te e subito mi strappava da te il mio peso, e ripiombavo quaggiù, piangendo. E questo peso era fatto di consuetudini della carne. Ma in me viveva la memoria di te, e non avevo alcun dubbio che ci fosse, un essere che richiedeva la mia più profonda adesione: ma ancora non c'ero io, per aderirvi. Perché un corpo corruttibile pesa sull'anima, e la dimora terrena deprime la coscienza affollata di pensieri. E io ero certissimo che dalla fondazione del mondo le tue proprietà invisibili si rendono visibili all'intelligenza mediante le tue opere, e così la tua divinità e potenza eterna. Infatti nell'indagare la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi, celesti o terrestri, e la regola in base a cui senza esitare emettevo giudizi sulle cose soggette a mutamento: "Questo dev'esser così, quello no", nell'indagare dunque la regola di questi apprezzamenti e giudizi, avevo trovato l'immutabile e vera eternità del vero al di sopra della mia mente mutevole. Così salivo di grado in grado, dai corpi all'anima che del corpo si serve per sentire e di lì al senso interno, che i sensi del corpo informano sul mondo esterno - il massimo cui giungono le bestie, e di lì ancora alla facoltà razionale, al cui giudizio si propone il contenuto delle percezioni sensoriali; e quando in me anche questa si scoprì mutevole, si sollevò all'intelligenza di sé e distolse il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi a una folla di immagini fantastiche e contradditorie. E ritrovò la luce che l'aveva inondata quando senza esitare aveva dichiarato l'immutabile migliore di ciò che muta: la luce in cui l'aveva conosciuto, l'immutabile - perché se non ne aveva alcuna idea non poteva esser così certa di preferirlo al mutevole. E giunse infine a ciò che è, nel lampo in cui la vista si smarrisce: e allora sì, vidi la tua invisibile potenza attraverso le tue opere, e compresi... ma non riuscii a fissarvi lo sguardo e ricaddi spossato nei soliti giorni, senz'altro portare con me che la memoria innamorata e struggente: come di un profumo di cose che ancora non potevo gustare.


[Necessità del Cristo mediatore]

18.24. E cercavo la via per acquistare la forza necessaria a godere di te, e non l'avrei trovata finché non avessi abbracciato il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Gesù Cristo, che è sopra ogni cosa Dio benedetto nei secoli, e chiama dicendo: Io sono la via e la verità e la vita e fonde alla sua carne il cibo che non ero in grado di prendere. Infatti la Parola s'è fatta carne, perché la sapienza con cui creasti ogni cosa divenisse latte per la nostra infanzia. Non ero ancora umile abbastanza per possedere il mio umiliato Dio, Gesù, e non sapevo quale scuola fosse la sua fragilità. La tua Parola, eterna verità, che svetta alta sopra le parti più alte del creato, innalza fino a sé chi le è soggetto, ma nelle regioni più basse s'è costruita un'umile dimora col nostro fango, per poter tirar giù dal loro io quelli da assoggettare, e attirarli a sé, guarendoli della loro tronfiaggine col nutrirli d'amore. Così che la fiducia in se stessi non li portasse troppo lontano, e anzi vacillassero alla vista della divinità vacillante ai loro piedi, per essersi addossato il peso del nostro abito di pelle. E cadessero infine stanchi ai piedi di lei, che rialzandosi li avrebbe sollevati con sé.

19.25. Io però avevo altre opinioni, e Cristo, il mio Signore, lo stimavo come un uomo di sapienza sublime, un uomo senza pari. Tanto più che con la sua nascita meravigliosa da una vergine - emblema questo del disprezzo per le leggi del mondo, di fronte alla prospettiva di conquistare l'immortalità - sembrava avesse avuto in sorte il magistero di un'autorità tanto grande dalla divinità, sempre sollecita del nostro destino. Ma il sacro mistero di quella Parola fatta carne, neppure potevo sospettarlo. Sapevo solo, da tutto ciò che su di lui si trova nella tradizione scritta - e cioè che mangiò e bevve, dormì, se ne andò in giro, rise e provò tristezza e tenne discorsi - che quella carne non avrebbe potuto unirsi alla tua parola se non con un'anima e una mente umane. Questo lo sa chiunque sa che la tua Parola è immutabile, come io già sapevo sia pur nei limiti delle mie possibilità, senza comunque metterlo minimamente in dubbio. In effetti cose come muovere o no, a seconda dei momenti, le membra volontariamente, trovarsi ora in questo ora in quello stato d'animo, servirsi di una lingua per esprimere pensieri o restarsene in silenzio a seconda dei casi: sono caratteristiche di una psiche e di una mente soggette a mutamento. E se queste testimonianze della tradizione scritta fossero false, rischierebbe di passare per falso anche tutto il resto, e al genere umano non resterebbe per la sua salvezza più ombra di fede in quei libri. Ma, poiché invece sono veridici, ero così portato a riconoscere in Cristo tutto l'uomo, non soltanto il corpo di un uomo o il corpo e l'anima ma non l'intelligenza; ma quest'uomo lo ritenevo superiore a tutti gli altri non perché fosse la verità in persona, ma per una particolare eccellenza della natura umana in lui, che lo faceva più compiutamente partecipe della sapienza. Alipio dal canto suo pensava che per i cattolici Dio s'era incarnato in modo che nel Cristo non ci fosse che Dio e la carne, e non riteneva che essi gli attribuissero anima e intelligenza umana. E siccome era ben persuaso che le azioni a lui ascritte dalla tradizione non possono compiersi che da una creatura animata e razionale, era piuttosto restio ad abbracciare la fede cristiana. Più tardi però, quando venne a sapere che questo era l'errore degli eretici apollinaristi, fu ben lieto di adeguarsi alla fede cattolica. Quanto a me, confesso di aver imparato un po' più tardi a dirimere, nella proposizione che la Parola si fece carne, la verità cattolica dalla falsa concezione di Fotino. È proprio vero che la confutazione degli eretici fa risaltare più netto il pensiero e il retto insegnamento della tua Chiesa. Furono necessarie anche le eresie, perché fra i deboli emergessero gli uomini di provata fede.

20.26. Ma allora, dopo aver letto quei libri dei platonici e averne accolto l'invito a cercare una verità incorporea vidi e compresi attraverso le cose create la tua potenza invisibile: e pur essendone respinto sentii di cosa il buio di quest'anima mi impediva la visione. Fui certo che esistevi ed eri infinito, ma senza occupare lo spazio, finito o infinito che fosse, che anzi esistevi in senso proprio, tu che eri sempre identico a te stesso, e per nessunissimo aspetto o movimento mai diverso o altrimenti atteggiato, mentre tutte le altre cose avevano da te l'esistenza, in base a quest'unica certissima prova, che esistevano. Certo di tutto questo ero, eppure ancora troppo malfermo per possederti. Anzi ero garrulo come un vero esperto, e se non avessi cercato la via verso di te in Cristo, nostro salvatore, sarei stato perituro più che perito. Già avevo cominciato a voler apparire sapiente, pieno com'ero della mia pena, e invece di piangere mi inorgoglivo addirittura di questa consapevolezza. Dov'era quell'amore che costruisce sul fondamento dell'umiltà, cioè Gesù Cristo? E come avrebbero potuto insegnarmelo, quei libri? In quelle pagine credo tu abbia voluto che mi imbattessi prima di meditare le tue scritture, perché l'eccitazione che suscitarono in me mi si imprimesse nella memoria, così che più tardi, quando sotto l'effetto calmante dei tuoi libri e la medicante carezza delle tue dita le mie ferite avrebbero cominciato a rimarginarsi, potessi afferrare bene la differenza che passa fra presunzione e confessione, fra il vedere dove bisogna andare senza vedere come, e la via che conduce al felice paese dell'origine, per abitarlo e non solo vederlo. Se mi fossi dapprima formato sulle tue Sacre Scritture e nella loro assidua pratica tu m'avessi lasciato assaporare tutta la tua dolcezza, e poi mi fossi imbattuto in quei volumi, forse mi avrebbero strappato via dalla solida base della devozione; o forse, se fossi perdurato nella salute dei sentimenti che avevo assorbito, avrei creduto che a concepirli sarebbe bastato anche lo studio di quei libri, da soli.


[Lettura di Paolo]

21.27. E così mi gettai con avidità grandissima sulle preziose pagine dettate dal tuo spirito, e soprattutto sull'apostolo Paolo: ed erano svanite le difficoltà che mi erano parse a volte metterlo in contraddizione con se stesso e in contrasto con le testimonianze della legge e dei profeti. Vidi nell'oro puro delle sue parole un solo volto e imparai una gioia che spaventa. Fin dalla prima pagina scoprii che tutto quanto di vero avevo letto là qua era detto con la garanzia della tua grazia, perché chi vede non se ne vanti: come se non fosse un dono ricevuto, non solo ciò che vede, ma lo stesso vedere - e che cosa possiede che non abbia ricevuto? E perché vi trovi non soltanto istruzioni per imparare a vedere te, che sei sempre lo stesso, ma anche la guarigione senza cui non si può possederti. E perché si metta in cammino chi è troppo lontano per vederti, finché arrivi a vederti e a possederti. Infatti, anche se l'uomo si rallegra della legge di Dio secondo l'uomo interiore, che cosa farà di quell'altra legge del suo corpo che osteggia quella della sua mente e lo rende prigioniero della legge del peccato, che dimora nel suo corpo? Perché tu sei giusto, Signore: ma noi abbiamo peccato, agito da ingiusti, con malvagità, e la tua mano è gravata su di noi, e giustamente siamo stati consegnati al peccatore antico, il ministro della morte, che ha persuaso la nostra volontà perché si uniformasse alla sua, a causa della quale non permase nella tua verità. Che farà, pover'uomo? Chi lo libererà dal corpo che porta questa morte? Solo la tua grazia attraverso Gesù Cristo, il nostro signore, che hai generato a te coeterno e posto al principio delle vie della tua creazione, nel quale il principe di questo mondo non trovò cosa degna di morire: e tuttavia l'uccise; e così fu cancellato il memoriale che era contro di noi. Tutto questo non c'è in quegli altri libri. Quelle pagine non hanno il volto di questa pietà, il pianto di una confessione, il tuo sacrificio, l'angoscia della mente, il cuore avvilito e umiliato, e poi la salvezza delle masse, la città sposa, il pegno dello Spirito Santo, il calice del nostro riscatto. Là non si sente cantare E non si piegherà l'anima a Dio / a Dio da cui mi viene ogni salvezza? / Solo lui è mia rupe e mia salvezza / Io non mi lascerò spostare. E non si sente chiamare Venite a me, voi che soffrite. Là si disdegna anzi il suo insegnamento, perché è mite e umile di cuore. Già, hai nascosto queste verità ai sapienti e agli avveduti, e le hai rivelate ai piccoli. Altro è vedere dal ciglio di una selva il paese della pace e non trovare la strada che vi conduce e invano arrancare per impervie pendici, braccati dai disertori di Dio, in fuga dietro al loro principe drago e leone; altro è trovarsi sulla giusta via, sorvegliata e difesa dall'imperatore del cielo contro le razzie degli angeli fuggiaschi dall'esercito celeste: che ne stanno alla larga come dal supplizio. Così per vie mirabili tutto questo m'entrava nelle viscere, mentre leggevo l'ultimo dei tuoi apostoli e meditavo sulle tue opere, sgomento.


LIBRO OTTAVO
[LA CONVERSIONE]

1.1. Dio mio, ti renda grazie la mia memoria nel confessarti la tua bontà verso di me. Penetra le mie ossa del tuo amore, fino a che dicano: Chi è come te, Signore? Hai spezzato le mie catene: ti offrirò un sacrificio di lode. Io narrerò come tu le hai spezzate, e tutti quelli che adorano te ascolteranno, e poi diranno: Benedetto il signore in cielo e in terra! Grande e meraviglioso è il suo nome. Le tue parole mi s'erano conficcate nelle viscere, la muraglia di te mi circondava da ogni parte. Della tua vita eterna ero certo, benché l'avessi vista soltanto in enigma e come in uno specchio; ma ogni dubbio riguardo alla sostanza incorruttibile come origine di ogni sostanza era svanito. E non desideravo esser più certo di te, ma più stabile in te. Ma appunto dal lato della mia vita temporale tutto vacillava e bisognava ripulire il cuore dal lievito vecchio; la via, il Salvatore stesso mi piaceva e ancora mi dispiaceva passare per le sue strettoie. E mi ispirasti l'idea che avrei fatto bene ad andare a trovare Simpliciano, che mi pareva un tuo buon servitore: in lui riluceva la tua grazia. Avevo anche sentito dire che fin dalla sua giovinezza aveva interamente consacrato a te la sua vita; ormai era vecchio e mi pareva che in tanti anni così ben spesi nella ricerca appassionata della tua vita dovesse aver acquistato molta esperienza, molta dottrina: e così era infatti. Perciò volevo confidargli i miei turbamenti, perché mi suggerisse il modo di mettermi per la tua via che riteneva più adatto a uno nella mia condizione.

- 2. Vedevo infatti la chiesa piena, ma chi ci andava in un modo, chi in un altro. E d'altra parte la mia attività professionale ormai mi disgustava, e m'era di peso da quando le aspirazioni di una volta, come le speranze di carriera e di guadagno, non erano più abbastanza ardenti da farmi sopportare quel giogo così oneroso. Ormai tutto questo non mi attirava più della tua dolcezza e dello splendore della tua casa, che avevo cara; ma ancora mi teneva stretto col suo forte legame la donna. Certo, l'Apostolo non si opponeva a che io mi sposassi, nonostante me ne sentissi esortato a una condizione migliore, non foss'altro del suo desiderio che tutti gli uomini fossero come lui. Ma io, più debole, preferivo una posizione più confortevole, e per quest'unica ragione finivo per strascicarmi fiaccamente anche nel resto e per farmi consumare dalle ansie più verminose: perché mi vedevo costretto a compromessi intollerabili dalle esigenze di quella vita coniugale da cui ero così fortemente attratto.
Avevo udito dalla bocca della verità che esistono eunuchi che si evirarono di mano propria per il regno dei cieli; ma lì si dice anche, chi può intendere, intenda! Sono certamente vani tutti gli uomini in cui non abita la conoscenza di Dio, e che partendo dalle cose che ci appaiono buone non hanno saputo trovare colui che è. Ma vano in questo senso io non lo ero più: m'ero sollevato al di sopra di quella condizione e nella testimonianza dell'universo creato avevo trovato te, nostro creatore, e il tuo Verbo, Dio presso di te e con te unico Dio, per cui mezzo hai creato ogni cosa. E c'è un altro genere di uomini irreligiosi, quelli che, pur conoscendo Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie. Anche in questo errore ero incorso, ma la tua destra mi raccolse: mi levasti di là e mi posasti dove potessi guarire. Perché hai detto all'uomo: Ecco, temere Dio è sapienza, e: Non cercare di apparire sapiente, perché proclamandosi sapienti sono divenuti pazzi. E avevo ormai trovato la perla preziosa, e avrei dovuto vendere tutto quello che avevo per comprarla: ed esitavo.


[Visita a Simpliciano. La conversione di Vittorino]

2.3. Andai dunque a trovare Simpliciano, padre dell'allora vescovo Ambrogio per la grazia che questi ne aveva ricevuta, tanto che lo amava veramente come un padre. Gli raccontai del mio vizioso girovagare. Ma appena allusi alla mia lettura di alcuni libri di platonici, che Vittorino - già retore a Roma, e a quanto avevo appreso morto cristiano - aveva tradotto in latino, si congratulò con me che non mi fossi imbattuto negli scritti di altri filosofi, pieni di sofismi e illusioni in base ai principi di questo mondo, mentre in questi veniva suggerita in tutti i modi l'idea di Dio e della sua Parola. Poi, per incoraggiarmi all'umiltà di Cristo nascosta ai sapienti e rivelata ai piccoli, si mise a rievocare lo stesso Vittorino, che aveva conosciuto benissimo quando stava a Roma, e mi raccontò di lui particolari che non passerò sotto silenzio. Perché offre occasione di rendere grande lode alla tua grazia la storia di quel vecchio dottissimo, gran conoscitore di tutte le arti liberali, che aveva letto e meditato tante opere di filosofia, che era stato maestro di tanti senatori famosi, e anche per il prestigio del suo luminoso insegnamento aveva meritato e accettato che gli fosse dedicata una statua nel foro romano (premio veramente insigne per i cittadini di questo mondo). Quel vecchio era stato fino ad allora devoto agli idoli e coinvolto in cerimonie sacrileghe, nel fervore delle quali quasi tutta la nobiltà romana insufflava nel popolo il culto di Osiride e di ogni razza di strambi dei, come il latrante Anubi, i quali avevano preso le armi
contro Nettuno e Venere e Minerva
tanto che Roma dopo averli vinti li supplicava. Questo vecchio Vittorino, che per tanti anni aveva tuonato in loro difesa, non s'era vergognato di farsi bambino di Cristo e infante alla tua fonte, di piegare il collo al giogo dell'umiltà e di chinare la fronte allo scandalo della croce.

- 4. Mio Signore, Signore che hai inclinato i cieli per scendere quaggiù, che hai toccato i monti e li hai fatti fumare, per quali vie ti insinuasti in quel cuore? Leggeva, a detta di Simpliciano, le Sacre Scritture, e studiava con grandissima passione tutti i testi cristiani, e diceva a Simpliciano, non in pubblico ma in privato e in gran confidenza: "Lo sai che sono già cristiano". E quello ribatteva: "Non ci crederò e non ti conterò fra i cristiani finché non ti avrò visto nella chiesa di Cristo". Allora quello sorrideva: "Sono i muri dunque a fare i cristiani?" E lo diceva spesso, di essere già cristiano, e Simpliciano gli rispondeva ogni volta a quel modo e l'altro da capo con la sua battuta dei muri. In realtà temeva di dispiacere i suoi amici, quegli orgogliosi cultori del demonio, supponendo che dall'alto dei loro babilonici fasti, quasi cedri del Libano non ancora abbattuti dal Signore, gli sarebbe piombata addosso la loro ostilità. Ma poi dalle sue avide letture ricavò la fermezza necessaria, e il timore di essere respinto da Cristo di fronte agli angeli santi, se a sua volta avesse avuto paura di riconoscerlo di fronte agli uomini, e sentì che commetteva una colpa grave a vergognarsi dei sacri misteri dell'umiltà del tuo verbo, e a non vergognarsi delle cerimonie sacrileghe dei demoni superbi, che da superbo imitatore accettava; allora di colpo depose la sua reverenza per la vanità e arrossì di fronte alla verità, e all'improvviso piombò inaspettato da Simpliciano per dirgli, come lui stesso raccontava: "Andiamo in chiesa: voglio farmi cristiano". E quello, che non stava più in sé dalla gioia, ve lo accompagnò. Là ricevette la prima iniziazione ai sacri misteri, e non molto tempo dopo diede il suo nome per essere rigenerato col battesimo, mentre Roma guardava stupefatta e la chiesa esultava. I superbi andavano su tutte le furie a quella vista, digrignavano i denti e si rodevano. Ma il tuo servo aveva il signore Dio per sua speranza e non guardava quei vani e bugiardi deliri.

- 5. Venne infine il momento della professione di fede. Che a Roma è d'uso sia resa da coloro che stanno per accedere alla tua grazia con le parole di una formula fissa e appresa a memoria, da un luogo ben visibile, davanti alla massa dei fedeli. A Vittorino, a quanto pare, i preti avevano offerto di fare la sua dichiarazione a porte chiuse, secondo la possibilità offerta come di consueto a quei pochi che la loro riservatezza esponeva a una crisi di panico. Ma lui aveva preferito professare la sua salvezza di fronte a quella santa folla. Perché non era la salvezza quella che insegnava dalla sua cattedra di retorica, eppure l'aveva professata in pubblico. A maggior ragione non doveva aver paura di pronunciare di fronte al tuo gregge mansueto la tua parola, uno che pronunciava senza paura le sue proprie di fronte a pubblici deliranti. E così mentre saliva per fare la sua professione, il suo nome corse in un mormorio di approvazione fra i presenti che lo conoscevano, passando di bocca in bocca. Ma chi non lo conosceva, a Roma? E un sommesso grido di gioia risuonò sulle labbra di tutti: "Vittorino, Vittorino!" Si levò dalla folla improvviso questo grido di giubilo alla sua vista, e altrettanto improvviso fu il silenzio con cui la folla si dispose ad ascoltarlo. Con luminosa sicurezza egli recitò la sua professione di vera fede, e ciascuno avrebbe voluto portarselo via, nel proprio cuore. E se lo presero infatti, con mani d'amore e di gioia, mani rapaci.


[Sul valore di ciò che era perduto]

3.6. Buon Dio, che cosa c'è nell'uomo, che lo fa più felice quando un'anima già data per perduta si salva e viene liberata da un pericolo più grande, che quando non aveva mai smesso di sperare e il pericolo era minore? E anche tu, padre misericordioso, gioisci più di un solo uomo che si pente che di novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi. E anche noi proviamo una grande allegria ogni volta che ascoltiamo raccontare quanto erano felici le spalle del pastore che riportava a casa la pecora smarrita, e come fra le congratulazioni delle vicine la dracma perduta dalla donna sia riposta di nuovo fra i tuoi tesori, e ci fa piangere di gioia la festa della tua casa, ogni volta che nella tua casa leggiamo del tuo figlio minore che era morto ed è tornato a vivere, era perduto ed è stato ritrovato. Certo è in noi che tu gioisci, e nei tuoi angeli accesi di amore sacro: perché tu sei sempre uguale a te stesso, e le cose che non sono eterne e non sono sempre nello stesso stato tu sempre tutte e allo stesso modo le conosci.

- 7. Cosa c'è dunque nell'anima, che le fa provare per le cose amate e ritrovate o restituite una gioia maggiore che se le avesse sempre conservate? Ogni altra cosa lo attesta, il mondo è pieno di testimoni che affermano: "È così". Trionfa il generale vittorioso, e non avrebbe vinto se non avesse combattuto, e quanto maggiore è stato il pericolo in battaglia tanto maggiore è la gioia del trionfo. Travolge i naviganti la tempesta, e minaccia il naufragio: e tutti impallidiscono in faccia alla morte: il cielo e il mare si rasserenano, e troppa esultanza nasce da troppa paura. Si ammala chi ci è caro e il suo polso rivela che sta male: tutti quelli che lo vorrebbero salvo s'ammalano con lui nel loro cuore: si rimette e ancora non si regge in piedi con la forza di prima, e ne nasce una gioia che non esisteva quando era ben salvo e saldo sulle gambe. E gli stessi piaceri della vita ce li si guadagna al prezzo di fastidi non soltanto imprevisti e involontari, ma addirittura procurati ad arte e volontari. Il piacere di mangiare e bere si riduce a niente se non è preceduto dal fastidio della fame e della sete. I buoni bevitori stuzzicano la sete con qualche spuntino salato, per provocare una fastidiosa arsura, nell'estinguere la quale sta il piacere della bevuta. E si è perfino stabilita l'usanza di non consegnare subito la sposa già promessa, perché il marito l'apprezzerebbe meno, se da fidanzato non avesse dovuto sospirarla un po'.

- 8. Così è delle gioie brutte e riprovevoli, così di quelle consentite e lecite, così perfino della più schietta e nobile amicizia, così di colui che era morto ed è tornato a vivere, era perduto ed è stato ritrovato: sempre la gioia è tanto maggiore quanto più grande è il disagio che la precede. Cos'è mai, mio Signore Dio, se tu stesso sei, nella tua eternità, la gioia, e ci sono creature intorno a te per le quali sei fonte di godimento eterno? Cos'è questa alternanza di declino e ascesa, di contese e accordi che vige in una parte della natura? O forse è questo appunto il limite che le hai assegnato, e la sorte che hai dato a ogni cosa, quando dal sommo dei cieli alle profondità della terra, dal principio alla fine dei secoli, dall'angelo al vermiciattolo, dal primo moto all'ultimo hai insediato al suo posto ciascuna sorta di valori e hai attuato le tue giuste opere ciascuna a suo tempo. Ah, come sei alto sopra le altezze e profondo oltre ogni abisso! Eppure non arretri di un passo da noi, e a fatica noi torniamo a te.

4.9. E allora agisci tu signore, fatti per noi risveglio e richiamo e incendio e rapimento e soave profumo... amiamo, corriamo. Non sono in molti a ritornare a te da un Tartaro di cecità profondo più di quello dov'era Vittorino? Eppure si avvicinano e restano inondati dalla luce con cui ricevono da te il potere di diventare figli tuoi. Ma se non sono molto noti alle folle anche la gioia di chi li conosce è minore. Una gioia condivisa da molti, anche nei singoli è più prorompente, perché ci si eccita ed esalta a vicenda. E poi perché chi è noto ha influenza su molti come guida alla salvezza, e molti lo seguiranno sulla stessa via: il che procura una gioia più grande a quelli che lo hanno preceduto, perché non solo per lui si rallegrano. Non già che nella tua tenda i ricchi vengano accolti a preferenza dei poveri, o i notabili della gente oscura: anzi, semmai tu hai scelto ciò che nel mondo è debole per confondere le cose forti, ciò che nel mondo è oscuro e disprezzabile e stimato da nulla, come non esistesse, per toglier peso a ciò che esiste. E tuttavia perfino quell'ultimo fra i tuoi apostoli, che hai usato per dar voce a queste parole, una volta che con le sue stesse armi ebbe abbattuta la superbia del proconsole Paolo e lo ebbe fatto passare sotto il giogo lieve del tuo Cristo - e ridotto a semplice suddito di un grande re - perfino lui volle chiamarsi Paolo da Saulo che era, in segno di una così grande vittoria. Perché più il nemico ci domina, e più prigionieri si prende, maggiore è la sua sconfitta. Tanto più se con il prestigio della notorietà conquistava più gente superba, e da questi ricavava il prestigio dell'autorità per fare prigionieri ancora più numerosi. Tanto maggiore era la gratitudine che accompagnava il pensiero di Vittorino, del suo cuore che il diavolo aveva occupato come un presidio inespugnabile, della sua lingua, quella gran freccia acuminata che aveva già colpito molti a morte. E tanto più abbondante doveva essere l'esultanza dei tuoi figli, perché il nostro re aveva incatenato un forte, e si vedeva il bottino dei suoi vasi ripulito e reso adatto a renderti onore, a servire il Signore per ogni opera buona.


[Il conflitto della volontà]

5.10. Ma quando quell'uomo tuo, Simpliciano, finì di raccontarmi la storia di Vittorino, mi sentii bruciare dalla voglia di emularlo: non ad altro fine, del resto, me l'aveva raccontata. Ma quando poi aggiunse che secondo la legge promulgata al tempo dell'imperatore Giuliano era proibito ai cristiani insegnare letteratura e oratoria, e Vittorino s'era inchinato a questa legge, e aveva preferito abbandonare la scuola della chiacchiera piuttosto che la tua Parola, che rende persuasiva la lingua degli infanti, la sua fortuna mi parve grande quanto la sua forza d'animo, perché aveva trovato l'occasione di essere libero per te soltanto. Stato per cui io sospiravo, benché non fosse una catena estranea quella che mi stringeva, ma solo la mia volontà di ferro. Il nemico occupava il mio volere e ne aveva fatto una catena con cui costringermi. Già, dalla rivolta della volontà nasce il capriccio e questo a furia d'essere obbedito si fa abitudine, e a furia di non resistere alla abitudine si crea una necessità. Era una dura schiavitù che con questa sorta di anelli fra loro connessi - perciò ho parlato di una catena - mi vincolava fino a soffocarmi. E la volontà nuova, appena nata, per cui desideravo offrirti un culto disinteressato, e godere di te, Dio, sola allegria sicura, non era ancora in grado di battere l'antica, rafforzata dagli anni. Così le mie due volontà, una antica e l'altra nuova, una della carne e l'altra dello spirito lottavano, e nella loro discordia mi dissipavano l'anima.

- 11. Ero così a me stesso la prova d'esperienza per intendere quel che avevo letto: come i desideri della carne siano contro lo spirito, e quelli dello spirito contro la carne. Certo ero sempre io, nell'una e nell'altro: ma ero più io in quello che approvavo, che in quello che disapprovavo in me. Là anzi non ero già più io, perché in gran parte il mio era un subire contro la mia volontà più che un fare volontario. Tuttavia l'abitudine era per mia colpa divenuta più tenace nel darmi contro, perché era per mia volontà che ero arrivato dove non avrei voluto. E chi a buon diritto si sarebbe opposto alla giusta pena che seguiva il peccato? E poi non c'era più la scusa di prima, quando potevo convincermi che ancora esitavo a respingere il mondo per servire te perché la percezione che avevo della verità era incerta: ormai anche questa era certa. Ma io, ancora avvinto com'ero alla terra, rifiutavo di arruolarmi al tuo servizio, e la paura che bisogna avere d'essere impediti, io l'avevo d'esser liberato dagli impedimenti.

- 12. E così il carico del secolo mi pesava addosso dolce come il sonno, e i pensieri che nelle mie meditazioni rivolgevo a te erano simili agli sforzi di uno che tenta di svegliarsi, e di nuovo viene sopraffatto e scivola nelle profondità del sonno. Non c'è nessuno che voglia dormire per sempre, e se non ha perduto il senno uno preferisce la veglia, eppure l'uomo spesso rinvia il momento di riscuotersi dal sonno, quando le membra sono pesanti per il torpore, e tanto maggiore è il piacere di soccombergli anche se non si vorrebbe ed è già ora di alzarsi. Allo stesso modo io ero ben certo che fosse meglio rassegnarmi al tuo amore che consegnarmi alle mie voglie - ma se la prima cosa l'apprezzavo fino a esserne convinto, l'altra mi appassionava, e ne ero avvinto. Non avevo risposta alle tue parole: alzati tu che dormi e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà, e mentre in mille modi mi mostravi la verità di quelle parole, io convinto com'ero non trovavo di meglio che uscire in lenti e sonnolenti "Adesso", "sì, adesso", "ancora un momentino"... Ma gli "adesso, adesso" non finivano mai, e il momentino andava per le lunghe. Invano l'uomo interiore si rallegrava della tua legge, quando un'altra legge, nel corpo, si opponeva a quella della mente, e mi trascinava prigioniero sotto la legge del peccato, iscritta nel mio corpo. Perché la legge del peccato è la forza dell'abitudine, che domina il cuore e lo trascina anche suo malgrado, e meritatamente, perché è per suo volere che se ne è fatto prendere. Infelice che ero: chi mi avrebbe liberato da questo corpo di morte se non la tua grazia attraverso Gesù Cristo, il nostro signore?

6.13. E narrerò come tu m'abbia liberato dalla catena del desiderio sessuale, che mi stringeva fortissima, e dalla schiavitù delle occupazioni mondane, e canterò lode al tuo nome, mio sostegno e mia salvezza. Facevo le solite cose con ansia crescente, e ogni giorno levavo i miei sospiri verso di te e frequentavo la tua chiesa, per quanto me lo consentivano quelle occupazioni che mi facevano gemere sotto il loro peso. Era con me Alipio, libero dall'attività giuridica dopo il terzo assessorato, e in attesa di clienti cui vendere le sue consulenze, così come io vendevo l'eloquenza, ammesso che la si possa insegnare. Nebridio invece s'era lasciato convincere dalla nostra amicizia ad aiutare nell'insegnamento Verecondo, intimo di noi tutti, che a Milano abitava e teneva scuola di grammatica, e ne aveva un vivo desiderio, tanto da richiederci insistentemente in nome dell'amicizia qualcuno del nostro gruppo, che fosse per lui quell'assistente fidato di cui aveva tanto bisogno. Non fu dunque un desiderio interessato ad attrarre Nebridio in quella posizione - vantaggi anche maggiori in effetti avrebbe potuto ricavare dai suoi studi letterari - ma il dovere dell'affetto: da quell'amico dolcissimo e infinitamente arrendevole che era, non volle rifiutarci un favore. Sbrigava l'incarico con grande avvedutezza, guardandosi bene dal farsi notare dai personaggi in vista secondo questo mondo: e così facendo evitava anche ogni inquietudine del cuore, che voleva avere libero e disimpegnato per il maggior numero possibile di ore al giorno, per fare qualche ricerca intorno alla sapienza, o leggere o sentir parlare in proposito.


[I racconti di Ponticiano. Antonio del deserto]

- 14. Un giorno - Nebridio non c'era, non ricordo perché - viene a trovarci, Alipio e me, un certo Ponticiano, nostro concittadino, un africano, che aveva una posizione molto importante a palazzo. Ci mettemmo a sedere per fare un po' di conversazione. E per caso sopra un tavolo da gioco che avevamo davanti notò un codice: lo prese, lo aprì e trovò l'Apostolo Paolo. Con sua grande sorpresa, perché pensava fosse uno dei testi che mi consumavo a spiegare nelle mie lezioni. Allora sorrise e mi guardò negli occhi e si congratulò con me: pieno di meraviglia per essersi improvvisamente reso conto che avevo sempre sott'occhio quello scritto, e solo quello. Era cristiano e battezzato, e spesso si prosternava in chiesa davanti a te, Dio nostro, con fitte e prolungate preghiere. Allora gli dissi che dedicavo a quei testi i miei studi più attenti, e fu così che iniziò la conversazione. Lui si mise a raccontare di Antonio, il monaco egiziano, il cui nome godeva di altissima fama presso i tuoi servi, ma che a noi era fino a quel momento ancora ignoto. Quando se ne rese conto, indugiò su quell'argomento, per istruirci un po' su quel grand'uomo, stupito della nostra stessa ignoranza. E anche noi eravamo stupefatti nell'apprendere le tue meraviglie nella vera fede e nella chiesa cattolica, tanto bene attestate da una tradizione così recente, quasi a noi contemporanea. Tutti eravamo meravigliati: noi, perché erano così grandi, lui, perché ci erano ignote.

- 15. Allora si mise a parlare delle schiere di monaci dalla vita che distilla il tuo profumo e dei loro fecondi deserti di eremiti, di cui non sapevamo nulla. Perfino a Milano, fuori le mura, c'era un monastero pieno di buoni fratelli, mantenuto da Ambrogio, e non lo sapevamo. Continuava a parlare, sempre più infervorato, e noi muti, ad ascoltarlo. Così venne a dire che un giorno si trovava a Treviri con altri tre suoi colleghi, e mentre l'imperatore se ne stava a vedere i circensi, durante lo spettacolo pomeridiano, erano usciti a passeggio nei giardini adiacenti alle mura. E lì mentre casualmente passeggiavano a due a due, uno con lui, gli altri due insieme, le due coppie si persero di vista. Gli altri due continuando a girovagare si imbattono in una capanna dove abitavano dei servi tuoi poveri di spirito, quelli ai quali appartiene il regno dei cieli, e vi trovarono un libro in cui era scritta la vita di Antonio. Uno di loro cominciò a leggerla e ne restò ammirato, anzi se ne innamorò a tal punto che mentre leggeva già meditava di darsi a quella vita e di lasciare la carriera secolare per dedicarsi al tuo servizio. Erano, quei due, funzionari dell'amministrazione. Allora, preso da un improvvisa passione divina e da un'ira contro se stesso che era fatta di sobria vergogna, sbarrò gli occhi sull'amico: "Dimmi, ti prego, dimmi dove vogliamo arrivare con tutte queste nostre fatiche? Che cosa cerchiamo? Qual è la causa che serviamo? Potremmo avere speranza più grande a palazzo, che di essere un giorno amici dell'imperatore? E comunque che cosa c'è che non sia precario e azzardato in questa carriera? E quanti pericoli non bisogna attraversare per arrivare a uno anche più grande? E quando verrà quel giorno? Amico di Dio, invece, se voglio lo divento subito, ecco!" Parlava, e nel travaglio di far nascere questa vita nuova tornò con gli occhi alle pagine: e leggeva e si trasformava nell'intimo, dove tu lo guardavi, e la sua mente si spogliava del mondo, come poco dopo si vide. Mentre leggeva rotolando con le onde del cuore ebbe un brivido, e vide il meglio e decise. Era già tuo. "Io ho rotto ormai con quella nostra speranza," dice all'amico, "e ho deciso di servire Dio, e a partire da questo momento. Comincio in questo luogo. Se non hai voglia di imitarmi, almeno non mi ostacolare". L'altro rispose che lo seguiva, per condividere una ricompensa e una carriera così grandiose. Erano entrambi tuoi. E già costruivano la torre: al giusto prezzo di abbandonare ogni loro bene per seguire te. A quel punto Ponticiano e l'amico che passeggiava con lui da un'altra parte del giardino, a furia di cercarli capitarono nello stesso luogo e ve li trovarono, e li esortavano a tornare, perché il giorno ormai tramontava. Ma quelli, dopo aver raccontato della decisione che avevano presa per il futuro, e del modo in cui era nata e si era affermata in loro quella volontà, li pregarono di non esser loro di impedimento, se pure non volevano essere della partita. E questi, pur persistendo nella vita di prima, piansero tuttavia sopra se stessi, diceva Ponticiano, e si rallegrarono devotamente con loro e si raccomandarono alle loro preghiere, e trascinando il cuore in terra tornarono a palazzo: mentre quelli rimasero nella capanna, fissando il cuore al cielo. Entrambi erano fidanzati: e quando seppero dell'accaduto, anche le loro promesse spose ti dedicarono la loro verginità.


[Esasperazione del conflitto interiore]

7.16. Questo il racconto di Ponticiano. Ma tu, Signore, mentre parlava mi torcevi su me stesso, mi strappavi da dietro le mie spalle, dove m'ero rifugiato per non guardarmi in faccia, e mi denunciavi ai miei stessi occhi, perché lo vedessi, quant'ero brutto, torto e sordido, butterato e piagato. E io vedevo e ne provavo orrore, e non trovavo scampo da me stesso. E se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, Ponticiano era sempre lì e parlava, parlava e tu di nuovo mi mettevi di fronte a me stesso e mi cacciavi sotto i miei occhi, perché scoprissi la mia malvagità e l'odiassi. La conoscevo: ma me la dissimulavo, ne reprimevo l'idea e ne rimuovevo il ricordo.

- 17. Ma ora più ardente era l'amore che sentivo per i due protagonisti dell'esperienza di salvezza che avevo appena sentito narrare, e più intenso era l'odio che provavo per me confrontandomi a loro, che per la loro guarigione si erano totalmente affidati a te. Mentre molti anni della mia vita erano scivolati via con me - forse dodici - da quando a diciott'anni avevo letto l'Ortensio di Cicerone e ne ero stato risvegliato alla filosofia, e ancora non mi decidevo a liberarmi, a trovare il tempo per ricercare, nel disprezzo della felicità terrena, la sapienza: quando questa semplice ricerca - per non parlare della sua scoperta - già era da preferire alla scoperta di tesori e regni, o di una marea di piaceri sensuali tutt'intorno crescente, a un solo cenno... Ma l'infelice ragazzo che ero, infelice già sulla soglia della giovinezza, te l'aveva pur chiesta la castità. Sì : "Dammi la castità e la continenza, ma non subito", dicevo. Avevo paura che tu mi esaudissi troppo presto, e troppo presto mi guarissi dal male del desiderio, che preferivo vedere soddisfatto piuttosto che estinto. E andavo per le male vie di una falsa religiosità, non perché fosse per me una certezza, ma per farmene schermo in qualche modo a tutte le altre fedi: che non interrogavo con devozione, ma polemicamente attaccavo.

- 18. E avevo creduto che la ragione per cui differivo di giorno in giorno la rinuncia alle speranze del secolo e la decisione di seguire te soltanto fosse che non vedevo nulla di certo, per orientarmi nel cammino. Ed era venuto il giorno che mi spogliava nudo di fronte a me stesso, mentre la mia coscienza gridava a gran morsi: "Dov'è la tua lingua? Non dicevi che era l'incertezza a impedirti di liberarti dal carico delle nullità? Guarda, adesso la verità è certa, e tu lo porti ancora addosso: a spalle più libere delle tue spuntano le ali, eppure non si sono consumate a questo modo nella ricerca e non hanno passato dieci e più anni curve a meditarci su!" Così mi rodevo nell'intimo, in uno spaventoso marasma di confusione e vergogna, mentre Ponticiano faceva questo suo racconto. Finito che ebbe di parlare e sbrigata la faccenda per cui era venuto, se ne andò, e io tornai a me stesso. Che cosa non dissi contro di me? Che frustate di parole risparmiai a quest'anima, perché mi seguisse nei miei sforzi di tenerti dietro? E resisteva, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano consumati e confutati. Le restava un tremito silenzioso, il terrore che aveva - come si teme la morte - d'esser sottratta al corso dell'abitudine che la consumava a morte.


[Crisi finale. In giardino]

8.19. Allora nel mezzo di quella rissa violenta che nella mia casa interiore avevo ingaggiato con l'anima qui nella stanza più segreta, il cuore, con la faccia e la mente sconvolte, irrompo da Alipio: "Non se ne può più!" grido. "Cos'è che si sente? Gli ignoranti si alzano e ci rubano il cielo, e noi con tutta la nostra erudizione senz'anima, guardaci qui, a rivoltarci nella carne e nel sangue! Cos'è, vergogna di andargli dietro la nostra, di non essere i primi? E non ci vergognamo a non seguirli neppure?" Cose del genere dissi, e poi la piena del cuore mi strappò via da lui, che mi fissava attonito, in silenzio. Neppure la mia voce era più la stessa. E più che le parole era la fronte, erano gli occhi e la faccia, il suo colore, il tono della voce a dire quello che provavo. La nostra casa aveva un piccolo giardino, di cui avevamo l'uso come di tutto il resto, perché il nostro ospite, il padrone di casa, non abitava lì. Là mi spinse quella sommossa del cuore, dove nessuno avrebbe posto freno alla furiosa lite che avevo ingaggiato con me stesso, finché avesse il suo esito: che tu conoscevi, io no. Io stavo semplicemente impazzendo per salvarmi e morivo per vivere. Sapendo cos'ero di male e ignorando cosa sarei divenuto di buono poco dopo. Mi rifugiai in giardino, dicevo, e Alipio dietro, passo dopo passo. Non c'era alcuna indiscrezione nella sua presenza, e poi come avrebbe potuto lasciarmi solo in quello stato. Ci sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Io fremevo nell'intimo, sdegnato fino al furore più incontenibile, per non riuscire a venire incontro a te, al tuo piacere come alla tua alleanza, Dio mio, quando tutte le mie ossa gridavano sì e li esaltavano fino al cielo. Non era un viaggio con navi o quadrighe, e neppure a piedi, non richiedeva neppure quei pochi passi che separavano da casa il luogo dove eravamo seduti. Perché non solo l'andare, ma anche l'arrivare là non era altro che voler andare: ma volere con forza e integralmente, non coi rigiri e le impennate di una volontà mezzo acciaccata dalla lotta, una volontà che si rialza da una parte per crollare dall'altra.


[Il paradosso della volontà]

- 20. Insomma fra i marosi dell'indecisione mi trovavo a fare tutti i gesti caratteristici della volontà impotente, che gli uomini a volte sperimentano o perché privati di qualche loro membro, o perché legati o estremamente indeboliti o in qualche modo impediti. Se mi strappai i capelli, se mi battei la fronte, se mi abbracciai le ginocchia con le dita intrecciate, lo feci di mia volontà. Ma avrebbe anche potuto accadere che volessi senza riuscirci, se non fossi stato assecondato dalla mobilità degli arti. Dunque compii molte azioni per le quali volere non è potere: e non facevo quello che mi sarebbe stato incomparabilmente più caro, e che appena avessi voluto avrei potuto fare: perché appena avessi voluto avrei senza dubbio voluto. In quel caso infatti aver volontà era lo stesso che aver facoltà, e lo stesso volere era già fare; eppure non si faceva. Ed era più facile al corpo obbedire alla volontà dell'anima, per debole che fosse, e far muovere gli arti a un solo cenno, che all'anima obbedire a se stessa, alla sua propria volontà intensissima, per realizzarla semplicemente volendo.

9.21. Come nasce questo paradosso? E perché? Accendi il sole della compassione, e io lo chiederò ai recessi del dolore umano, al buio folto, avvilito in cui s'aggirano i figli di Adamo. Chissà che non mi possano rispondere. Come nasce questo paradosso? E perché? Comanda al corpo, la mente, e viene subito obbedita: comanda a se stessa, e incontra resistenza. La mente ordina alla mano di muoversi, e la cosa è così presto fatta che a fatica si distingue il comando dal servizio: e la mente è mente, la mano è corpo. La mente ordina di volere alla mente: non è altra cosa, eppure non lo fa. Come nasce questo paradosso? E perché? Chi ordina di volere non l'ordinerebbe se non volesse: eppure non esegue l'ordine. Ma il fatto è che non vuole del tutto: e perciò non comanda del tutto. Perché in tanto comanda, in quanto vuole, e in tanto il comando non viene eseguito, in quanto non vuole. Infatti la volontà comanda proprio che la volontà ci sia, e sia quella, non un'altra. Dunque non è già tutta intera a comandare: e per questo il suo comando non viene eseguito. Se fosse tutta intera, non comanderebbe di essere, perché già sarebbe. Non è dunque un paradosso volere in parte e in parte non volere, ma è una malattia della mente, che la verità solleva ma non fa alzare del tutto, accasciata com'è sotto il peso dell'abitudine. E perciò ci sono due volontà, perché nessuna è tutta intera, e ciò che ha l'una manca all'altra.


[Natura di ogni scissione interiore]

10.22. Siano spazzati via dalla tua vista, Dio, come i ciarlatani e i seduttori della mente, quelli che si rendono conto, sì, della presenza di due volontà nel corso di una deliberazione, ma affermano l'esistenza di due menti distinte per natura, una buona, l'altra maligna. Loro sì sono maligni, malpensanti come sono. Come saranno buoni essi stessi, ritrovando il senso della verità e solo a questa accordando il consenso. Allora anche di loro potrà dire il tuo Apostolo: Un tempo foste tenebre, e ora siete luce nel Signore. Già: vogliono esser luce non nel Signore ma in se stessi, perché ritengono che l'anima sia fatta della sostanza di Dio: e così diventano tenebre più fitte, via via che la loro arroganza spaventosa li allontana da te. Da te, vero lume che illumina ogni uomo venuto a questo mondo. Fate attenzione a ciò che dite e vergognatevi: e accostatevi a lui, sarete illuminati e i vostri volti non arrossiranno. Mentre deliberavo se mettermi finalmente al servizio del mio Signore, come da un pezzo progettavo di fare, ero io a volere, io a non volere: io, sempre io. Non ero tutto nel volere e non ero tutto nel non volere. Per questo lottavo con me stesso e da me stesso mi spaccavo, e questa spaccatura avveniva senza dubbio mio malgrado: ma non per questo rivelava la sostanza di una mente estranea, bensì la pena della mia. E in questo senso non ero io a produrla, quella spaccatura, ma il peccato che abitava in me dalla condanna di un peccato più libero, perché ero figlio di Adamo.

- 23. Infatti se ci sono tante nature contrastanti quante sono le volontà contrapposte, non ce ne saranno due, ma molte. Supponiamo che uno stia deliberando se recarsi a un loro convegno oppure a teatro: subito si mettono a gridare: "Eccole le due nature, una buona che porta qui, l'altra cattiva che spinge là". Ma io le chiamo cattive tutt'e due, quella che porta da loro quanto quella che spinge a teatro. Essi però non possono credere che non sia buona quella per cui si va da loro. Bene, allora supponiamo che sia uno dei nostri a deliberare e nell'alterco di due volontà contrastanti oscilli nel dubbio se recarsi a teatro o alla nostra chiesa. Non saranno anche loro in dubbio, adesso, sulla risposta da dare? Perché o dovranno ammettere, e non vogliono, che è buona la volontà di recarsi alla nostra chiesa, almeno se ci si va come quelli che sono stati iniziati ai suoi sacri riti e vi partecipano; oppure dovranno credere che in un solo uomo si combattano due cattive nature e due cattive menti, e non sarà più vera la loro tesi solita, che una è buona e l'altra cattiva. O infine si convertiranno alla verità e smetteranno di negare che nel corso di una deliberazione sia un'anima sola a dibattersi fra volontà diverse.

- 24. E allora quando si avvedono che in un uomo solo si combattono due avverse volontà la smettano di dire che si tratta di una lotta fra due opposte menti, fatte di opposte sostanze e originate da opposti principi, una buona e l'altra cattiva. Perché sei tu, Dio di verità, a condannarli, riprovarli e confutarli. Prendiamo il caso di due volontà entrambe maligne, come quando uno delibera se uccidere un uomo col veleno o con la spada, se occupare questo o quel terreno altrui, dato che non può prenderseli entrambi, se comprarsi il piacere per la lussuria o serbare il denaro per l'avarizia, se andare al circo o a teatro quando entrambi danno spettacolo lo stesso giorno; o - aggiungiamo pure una terza possibilità - se andare a rubare in casa altrui, dato che se ne presenti l'occasione; oppure - aggiungiamone una quarta - a commettere adulterio, se anche da quella parte, contemporaneamente, gliene è data la possibilità. Ora, se tutte queste alternative si presentano insieme nello stesso momento e sono tutte egualmente desiderate, e d'altra parte non è possibile attuarle tutte simultaneamente, ci saranno quattro volontà contrastanti a straziare un'anima, o anche di più data la quantità di cose che la gente desidera. Eppure quelli non arrivano a sostenere che ci sia un così gran numero di sostanze diverse. Analogamente per le volontà buone. Chiedo loro se sia bene intrattenersi con la lettura dell'Apostolo, e con quella di un salmo devoto, e se sia bene ragionare sul Vangelo. A ciascuna domanda risponderanno di sì. E allora? Se tutte queste alternative piacciono ugualmente e si offrono contemporaneamente, non si disperderà, il cuore dell'uomo, in diverse volontà, mentre delibera su cosa intraprendere prima di tutto? E sono tutte buone queste alternative e sono in competizione, finché ne venga scelta una, che riporti a una sola volontà intera quella che era divisa in molte. Così, essendo l'eternità un'attrattiva superiore, e il piacere di un bene terreno pur sempre attraente benché inferiore, la stessa anima si trova a volere - ma non del tutto - ora questo ora quella, e quindi si sente dilaniare dall'angoscia se la verità si oppone a ciò che l'abitudine le impone.


[Il parossismo dell'indecisione]

11.25. Così mi torturava la malattia e accusavo me stesso molto più aspramente del solito, rigirandomi e dibattendomi nel groviglio che mi stringeva per finire di strapparlo, perché ormai era tenue la sua stretta. Tuttavia stringeva ancora. E tu incombevi nelle mie profondità segrete, Signore, con severa tenerezza raddoppiando le frustate di paura e di vergogna, perché non cedessi un'altra volta a quel legame debole e sottile che era rimasto invece di spezzarlo: si sarebbe rinforzato allora, e più forte sarebbe stata la sua presa su di me. Dicevo fra me e me: "Sì, adesso, adesso è tempo", e a parole ormai m'avviavo a decidere. E quasi agivo, e ancora non agivo: e tuttavia non ricadevo indietro al punto di prima, ma mi fermavo appena un passo indietro, a prender fiato. Ancora uno sforzo, mancava poco, mancava poco e c'ero, ero lì lì per farcela, arrivavo... e non c'ero, no, non ce la facevo, non ci arrivavo. Non mi decidevo a morire alla morte, a vivere alla vita. Il peggio incancrenito aveva più potere su di me del meglio ignoto: e il punto stesso del tempo, in cui io sarei stato un'altra cosa, più mi si avvicinava e più mi faceva terrore. Eppure non potevo fuggire e ritornare indietro: restavo sospeso.

- 26. A trattenermi erano le più vacue frivolezze e vanità di vanità, mie vecchie amiche, che mi tiravano per la veste di carne e sussurravano di sotto in su: "Non vorrai lasciarci?" e "D'ora in poi non staremo più con te, mai più!" "D'ora in poi non potrai più fare questo e quello, mai più!" E che insinuazioni sotto ciò che ho chiamato "questo e quello", che insinuazioni, mio Dio! La tua pietà le rimuova dall'anima del tuo servo. Che cose sordide, laide! Ma io le udivo ormai a metà o molto meno: non mi venivano incontro con le loro obiezioni a viso aperto, ma bisbigliavano dietro le spalle come stuzzicandomi furtivamente, perché mi voltassi a guardare mentre fuggivo. Per colpa loro però mi attardavo, ed esitavo a strapparmele, a scuotermele di dosso e a volare in un salto là dove ero chiamato, mentre l'abitudine con tutta la sua forza insisteva: "E pensi di poterne fare a meno?"


[Una figura lieve e sorridente]

- 27. Ma ormai parlava senza più calore. Ormai da quella parte a cui guardavo e fremevo di passare qualcuno mi si stava rivelando: era la sobria distinzione della Continenza, con il suo sorriso luminoso e discreto, e il cenno carezzevole e il contegno con cui pareva invitarmi a venire da lei senza esitare più. E protendeva verso me devote mani, quasi a ricevermi e abbracciarmi, piene di buoni esempi, a grappoli. Tanti bambini e bambine, e poi ragazzi e giovani e gente d'ogni età, e vedove posate e antiche vergini: e in tutti questi la continenza non era affatto sterile, ma generava figli di gioia da te, Signore, loro sposo. E il suo sorriso era insieme di invito e d'ironia, quasi dicesse: "Non avresti il potere che hanno questi ragazzi, queste donne? E loro lo trovano in se stessi, e non nel loro Dio e Signore? Il loro Dio e Signore me li ha dati. Perché ti tieni a te stesso, e non ti contieni? Gettati in lui, senza paura: non si ritirerà perché tu cada! Gettati senza angoscia, ti accoglierà e tu sarai guarito". E la vergogna mi faceva paonazzo, perché intanto continuavo a udire il sussurro di quelle fantasticherie, ed ero ancora esitante, sospeso. E lei di nuovo pareva riprendere a parlare: "Fatti sordo alla voce impura del tuo corpo sopra la terra, per mortificarlo. Ti parlano del piacere, ma non conforme alla legge del tuo Dio e Signore." Questa controversia era tutta nel mio cuore, c'ero soltanto io contro me stesso. Alipio, immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l'esito della mia inusitata agitazione.

12.28. Quando da un fondo arcano la profonda meditazione ebbe scavata tutta la mia tristezza e l'ebbe accumulata sotto gli occhi del cuore, una tempesta si scatenò violenta, e greve d'un diluvio di lacrime. E mi levai, perché fluisse libero e alto il suono di quel grande pianto. Ma il pianto consigliava solitudine, e mi scostai da Alipio di quel tanto che bastava perché la sua presenza non mi fosse gravosa. Io ero in quello stato, e lui se ne rendeva conto: forse perché sentiva in qualche mia parola una voce già carica di pianto. Rimase dunque dove eravamo seduti, muto di meraviglia. Io mi trovai non so come disteso sotto un albero di fico, e diedi libero sfogo alle lacrime, due fiumi in piena nel cavo degli occhi, come un'offerta che forse apprezzavi. E a lungo ti parlai, se non con queste esatte parole, in questo spirito: E tu, Signore, fino a quando? E durerà per sempre la tua ira, Signore? Non ricordare le colpe degli avi! Perché sentivo che eran quelle a possedermi. Rompevo in poveri singhiozzi: "Quanto tempo ancora, per quanto tempo 'domani e domani'? Perché non oggi, perché non adesso farla finita con questa abiezione?"


[Una canzone infantile]

- 29. Così parlavo e piangevo, il cuore a piombo nella tristezza più amara. Ed ecco all'improvviso dalla casa vicina il canto di una voce come di bambino, o di bambina forse, lenta cantilena: "Prendi e leggi, prendi e leggi"... Mutai subito in volto e mi raccolsi in uno sforzo estremo di ricordare se in un qualche gioco di ragazzi c'era una cantilena come quella, e non mi sovveniva affatto d'aver udito mai niente del genere: e allora soffocai il mio pianto e mi levai in piedi. Non altro, interpretai, era il comando divino, che di aprire un libro e leggere il primo capoverso che trovassi. Così sapevo di Antonio che sopraggiungendo per caso durante una lettura del Vangelo si sentì personalmente chiamato, come si rivolgessero proprio a lui quelle parole: Vai, vendi tutte le cose che hai, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli: e poi vieni, seguimi. E quella voce divina l'aveva immediatamente indotto a convertirsi a te. Così tornai con emozione grande al luogo dove era seduto Alipio: era lì infatti che avevo posato il libro dell'Apostolo, alzandomi. Lo afferrai e lo apersi e in silenzio lessi il primo passo sul quale mi caddero gli occhi: Non piú bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie, contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla carne e ai suoi desideri. Non volli leggere oltre e neppure occorreva. Con le parole finali di questa proposizione una luce come fatta di calma mi fu distillata in cuore e ne cacciò quel buio folto di incertezze.

- 30. Chiusi allora il libro tenendoci un dito o non so che cos'altro come segno, e ormai rasserenato in volto lo mostrai ad Alipio. Ma in questo stesso modo lui mostrò quello che succedeva a lui - a mia insaputa. Volle vedere che cosa leggevo: glielo mostrai, e lui portò la sua attenzione anche sul seguito di quello che avevo letto io. Io lo ignoravo, ma quel passo proseguiva: E accogliete chi è incerto nella fede. Lo riferì a se stesso, e me lo disse. L'esortazione lo incoraggiò nel suo proponimento, buono e quanto mai rispondente al suo modo di vivere, per cui già era da tempo ben più avanti di me. E senza tormento, senza esitazione mi seguì. Subito entriamo da mia madre, le parliamo: grande gioia per lei. Le raccontiamo come sia accaduto: esultanza e trionfo. Benediceva te, che puoi fare ben oltre ciò che noi chiediamo e comprendiamo. Perché riguardo a me si vedeva concesso molto di più di quello che chiedeva tutto il suo povero piangere sommesso. Infatti avevi convertito a te il mio essere al punto che non cercavo più moglie né tenevo più ad alcuna speranza del mondo, posando ormai su quel metro di fede sul quale tanti anni prima mi avevi in sogno rivelato a lei. E convertisti il suo dolore in gioia molto più grande di quanto sperava, e molto più cara e più pura di quella che attendeva dai nipoti del mio sangue.


LIBRO NONO
[BATTESIMO DI AGOSTINO E MORTE DI MONICA]

1.1. Mio Signore, io sono servo tuo, servo tuo e figlio della tua ancella. Hai spezzato le mie catene: ti offrirò un sacrificio di lode. Canterò le tue lodi col cuore e con la lingua, e grideranno tutte le mie ossa: chi è come te, Signore? Parlino, e tu rispondi e dí a quest'anima: la tua salvezza sono io. Io chi? Già, quale io? Cos'era senza male in me, nelle mie azioni, o se non nelle azioni nei discorsi, o se non nei discorsi nel volere? No Signore, eri tu, tua la bontà accorata e tua la destra che saggiava il mare della mia morte e raschiava dal fondo del mio cuore, dalle sue buie voragini, il marcio. Eri tu: nel no integrale a quello che volevo, e nel sì a quello che volevi tu. Ma dov'era per tutto quel tempo, tutti quegli anni, il mio libero arbitrio? E da che misteriose profondità fu evocato in quell'attimo, perché piegassi il collo alla carezza del tuo giogo e le spalle alla tua soma leggera, Cristo Gesù, mio soccorso e mia salvezza? Strano com'era dolce, all'improvviso, fare a meno di quelle mie fatue dolcezze, e come la paura di perderle ormai era gioia d'averle lasciate. Perché eri tu a cacciarle via da me, tu vera e somma dolcezza: le cacciavi ed entravi al loro posto, più intenso di ogni piacere, ma non per la carne e il sangue; più chiaro d'ogni luce e più riposto di ogni segreto, apice d'ogni cosa sublime, ma non per chi fa se stesso sublime. Avevo il cuore libero ormai dai morsi ansiosi dell'ambizione e dell'avidità e dalla rogna assillante delle voglie: e ti parlavo garrulo e beato, mia chiarità, mio tesoro e salvezza, mio Signore e mio Dio.


[Professione e vocazione]

2.2. E di fronte a te presi la decisione di evitare una clamorosa rottura con la fiera delle chiacchiere, ma di sottrarle a poco a poco il servizio della mia lingua. Là ci si esercitava non alla tua legge, non alla tua pace, ma ai bugiardi deliri e alle battaglie avvocatesche: a quei ragazzi, alla loro furia, io non volevo più vendere armi con la mia stessa bocca. E per fortuna mancavano ormai pochi giorni alle vacanze d'autunno: decisi di pazientare ancora un po' per congedarmi secondo le regole, e non tornare mai più a vendermi ora che tu m'avevi riscattato. Una decisione, dunque, presa davanti a te, ma che noi non rendemmo nota se non a pochi intimi, con l'accordo di non parlarne in giro. Per quanto a noi che salivamo dalla valle del pianto e cantavamo un canto d'ascensione tu avessi dato acuminate frecce e carboni roventi contro la lingua subdola dei falsi consiglieri che ci aggrediscono e ci amano come si ama il cibo: per consumarci.

- 3. Tu stesso ci avevi folgorati con le frecce del tuo amore, e portavamo conficcati nel ventre gli arpioni delle tue parole e gli esempi dei tuoi servi, che da oscuri avevi reso splendidi e da morti, viventi. Bruciavano ammassati nel fondo della mente divorando la sua pesantezza e il torpore, per impedirci di scendere in basso, ed era un tale incendio che tutto il fiato soffiatoci contro dalle subdole lingue l'avrebbe ravvivato, non estinto. Tuttavia nel tuo nome, che hai reso sacro per tutta la terra, il nostro proponimento avrebbe certamente incontrato il plauso di alcuni, e quindi poteva sembrare ostentazione non aspettare quel poco che mancava alle vacanze, e congedarsi prima da un pubblico ufficio che era sotto gli occhi di tutti in modo da attirare sulle mie azioni l'attenzione universale. Così, se avessi dato l'impressione di non voler neppure attendere il termine tanto prossimo dei corsi, avrebbero molto chiacchierato, e sarebbe parso che volessi farmi notare. E a che pro favorire congetture e discussioni sui miei intenti e oltraggi al nostro bene?

- 4. Tanto più che durante quell'estate i miei polmoni avevano cominciato a cedere all'eccessiva fatica dell'insegnamento. La difficoltà a respirare e il dolore di petto denunciavano una loro lesione, e non mi consentivano più di parlare un po' a lungo con voce chiara. Dapprima ne fui molto preoccupato, perché questo fatto mi avrebbe ben presto obbligato a deporre il carico dell'insegnamento, o, se mi era possibile curarmi e guarire, di lasciarlo almeno per qualche tempo. Ma quando in me fu nata ed ebbe preso piede la piena volontà d'essere libero da occupazioni per contemplare te che sei il Signore, allora - lo sai, Dio mio - io cominciai perfino a rallegrarmi che mi si fosse offerta anche questa scusa non falsa ad attenuare il risentimento di alcune persone che per amor dei loro figli non avrebbero voluto che io avessi un solo attimo di libertà. Così pieno di gioia sopportavo il tempo che mancava alle vacanze - una ventina di giorni, mi pare - e questo mi costava un grande sforzo, perché era venuta meno quella passione che mi alleggeriva la fatica del mestiere, tanto che ne sarei rimasto schiacciato se la pazienza non m'avesse assistito. C'è fra i tuoi servi e miei fratelli, forse, chi dirà che fu peccato da parte mia quando già avevo il cuore così impegnato al tuo servizio di restare anche soltanto un'ora di più sulla cattedra della menzogna. Io non discuto. Ma tu, Signore così pieno di misericordia, non mi hai perdonato e condonato nell'acqua santa anche questo con tutti gli altri peccati spaventosi e funesti?

3.5. Verecondo si consumava d'ansia per questo nostro bene, perché a causa dei tenacissimi legami che aveva, si vedeva già abbandonato dalla nostra piccola comunità. Non ancora cristiano, aveva una moglie battezzata, che tuttavia era proprio l'ostacolo più arduo sul cammino che avevamo intrapreso: e lui non voleva essere cristiano, diceva, in un modo diverso da quello che d'altra parte non gli era consentito. Certo, con grande generosità ci offrì di vivere nella sua villa per tutto il tempo che saremmo rimasti là. Lo ricompenserai, Signore, nella resurrezione dei giusti, tu che gli hai già ricompensato con la loro eredità. Noi già non c'eravamo più, eravamo a Roma, quando si ammalò: si fece cristiano e ottenne il battesimo, poi emigrò da questa vita. Questo fu un gesto di compassione da parte tua, non soltanto per lui ma anche per noi: sarebbe stato un gran tormento infatti pensare alla squisita umanità dell'amico verso di noi, e non poterlo annoverare nel tuo gregge. Grazie a te, Dio nostro! Siamo tuoi. Lo dimostrano i tuoi consigli e i tuoi conforti: fedele alle promesse renderai a Verecondo, in cambio della sua terra a Cassiciaco dove in te riposammo dalla furia del secolo, la primavera eterna, il tuo giardino. Perché le colpe che ebbe sulla terra tu gliele hai condonate lassù sulla montagna della gioia, bianca di latte e cacio.

- 6. Ciò che angustiava Verecondo era invece per Nebridio motivo di rallegrarsi con noi. Benché neppure lui fosse ancora cristiano, e fosse caduto in quella fossa mortale, l'errore di credere mero fantasma la carne della verità da te generata, era però sul punto di cavarsene: non ancora iniziato ad alcuno dei sacri misteri della tua chiesa, questo ricercatore della verità bruciava di passione. Non molto dopo la nostra conversione e rigenerazione, mentre già cattolico e battezzato ti serviva in perfetta castità e continenza, in Africa, nella sua casa che per merito suo s'era fatta tutta cristiana, lo liberasti dalla carne. Ed ora vive in grembo ad Abramo. Qualunque cosa significhi quel grembo, là vive il mio Nebridio, dolce amico mio, e tuo figlio adottivo, mio Signore, da liberto che era: è là che vive. Che altra sede può avere un'anima così. Vive nel luogo che tanto spesso ritornava nelle sue domande rivolte a me, pover'uomo insipiente. Ormai non tende più le orecchie alle mie labbra, ma le sue labbra invisibili alla fonte che tu sei: e beve, beve perdutamente la sapienza, insaziabile fin nella sua felicità sconfinata. Eppure io non credo che se ne inebri al punto di dimenticarsi di me, se tu, Signore di cui lui si nutre, hai memoria di noi. Questo era dunque il nostro stato. Da una parte consolavamo Verecondo della tristezza che, salva la sua amicizia, gli procurava la nostra conversione, e lo incoraggiavamo alla fede secondo il grado che era il suo: la vita coniugale. Dall'altra parte aspettavamo che Nebridio si decidesse a seguirci. Cosa che al punto in cui era avrebbe ormai potuto fare, anzi già vi si accingeva quand'ecco finalmente arrivato l'ultimo di quei giorni... Tanti e così lunghi erano parsi al mio impaziente amore per il libero agio che veniva perché cantassi dal fondo delle mie ossa: Il mio cuore ha cercato il tuo volto, e ti ha detto: il tuo volto mi manca, Signore.


[Libertà: la felice vita di Cassiciaco]

4.7. E venne il giorno in cui finalmente sarei stato di fatto libero dall'impiego alla scuola di retorica, come già lo ero nel pensiero. Venne: me ne sbrogliasti la lingua, come già me ne avevi sbrogliato il cuore, e già in viaggio verso la campagna con tutti i miei amici al colmo della gioia io ti rendevo grazie. Ciò che feci laggiù, scrivendo, al tuo servizio - ma in un modo che ancora sa di scuola della superbia, come l'ansito di chi si ferma a prender fiato - lo attestano i libri delle discussioni coi presenti e con me stesso, solo davanti a te; mentre quelle che ebbi con Nebridio assente sono attestate dalle lettere relative. E quando mi basterà il tempo per evocare sulla pagina tutti i grandi privilegi che ci accordasti a quel tempo, impaziente come sono di passare ad altri e più grandi. Perché già la memoria mi richiama, e mi è dolce, Signore, confessarti gli interni colpi di sperone con cui mi hai domato, e il modo in cui mi hai spianato abbassando i monti e i colli dei miei pensieri, e raddrizzando i miei sentieri tortuosi e smussando le mie asperità. E confessarti il modo in cui hai piegato Alipio, fratello del mio cuore, al nome del tuo unigenito, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che dapprima non voleva degnarsi di menzionare nei nostri scritti. Preferiva il profumo dei cedri delle scuole, ormai abbattuti dal Signore, a quello delle erbe mediche che crescon nelle chiese, buone contro i serpenti.

- 8. Che sospiri Dio mio, quando leggevo i salmi di Davide, queste canzoni di fede! Musica della devozione, di fronte a cui si sgonfia ogni superbia... Ancora principiante nel tuo autentico amore ero, catecumeno ancora e in tempo di vacanza, in campagna, con Alipio catecumeno anche lui e mia madre che non si staccava da noi: con le sue maniere di donna e la sua maschia fede, la pace della sua età e il suo amore di madre, con tutta la sua cristiana devozione. Che sospiri mettevo in quei salmi e di che incendio bruciavo per te, che voglia di recitarli, se avessi potuto, in faccia al mondo intero, alla boria del genere umano! E li si canta, per il mondo intero, non c'è chi possa sfuggire alla tua vampa. E come era violento e doloroso e amaro lo sdegno che provavo verso i manichei, e poi di nuovo la pietà per loro, che ignoravano quei sacri misteri e quei farmaci e infierivano come pazzi contro una medicina in cui avrebbero ritrovato la salute! Avrei voluto allora che fossero lì, a mia insaputa, e mi guardassero in volto e mi ascoltassero leggere il salmo quarto nella pace di quel ritiro e nei miei toni di voce sentissero l'effetto che avevano su di me quelle parole: Ti ho invocato e mi hai ascoltato, Dio della mia giustizia; ero angosciato e m'hai reso ampio respiro.Abbi pietà di me Signore, ascolta se ti prego. Fossero stati lì ad ascoltarmi! Ma a mia insaputa, perché non credessero che per loro dicessi le parole che intercalavo a quelle del salmo. E non le avrei dette in effetti, o non con quel tono, se avessi sentito d'esser visto o ascoltato da loro; e se anche le avessi dette non le avrebbero accolte così come le dicevo a me stesso alla tua presenza, come mi venivano in quella nostra dimestichezza dal fondo del cuore.

- 9. Rabbrividii di paura e al tempo stesso di febbrile speranza e di gioia per la tua indulgenza, Padre. E questi opposti sentimenti si aprivano un varco attraverso gli occhi e la voce quando arrivavo al punto in cui il tuo spirito buono dice rivolto a noi: Figli dell'uomo, fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? Certo, avevo amato il vuoto e cercato l'illusione. E tu, Signore, avevi già riempito di gloria il tuo diletto, richiamandolo dai morti e facendolo sedere alla tua destra, affinché dal cielo mantenesse la sua promessa di inviare il Paracleto, lo spirito di verità. E già l'aveva inviato, ma io non lo sapevo. L'aveva già mandato, perché già l'aveva glorificato la sua resurrezione dai morti e la sua ascesa al cielo. Prima, invece, non c'era ancora il dono dello spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. Grida il profeta: Fino a quando questo cuore pesante? Perché vi attira il vuoto e l'illusione? E sappiate che il Signore esalterà il suo diletto. Grida fino a quando, grida sappiate, e io per tanto tempo avevo amato il vuoto e cercato l'illusione, e non sapevo, ed è per questo che tremai a sentirlo: eran parole rivolte a persone come me, come io ricordavo d'esser stato. In quei fantasmi che avevo preso per veri non c'era che vuoto e illusione. E l'angoscia della mia memoria risuonava a lungo, profonda e forte, nella mia voce. Magari l'avessero udita quelli che tuttora amano il vuoto e cercano l'illusione: forse ne sarebbero rimasti sconvolti al punto di vomitare tutto questo, e tu li avresti ascoltati levare a te il loro grido, perché di vera morte corporale è morto per noi chi intercede per noi presso di te.

- 10. Leggevo: Fremete e non peccate. E come ne ero scosso, Dio mio, io che avevo appena appreso a fremere d'ira sulle colpe passate, per non peccare più in futuro, e d'ira giusta, perché non era la natura estranea di un popolo di tenebra a peccare in me, come dicono quelli che non s'infuriano con se stessi e così ammassano per sé un tesoro d'ira per il giorno dell'ira, in cui sarà svelato il tuo giusto verdetto! E ormai non eran più fuori di me i miei beni, non li cercavo più con gli occhi della carne nella luce di questo sole. Perché chi cerca gioia fuori di sé facilmente svapora e si sperde nelle cose visibili del tempo, e il pensiero affamato non arriva che a lambirne le immagini. Magari chiedessero, spossati dalla fame: chi ci mostrerà qualcosa di buono? Ascoltino la nostra risposta: stampata è in noi la luce del tuo volto, Signore. Non siamo noi infatti il lume che illumina ogni uomo venuto a questo mondo, ma da te abbiamo luce, finché saremo luce in te noi che pure un tempo eravamo oscurità. O se nel loro interno vedessero l'eterno che io gustavo! E fremevo di non poterglielo mostrare, se fossero venuti da me col loro cuore che s'affaccia agli occhi e ti volta le spalle, chiedendo: chi ci mostra qualcosa di buono? Perché là dove m'ero infuriato con me stesso, nel segreto del mio letto, dove esaminavo con dolorosa attenzione la mia coscienza, dove ammazzavo e ti sacrificavo la mia vecchiezza, e avevo incominciato la meditazione sperando in te per la mia rinascita, là per la prima volta sentii la tua dolcezza e il dono della tua contentezza nel cuore. E uscivo in grandi esclamazioni, che dentro erano riconoscimenti: e non volevo più moltiplicarmi nei beni terreni, divorando il tempo e dal tempo divorato, perché possedevo nella semplicità dell'eterno altra sorta di grano e vino e olio.

- 11. E il verso successivo strappava al mio cuore un alto grido: In pace! Nell'identico! E quelle parole: mi addormenterò e prenderò sonno... Chi ci resisterà quando si attuerà la parola che fu scritta: la morte è stata assorbita nella vittoria? E tu veramente sei l'identico, tu che non sei soggetto a mutamento e in te è il riposo senza più memoria di fatica, perché non c'è un altro con te e non c'è moltitudine di cose da cercare fuori di te, ma tu, Signore, nella speranza mi hai rifatto uno. Leggevo e in quel mio fuoco non trovavo il modo di agire su quella gente assordata dalla morte in mezzo a cui ero stato, peste e cane dal latrato amaro e cieco contro il miele celeste delle tue dolci scritture, luminose del tuo lume. E il pensiero dei loro nemici mi nauseava fino a consumarmi.


[Lo staffile di Dio]

- 12. Quando avrò distillata in cuore tutta la memoria di quei liberi giorni? Ma non ho dimenticato e non tacerò l'asprezza del tuo staffile e la furia mirabile della tua misericordia. Mi tormentavi in quei giorni con il male ai denti, e quando fu tanto forte che non ero più in grado di parlare, mi affiorò in cuore l'idea di invitare tutti i miei amici presenti a scongiurarti in vece mia, Dio di ogni salute. E lo scrissi su una tavoletta e la diedi loro da leggere. Avevamo appena piegate le ginocchia in atteggiamento di supplica, che il dolore era sparito. E quale dolore! E come? Ne fui spaventato, lo confesso, mio Signore e mio Dio. In vita mia non avevo provato mai nulla di simile. E questi cenni della tua potenza si insinuarono nel profondo di me stesso, e nella gioia della fede resi lode al tuo nome. E quella stessa fede non mi lasciava stare senza angoscia per i peccati commessi in passato, perché ancora non mi erano stati rimessi con il tuo battesimo.

5.13. Trascorse le vacanze vendemmiali diedi le mie dimissioni - se ne trovassero un altro di venditore di parole per i loro studenti, i milanesi, dato che io da un lato avevo scelto di servire te e dall'altro per le mie difficoltà di respirazione e il dolore al petto non sarei stato in grado di riprendere l'insegnamento. E informai per lettera il tuo vescovo, quell'uomo divino che era Ambrogio, dei miei passati errori e della mia decisione attuale, per ottenerne un consiglio su quale dei tuoi libri leggere in primo luogo per prepararmi e dispormi a ricevere tanta grazia. Ma lui mi invitò a leggere il profeta Isaia, credo perché preannuncia più apertamente di tutti gli altri il Vangelo e la chiamata dei gentili. Io però cominciai a leggere senza capire e pensando che fosse tutto come l'inizio lo lasciai per tornarvi una volta che fossi più pratico del linguaggio del Signore.


[Ritorno a Milano per il battesimo]

6.14. Poi quando venne il momento di dare il mio nome lasciammo la campagna e ritornammo a Milano. Alipio decise di rinascere anche lui in te, con me. S'era già rivestito dell'umiltà che si addice ai tuoi sacri misteri, e col perfetto dominio che aveva sul suo corpo non si peritava di camminare a piedi nudi sulla terra ghiacciata d'Italia, con audacia rara. Prendemmo con noi anche Adeodato, il ragazzo nato da me, dalla mia colpa. L'avevi fatto bene, tu. Aveva appena quindici anni, e quanto a intelligenza era meglio di molti seri e dotti signori. Riconosco i tuoi doni, mio Signore e Dio, creatore dell'universo e capacissimo di dar forma ai nostri informi atti: non c'era nulla di mio in quel ragazzo, oltre al peccato. Che poi l'avessimo allevato secondo i tuoi principi eri stato tu e nessun altro a ispirarcelo: io riconosco i tuoi doni. C'è un libro mio, intitolato Il maestro: lì è lui a dialogare con me. Tu lo sai che tutti i pensieri lì proposti dal mio interlocutore sono suoi, e aveva sedici anni. Feci in tempo a conoscere altre sue doti, molto più ammirevoli. Quella sua intelligenza mi faceva rabbrividire di spavento: e chi oltre a te può esser autore di miracoli simili? Presto lo hai tolto dalla terra, e sereno è il ricordo che ne ho, tanto più che non ho nulla da temere per la sua infanzia e la sua adolescenza, e nulla affatto per la sua età matura... Ce ne facemmo dunque un compagno e coetaneo nella tua grazia, da educare secondo la tua dottrina; e fummo battezzati e venne meno l'angoscia del passato. In quei giorni mirabili e dolcissimi non mi stancavo di considerare la profondità delle tue decisioni sulla salvezza del genere umano. Quanto piansi ascoltando l'armonioso risuonare delle voci che ti levavano inni e cantici nella tua chiesa che intensa suggestione! Quelle voci mi si insinuavano nelle orecchie e mi distillavano in cuore la verità, e sollevavano un'onda di appassionata devozione che fluiva in pianto, e mi faceva bene.


[Il rito e la basilica di Ambrogio]

7.15. Non era molto che la chiesa di Milano aveva introdotto questo rito carico di suggestione e conforto, con l'intensa partecipazione dei fratelli che cantavano in armonia di voci e sentimenti. Era un anno o poco più che Giustina, madre dell'imperatore bambino Valentiniano, perseguitava Ambrogio, quest'uomo tuo, a causa dell'eresia in cui s'era lasciata trascinare dagli ariani. Il popolo cristiano vegliava in chiesa, pronto a morire con il suo vescovo e tuo servo. Là mia madre, ancella tua, ai primi posti nelle veglie e nello zelo, viveva di preghiere. Noi, benché ancora poco sensibili al calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia coinvolti nello smarrimento e nell'emozione di tutta la città. Fu allora che si introdusse l'uso delle regioni orientali di far cantare gli inni e i salmi, perché il popolo non si adagiasse nell'inerzia dello sconforto: un uso che da allora ai giorni nostri molti hanno già adottato e che quasi tutti i tuoi greggi imitano, in tutto il mondo.

- 16. Tu allora con una visione rivelasti al tuo vescovo il luogo in cui erano nascosti i corpi dei martiri Protasio e Gervasio, che per tanti anni avevi conservato intatti nel tesoro del tuo segreto, per tirarli fuori al momento opportuno a mo' di argine alla rabbia di una femmina, sì, ma potente come un re. Furono esumati, e durante il trasporto che se ne fece con i dovuti onori alla basilica di Ambrogio, non solo guarivano gli indemoniati - per esplicita confessione degli stessi demoni - ma accadde anche che un uomo cieco da molti anni, conosciutissimo in città, fattasi dire la ragione di quell'esplosione di gioia popolare, balzò in piedi e si fece portare sul posto. E là ottenne di essere ammesso a toccare con un fazzoletto le spoglie della morte dei tuoi santi, preziosa ai tuoi occhi. Lo fece, si accostò il fazzoletto agli occhi, e subito questi si aprirono. La fama si diffonde, a te si leva un coro altissimo e raggiante di lodi, quell'avversaria tua si vede, se non indotta a credere, almeno a soffocare la sua furia di persecuzione. Grazie a te, Dio mio! Da dove l'hai cavato questo mio ricordo, e dove lo porti ora che anche questi eventi mi hai fatto confessare? Son grandi cose: come avevo potuto trascurarle, dimenticarle? Eppure allora, quand'era così intenso il profumo dei tuoi unguenti, non correvamo dietro a te, e perciò il mio pianto di ora, quando ascoltavo cantare i tuoi inni. Avevo sospirato per te un tempo, e ora finalmente respiravo - per poco che si possa aprire all'aria, al vento, una dimora d'erba.


[Vita di Monica]

8.17. Tu che fai abitare in una casa gli spiriti affini aggiungesti al nostro sodalizio anche Evodio, un nostro giovane concittadino. Era impiegato nell'amministrazione imperiale, e si era convertito a te prima di noi, aveva ricevuto il battesimo e lasciato il servizio nel mondo per dedicarsi al tuo. Vivevamo insieme e avremmo abitato insieme anche in futuro, questo era il nostro solenne impegno. Eravamo in cerca di un luogo in cui potessimo renderci più utili vivendo al tuo servizio: insieme facevamo ritorno in Africa. Giunti vicino a Ostia, sul Tevere, mia madre morì. Molte cose tralascio, perché ho molta fretta. Accogli le mie confessioni e la mia gratitudine, Dio mio, pur nel silenzio di infinite cose. Ma non ometterò neppure una delle parole che mi partorisce l'anima intorno a quella tua servitrice, a lei che mi partorì con la sua carne alla luce del tempo e a quella dell'eterno col suo cuore. Non dei suoi doni dirò ma di quelli che tu hai fatto a lei. Certo non s'era fatta o allevata da sola: sei tu che l'hai creata, e né suo padre né sua madre sapevano quale donna sarebbe venuta da loro. E al tuo timore l'educò il bastone del tuo Cristo, la disciplina del tuo figlio unico, in una casa di credenti che era una parte sana del corpo della tua chiesa. Tuttavia non era sua madre che lodava per la cura con cui era stata allevata, ma una sua fantesca decrepita, che aveva tenuto sulle spalle suo padre bambino come fanno le ragazze un po' più grandi cui s'affidano i piccoli. Per questo e per la sua maturità e il suo comportamento irreprensibile godeva di un certo rispetto da parte dei padroni di una casa cristiana. E perciò le era stata affidata la cura delle figlie del padrone, e lei se ne occupava con molta premura: e all'occasione sapeva essere energica quanto lo esige una sana severità, dove c'era da reprimere, pur essendo saggia e misurata come istitutrice. Così ad esempio non permetteva loro di bere al di fuori dei pasti, che prendevano a tavola molto frugalmente, con i genitori: neppure acqua, anche se ardevano di sete. E questo per prevenire una cattiva abitudine, come spiegava con parola sana: "Ora bevete acqua, perché non avete accesso al vino; ma quando avrete preso marito e sarete padrone delle dispense e delle cantine, l'acqua vi parrà sciocca, ma l'abitudine di bere vorrà essere soddisfatta". Con precetti del genere e con l'autorità di chi sa comandare moderava l'avidità tipica della prima infanzia, educando così al contegno e alla misura perfino la sete delle bambine, perché finissero col non trovare neppur piacere in quello che non stava bene.

- 18. Eppure, raccontava questa tua serva a me, suo figlio, si era insinuato in lei il vizio di bere. I suoi genitori la mandavano come d'abitudine, da quella sobria ragazza che era, ad attingere vino dalla botte: e lei immergendo la brocca dall'apertura superiore, prima di versare il vino puro nel fiasco ne assaggiava appena con la punta delle labbra, perché di più il suo palato rifiutava. Il che vuol dire che non lo faceva perché ne avesse il minimo desiderio vizioso, ma per quell'esuberanza e spavalderia caratteristiche dell'età che si sfogano in gesti gratuiti, tanto che di solito nei bambini le si reprime con tutto il peso dell'età adulta. Così assaggiandone un poco di più ogni giorno - perché chi traligna anche di poco va in rovina a poco a poco - era scivolata in quell'abitudine, al punto che ormai vuotava avidamente calici quasi pieni di vino puro. Dov'era più la vecchia saggia e quel suo energico divieto? Poteva forse servire a qualcosa contro un male che era già lì, segreto, una medicina che non fosse la tua vigilanza su di noi? In assenza di padre e madre e governanti tu sei presente, tu che hai creato, che chiami, che anche attraverso le autorità umane sai agire per il bene e la salvezza delle anime. Cosa facesti allora, Dio mio? Come trovasti la cura, come ottenesti la guarigione? Non hai fatto scattare da un'altra anima la lama di bisturi di un insulto duro e affilatissimo, rimedio tratto dalle tue segrete risorse per tagliar via quel marcio in un colpo solo? La serva che l'accompagnava di solito alla botte, durante un bisticcio che ebbe con la padrona più giovane di lei, come spesso accade, mentre erano sole, le rinfacciò quella cattiva abitudine chiamandola con l'epiteto terribilmente offensivo di beona. Se ne sentì ferita, e vide come era brutto quel vizio e se ne spogliò. Come l'adulazione degli amici perverte, così spesso le parole aggressive dei nemici correggono. E tu li ripaghi non per quello che hai fatto tu attraverso di loro, ma per l'intenzione che avevano loro. Quella ad esempio nella sua collera voleva provocare la padroncina, non guarirla, e per questo l'aveva schernita in privato - forse anche perché si erano trovate a litigare proprio in quel momento e in quel luogo, o forse addirittura perché la serva stessa voleva evitare di esporsi, visto che aveva lasciato passare tanto tempo senza denunciare la cosa. Ma tu, Signore delle cose celesti e terrene, che costringi nell'alveo dei tuoi fini le acque impetuose del profondo e metti in ordine il turbinoso flusso dei secoli, tu con la furia di un'anima ne rinsavisti un'altra: perché nessuno che assista al ravvedimento di una persona dopo averle parlato con l'intenzione di correggerla, attribuisca il successo al proprio potere.

9.19. Educata dunque alla discrezione e alla sobrietà, e da te sottomessa ai genitori piuttosto che dai genitori a te, quando compì l'età da marito fu consegnata a un uomo che servì come un padrone: e fece di tutto per guadagnarlo a te, parlandogli di te con quel suo modo d'essere di cui tu la facevi bella e pur nel suo contegno amabile e ammirevole per il marito. Quanto poi agli oltraggi da lui inflitti al letto coniugale, fu così tollerante che non ebbe mai alcun diverbio con lui a questo proposito. Aspettava che su di lui scendesse la tua misercordia, e con la fede gli desse un po' di castità. Lui era del resto capace di forti attaccamenti come facile all'ira. Ma lei riusciva a non opporre resistenza, neppure verbale - per non parlare delle azioni - al marito mentre era in collera. Quando però l'ira era sbollita e lo vedeva tranquillo, coglieva il momento adatto per rendergli conto delle proprie azioni, nel caso che la sua furia fosse stata senza motivo. C'erano molte sue amiche che avevano mariti meno violenti, eppure portavano in faccia i segni delle percosse, a volta erano addirittura sfigurate: durante le loro conversazioni si lamentavano del modo di vivere dei mariti. Ma lei, quasi prendendole benevolmente in giro disapprovava il loro linguaggio - e in questo c'era qualcosa di serio: dal momento in cui, diceva, si erano sentite leggere solennemente il contratto matrimoniale, dovevano considerarsi schiave in forza di quel documento. Ricordassero dunque la loro condizione: non era proprio il caso di alzare troppo la testa di fronte ai loro padroni. Quelle restavano ammirate, sapendo che marito irascibile doveva sopportare: non s'era mai sentito dire, anzi non c'era il minimo indizio, che Patrizio battesse la moglie o che ci fosse stata anche una sola lite coniugale fra loro. E quando le chiedevano, in confidenza, come fosse possibile lei recitava la regola che ho ricordato. Quelle che riuscivano a osservarla poi la ringraziavano dei risultati ottenuti, e quelle che non ci riuscivano continuavano a subire vessazioni.

- 20. Riuscì ad averla vinta anche con la suocera, che in un primo momento i pettegolezzi di servette maligne le avevano inimicato: a furia di cortesie, pazienza e mitezza indusse addirittura la suocera ad avvertire il figlio delle calunnie di quelle malelingue, che con la pace domestica turbavano i rapporti fra sé e la nuora, e lo pregò di punirle. Così fu: un po' per obbedienza alla madre, un po' per riassestare la disciplina della casa e un po' per evitare ulteriori litigi fra i suoi fece battere le ragazze accusate, a piacimento dell'accusatrice. Dopodiché questa promise la stessa ricompensa a chiunque le avesse parlato male della nuora allo scopo di ingraziarsi lei, la suocera: nessuno osò più aprir bocca, e vissero in perfetta armonia di affetti reciproci.

- 21. Anche questo gran dono avevi fatto a quella tua serva buona, nell'utero della quale mi hai creato, Dio mio di compassione. Se fra due anime, due qualunque, c'era qualche dissidio o discordia lei se appena era possibile si offriva con tanto spirito di pace che se anche coglieva da entrambe le parti durissime parole di reciproca accusa - come quelle che si vomitano di solito in un accesso di furiosa inimicizia, quando l'odio nei confronti della nemica assente investe l'amica presente in tutta la sua crudezza, e inacidisce le conversazioni - lei si guardava bene dal riportare all'una o all'altra più di quanto potesse servire a riconciliarle. Mi sembrerebbe un merito da poco, se non sapessi per dolorosa esperienza che non si conta la gente affetta da questa sorta di orrenda peste diffusissima fra i peccatori: gente che non si limita a riferire cose dette dei propri nemici negli accessi d'ira, ma ci aggiunge addirittura una frangia. Quando a un uomo degno del nome dovrebbe parere troppo poco evitare di suscitare o accrescere conflitti con le proprie maldicenze, e non sforzarsi di comporli con le sue buone parole. Come faceva lei, che aveva te per intimo maestro alla scuola del cuore.

- 22. Finalmente guadagnò a te anche il marito, già quasi al limite estremo della vita temporale: e in lui che ormai era credente non rimpianse ciò che aveva tollerato nel miscredente. Era poi la serva dei tuoi servi. Chi di loro l'aveva conosciuta, in lei rendeva lode e onore e amore a te, sentendo nel suo cuore la tua presenza, testimoniata dai frutti di una vita consacrata a te. Era stata la moglie d'un solo uomo, aveva reso ai genitori il bene ricevuto, aveva retto con devozione la sua casa, a testimonio aveva le sue buone opere. Aveva allevato dei figli, partorendoli di nuovo ogni volta che li vedeva allontanarsi da te. Infine di tutti noi, Signore, che possiamo per tuo gratuito favore dirci servi tuoi, e ricevuta la grazia del tuo battesimo vivevamo già in una nostra comunità, al tempo in cui ancora lei non s'era addormentata in te, di tutti noi si prese cura quasi fossimo tutti figli suoi, e quasi fosse figlia di noi tutti ci servì.


[Un'estasi platonica]

10.23. Incombeva il giorno in cui doveva uscire da questa vita - e tu lo conoscevi quel giorno, noi no. Accadde allora per una tua misteriosa intenzione, credo, che ci trovassimo soli io e lei, affacciati a una finestra che dava sul giardino interno della casa che ci ospitava, là nei pressi di Ostia Tiberina, dove c'eravamo appartati lontano da ogni trambusto, per riposarci della fatica di un lungo viaggio e prepararci alla navigazione. Conversavamo dunque assai dolcemente noi due soli, e dimentichi del passato, protesi verso quello che ci era davanti ragionavamo fra noi, alla presenza della verità - vale a dire alla tua presenza. L'argomento era la vita eterna dei beati, la vita che occhio non vide e orecchio non udì, che non affiorò mai al cuore dell'uomo. Noi eravamo protesi con la bocca del cuore spalancata all'altissimo flusso della tua sorgente, la sorgente della vita che è in te, per esserne irrigati nel limite della nostra capacità, comunque riuscissimo a concepire una così enorme cosa.

- 24. E il nostro ragionamento ci portava a questa conclusione: che la gioia dei sensi e del corpo, per quanto vivida sia in tutto lo splendore della luce visibile, di fronte alla festa di quella vita non solo non reggesse il confronto, ma non paresse neppur degna d'esser menzionata. Allora in un impeto più appassionato ci sollevammo verso l'Essere stesso attraversando di grado in grado tutto il mondo dei corpi e il cielo stesso con le luci del sole e della luna e delle stelle sopra la terra. E ascendevamo ancora entro noi stessi ragionando e discorrendo e ammirando le tue opere, e arrivammo così alle nostre menti e passammo oltre, per raggiungere infine quel paese della ricchezza inesauribile dove in eterno tu pascoli Israele sui prati della verità. Là è vita la sapienza per cui son fatte tutte le cose, quelle di ora, del passato e del futuro - la sapienza che pure non si fa, ma è: così come era e così sarà sempre. Anzi l'essere stato e l'essere venturo non sono in lei, ma solo l'essere, dato che è eterna: infatti essere stato ed essere venturo non sono eterni. Mentre così parliamo, assetati di lei, eccola... in un lampo del cuore, un barbaglio di lei. E già era tempo di sospirare e abbandonare lì le primizie dello spirito e far ritorno allo strepito della nostra bocca, dove la parola comincia e finisce. E cosa c'è di simile alla tua Parola, al Signore nostro, che perdura in se stessa senza diventar vecchia e rinnova ogni cosa?
- 25. "Se calasse il silenzio, in un uomo, sopra le insurrezioni della carne, silenzio sulle fantasticherie della terra e dell'acqua e dell'aria, silenzio dei sogni e delle rivelazioni della fantasia, di ogni linguaggio e di ogni segno, silenzio assoluto di ogni cosa che si produce per svanire" - così ragionavamo - "perché ad ascoltarle, tutte queste cose dicono: 'Non ci siamo fatte da sole, ma ci ha fatte chi permane in eterno'; se detto questo dunque drizzassero le orecchie verso il loro autore, e facessero silenzio, e lui stesso parlasse non più per bocca loro, ma per sé: e noi udissimo la sua parola senza l'aiuto di lingue di carne o di voci d'angelo o di tuono o d'enigma e di similitudine, no, ma lui stesso, lui che amiamo in tutte queste cose potessimo udire, senza di loro, come or ora con un pensiero proteso e furtivo noi abbiamo sfiorato la sapienza eterna immobile sopra ogni cosa: se questo contatto perdurasse e la vista fosse sgombrata di tutte le altre visioni di genere inferiore e questa sola rapisse e assorbisse e sprofondasse nell'intima beatitudine il suo spettatore, e tale fosse la vita eterna quale è stato quell'attimo di intelligenza per cui stavamo sospirando: non sarebbe finalmente questa la ventura racchiusa in quell'invito, entra nella gioia del tuo signore? E quando? Forse quando tutti risorgeremo, ma non tutti saremo mutati?"


[Congedo e morte di Monica]

- 26. Cose del genere dicevo, se non in questo modo e con queste parole: però tu lo sai, Signore, che quel giorno, mentre così ragionavamo e fra una parola e l'altra il mondo si sviliva ai nostri occhi con tutte le sue gioie, lei, mia madre, disse: "Per quanto mi riguarda, figlio mio, non trovo più piacere in questa vita. Che cosa faccia ancora qui e perché ci sia non so, ora che la speranza terrena è consumata. C'era una sola cosa per cui desideravo di restare ancora un poco in questa vita, ed era di vederti cristiano cattolico prima di morire. M'ha dato a iosa, anche di più, il mio Dio: di vederti addirittura disprezzare la fortuna terrena per servirlo. Cosa sto a fare qui?"

11.27. Quale fosse la mia risposta non ricordo bene: ma nel giro di cinque giorni o giù di lì si mise a letto con la febbre. E mentre era così ammalata un giorno ebbe uno svenimento e per breve tempo perse conoscenza. Noi accorremmo, ma presto riprese i sensi e guardando me e mio fratello che le eravamo accanto ci chiese come una che cerca qualcosa: "Dov'ero?" Poi vedendoci addolorati e sgomenti: "Seppellitela qui", disse, "vostra madre". Io tacevo e soffocavo il pianto. Mio fratello invece mormorò qualcosa come un augurio che lei non morisse per viaggio ma in patria, come fosse cosa meno triste. A queste parole si fece scura in volto e lo fissò negli occhi, aggrondata, perché nutriva sentimenti simili, e poi guardando me: "Ma guarda cosa dice". E quindi a entrambi: "Seppellite questo corpo in un luogo qualsiasi: non ve ne preoccupate affatto. Soltanto di questo vi prego: che all'altare del Signore vi ricordiate di me, dovunque sarete". Espresse questo pensiero come poteva, e poi tacque: il male s'aggravava e la metteva a dura prova.

- 28. Ma io pensavo ai doni che infondi nel cuore di chi crede in te, Dio invisibile, semi di frutti mirabili, e ne gioivo e ti rendevo grazie: ricordando una cosa che sapevo bene, quanto cioè si fosse preoccupata della sua sepoltura, che si era preparata in anticipo accanto al corpo di suo marito. Erano vissuti in grande concordia: e così lei desiderava - tanto l'animo umano fatica a capire il divino - che un'altra fortuna le fosse concessa, e andasse ad aggiungersi a quella fortunata vita, nel ricordo degli uomini. Sperava che dopo il suo ritorno d'oltremare la terra ricoprisse insieme la terra di entrambi i coniugi, riuniti.
Ma quando, sotto la piena della tua bontà, anche questo vano desiderio aveva cominciato a svanirle dal cuore, non lo sapevo: fui sorpreso e felice di apprendere che le cose stavano proprio così, quantunque anche in quel nostro colloquio presso la finestra, quando aveva detto: "Cosa sto a fare qui, ormai?" non sembrava nutrisse il desiderio di morire in patria. Poi venni anche a sapere che già una volta, quando eravamo a Ostia, si era messa a conversare in materna confidenza con alcuni amici miei - io non c'ero - sul disprezzo da portarsi a questa vita e sul bene di morire: e siccome quelli si stupivano di trovare tanto coraggio in una donna - ma tu gliel'avevi dato - e chiedevano se non la spaventava l'idea di lasciare il suo corpo tanto lontano dalla sua città, "Nulla è lontano da Dio", rispose, "e non bisogna aver paura che Lui non ritrovi, alla fine del tempo, il luogo da cui resuscitarmi". Il nono giorno della sua malattia dunque, nel suo cinquantaseiesimo anno di vita, il mio trentatreesimo, quell'anima religiosa e devota fu liberata dal corpo.

12.29. Le chiudevo gli occhi e un'enorme tristezza mi affluiva in cuore e mi fluiva in pianto, e in quel momento gli occhi sotto il veto violento della mente si ribevevano le loro polle fino a disseccarle, e in questa lotta stavo molto male. Il ragazzo, Adeodato, lui sì era scoppiato in lacrime quando lei aveva esalato l'ultimo respiro: e tutti noi l'avevamo costretto al silenzio. Allo stesso modo il ragazzo che era in me e che si struggeva in pianto, sotto il rimprovero d'una voce adulta - voce del cuore - taceva, lui pure. Non ci sembrava appropriato celebrare quel trapasso con pianti e lamenti e singhiozzi, perché così di solito ci si duole di una qualche infelicità di chi è morto; o di una estinzione in qualche modo totale. Ma lei non era morta infelice, e neppure era morta del tutto. Lo attestavano con certezza assoluta i documenti del suo modo di vivere e la sua fede, non immaginaria: argomenti sicuri.


[Pietà filiale]

- 30. Che cos'era dunque che mi faceva così male dentro, se non la ferita appena aperta con l'improvvisa rottura di quella dolcissima e carissima consuetudine di una vita condivisa? Mi era grata la sua testimonianza, la carezza che era stata per me, durante l'ultima malattia, fra le attenzioni che avevo per lei, sentirmi chiamare figlio buono e ricordare con grandissima tenerezza che mai aveva udito dalla mia bocca una parola pungente o offensiva nei suoi confronti. Ma che cos'era mai, Dio mio creatore nostro? Non c'era proporzione fra quel po' di onore che io le avevo reso e la vita da schiava che lei aveva fatta per me. Era un conforto grande quello che ora mi abbandonava. L'anima ne era abbattuta e la mia vita come fatta a pezzi, perché era diventata una sola con la sua.

- 31. Soffocato dunque il pianto di quel ragazzo, Evodio afferrò il Salterio e intonò un salmo. E tutta la nostra casa gli rispondeva: Ti canterò tutta la tua dolcezza / tutta la tua giustizia, mio Signore. Venuti a sapere di cosa si trattava molti fratelli e donne devote accorsero. E mentre come era costume le persone incaricate di questo si occupavano di preparare il funerale, io mi ero appartato dove il decoro suggeriva, con quelli che non se la sentivano di lasciarmi solo, e discutevo di argomenti appropriati alle circostanze: era quello il balsamo di verità con cui mitigavo il mio tormento, che tu vedevi bene, ma che essi ignoravano. E mi ascoltavano attentamente e mi credevano immune dal dolore. Ma io parlandoti all'orecchio, in modo che nessuno di loro poteva udire, mi rimproveravo al contrario per la mia sensibilità eccessiva e reprimevo un fiume di tristezza, e quello si ritirava appena davanti a me: poi di nuovo cresceva con impeto sempre più violento. E tuttavia non rompeva nel pianto, non arrivava ad alterarmi il viso. Ma so ben io cosa serravo in cuore. E poiché mi mordeva anche il rammarico che avessero tanta presa su di me le vicende umane, pur necessarie nell'ordine debito e secondo la condizione che abbiamo ricevuta in sorte, al mio dolore se ne aggiungeva un altro, e doppiamente mi consumavo di tristezza.

- 32. Il corpo viene sepolto: andiamo, torniamo senza lacrime. Neppure durante le preghiere che ti rivolgemmo offrendoti per lei il sacrificio del nostro riscatto, come vuole l'usanza del luogo, col feretro accanto al sepolcro, prima che vi sia deposto: neppure durante quelle preghiere piansi. Ma per tutto il giorno rimasi segretamente oppresso dal peso della tristezza, e con la mente confusa ti chiedevo, come potevo, di guarirmi da quel dolore: e tu non lo facevi, credo, per consegnare alla mia memoria almeno con questa prova la forza del vincolo che abbiamo verso ogni consuetudine, anche a dispetto di una mente che ha smesso di nutrirsi di illusioni. Mi venne perfino in mente di andare ai bagni, perché - come avevo sentito dire - furono così chiamati dal greco balanion, in quanto cacciano l'angoscia. Confesso subito anche questo alla tua tenerezza, padre degli orfani, che feci il bagno e rimasi esattamente com'ero prima di farlo. Non mi fece affatto trasudare dal cuore l'amaro dell'angoscia. Poi dormii e al risveglio trovai il mio dolore non poco addolcito. E mentre me ne stavo da solo, nel mio letto, mi riecheggiarono nella memoria quei versi così veri del tuo Ambrogio:

Dio creatore di tutto
cardine delle stelle
vesti di luce il giorno
la notte d'abbandono:
dolcezza del ristoro
in cui si scioglie il corpo
la mente si fa lieve
calmo nel cuore il lutto.

- 33. E a poco a poco la mente ritrovava l'antica immagine della tua ancella e dei suoi gesti, pieni di devozione per te e di tenerezza innocente e discreta per noi... All'improvviso sentii che l'avevo perduta, ed ebbi voglia di piangere davanti a te su di lei e per lei, su di me e per me. E diedi libero corso alle lacrime che fino ad allora avevo contenuto: e sopra il loro flusso il cuore riposò come su un letto, perché lì c'era solo il tuo orecchio ad ascoltare il mio pianto, non quello di un uomo che l'avrebbe interpretato dall'alto del suo orgoglio. E ora, Signore, te lo confesso sopra queste pagine. Legga chi vuole e come vuole intenda, e se troverà che fu peccato questo, di piangere mia madre per un'ora breve, mia madre quando ai miei occhi era morta, lei che per tanti anni aveva pianto me perché potessi vivere ai tuoi occhi - non rida almeno di me. No: piuttosto, se è veramente grande il suo amore di Dio, pianga anche lui dei miei peccati, pianga davanti a te, Padre di ognuno che è fratello a Cristo.


[Ripòsino in pace]

13.34. Da parte mia ora che il cuore è guarito da quella ferita in cui si poteva vedere con riprovazione una passione troppo terrena, ora verso per quella tua serva, Dio mio, lacrime di tutt'altro genere. Nascono dallo sgomento, quando considero i rischi cui è esposta ogni anima che muore in Adamo. È vero che lei, mia madre, vivificata in Cristo, visse ancor prima di esser liberata dal corpo in modo da render lode al tuo nome con la sua fede e con la sua condotta; e tuttavia non oso affermare che dal giorno in cui la rigenerasti col battesimo non sia uscita dalle sue labbra neppure una parola contro la tua legge. E la verità stessa, da te generata, dice: Chi avrà detto a suo fratello: sciocco, sarà soggetto al fuoco della Geenna: e allora guai anche alla più lodevole delle vite umane, se la analizzi senza misericordia! Ma tu non impieghi tutta la tua energia a indagare le nostre colpe, e per questo confidiamo di trovar posto accanto a te. Ma chi conta davanti a te i suoi veri meriti, che cosa conta se non i doni che ha da te? O se gli uomini si riconoscessero uomini, e chi si gloria si gloriasse nel Signore!

- 35. È per questo che io, mio vanto e vita mia, Dio del mio cuore, metto da parte per un attimo le sue buone azioni, per cui con gioia ti rendo grazie, e chiedo perdono per i peccati di mia madre. Ascoltami, in nome di chi fu appeso al legno per esser medicina alle nostre ferite, e siede alla tua destra e intercede per noi. Io so che agì con intima bontà e di cuore rimise i debiti ai suoi debitori; e tu rimetti i suoi a lei, se ne ha contratti nei lunghi anni seguiti all'acqua della salute. Rimettili, Signore, rimettili, te ne supplico, non entrare in giudizio con lei. La misericordia trionfi sulla giustizia, perché i discorsi che hai fatto sono veri e tu hai promesso misericordia ai misericordiosi. Sei tu del resto che hai concesso di esserlo a quelli di cui hai avuto compassione: perché tu hai pietà di quelli di cui hai pietà, e usi compassione con quelli con cui vuoi usarne.

- 36. E già hai fatto, credo, quello che ti chiedo: pure accetta, Signore, l'offerta spontanea della mia bocca. Lei, mia madre, nell'imminenza della sua liberazione non si diede pensiero che il suo corpo venisse sepolto con cerimonie fastose o conservato con aromi, non desiderò la distinzione di un monumento e non si preoccupò di avere un sepolcro in patria; non fu questo il testamento che ci lasciò, ma il suo unico desiderio era di essere ricordata davanti al tuo altare, cui aveva prestato i suoi servizi ogni giorno senza intermissione. Sapeva che di là si dispensa la vittima innocente in forza di cui fu cancellato il documento della nostra condanna e un trionfo fu riportato sull'avversario: calcoli pure il numero delle nostre colpe e cerchi pure un capo d'imputazione, in lui che ci ha resi vincitori non troverà nulla. Chi gli rifonderà il sangue innocente? Chi gli renderà quello che ha pagato per riscattarci all'avversario? Al mistero del nostro riscatto la tua ancella si legò nell'anima col vincolo della fede. Nessuno può strapparla alla tua protezione. Non si intromettano con la forza o l'astuzia il leone o il dragone: lei non risponderà che non ha debiti, per non essere dimostrata colpevole e trattenuta da un accusatore scaltro, ma risponderà che i suoi debiti sono stati condonati da colui che nessuno potrà mai ripagare di quanto ha pagato per noi, senza nulla dovere.

- 37. Riposi dunque in pace con l'uomo di cui fu sposa, il solo di cui lo fu, e che servì portandoti il suo frutto con pazienza, per guadagnare anche lui a te. E tu ispira, mio Signore e Dio mio, ispira tu i tuoi servi e miei fratelli, i tuoi figli e padroni miei, che io servo col cuore e la voce e la penna: e ogni volta che leggeranno queste pagine si ricorderanno davanti al tuo altare di Monica, tua ancella, con Patrizio che fu un tempo suo sposo. Attraverso la loro carne mi hai fatto entrare in questa vita - come, non so. Con devozione si ricorderanno di loro: genitori miei in questa luce provvisoria, e miei fratelli in te che ci sei Padre e nella madre cattolica, e miei concittadini nella Gerusalemme eterna, a cui sospira il tuo popolo lungo tutto il suo cammino dall'inizio al ritorno. Così sia meglio appagato in virtù di queste confessioni il suo estremo desiderio: lo sia nella preghiera di molti, piuttosto che nella mia soltanto.


LIBRO DECIMO
[IL PRESENTE E LA MEMORIA]



[Preambolo: ragioni di confessare il presente]

1.1. Io conoscerò te che mi conosci, io ti conoscerò come tu mi conosci. Tu, potenza dell'anima, entra in lei, portala alla tua altezza, perché senza macchia né ruga ti si offra a esser posseduta. Questa è la mia speranza e perciò parlo, è di questa speranza che gioisco, ogni volta che la mia gioia è vera. E quanto alle altre cose in questa vita, più si piange per loro e meno sono degne di rimpianto, e tanto più ne sono degne quanto meno si piange per loro. Ecco, tu ami la verità, perché chi fa la verità viene alla luce. Io la farò nel mio cuore davanti a te in questa confessione: e anche su queste pagine però, davanti a molti testimoni.

2.2. Del resto che segreti avrei per te, Signore, che coi tuoi occhi denudi l'abisso della coscienza umana, anche se non volessi confessarmi a te? Nasconderei te a me, non viceversa. Ora poi che il mio pianto testimonia il fastidio che provo per me stesso, sei tu la luce e il termine del desiderio, del piacere, dell'amore, fino a farmi arrossire di me stesso, a fuggire da me per abbracciare te, a non voler piacere né a me né a te se non per quello che ho da te. Sono tutto davanti a te, Signore, comunque io sia. E con che frutto io mi confessi a te, l'ho detto. Non con parole che hanno corpo e suono, ma con parole dell'anima e grida del pensiero, che il tuo orecchio conosce. Se son malvagio confessarmi a te altro non è che dispiacermi; se devoto, altro non è che rendertene merito, perché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima, quando ancora è empio, lo giustifichi. Perciò la mia confessione al tuo cospetto, Dio mio, si fa in silenzio e non si fa in silenzio. Tace la voce, grida il sentimento. E io niente di vero dico agli uomini che tu non abbia saputo già prima, e tu da me niente vieni a sapere che non m'abbia tu stesso detto prima.

3.3. Ma cosa ho in comune io con la gente, per farle ascoltare le mie confessioni, come se quelli potessero guarire tutte le mie malinconie? Razza curiosa della vita altrui, tarda a correggere la propria. Ma perché vogliono sapere da me chi sono io, se non voglion sapere da te chi sono loro? E come fanno a sapere se dico il vero quando mi sentono parlare di me stesso, quando non c'è uomo che sappia quel che passa in un uomo, fuorché lo spirito dell'uomo che è in lui? Ma se ascoltassero te parlare di se stessi, non potrebbero dire: "Dio mente". Perché cos'è ascoltare da te parole su se stessi, se non conoscere se stessi? E chi poi si conosce e dice "È falso", se non mente egli stesso? Ma poiché tutto crede l'amore, almeno fra le persone che stringe in un unico vincolo, anch'io, Signore, ti faccio queste confessioni per giungere all'orecchio di uomini ai quali non posso far toccare con mano la loro verità: mi crederanno quelli cui l'amore apre le orecchie.

- 4. Ma tu, mio medico interiore, fammi vedere con chiarezza il frutto di queste confessioni. Quelle dei miei mali passati, che hai condonato stendendovi un velo, perché trovassi in te la beatitudine una volta che tu m'avessi rinnovata l'anima con la tua fede e il mistero, quelle dunque a leggerle o ascoltarle risvegliano il cuore dal letargo della disperazione, perché non dica: "No, non ce la faccio". E perché in amorosa veglia attenda la bontà del tuo perdono e la carezza della tua grazia, che rende forte ogni uomo malcerto, e capace di giungere a coscienza, per mezzo suo, dell'instabilità. E a chi sta già nel bene fa piacere sentir parlare dei mali passati di persone che ormai ne sono libere: non perché sono mali fa piacere, ma perché furono, e non ci sono più. Ma io su queste pagine confesso davanti a te, anche agli uomini, chi sono ora, non più chi ero. Con quale frutto allora, mio Signore? Ogni giorno si confessa a te la mia coscienza, che s'affida alla speranza del tuo benigno perdono più che alla sua innocenza. Dimmi: con quale frutto? L'altro, quello del mio passato, l'ho visto e ne ho già detto. Ma ecco, chi sono io nello stesso momento nel quale scrivo queste confessioni, molti certo vorrebbero saperlo, che mi hanno conosciuto e non mi hanno conosciuto, che hanno sentito dire qualcosa da me o anche solo di me, ma non hanno l'orecchio appoggiato al mio cuore, dove io sono quello che sono. Vogliono dunque sentire da me, sentirmi confessare quello che io sono intimamente. Quello che sono là dove non possono arrivare con gli occhi o con le orecchie, e neppure col pensiero. Sono disposti a credere, ma potranno conoscere? L'amore che li fa ben disposti infatti glielo dice, che non mento in questa confessione di me stesso, e ancora è questo amore in loro a credermi.

4.5. Ma quale sarà il frutto di questo desiderio? Che si rallegrino con me nell'apprendere il dono che mi fai di darmi accesso a te, e preghino per me all'udire quanto mi ritarda il mio peso? A persone del genere io mostrerò me stesso. Non è un piccolo frutto, mio Signore e Dio, se molti ti ringraziano per noi e molti per noi ti pregano. Possa la loro mente fraterna amare in me quello che tu insegni ad amare, piangere in me quello che insegni a piangere. Questo farà la mente di un fratello, non quella di un estraneo, o di figli di un altro, che dalla bocca sputano vanità, e che stringono in mano l'ingiustizia. No, solo quella di un fratello, che nella sua approvazione sia felice per me, e nella disapprovazione per me si rattristi; uno che, mi approvi o mi disapprovi, mi ama tuttavia. A chi è fatto così io mostrerò me stesso: il mio bene gli allargherà il respiro, il mio male lo farà sospirare. Ciò che è bene per me sei tu che l'hai voluto, tu che me l'hai donato; ciò che è male sono peccati miei e condanne tue. Sentiranno il respiro allargarsi nel bene e per il male sospireranno, e l'inno e il pianto saliranno insieme fino a te, su da questi turiboli che sono i cuori fraterni. Ma tu, Signore, se gradisci il profumo del tuo tempio, abbi pietà di me secondo la tua misericordia immensa, in grazia del tuo nome. Tu che non abbandoni mai ciò che cominci, porta alla sua pienezza ciò che in me è incompiuto.

- 6. Ecco il frutto che verrà dalle mie confessioni non di quello che ero, ma di quello che sono, se lo farò non solo davanti a te, con euforia segreta e con tremore, con segreto sconforto e con speranza, ma anche alle orecchie di quelli fra i figli degli uomini che credono, che condividono le mie gioie e la mia mortalità, dei miei concittadini e come me stranieri itineranti, di quelli venuti prima di me e di quelli che verranno dopo, e dei miei compagni di strada. Sono questi i tuoi servi, miei fratelli, i figli tuoi che tu hai voluto darmi per padroni, che tu mi hai comandato di servire, se voglio vivere con te e di te. E questa tua parola non sarebbe bastata, se ti fossi limitato a insegnarla parlando, senza mostrarmi la via con l'azione. E anch'io lo faccio con atti e con parole, lo faccio sotto le tue ali, e il rischio è immenso: se non che l'anima si ripiega sotto le tue ali e la mia instabilità ti è nota. Io sono un fanciullino ancora, ma mio padre è vivo e ho un protettore tutto per me: è lui stesso, lui che mi ha generato, a proteggermi. Tu stesso sei ogni mio bene, tu onnipotente che sei con me anche prima che io sia con te. E allora alle persone come quelle che mi comandi di servire io mostrerò non più quello che ero, ma quello che son già e che sono ancora; ma neppur io mi giudico. E così possa essere ascoltato.

5.7. Perché sei tu, Signore, a giudicarmi. Già: è vero che nessun uomo conosce ciò che riguarda un uomo se non lo spirito di quell'uomo, che è in lui; ma c'è qualcosa in un uomo che perfino lo spirito che è in lui non conosce. Ma tu, Signore, sai tutto di lui, perché sei tu che l'hai fatto. Io poi per quanto al tuo cospetto mi disprezzi e mi senta terra e cenere, so qualcosa di te che di me ignoro. E certo, ora vediamo attraverso uno specchio e in enigma, non ancora faccia a faccia; ed è per questo che finché vado errando lontano da te ho presente me stesso più che te: eppure so di te che sei assolutamente inviolabile; quanto a me invece ignoro a quali tentazioni io sia in grado di resistere, e a quali non lo sia. E speranza ce n'è, perché sei di parola tu, e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione crei anche lo scampo, perché possiamo resistere. Confesserò quello che so di me, confesserò anche quello che non so, perché anche ciò che so di me lo so per tua illuminazione, e ciò che ignoro lo ignorerò fino a quando il mio buio sarà come disteso mezzogiorno alla luce del tuo volto.


[L'itinerario della mente in Dio]

6.8. Ciò di cui in coscienza io non dubito, Signore, è che amo te. La tua parola mi ha colpito in cuore, e io ti ho amato. Ma anche il cielo e la terra e tutto quello che contengono mi dicono di amarti, e non cessano di dirlo a ogni uomo, perché non ci sia scusa per nessuno. Anche se più profonda sarà la tua pietà verso chi ne godrà, più sollecito il tuo perdono per chi vorrai perdonare: altrimenti cielo e terra cantano le tue lodi ai sordi. Ma cosa amo, amando te? Non la grazia di un corpo, non il fascino del mondo, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo dei fiori o di balsami e aromi, non la manna e il miele degli abbracci e dei desideri carnali. Non è questo che amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e una sorta di abbraccio, quando amo il mio Dio: luce, voce, profumo, cibo e abbraccio dell'uomo interiore, dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l'anima, e da lei sola si fa assaporare e stringere. Dove c'è luce non diffusa nello spazio e musica non rapita dal tempo e profumo che il vento non disperde e sapore che la nausea non scema - e un abbraccio che la sazietà non scioglie. Questo è quello che amo, quando amo il mio Dio.

- 9. E che significa questo? L'ho chiesto alla terra e mi ha detto: "Non sono io": e tutte le cose che essa contiene hanno fatto la stessa confessione. L'ho chiesto al mare e ai suoi abissi e ai rettili dall'anima viva e mi hanno risposto: "Non siamo noi il tuo Dio - cerca sopra di noi". L'ho chiesto al sussurro dei venti e l'intero mondo dell'aria con i suoi abitanti mi ha risposto: "Sbaglia Anassimene: non sono Dio". L'ho chiesto al cielo, al sole, alla luna e alle stelle: "Neppure noi siamo il Dio che tu cerchi". E ho detto a tutte le cose del mondo circostante le porte della mia carne: "Parlatemi del Dio che voi non siete, parlatemi di lui". E a gran voce hanno gridato: "È lui che ci ha fatte". Le interrogavo con la mia tensione; e la loro risposta era l'idea in cui ciascuna si offriva al mio sguardo. E poi mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: "Tu chi sei?" - "Un uomo". Ecco qui: corpo e anima, l'uno esterno l'altra interiore. Quale fra queste due cose è quella con cui avrei dovuto cercare il mio Dio, che già avevo cercato col corpo dalla terra al cielo, fin dove arrivavano i messaggeri dei miei occhi? L'interiore è migliore. A questo infatti, al suo superiore giudizio, tutti i messaggeri del corpo riferivano le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose che vi sono contenute: "Non siamo Dio", "È lui che ci ha fatte." L'uomo interiore viene a conoscenza di questo servendosi dell'uomo esteriore: io, l'io interiore, io la mente lo so mediante il mio corpo sensibile. Ho chiesto del mio Dio alla massa dell'universo, e mi ha risposto: "Non sono io, ma è lui che mi ha fatto".

- 10. Non appare a chiunque abbia conservato la pienezza delle sue facoltà sensoriali, questa bellezza delle idee? Perché non a tutti parla allo stesso modo? Gli animali, piccoli e grandi, la vedono, ma non la sanno interrogare. Non c'è in loro ragione che presieda nel ruolo di giudice ai messaggi dei sensi. Gli uomini invece hanno facoltà di interrogare, per vedere e capire le invisibili cose divine attraverso quelle create, ma per amore se ne lasciano soggiogare, e dei succubi non possono fare i giudici. E tutte queste cose d'altra parte non rispondono che alle domande di chi sa giudicare: e la loro voce - cioè la loro bellezza - non muta a seconda che uno si limiti a vederla, oppure la interroghi con lo sguardo, in modo da apparire diversa a ciascuno dei due, ma pur avendo per entrambi lo stesso aspetto, per uno è muta dove all'altro parla: anzi per la verità parla a tutti, ma a intenderla sono soltanto quelli che accolgono la voce dall'esterno per confrontarla nell'intimo con la verità. Perché la verità mi dice: "Non è la terra e il cielo il tuo Dio, non è alcuno dei corpi". Lo dice la loro natura. Tutti lo vedono: è massa, dove una parte è minore del tutto. Tu sei già meglio - dico a te, anima - perché sei tu che fai fiorire il corpo, prestandogli la vita che nessun corpo presta a un altro corpo. Ma il tuo Dio è per te la vita della tua stessa vita.

7.11. Che cosa amo dunque amando il mio Dio? Chi è questo che si leva in cima all'anima, al di sopra di lei? Proprio attraverso quest'anima salirò a lui. Passerò oltre la potenza che mi tiene avvinto al corpo e fa che io ne riempia di vita la compagine. Non è in questa potenza che trovo il mio Dio: se no ce lo troverebbero anche il cavallo e il mulo, che non hanno ragione, ma hanno questa stessa potenza a far vitali anche i loro corpi. C'è un'altra potenza, la quale mi fa capace di infondere non solo vitalità, ma sensibilità a questa carne che Dio m'ha fabbricato, comandando all'occhio di non udire e all'orecchio di non vedere, ma all'uno di farmi vedere e all'altro di farmi udire, e assegnando a ciascuno dei sensi le sue proprie caratteristiche in base alla sua sede e alla sua funzione. Diverse azioni che io, l'unica mente, compio per loro mezzo. Oltrepasserò anche questa forza, che pure condivido col cavallo e col mulo: anche a loro il corpo procura sensazioni.


[Meditazione sulla memoria]

8.12. Dunque oltrepasserò anche questa mia potenza naturale, ascendendo per gradi a quello che mi ha fatto: ed eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria.

- 13. Lì si conservano, distinte per genere, tutte le cose che vi sono entrate - ciascuna dall'ingresso suo proprio: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi dagli occhi, dalle orecchie ogni sorta di suoni, tutti gli odori dalle narici e tutti i sapori dalla bocca, e attraverso la sensibilità di tutto il corpo il duro e il molle, il caldo e il freddo, il liscio quanto il ruvido, e peso e leggerezza - insomma tutte le qualità dei corpi, esterne o interne che siano. E il grande antro della memoria tutto questo accoglie in certe sue pieghe segrete e ineffabili, perché si possa all'occorrenza richiamarlo e disporne: e ciascuna cosa che vi si ripone ha il suo ingresso riservato. Certo, non sono le cose stesse a entrarvi: sono le immagini delle cose percepite che stanno lì, pronte a offrirsi al pensiero che le richiama alla mente. E chi può dire quale sia il loro segreto di fabbricazione? Palese è solo quali sono i sensi che le hanno catturate e consegnate in custodia. Io posso anche starmene in silenzio, al buio: ma se voglio rimetto a fuoco i colori nella memoria e distinguo il bianco dal nero e da qualunque altro colore: e non accade che i suoni si intromettano disturbandomi nella considerazione di ciò che ho appreso dalla vista. Eppure anch'essi si trovano lì: ma sono come latenti, in disparte. Tanto che se mi aggrada di richiamare anche loro, subito si presentano: e io senza muover la lingua, a gola muta, canto finché ne ho voglia: e a loro volta le immagini di colore, pur essendo ancora lì, non vengono a interferire e a disturbarmi nella mia rassegna di quest'altro tesoro confluito dalle orecchie. E così via, per tutte le altre cose immesse dagli altri sensi e lì ammassate: le richiamo alla memoria a mio piacimento, e senza annusarlo distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole, e mi basta il ricordo per continuare a preferire il miele al decotto di mosto e il liscio al ruvido, senza nulla gustare né palpare al momento.

- 14. E tutte queste operazioni io le eseguo al mio interno, nella corte grandiosa della mia memoria. Lì cielo e terra e mare restano a mia disposizione, con tutto ciò di cui sono riuscito ad avvertire l'esistenza - tranne quello che ho dimenticato. Là incontro anche me stesso e mi vedo rivivere nelle mie azioni, nel tempo e nel luogo e nello stato d'animo in cui le ho compiute. Là c'è tutto quello che ricordo d'aver vissuto o creduto. Da questa ricca provvista, cioè, mi vengono le immagini non solo di cose incontrate nell'esperienza, ma anche di cose semplicemente credute sulla base di queste: immagini via via sempre nuove che io vado tessendo a quelle passate, così che ne emerga anche la trama del futuro: azioni eventi e speranze. E tutto questo è come se mi fosse presente, durante la mia meditazione. "Farò questo e quello" dico fra me nel vastissimo grembo della mia mente, folto di immagini di tante e così grandi cose, e questo e quello si compie. "Oh se accadesse questo o quello!" "Dio ci scampi da questo o da quello!": così dico fra me e nel dirlo trovo già pronte a uscire dal tesoro della memoria le immagini di tutte le cose che dico: e se queste venissero a mancare, non potrei dire cosa alcuna.

- 15. Grande è questa potenza della memoria, troppo, Dio mio: una cripta profonda e sconfinata. Chi può toccarne il fondo! Ed è una potenza della mia mente, fa parte della mia natura: eppure io stesso non comprendo tutto quello che sono. La mente è dunque troppo angusta per contenere se stessa! E dov'è allora ciò che non comprende di sé? Dev'essere in lei stessa, non fuori di lei. E allora in che senso non lo comprende? Una gran meraviglia mi nasce da questo pensiero, e resto stupefatto. E vanno ad ammirare le montagne altissime e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi e l'orizzonte dell'oceano sconfinato e il girotondo delle stelle: e trascurano se stessi, gli uomini, e non si meravigliano che io parli di tutte queste cose senza vederle con gli occhi. Eppure non potrei parlarne affatto se non avessi entro di me spazi così grandiosi da spalancarmi davanti, nella memoria, le montagne e i fiumi e le onde e le stelle che vidi, e l'oceano di cui sentii parlare: come li avessi fuori di me, nel giro dello sguardo. Pure, il mio sguardo non le ha inghiottite quando con i miei occhi le ho vedute, e non sono le cose stesse che ritrovo in me, bensì le loro immagini, e di ciascuna io conosco l'origine e il senso che ne ha prodotto l'impressione.


[Memoria intellettuale]

9.16. Ma non è solo questo che si porta in grembo, questa capacità smisurata della mia memoria. Qui c'è anche tutto ciò che ho appreso delle discipline liberali e che ancora non s'è perduto: è come relegato in un più interno luogo che non ha luogo: e in questo caso ne porto non le immagini, ma le cose stesse. Cos'è la letteratura? E la dialettica? Quanti tipi di questioni ci sono? Son tutte cose che ho nella memoria, per quel tanto che ne so. Non mi sono limitato a trattenerne le immagini lasciando fuori le cose stesse: ad esempio una voce, che risuona all'orecchio e poi passa, ma imprime una traccia buona a richiamarla e quasi a farla ancora risuonare quando ormai tace; o un odore, che svanisce nel vento e mentre passa colpisce l'olfatto, e così trasmette alla memoria un'immagine di sé, revocabile a proprio piacimento; oppure un cibo, che ormai nel ventre non ha più sapore, eppure quasi lo si riassapora nella memoria, o una cosa sensibile al tatto, che anche una volta separata dal nostro corpo tocchiamo nell'immaginazione, ricordandola. Non sono le cose stesse allora a introdursi nella memoria, ma solo le loro immagini: ed è una meraviglia la rapidità con cui queste vengono afferrate, e la sorta di cellette in cui vengono riposte, e come nel ricordo si fanno presenti.

10.17. Invece, quando sento dire che tre sono i generi di questioni, e riguardano l'esistenza, l'essenza e il valore di una cosa, è certamente vero che io ritengo le immagini dei suoni di cui queste parole sono composte, e so che questi sono passati diffondendosi per l'aria e che non ci sono più. Ma le cose stesse che da quei suoni sono significate mai le ho sfiorate con un senso del corpo, né mai le ho viste fuori dalla mente, e nella memoria ho custodito non le loro immagini, ma loro stesse: ora dicano da dove sono entrate in me, se possono. E io passo in rassegna tutte le porte della mia carne e non ne trovo una per cui siano passate. Dicono gli occhi: "Se hanno colore, siamo stati noi ad annunciarle"; e le orecchie: "Se emettevano suoni, le abbiamo segnalate noi"; e le narici: "Se avevano odore, è attraverso di noi che sono passate"; e anche il gusto dice: "Se non hanno sapore, non chiedere a me". E il tatto: "Se non c'era del grosso da toccare io che ne so, se non tocco non sento". E allora da dove mi sono venute alla memoria quelle nozioni, e per dove son passate? Non lo so. So che io non le ho apprese affidandomi al cuore di un altro, ma nel mio le ho riconosciute e ho assentito alla loro verità per poi affidarle a lui come a un deposito, da cui potessi a mio piacere riportarle alla luce. Dunque erano lì anche prima che io le apprendessi, lì e non nella memoria. Ma allora dove e come le riconobbi appena udite, dicendo "Sì, è vero", se non erano già nella memoria - benché così remote e relegate in cavità tanto più inaccessibili, che forse se nessuno mi avesse insegnato a scavare per estrarle, io non avrei saputo pensarci da solo.

11.18. Abbiamo dunque fatto una scoperta, che riguarda le cose di cui non otteniamo immagini attraverso i sensi, ma che vediamo distintamente e direttamente in noi stessi, esattamente come sono. Apprendere queste cose altro non è che raccoglierne col pensiero i frammenti sparsi disordinatamente nella memoria, e in certo modo prendersene cura, prestando loro attenzione: in modo da poterle poi avere come a portata di mano nella memoria stessa, docili all'intenzione consueta, invece di lasciarle soltanto latenti, disperse e trascurate. E quante cose di questo genere porta in sé la mia memoria, già ritrovate e come ho detto quasi messe a portata di mano, cose che abbiamo appreso e conosciamo, come si usa dire. Eppure se smetto di richiamarle alla mente anche per brevi periodi, affondano di nuovo e paiono svanire in recessi remotissimi, tanto che occorre di nuovo es-cogitarle, cioè cavarle fuori col pensiero - da lì, dalla loro regione d'origine, ché altra non ne hanno - come se fosse la prima volta: e di nuovo raccoglierle, per poterle conoscere. Raccoglierle cioè come se fossero disperse - da cui l'origine del verbo cogitare. Cogito infatti sta a cogo (raccolgo) come agito ad ago, factito (pratico, faccio abitualmente) a facio. Ma di questo verbo la mente si è riservata la proprietà esclusiva, così che nel significato proprio cogitare vuol dire raccogliere, cioè cogere, nella mente soltanto, e non altrove.

12.19. In questo stesso senso la memoria contiene le relazioni e le leggi innumerevoli dei numeri e delle misure, che non sono in alcun modo derivate da impressioni sensoriali, visto che non hanno colore suono odore, non si gustano e non si palpano. Ho udito il suono delle parole con cui si designano queste relazioni e leggi, quando se ne disserta, ma altro sono le parole, altro le cose. Quelle suonano in greco e in latino diverse, queste non sono né greche né latine né di qualunque altra razza di idiomi. Ho visto artefici operare con strutture di fili sottilissime, simili a tele di ragno: ma le dimensioni di cui parlo sono altra cosa, non sono immagini di quelle di cui mi informa l'occhio della carne. Le conosce chiunque in se stesso le ha riconosciute senza affatto pensare a qualche corpo. Ho anche percepito, e con tutti i sensi del corpo, gli insiemi che contiamo: ma altra cosa sono quelli con cui contiamo, i numeri stessi, e non sono immagini dei primi e proprio per questo hanno vera consistenza. Rida pure delle mie parole chi non li vede: a me farà pena il suo riso.

13.20. Di tutto questo ho memoria, e ho memoria anche di come l'ho appreso. E così pure di molte falsissime obiezioni che ho udito avanzare in proposito, ho memoria: son false, certo, ma non è falso che me ne ricordi. E ricordo anche di aver distinto la verità di quelle asserzioni dalla falsità di queste che le contraddicevano; e vedo che una cosa è il discernimento attuale di queste questioni, altra cosa è il ricordo del discernimento che ne avevo ogni volta che ci pensavo. Dunque ricordo anche di averle capite parecchie volte: non solo, ma affido ancora in custodia alla memoria ciò che distinguo e capisco ora, per poi ricordarmi di averlo ora capito. Dunque ricordo anche di essermi ricordato; e parimenti in seguito, se riuscirò a richiamare alla mente di aver potuto ora ricordare questo, è in virtù della memoria che ci riuscirò.


[Memoria affettiva]

14.21. Anche le mie emozioni contiene, questa stessa memoria: non come son vissute dalla mente quando ne è presa, ma in un modo assai diverso, caratteristico della memoria. Così io senza gioia mi ricordo di aver gioito e senza tristezza rievoco la mia passata tristezza e senza paura richiamo alla mente le paure che talvolta ho avuto e serbo ancora memoria dei desideri antichi, senza più averne. Anzi al contrario, talvolta mi rallegra il ricordo della mia tristezza, e quello della gioia passata mi rattrista. Questo non deve sorprendere se si tratta del corpo, perché il corpo è una cosa e un'altra la mente. Ma che dire nel caso di cui parliamo ora, se la mente altro non è che la memoria stessa? E infatti assegnando il compito di mandare a memoria qualcosa noi diciamo: "Cerca di tenerlo a mente", e quando dimentichiamo: "Non l'ho tenuto a mente" o "M'è uscito di mente", chiamando mente la memoria stessa: se così è, che significa questo? Perché nel lieto ricordo della mia passata tristezza la mente ha piacere e la memoria contiene tristezza, eppure la mente è lieta di questo piacere che ha, mentre la memoria non si lascia rattristare dalla tristezza che contiene? Che la memoria non appartenga alla mente? È una tesi insostenibile. No, la memoria è in un certo senso il ventre della mente, e cibo dolce o amaro la gioia e la tristezza: una volta affidate alla memoria possono esservi custodite, ma come cose passate nel ventre non possono più aver sapore. Credere che i due processi siano proprio simili sarebbe ridicolo: ma non sono neppure completamente diversi.

- 22. Ma ecco, ricorro alla memoria anche quando dico che quattro sono le turbe della mente: desiderio, gioia, paura, tristezza. E per quanto io possa discuterne, analizzando ciascuna secondo le specie del suo genere d'appartenenza e dandone le definizioni, è lì che trovo le cose da dire e di lì le traggo. E tuttavia non mi sento affatto sconvolto o turbato, quando le richiamo alla mente per passarle in rassegna. È pur lì che si trovavano prima d'esser rievocate e riprese in considerazione da parte mia: di lì appunto per questo il ricordo ha potuto cavarle. E forse allora ricordare è come ruminare, far tornare su dalla memoria cose del genere come cibo dal ventre. Ma allora perché il dolce sapore della gioia o quello amaro della tristezza non lo si sente in bocca al pensiero quando le si rievoca per discuterne? È per questo che l'analogia è solo parziale, è qui la differenza? Già, chi ne parlerebbe volentieri, se ogni volta che uno nomina la tristezza o la paura dovesse per forza rattristarsi o rabbrividire? E tuttavia non ne parleremmo, se non trovassimo registrati nella nostra memoria non solo i suoni dei loro nomi, cioè le immagini che ne sono state impresse dai sensi, ma anche le nozioni delle cose stesse. E queste non vi sono certamente entrate per le porte della carne, ma le sono state affidate dalla mente stessa che le ha apprese attraverso le passioni vissute, o vi si sono conservate anche involontariamente.

15.23. Ma se è mediante immagini o no che si conservano, non è facile dirlo. Certo, di una pietra o del sole mi basta dire il nome per suscitarne le immagini nella memoria, anche quando le cose stesse non mi sono sensibilmente presenti. Nomino il dolore fisico in sua assenza, mentre non lo provo: ma se non avessi presente alla memoria una sua immagine non saprei di che cosa parlo, e nel disquisirne non sarei neppure in grado di distinguerlo dal piacere. Nomino la salute fisica, mentre sono fisicamente sano; la cosa stessa mi è presente: ma se non ne avessi anche un'immagine nella memoria non ricorderei affatto il significato di quel nome, di quella sequenza di suoni, e così i malati sentendo nominare la salute non capirebbero di che cosa si parla, se pur nella mancanza fisica della cosa stessa non avessero il potere di conservarne viva e inalterata l'immagine nella memoria. Pronuncio i nomi dei numeri che usiamo per contare: ed essi stessi, non le loro immagini, mi si presentano alla memoria. Nomino l'immagine del sole, ed eccola presente: non l'immagine di questa immagine, ma essa stessa ho evocato, è proprio questa che si offre prontamente al mio richiamo. Nomino la memoria e riconosco ciò che nomino, e dove lo riconosco, se non nella memoria stessa? E anche lei sarebbe presente a sé solo in immagine? O non piuttosto in se stessa?


[Memoria e oblio]

16.24. Sì, ma anche quando nomino l'oblio riconosco la cosa di cui parlo: e come farei se non me ne ricordassi? Non semplicemente della parola, voglio dire, del suo suono: ma della cosa che essa significa. Dimenticata questa, anche il valore del suono io non varrei a riconoscerlo. Dunque quando ho memoria della memoria, questa è presente a sé in se stessa; ma quando ho memoria del'oblio entrambi sono presenti, memoria e oblio: la memoria, con cui ricordo, e l'oblio, che ricordo. Ma che cos'è l'oblio se non assenza di memoria? In che senso dunque è presente - tanto da poterlo ricordare - se lui presente è assente la memoria? Eppure se serbiamo memoria di ciò che ricordiamo, e se d'altra parte senza il ricordo dell'oblio non potremmo neppure, quando ne sentiamo il nome, riconoscerne il significato, allora anche dell'oblio si serba memoria. E così ci è presente e non la dimentichiamo, questa assenza per cui dimentichiamo. Ma questo cosa vuol dire? A quanto sembra, che quando ricordiamo l'oblio, non è la cosa stessa che si trova nella memoria, ma una sua immagine: perché la presenza essenziale dell'oblio ce lo farebbe dimenticare, e non già ricordare. Ma infine, chi saprà affrontare questa indagine? E capire come stanno le cose veramente?

- 25. Che fatica mio Signore è questa di scavare in me stesso: mi son fatto a me stesso terra di pena e di sudore. E non sono le plaghe del cielo, gli spazi interstellari o le bilance su cui si libra la terra che stiamo studiando o calcolando: sono io che ricordo, io la mente. Non fa meraviglia che sia lontano da me tutto ciò che io non sono: ma che cosa mi è più vicino di me stesso? E tuttavia la potenza della mia memoria non si lascia comprendere da me, che pure senza di lei non potrei nemmeno chiamarmi "me stesso". Perché che cosa dovrei dire, quando sono certo di avere memoria dell'oblio? Che ciò che ricordo non l'ho nella memoria? O che l'oblio inerisce alla memoria proprio perché io non dimentichi? Entrambe le proposizioni sono perfettamente assurde. Ma ce n'è una terza, vediamola. La mia memoria potrebbe conservare l'immagine dell'oblio, non l'oblio stesso, quando lo ricordo. Ma come posso sostenerlo, anche questo? Quando si imprime nella memoria l'immagine di una cosa, quale che sia, è sempre necessaria la presenza della cosa stessa, perché se ne imprima l'immagine. Così ad esempio mi ricordo di Cartagine, di tutti i luoghi in cui sono stato, dei volti che ho veduto, e dei dati di tutti gli altri sensi e anche della salute e del dolore: mi si offrirono in carne ed ossa queste cose, e la memoria ne catturò le immagini, per consentirmi di averle presenti e di penetrarle e riesaminarle con lo sguardo interiore quando le avessi rievocate, ormai assenti. Se dunque l'oblio si conserva nella memoria attraverso una sua immagine e non in se stesso, bisogna che sia stato realmente presente per lasciare questa immagine. Ma se fosse stato presente come avrebbe potuto iscrivere nella memoria la sua immagine, lui che con la sua sola presenza cancella tutto ciò che vi trova già segnato? Eppure ne sono certo: in un modo o nell'altro, per incomprensibile e inesplicabile che sia, io perfino dell'oblio serbo memoria, di questa rovina dei ricordi.

17.26. Grande è questa potenza della memoria: c'è qualcosa che fa paura, mio Dio, in questa sua profonda, infinita complessità. E tutto questo è la mente, sono io stesso. Dio mio, che cosa sono io, dimmi qual è la mia natura. Un'esistenza varia e polimorfa, smisurata e veemente. Eccoli, i campi e gli antri e le caverne innumerevoli della mia memoria, stipati di ogni sorta di cose, innumerevoli: e queste son lì, presenti solo in immagine - tutti i corpi, ad esempio - o in se stesse, come le capacità professionali, o sotto qualche specie di nozione o notazione, come gli stati d'animo - perché anche quando non sono vissuti, son pure tenuti a mente, se è nella mente tutto ciò che è nella memoria. E io passo in rassegna tutte queste cose, a volo, penetrando qua e là per quanto posso, ma non finiscono mai di scorrere: tanta è la potenza della memoria, tanta la vita implicita nell'uomo, per cui vivere è morire. Che cosa devo fare allora - mia vita vera, tu dimmi, mio Dio. Passerò oltre: anche oltre questa mia potenza che si chiama memoria, io la trascenderò per protendermi verso di te, dolce lume. Che cosa dici, ora? Sì, in questa ascesa verso di te che dimori più in alto io salirò per la mia stessa mente, trascenderò anche questa mia potenza che si chiama memoria, nel desiderio di incontrarti, qualunque sia la via di questo incontro, e di aderire a te, quale che sia questa adesione. In fondo anche le bestie e gli uccelli hanno memoria, altrimenti non ritroverebbero i loro nidi e le molte altre cose consuete: e non vi sono consuetudini che si possano acquistare senza memoria. Trascenderò dunque anche la memoria, per incontrare lui che mi ha distinto dai quadrupedi e mi ha fatto più sapiente degli alati. Trascenderò anche la memoria per trovarti - ma dove, vero bene, dolcissimo riposo, dove? Se non è nel raggio della memoria che ti trovo, vuol dire che ero immemore di te. E come posso trovarti, se di te non ho memoria?

18.27. Una donna aveva perduto una dracma e la cercò con la lucerna: ma non l'avrebbe trovata se non ne avesse serbato memoria. Perché come avrebbe fatto a sapere che era quella, trovandola, se non l'aveva già in mente? Molte cose perdute mi ricordo di aver cercato e trovato. Così so anche che se durante la ricerca mi si chiedeva: "È questo per caso? È quello?", io rispondevo di no finché non mi veniva presentata proprio la cosa che stavo cercando. E se non l'avessi tenuta a mente io non l'avrei trovata neppure se me l'avessero messa sotto gli occhi, perché non l'avrei comunque riconosciuta. E accade sempre così, quando cerchiamo e ritroviamo una cosa perduta. Se ad esempio perdiamo di vista una cosa qualunque, un oggetto visibile, ma senza che ci esca di mente, la sua immagine ci si conserva dentro, e noi cerchiamo finché non ci sia restituita alla vista. Appena la si trova la si riconosce dall'immagine che se ne aveva dentro. E non si ha l'uso di chiamare "ritrovata" una cosa che pareva perduta se non la si riconosce, né si può riconoscere una cosa se non se ne ha memoria: la cosa che per gli occhi non esisteva più, era in salvo nella memoria.

19.28. E quando è la memoria stessa a smarrire qualcosa, come accade quando cerchiamo di ricordare qualcosa che avevamo dimenticato, dove cerchiamo in effetti se non nella memoria stessa? E se questa ci presenta una cosa per un'altra la respingiamo, finché non appaia quella che cercavamo. E quando appare diciamo "Eccola, è questa": cosa che non diremmo se non la riconoscessimo, e non la riconosceremmo se non ne avessimo serbato memoria. Dunque è vero, ce ne eravamo dimenticati. Ma non del tutto: come se la parte che non ci era uscita di mente cercasse l'altra, e la memoria, sapendo che un tempo l'una si tirava dietro l'altra, e quasi sentendosi azzoppata nel moncone di questa abitudine, sollecitasse la restituzione della parte mancante. Così se abbiamo sotto gli occhi o in mente una persona che ci è nota e cerchiamo di ricordarci il suo nome, non riusciremo ad associarvene un altro, per quanti ce ne possano venire in mente: e li respingiamo uno per uno, finché non si presenta quello con cui eravamo abituati a pensare a quella persona, e in quel nome la sua consueta immagine si acquieta, quasi finalmente combaciandovi. E da dove torna a presentarsi quel nome se non dalla memoria stessa? È perché viene da lì che lo riconosciamo, anche quando sono altri a suggerircelo. Non ci crediamo infatti come a cosa nuova, ma ammettiamo che è proprio quello che ci vien detto, ora che ce ne ricordiamo. Se ci fosse stato completamente cancellato dalla mente, non lo riconosceremmo neppure dietro suggerimento. E in realtà non è ancora del tutto dimenticata, una cosa che ricordiamo di aver dimenticato. Una cosa che ci manca non si può neppure cercarla, se l'abbiamo dimenticata del tutto.


[La volontà universale di felicità]

20.29. Come ti cerco dunque, mio Signore? Cercando te, mio Dio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima viva. Perché vive dell'anima il mio corpo, e di te vive l'anima. E come la cerco, la felicità? Finché io non dica "Basta, eccola", io non ce l'ho. Ma bisogna dire come la cerco: se è perché il cuore ne ha memoria, quasi l'avessi dimenticata senza scordare di averla dimenticata, o per il desiderio di conoscere l'ignoto, sia che non l'abbia conosciuta mai, sia che a tal punto me ne sia scordato, da non aver memoria di questo oblio. Ma non è la felicità, che tutti vogliono? Non c'è assolutamente nessuno che non la desideri; e dove l'hanno conosciuta, per desiderarla così? Dove l'han vista, per innamorarsene? Eppure noi l'abbiamo, io non so come. E altro è possederla ora, e ora esser felici, altro è vivere di speranza, felicemente. Questo è un modo d'averla inferiore al primo, di chi è felice della cosa stessa, ma superiore a quello di chi non vive né la felicità vera né quella della speranza. Eppure anche questi non desidererebbero tanto la felicità se in qualche senso non l'avessero: e che la desiderino, non c'è alcun dubbio. Dunque lo sanno, cos'è: una loro idea ce l'hanno. È quest'idea che mi sto sforzando di capire se si trova nella memoria. Perché se è lì, eravamo felici, una volta. Io non mi chiedo ora se lo eravamo come individui, ciascuno per sé, o tutti nell'uomo che peccò per primo, in cui noi tutti siamo morti e da cui siamo nati, infelici: ma chiedo se è nella memoria, quella vita felice. Perché non l'ameremmo, se non sapessimo cos'è. Ne abbiamo udito il nome, e tutti confessiamo di tendere alla cosa: non la parola, è chiaro, ci è gradita. Quella non piace al greco che la sente pronunciare in latino, perché non sa che cosa significa: ma a noi piace, e anche a lui, se la sente pronunciare in greco, perché non è né greca né latina la cosa stessa: una cosa che tutti si consumano dalla voglia di avere, greci e latini o qualunque sia quella che parlano fra le lingue della terra. È cosa a tutti nota: e se in un solo colpo si potesse porla a tutti, la domanda se desiderano la felicità, risponderebbero senza alcun dubbio a una voce: sì. Così non sarebbe, se non serbassero memoria della cosa che ha questo nome.

21.30. Ma se ne ha memoria al modo in cui si ricorda di Cartagine chi l'ha veduta? No: la vita felice è invisibile agli occhi, perché non ha corpo. Allora al modo in cui ci ricordiamo i numeri? No: perché chi ne ha nozione non per questo si studia di goderne, mentre la nozione che abbiamo della felicità ci basta per amarla ma non ancora per essere felici, e però noi la vogliamo godere. Allora è come la memoria che si ha dell'eloquenza? No: perché è vero che all'udirne il nome anche quelli che ancora non sono eloquenti si ricordano della cosa, e molti di loro vorrebbero esserlo - il che dimostra che ne hanno nozione -: ma è mediante i loro sensi che costoro si sono accorti dell'eloquenza altrui e ne han provato piacere e il desiderio di possederla a loro volta. Certo, non ne avrebbero provato piacere senza l'idea che nutrivano nell'intimo, né senza piacere ne avrebbero concepito il desiderio; ma la vita felice, non ci è dato sapere cosa sia negli altri, percepirla sensibilmente. Allora è come la memoria che si ha della gioia? Sì, forse. Ricordo una gioia anche se sono triste, come anche nell'infelicità ricordo che cos'era vivere felicemente. E neppure la gioia l'ho mai vista o udita, mai ne ho sentito il profumo o l'ho toccata: non ne ho esperienza per averla conosciuta coi sensi, ma perché l'ho vissuta nell'animo ogni volta che mi sono rallegrato. E la nozione che ne ho si è ogni volta consolidata nella memoria, per consentirmi di rievocarla ora con un moto di disprezzo e ora di rimpianto, a seconda dei motivi per cui ricordo di aver gioito. Perché mi è accaduto di farmi sommergere dalla gioia per motivi vergognosi, cosa il cui ricordo mi fa fremere di sdegno e di riprovazione, ma a volte anche per cose buone e belle, che rievoco con nostalgia, se ora mi mancano: e triste, allora, è il ricordo della gioia di un tempo.

- 31. Ma dove e quando ho appreso che cos'era la felicità della mia vita, per averne il ricordo e provarne amore e desiderio? E non soltanto io o poche altre persone, ma tutti vogliamo essere felici. Se non ne avessimo ben precisa nozione, non ne avremmo una volontà tanto decisa. Ma che significa questo? Prova a chiedere a due persone se vogliono arruolarsi, e uno magari risponderà di sì, l'altro di no; ma chiedi se vogliono essere felici, e subito tutti e due diranno senza dubbio di sì, e anzi non hanno altro scopo che questo, d'esser felici, nel volersi o non volersi arruolare. Chi si diletta di una cosa, chi di un'altra. E così tutti si trovano d'accordo nel desiderio di felicità, così come lo sarebbero nel rispondere all'unisono, se interrogati, che desiderano godersi la vita. È questo godimento che chiamano vita felice. E anche se ciascuno ha il suo modo di godersela, uno solo è lo scopo che tutti si sforzano di conseguire, questo. La gioia di vivere, nessuno può dire di non sapere cosa sia; e per questo la si ritrova nella memoria, e la si riconosce, al solo udire il nome della felicità.

22.32. Via, lontano dal cuore del tuo servo che a te si confida, caccialo via il pensiero che basti a farmi felice il godimento di una gioia qualunque. C'è una gioia che non è data agli atei, ma a coloro che di te si fanno un disinteressato culto: sei tu la loro gioia. Ed è già questa la vita felice, la gioia che si cerca in te e deriva da te e per te si prova: questa e non altra. Chi crede che ve ne sia un'altra cerca altre gioie, ma non quelle vere. Ma è pur sempre un'immagine di gioia a orientare la sua volontà: a questa non volta le spalle.

23.33. Non è certo, allora, che tutti vogliano essere felici: perché chi non cerca il suo piacere in te, che sei la sola vita felice, in realtà non vuole la felicità. O forse sì, tutti la vogliono, ma i desideri della carne sono opposti allo spirito, e quelli dello spirito alla carne, e così non fanno ciò che vogliono: per questo perdono forza fino ad accontentarsi di ciò che è in loro potere, perché dove non valgono non vogliono abbastanza per potere. Già, io chiedo a ciascuno: preferisci godere del falso o del vero, e nessuno ha qualche dubbio nel pronunciarsi per il vero, non più di quanti ne abbia ad ammettere che desidera essere felice. Perché è appunto il piacere del vero, la felicità. Dunque è gioire di te, che sei la verità, luce e salvezza dei miei occhi, mio Dio. Questa felicità tutti la vogliono, questa vita che è la sola felice, tutti vogliono godere del vero. Molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno. Dove hanno appreso allora che cosa sia vivere felicemente, se non dove hanno appreso anche che cos'è verità? Perché l'amano, è chiaro, se non vogliono essere ingannati: amando la felicità, che non è se non il piacere della verità, debbono pure amare anche la verità. Ma come potrebbero, se non ne avessero un'idea, nella memoria. E allora perché non riescono a goderne? Perché non sono felici? Perché si occupano troppo di altre cose: anche se non vi trovano alcuna felicità paragonabile a quella di cui conservano un ricordo così tenue. Sì, c'è ancora un po' di luce fra gli uomini: presto, presto, si mettano in cammino, affinché il buio non li sorprenda.

- 34. Eppure la verità genera odio, e chi l'annuncia in tuo nome si fa nemico agli uomini. Perché, se è vero che essi amano la felicità, che è soltanto il piacere della verità? Evidentemente perché si ama la verità a tal punto che se uno ama un'altra cosa pretende che sia quella la verità: e siccome chiunque detesta ingannarsi, uno rifiuta di farsi convincere che è in errore. Perciò odiano la verità: per amore di quella che credono verità. Ne amano lo splendore, ne odiano l'accusa. Già: siccome non vogliono essere ingannati ma vogliono ingannare, l'amano quando indica se stessa, e la odiano quando punta il dito contro di loro. E lei li tratterà allo stesso modo: essi rifiutano di essere da lei scoperti, e lei li scoprirà a loro dispetto, senza farsi scoprire da loro. Così - anche così - è l'animo umano, così cieco e labile, così brutto e ignobile che vuol sì restare nascosto, ma non che qualcosa resti nascosto a lui. Ma ne viene ripagato come merita: non lui resta nascosto alla verità, ma la verità a lui. Eppure anche così, in questa sua infelice condizione, preferisce le cose vere, per goderne, a quelle false. Felice dunque sarà se mai potrà godersi senza impacci fastidiosi l'unica verità, per cui è vera ogni cosa vera.

24.35. Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla ricerca di te, mio Signore, e fuori di questa non ti ho trovato. Perché di te non ho trovato altro che ricordi, da quando ho imparato a conoscerti. Già, da che ti ho conosciuto non ti ho dimenticato. Perché dove ho trovato una verità, là ho trovato il mio Dio, che è la verità stessa. E da che l'ho conosciuta, non l'ho dimenticata. Così da che ti ho conosciuto dimori nella mia memoria, ed è lì che ti trovo quando mi sovvengo di te e in te me ne delizio. Sono questi i miei divini piaceri, che per misericordia mi hai donato, tu che hai rivolto gli occhi alla mia povertà.

25.36. Ma dove nella mia memoria dimori, dimmi, dove? Che sorta di covo ti ci sei scavato, o che specie di tempio vi hai edificato? Hai concesso alla mia memoria questo onore di fartene una dimora, ma in quale sua parte tu dimori, questo è il problema. Perché senza dubbio quelle sue regioni che anche gli animali posseggono, le ho trascese nel richiamare alla memoria te, dato che non ti trovavo fra le immagini delle cose tangibili; e sono giunto alle regioni cui avevo affidato le mie emozioni, e neppure lì ti ho trovato. E sono entrato addirittura nella sede di me stesso, quella che la mente ha nella memoria, poiché ogni mente si ricorda di sé: e neppure là tu eri, perché come non sei un'immagine corporea e non sei l'emozione di un vivente, quale si prova quando ci assale la gioia o la tristezza, o il desiderio o la paura, un ricordo o l'oblio o qualunque altro stato mentale, così neppure sei la mente stessa. Perché tu sei il Signore Dio della mente, e tutti questi stati si mutano, ma tu resti immutabile al di sopra di essi e ti degni di abitare nella mia memoria dal giorno in cui ti ho conosciuto. A che cercare il luogo dove abiti, come se lì ci fossero dei luoghi. È certo che vi abiti, dato che serbo memoria di te, da che ti ho conosciuto, e là ti trovo, ogni volta che mi ricordo di te.

26.37. Ma allora dove ti ho trovato, per imparare a conoscerti? Perché non eri già nella mia memoria, prima che ti conoscessi. E dove ti ho trovato dunque per conoscerti, se non in te, sopra di me. Là dove non ci sono distanze: ci avviciniamo e ci allontaniamo, eppure non c'è distanza alcuna. Tu sovrasti dovunque, verità, chi ti consulta: e simultaneamente rispondi alle questioni che ciascuno ti pone, per disparate che siano. Limpide sono le tue risposte, ma non sempre limpido è il senso di chi ascolta. Ognuno ti consulta su ciò che vuole, ma non sempre ottiene la risposta che vorrebbe udire. Il migliore dei tuoi servitori è quello che meno si preoccupa di sentirsi dire ciò che vorrebbe, e piuttosto vuole ciò che da te si sente dire.


[Conclusione lirica]

27.38. Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ecco, eri dentro di me tu, e io fuori: fuori di me ti cercavo, e informe nella mia irruenza mi gettavo su queste belle forme che tu hai dato alle cose. Eri con me, io non ero con te. Le cose mi tenevano lontano, le cose che non ci sarebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha lacerato la mia sordità; hai lanciato segnali di luce e il tuo splendore ha fugato la mia cecità, ti sei effuso in essenza fragrante e ti ho aspirato e mi manca il respiro se mi manchi, ho conosciuto il tuo sapore e ora ho fame e sete, mi hai sfiorato e mi sono incendiato per la tua pace.

28.39. Quando potrò aderire a te con tutto me stesso, niente sarà per me pena e fatica, e sarà viva tutta la mia vita , piena di te. Ma ora che non sono pieno di te, sono un peso a me stesso: perché chi riempi di te, tu lo sollevi. Dura questo conflitto fra triste gioie e angosce di cui dovrei gioire, e da che parte stia la vittoria non so. Ah mio Signore abbi pietà di me... Sì, tu lo vedi: non le nascondo, le mie ferite. Sei il medico, tu, e io l'ammalato; tu hai la misericordia, io la miseria. Già: non è la vita umana sopra questa terra una prova? Chi non ne farebbe a meno, di tutti i fastidi e i problemi! Tu comandi di sopportarli, non di amarli. Nessuno ama ciò che deve sopportare, anche se sopporta con amore. E anche se è capace di gioia nella sopportazione, preferirebbe che non esistessero cose da sopportare. Io nelle circostanze avverse rimpiango il benessere, nel tempo del benessere temo le avversità. Non c'è una via di mezzo, dove la vita umana non sia una prova? Maledetto il benessere del mondo, una volta per la paura che ci mette dei rovesci di fortuna, e un'altra volta ancora perché ci avvelena la gioia. Maledetti i rovesci di fortuna, due e tre volte maledetti: per il rimpianto in cui ci lasciano del benessere, e perché le avversità son dure per se stesse, e perché rischiano di mandarci in pezzi la pazienza. Sì, non è una prova la vita umana sulla terra, e senza tregua?


[Conoscenza di sé: la triplice radice del desiderio]

29.40. E tutta la mia speranza è riposta soltanto nella grandezza della tua misericordia. Dammi ciò che comandi, e comanda ciò che vuoi. Tu ordini la continenza. "E io sapevo che nessuno può essere continente se non gli è dato esserlo da Dio" qualcuno ha detto. "E già questo era un segno di sapienza, sapere da chi viene questo dono" . È la continenza infatti che rende possibile il raccoglimento e ci restituisce all'unità da cui ci siamo riversati nei rivoli del molteplice. Meno ti ama chi con te ama altro, e non per amor tuo. Amore che ardi sempre senza estinguerti mai, divino amore, Dio, tu accendimi. Tu ordini la continenza: dammi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.

30.41. Tu certo mi comandi di contenere l'avidità della carne, l'avidità degli occhi e l'ambizione del mondo. Hai comandato di astenersi dal concubinato e hai indicato una condizione superiore al matrimonio stesso, che pure hai consentito. Ed è ora la mia, poiché tu l'hai concessa, fin da prima che diventassi dispensatore del tuo mistero. Ma ancora vivono nella mia memoria, di cui tanto ho parlato, immagini di quell'altro stato, che la lunga consuetudine vi ha impresso: e durante la veglia non hanno la forza di assalirmi, ma nel sonno sì, e non solo fino all'ultimo piacere, ma addirittura finché io acconsento all'atto stesso, o a qualcosa di molto simile. E tanto è il potere che ha sulla mia carne un'illusione, un'immagine della mia mente, che quando dormo delle false visioni acquistano su di me una forza di suggestione quale da sveglio non hanno neppure quelle vere. Forse allora io non sono più io, mio Dio e Signore? Eppure c'è una tale differenza fra me stesso e me, prima e dopo il momento della transizione da qui al sonno, o dal sonno a qui! Dov'è allora la ragione, con l'aiuto della quale da svegli si resiste a suggestioni del genere, e si resta imperturbati all'occorrenza dei loro stessi oggetti, in carne ed ossa? Chiusi gli occhi, si chiude anche lei? Anche lei si assopisce insieme coi sensi? Eppure spesso anche nel sonno resistiamo: memori del nostro proponimento, e persistendovi in perfetta castità, non accordiamo affatto il nostro assenso a seduzioni simili. Da dove viene questa resistenza? E tuttavia tale è la differenza che, quando le cose vanno diversamente nel sonno, una volta tornati alla calma della coscienza desta, nella distanza stessa che prendiamo dall'accaduto ci rendiamo conto di non esser stati noi a compierlo: dobbiamo pur con rammarico constatare che s'è in qualche modo compiuto in noi.

- 42. Forse non ha il potere, Dio onnipotente, la tua mano di guarirmi da tutte le debolezze dell'animo e di stroncare con grazia più abbondante i miei moti lascivi anche nel sonno? Tu farai crescere in me, mio Signore, sempre di più i tuoi doni, perché mi segua verso di te l'anima, non più invischiata nella libidine: perché non si rivolti contro se stessa e anche in sonno non solo cessi di concedersi il piacere avvilente, animalesco delle sue fantasie, fino all'estremo abbandono del corpo, ma neppure vi doni il suo consenso. Via, che nulla di simile possa farci voglia, o almeno così poco che basti un cenno a reprimerla anche in un sonno ignaro d'affetti men che casti, e non dico solo in questa vita, ma per di più a quest'età - non è gran cosa per te che puoi tutto, che sei in grado di far più di quanto chiediamo e comprendiamo. Io comunque ora l'ho detto, al mio buon Signore, come tuttora sto quanto a questo aspetto del mio male: te l'ho detto esultando con tremore per ciò che mi hai donato, e piangendo per quanto sono ancora imperfetto, e sperando che tu porterai a compimento in me i tuoi gesti di misericordia fino alla pace completa che in te troverà, dall'esterno alle viscere, il mio essere, quando la morte sarà stata assorbita nella vittoria.

31.43. Il giorno ha un'altra malizia, e magari gli bastasse questa! Ogni giorno con cibo e bevande noi ripariamo il corpo dalla rovina quotidiana , fino a che tu distrugga e cibo e ventre, quando la tua favolosa abbondanza ucciderà tutta questa miseria e tu rivestirai questo corpo corruttibile d'eterna incorruttibilità. Per ora questo bisogno m'è gradito, e contro questo gradimento io lotto, per non caderne prigioniero, ed è una guerra quotidiana di digiuni, in cui spesso riduco in schiavitù il mio corpo, e i dolori li scaccio col piacere. Fame e sete sono in fondo una specie di dolori, bruciano e uccidono come la febbre, se manca il soccorso di quel farmaco che sono gli alimenti. E siccome questo farmaco è a portata di mano, grazie al conforto dei tuoi doni, a cui lavorano, a profitto della nostra fragilità, la terra e l'acqua e il cielo, questa sventura prende il nome di delizia.

- 44. Me l'hai insegnato tu a prendere i cibi come fossero medicine. Ma è proprio nel passaggio dal disagio del bisogno alla quiete della sazietà che il laccio della concupiscenza mi insidia. Questo passaggio stesso è un piacere, e non c'è proprio altra via per arrivare là dove il bisogno ci spinge. E siccome è per la salute che lo si fa, al mangiare e bere si appiccica una pericolosa allegria e il più delle volte tenta anzi di far strada lei, in modo che io finisca a fare per lei quello che desidero o dico di fare per la salute. Salute e piacere non hanno la stessa misura: ciò che basta per restare sani è insufficiente al piacere e spesso non è certo se sia la necessaria cura del corpo a richiedere un sostegno o se a chiedere subdolamente d'essere servita sia invece la gola con le sue lusinghe. Questa incertezza mette allegria alla nostra povera anima, che così se ne fa in anticipo un avvocato difensore: ben lieta che non sia chiaro quanto basta alle norme del benessere fisico, per poter con il pretesto della salute ricoprire la manovra del piacere. A queste tentazioni io mi sforzo ogni giorno di resistere e invoco l'aiuto della tua mano, e ti metto a parte dei miei ondeggiamenti, perché in questa materia il mio giudizio non è ancora sicuro.

- 45. Odo la voce del mio Dio comandare: Non appesantitevi nel cuore coi bagordi e l'ubriachezza. L'ubriachezza mi è del tutto estranea: la tua misericordia continuerà a tenermela lontana. L'ingordigia invece qualche volta si è insinuata in cuore al tuo servo: la tua misericordia l'allontanerà da me. Perché nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. Molte concessioni tu accordi alle nostre preghiere, e se riceviamo un qualche bene anche prima di avertene pregato, è un dono tuo: un dono che ci fai perché più tardi veniamo a saperlo. Io non sono mai stato dedito al bere, ma ho conosciuto bevitori che tu hai reso sobri. Quindi è opera tua che non lo siano quelli che non lo sono stati mai, ed è opera tua che non restino tali quelli che lo erano, ed è opera tua che gli uni e gli altri sappiano chi ha operato in loro. Ho udito la tua voce consigliare ancora: Non correr dietro alle tue concupiscenze e non concederti il tuo piacere. E per tua grazia ho udito anche quell'altra osservazione, che ho avuto molto cara: Né il mangiare ci darà l'abbondanza, né il non mangiare la penuria: cioè né l'una cosa mi farà ricco né l'altra pezzente. Un'altra ancora ne ho udita: Ho imparato a farmi bastare ciò che ho, so vivere nell'abbondanza e so sopportare la miseria. Tutto posso in colui che mi dà forza. Ecco un guerriero dei castelli celesti, e non la polvere che siamo noi. Ma ricorda, Signore, che siamo polvere e che di polvere hai fatto l'uomo, e si era perduto e fu ritrovato. Neanche lui trovò in sé quel potere, perché era polvere anche lui, che molto ho amato per il soffio in cui tu gli ispiravi le parole: tutto posso in colui che mi dà forza. Dammi forza, così che io possa: dammi ciò che comandi, e comanda ciò che vuoi. Quest'uomo riconosce ciò che ha avuto, e se si gloria, si gloria nel Signore. Un altro udii pregare: Liberami, diceva, dalle voglie del ventre. È dunque evidente, Dio mio, che sei tu a consentire, quando si fa ciò che imponi di fare.

- 46. Mi hai insegnato, Padre buono, che tutto è puro per i puri, ma fa male un uomo a mangiare in modo da recare offesa ad altri; che ogni tua creatura è buona e niente bisogna respingere di ciò che ringraziando si riceve; e che non è il cibo a raccomandarci a Dio, che nessuno ci deve giudicare dal cibo o dalla bevanda che prendiamo, e chi mangia non deve disprezzare chi non mangia, e chi non mangia giudicare chi mangia. Tutto questo ho imparato: te ne ringrazio, te ne rendo lode, Dio mio, maestro mio, tu che hai bussato alle mie orecchie e illuminato la mia intelligenza. Liberami da ogni tentazione. Io non temo l'impurità del cibo, ma quella del desiderio. So che a Noè fu permesso di mangiare ogni sorta di carne commestibile, che Elia si ristorò cibandosi di carne, che Giovanni con tutta la meravigliosa astinenza di cui era dotato non fu contaminato da quegli animali - le locuste - che gli servivano da alimento. E so che Esaù fu vittima della sua voglia di lenticchie e Davide si rimproverò per aver desiderato dell'acqua, e il nostro re fu soggetto alla tentazione non della carne, ma del pane. Dunque anche il popolo nel deserto meritava la riprovazione non per aver desiderato della carne, ma perché nel suo desiderio di cibo aveva mormorato contro il suo Signore.

- 47. Circondato dunque da queste tentazioni io lotto ogni giorno contro la passione del mangiare e bere: perché non è cosa con cui io possa rompere con un taglio netto per non tornarvi mai più, come ho potuto fare con l'amore fisico. Alla gola bisogna dunque tenere le briglie sotto controllo, allentandole o stringendole con moderazione. Ma chi, Signore, non si lascia trascinare un po' oltre i confini del bisogno? Chiunque ci riesca, è grande, e deve magnificare il tuo nome. Io non sono tale, perché sono un uomo peccatore. Ma anch'io magnifico il tuo nome, e intercede presso di te per i miei peccati colui che vinse il mondo e mi annoverò fra le membra più deboli del suo corpo: perché i tuoi occhi videro in esso quello che era ancora in embrione, e nel tuo libro ognuno sarà scritto.

32.48. Le seduzioni dell'olfatto non mi preoccupano troppo: assenti, non le cerco, presenti, non le respingo, pronto come sono a farne a meno anche per sempre. Così almeno mi pare, ma può darsi che mi inganni. Perché ci sono queste tristi tenebre che mi nascondono ciò che vi è in me di potenziale, così da indurre la mia mente a non fidarsi troppo facilmente di se stessa in questa indagine sulle proprie forze. Perché il più delle volte ciò che ha dentro resta segreto, se non lo manifesta l'esperienza, e nessuno deve credersi sicuro in questa vita, che è come sta scritto tutta una prova: chissà se chi ha potuto divenire da peggiore migliore, non possa anche seguire il percorso inverso. Sola speranza, sola fiducia, sola ferma promessa la tua misericordia.

33.49. I piaceri dell'udito mi hanno coinvolto e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Ora nella musica che anima le tue parole, quando le canta una bella voce d'artista, lo confesso, trovo un certo appagamento, ma non al punto da lasciarmene incatenare: mi riscuoto quando voglio. Tuttavia per accedere a me con i pensieri di cui la musica vive, esige che io le trovi nel mio cuore un luogo non privo di decoro: e faccio fatica a offrirgliene uno adeguato. A volte mi sembra di concederle dignità maggiore di quanta non le convenga, pur rendendomi conto che più intensa è la fiamma di devozione accesa nelle nostre menti dalle stesse parole divine quando sono cantate a quel modo, che quando non lo sono, e che tutta la gamma dei nostri sentimenti trova, nella sua varietà, una corrispondenza di ritmi nella voce e nel canto, ritmi che con la loro segreta affinità evocano i diversi sentimenti. Ma questo piacere carnale, cui non è opportuno la mente si conceda se diventa snervante, spesso mi seduce: quando la sensazione non si limita ad accompagnare pazientemente il pensiero cedendogli il passo, ma per il solo fatto di esser stata ammessa per grazia sua, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza accorgermene, e me ne accorgo in seguito.

- 50. A volte invece in uno sforzo esagerato di evitare questa seduzione erro per troppa severità: ma molto raramente. Allora vorrei bandire dalle mie orecchie e da quelle di tutta la Chiesa tutte le melodie che danno fascino al canto con cui si accompagnano i salmi davidici: e mi sembra più sicuro il sistema che ricordo di aver spesso sentito attribuire al vescovo Atanasio di Alessandria, il quale faceva modulare così poco la voce al lettore dei salmi, da far parere il suo canto più simile a un recitativo. Quando però mi ricordo le lacrime che mi fece versare il canto dei fedeli ai primordi della mia fede ritrovata, e ripenso all'emozione che non il canto, ma le cose cantate mi danno se è una voce limpida a cantarle in un registro appropriato, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Oscillo così fra il rischio del piacere e l'esperienza del bene che fa, e propendo maggiormente anche se non irrevocabilmente verso l'opinione che approva la consuetudine del canto fra i fedeli, perché anche un cuore un po' incerto trovi in questa carezza per l'udito un incentivo a sollevarsi più in alto nella devozione. Se tuttavia mi accade di sentirmi colpito più dal canto che da ciò che si canta, io confesso il mio peccato e la pena da pagare, e allora preferirei non udire il cantore. Ecco dove mi trovo! Piangete con me e per me voi tutti che nel cuore dibattete un poco di quel bene da cui nascono le azioni. Voi che non avete di che agitarvi non vi farete certo commuovere da tutto questo. Ma tu, mio Dio e Signore, ascolta, guarda e vedi e abbi pietà e guariscimi. Vedi che sono diventato un problema per me stesso, ed è questa la mia malattia.

34.51. C'è ancora la voluttà di questi occhi della mia carne: e ne farò una confessione che vorrei giungesse alle orecchie del tuo tempio, orecchie fraterne e devote, per chiudere con le tentazioni della concupiscenza della carne, che ancora mi battono nonostante i miei sospiri e il mio desiderio di rivestirmi della mia abitazione celeste. Amano le forme belle e la loro varietà, gli occhi, e i colori brillanti e lieti. Non debbono esser loro ad avvincermi l'anima: deve esser Dio, che ha fatto queste cose molto buone, ma è lui solo il mio bene, non loro. Durante la veglia, per tutto il giorno colpiscono i miei occhi, e non mi danno tregua, come fa la voce di chi canta, e di tanto in tanto ogni voce, la tregua del silenzio. La stessa regina dei colori, la luce, che avvolge tutte le cose che vediamo, dovunque io mi trovi durante il giorno trova mille modi di insinuarsi con le sue carezze mentre sono troppo occupato per badarle. Eppure è tanto avvolgente e tenace che, se viene a mancare all'improvviso, la si ricerca con nostalgia, e la sua prolungata assenza fa triste la mente.

- 52. O luce che vedeva Tobia, quando con gli occhi chiusi insegnava al figlio la via della vita e lo precedeva col piede dell'amore senza mai smarrirsi. Luce che vedeva Isacco con i lumi del corpo già gravati e velati dalla vecchiaia, quando gli fu dato di benedire i figli senza riconoscerli, e in quella benedizione tuttavia di riconoscerli. Luce che vedeva Giacobbe, quando la gran vecchiaia lo colpì negli occhi e diresse il raggio del suo cuore illuminato sulle generazioni del futuro popolo, prefigurate nei figli: e sui nipoti, figli di Giuseppe, impose le mani misteriosamente incrociate, non come il loro padre dall'esterno tentava di guidarlo, ma con il suo discernimento intimo. Sempre la stessa luce: è una soltanto, come una cosa sola sono tutti quelli che la vedono e l'amano. Ma la rischiosa dolcezza di questa luce materiale di cui stavo parlando copre di un velo di lusinghe la vita ai ciechi amanti del secolo. Quando avranno imparato a render lode a te anche di questa luce, Dio creatore del tutto, l'accoglieranno nel tuo inno invece di farsi cogliere da lei nel loro sonno: e così voglio fare anch'io. Resisto alle seduzioni degli occhi, per non restare impigliato coi piedi, con cui procedo lungo la tua via: e levo a te occhi invisibili, perché tu sciolga dal laccio i miei piedi. Tu li sciogli continuamente, perché se ne fanno sempre prendere. Tu non cessi di scioglierli, ma io a ogni passo mi lascio irretire nei tranelli sparsi dappertutto. Perché tu non ti addormenterai e non sonnecchierai, custode di Israele.

- 53. Che innumerevoli allettamenti hanno saputo aggiungere gli uomini a ciò che già seduce i loro occhi! Con le diverse arti, con i vari mestieri, per vestirsi e calzarsi, per vasellame e manufatti di ogni genere, perfino nei dipinti e in ogni specie di simulacri sono andati ben oltre i limiti del bisogno, della misura e dell'espressione simbolica del sacro. Van dietro a ciò che fanno esteriormente, abbandonando intimamente chi li ha fatti, e sterminando quello che erano, l'opera del creatore. Ma io, Signore mio e mia gloria, anche di qui traggo un inno per te, e offro un sacrificio di lode a chi si sacrifica per me. Perché ogni cosa bella che attraversa l'anima per uscire dalla mano dell'artista viene da quella bellezza che sta sopra le anime, cui notte e giorno sospira la mia. Ma gli artefici e i cultori di bellezze visibili ne traggono una norma di valutazione, non una norma di comportamento. Eppure è lì e non la vedono: eviterebbero di andar lontano e accanto a te custodirebbero la loro forza, senza dissiparla in faticosi piaceri. Io stesso che così parlo e distinguo mi lascio prendere al laccio da questi oggetti belli, ma tu scioglimi Signore, scioglimi tu, perché la tua indulgenza m'è dvanti agli occhi. Io, infelice, me ne faccio prendere, e tu me ne liberi pietosamente: a volte senza che io me ne accorga, se avevo barcollato senza cadere, a volte con dolore, perché già me ne ero fatto avvincere.


[La passione degli occhi]

35.54. C'è poi un'altra specie di tentazione, per molti aspetti pericolosa. Oltre la concupiscenza della carne, che consiste nel piacere di tutti i sensi e nella loro massima soddisfazione - una servitù in cui si consumano quelli che si allontanano da te - c'è nell'anima, indotta da questi stessi sensi, una curiosità avida e vana, che si ammanta del nome di conoscenza e di scienza. Non cerca la soddisfazione della carne, ma l'esperienza per suo mezzo. Siccome fa parte dell'impulso alla conoscenza, e gli occhi sono fra i sensi lo strumento principe della conoscenza, la parola divina la definisce passione degli occhi. Agli occhi in senso proprio pertiene il vedere. Ma questo verbo lo usiamo anche per gli altri sensi, quando sono impiegati a scopo di conoscenza. Così ad esempio non diciamo: "ascolta com'è scintillante", o "annusa come è lucido" o "assaggia quanto brilla" o "tocca che splendore": son tutte cose che - noi diciamo - si vedono. D'altra parte non diciamo soltanto "vedi com'è luminoso", percezione questa che pertiene solo agli occhi, ma anche: "vedi che suono", "vedi che odore", "vedi che sapore", "vedi com'è duro". Per questo l'esperienza sensoriale in generale si chiama, come si è detto, concupiscenza degli occhi. Tutti gli altri sensi si attribuiscono per analogia la funzione visiva (della quale però gli occhi detengono il primato) quando la loro esplorazione ha scopo di conoscenza.

- 55. Dal che si può distinguere con maggiore evidenza quale sia la parte del piacere e quale quella della curiosità nell'esperienza sensoriale. Il piacere insegue la bellezza, l'armonia, la fragranza, il sapore, la morbidezza: la curiosità anche i loro contrari, e non per procurarsi la nausea ma per il capriccio di fare esperienza e conoscenza. Che piacere può esserci nella vista di qualche particolare agghiacciante, in un cadavere straziato? Eppure appena ce n'è uno la gente accorre per provare sgomento e impallidire a suo agio. Hanno perfino paura di vederlo in sogno, come se qualcuno li obbligasse a vederlo da svegli, o ne avessero sentito parlare come di un bello spettacolo. E così è per tutti gli altri sensi: ma sarebbe una lunga rassegna. È per via di questo morboso desiderio che negli spettacoli vengono esibiti ogni sorta di mostri. Di qui viene anche che si proceda a esplorare i fenomeni della natura fuori di noi, che a nulla giova conoscere, e dove gli uomini altro non cercano che la conoscenza per se stessa. Di qui anche le arti magiche cui si fa appello, sempre allo stesso scopo di un sapere perverso. Di qui infine le tentazioni che perfino la religione propone a Dio, quando si chiedono segni e miracoli: non per qualche motivo di salvezza, ma solo per il gusto di un esperimento.

- 56. In questa immensa foresta folta di insidie e rischi, vedi quanti rami ho tagliato ed espulso dal mio cuore, come tu m'hai concesso di fare, Dio della mia salvezza. Eppure chi si azzarderebbe, avvolti come siamo da ogni parte di tentazioni di questo genere, frastornati come ne siamo ogni giorno, chi mai si azzarderebbe ad asserire che nessuna di loro sia mai riuscita a catturare la mia attenzione e ad assorbirla in vane osservazioni e occupazioni? Certo il teatro non m'affascina più, non mi interessa studiare le congiunzioni degli astri, e quanto ai responsi delle ombre, mai ne ha cercati quest'anima: detesto tutti i misteri sacrileghi. Ma, mio Signore e Dio, io che ti devo solo essere servo umile e semplice, a che macchinazioni e suggestioni architettate dall'avversario debbo sottrarmi per non chiederti un segno! Ma ti supplico per il nostro re e per il nostro paese sincero, per la purezza di Gerusalemme: da questa tentazione tieni lontano e sempre più lontano, com'è lontano oggi, il mio consenso. Quando invece ti prego per la salute di qualcuno, la mia intenzione è ben diversa: continua a fare secondo il tuo volere, e a concedermi, come mi concedi, di accettarlo volentieri.

- 57. Eppure sono innumerevoli le minuzie irrilevanti che solleticano la nostra curiosità ogni giorno: e quante volte non si cade in tentazione? Quante volte cominciamo col tollerare gente che ci racconta delle futilità, e lo facciamo per non offendere la loro inconsistenza, poi a poco a poco finiamo per ascoltare con piacere. Non vado più al circo apposta per vedere un cane all'inseguimento di una lepre; ma se mi trovo a passare per un campo dove è in corso quel tipo di caccia, può darsi che distragga la mia attenzione da qualche grande pensiero e la attragga a sé: non mi costringe a far deviare materialmente la mia cavalcatura, ma l'inclinazione del mio cuore sì, e se tu facendomi toccare ancora una volta con mano la mia inconsistenza non mi invitassi subito a riflettere su quella stessa scena per sollevarmi a te, o almeno a non curarmene e a passare oltre, resterei lì come un idiota. Addirittura spesso, a casa, mi incanto a guardare una lucertola intenta a catturare mosche, o un ragno che avvolge nelle sue reti quelle che vi sono incappate. L'azione non è diversa, per il fatto che qui si tratta di piccoli animali. Di qui passo a render lode a te, meraviglioso creatore e ordinatore di ogni cosa: ma non era questa l'intenzione iniziale. Altro è rialzarsi subito, altro è non cadere. E di cose del genere è piena la mia vita, e la mia sola, profonda speranza è la tua misericordia. Si fa ricettacolo a questa folla di minuzie il cuore, e le caterve di dettagli vacui che si porta dietro spesso interrompono e disturbano le nostre preghiere: e mentre sotto il tuo sguardo noi tentiamo di levare alle tue orecchie la voce del cuore, a distoglierci da un'attività così importante irrompono, da non so dove, pensieri futilissimi.

36.58. Anche questa dovremo reputarla un'inezia? O c'è altro in cui sperare se non la tua misericordia a noi ben nota, da quando hai cominciato a rinnovarci? E tu lo sai quanto profondamente mi abbia trasformato, tu che in primo luogo mi guarisci dalla smania di giustificarmi, per poi farti indulgente anche verso tutte le altre mie colpe e guarirmi da tutte le mie nausee e riscattare la mia vita dalla dissoluzione e incoronarmi di pietà e tenerezza e saziare di bene la mia nostalgia. Tu che dall'alto del mio timore di te hai abbattuto la mia superbia e m'hai reso le spalle docili al tuo giogo. Ora lo porto, e mi è lieve, secondo la tua promessa e la tua opera. E davvero lo era, lieve, e non lo sapevo, quando avevo paura di addossarmelo.


[La superbia e i suoi travestimenti]

- 59. Ma davvero, Signore, tu che solo domini senza vanagloria, perché tu solo sei veramente Signore, tu che non hai signore sopra te, davvero sono libero anche dal terzo genere di tentazioni? Può cessarne il dominio, in questa vita? Parlo del desiderio d'esser temuto e amato dagli uomini senz'altro scopo che la gioia che se ne trae, e che non è una gioia. Vita infelice, misera iattanza. Viene da questa soprattutto, la mancanza d'amore per te e di timore puro, e perciò tu resisti ai superbi, e agli umili invece doni il tuo favore: tuoni sull'ambizione umana e fai tremare i monti dalle fondamenta. Determinati ruoli nella società umana esigono che chi li riveste sia amato e temuto: e così noi siamo incalzati dall'Avversario della nostra vera felicità, che sparge dappertutto lacci di applausi: "Bravo! Bravo!" E mentre ci affanniamo a raccoglierli, senza accorgercene ne restiamo presi e ritiriamo la nostra gioia dalla tua verità per investirla negli imbrogli degli uomini, per il gusto di essere amati e temuti non in tuo nome, ma in tua vece. E in questo modo ci rendiamo simili a lui, che ci prende con sé, non compagni per amore ma consorti nella dannazione. Lui che volle porre il suo seggio negli antri dell'aquila, perché lo servissimo nell'oscurità e nel gelo, lungo la via torta e perversa dell'imitazione che tenta di te. Ma noi, signore, vedi, siamo il tuo piccolo gregge, conservaci tu in tuo possesso. Dispiega le tue ali, e noi sotto di esse ci rifugeremo. Sii tu la nostra gloria: per te vogliamo essere amati, e sia la tua parola a esser temuta in noi. Chi vuol esser lodato dagli uomini con il tuo biasimo non sarà difeso dagli uomini davanti al tuo giudizio, né da loro strappato alla tua condanna. E perfino quando non è un peccatore che si loda per i suoi desideri profondi e neppure si benedice un ingiusto per quello che fa, ma si loda qualcuno per un dono che tu gli hai fatto: bene, se l'uomo si rallegra più per le lodi che per il dono stesso che gliele merita, allora anche questo si fa lodare con tuo biasimo, ed è migliore chi loda che la persona lodata. Perché al primo è piaciuto nell'uomo il dono di Dio, il secondo al dono di Dio ha preferito quello dell'uomo.

37.60. Ogni giorno ci assaltano queste tentazioni, Signore, non ci lasciano tregua. Ogni giorno passiamo per quel crogiuolo che è la lingua degli uomini. Anche in questo caso ci ordini la continenza: dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Tu lo conosci il pianto del mio cuore e le fiumane scorse dai miei occhi. Non mi è facile capire quanto io mi sia davvero liberato di questa peste, e molto mi fanno paura le mie tendenze latenti, che i tuoi occhi vedono, ma non i miei. Per quanto riguarda altri generi di tentazioni ho una certa capacità di esplorare me stesso: ma in questo, quasi nessuna. Io vedo in che misura sono riuscito a trattenere la mente dai piaceri della carne e dall'avidità di conoscenze superflue, quando me ne privo volontariamente, o mi mancano. Allora mi chiedo che cosa mi metta più o meno a disagio con la sua mancanza. Quanto al denaro, che ricercavo in funzione dell'uno o dell'altro di questi generi di concupiscenze, o di tutt'e tre: può darsi che la mente non sia in grado di avvertire se lo disprezza o no, finché lo si possiede: e allora per mettersi alla prova vi si può rinunciare. Ma per privarsi della lode altrui e mettersi alla prova anche in questo caso, che cosa si può fare? Forse vivere così male, in modo così rovinoso e inumano, che chi ci conosce non possa che odiarci? Che cosa si può pensare o dire di più insensato? Ma se compagna della vita buona e delle buone opere è sempre stata e dev'essere la lode, non bisogna abbandonare la sua compagnia: non più della stessa vita buona. Comunque per sapere se la mancanza di una cosa mi riesce tollerabile o no, bisogna appunto che venga a mancarmi.

- 61. Cosa confessarti allora, Signore, riguardo a questo genere di tentazioni? Cosa, se non che le lodi mi fanno piacere? Ma più delle lodi me ne fa la verità. Se mi chiedessero che cosa preferisco: essere pazzo furioso e in errore su ogni punto, ma essere lodato da tutti gli uomini, ed essere equilibrato e nel fermissimo possesso della verità ma biasimato da tutti, vedo bene che alternativa sceglierei. D'altra parte, preferirei che l'approvazione di labbra estranee non accrescesse neppure di poco la gioia di possedere un bene, qualunque esso sia. E invece l'accresce, lo ammetto, non solo: ma la disapprovazione la diminuisce. E siccome questa mia miseria mi confonde, trovo subito una scusa, che tu sai, Dio mio, quanto vale, perché mi lascia nell'incertezza. Tu ci hai ordinato non solo la continenza, che ci dice quali sono le cose da cui dobbiamo ritirare il nostro amore; ma anche la giustizia, che ci prescrive quelle a cui rivolgerlo. E hai voluto che amassimo non solo te, ma anche il prossimo. Spesso, nel piacere che mi fa la lode di uno che se ne intende, mi pare sia del progresso o delle speranze del mio prossimo che mi rallegro, come mi pare di rattristarmi per il suo male, quando lo sento biasimare una cosa che ignora o che è buona. In effetti a volte anche una lode rivolta a me mi rattrista, o perché mi lodano per cose che a me invece dispiacciono, oppure perché hanno di beni minori e superficiali più considerazione di quella che meritano. Ma anche qui: come faccio a sapere se questa mia reazione non si debba al fatto che sono contrariato per l'opinione diversa dalla mia che il mio apprezzatore ha sul mio conto, piuttosto che alla sollecitudine per il suo vantaggio: e quindi proprio al fatto che le stesse qualità che io approvo in me stesso mi sono anche più grate se piacciono anche agli altri? Altrimenti in un certo senso non sono io a essere lodato, dal momento che si lodano proprio quelle azioni che io non approvo, o che si lodano di più quelle che a me piacciono di meno. Io stesso sono incerto sul mio conto, a questo riguardo.

- 62. Ora lo vedo in te, verità: non per me stesso, ma per il vantaggio del prossimo dovrei essere sensibile alle lodi che mi vengono rivolte. E se sono così, io non lo so. In questo aspetto mi conosco ancor meno di quanto conosca te. Ti supplico, mio Dio, rivelami anche me stesso, perché io confessi ai miei fratelli ogni ferita che mi scoprirò, che preghino per me. Riprenderò a indagarmi, andrò più a fondo. Se sono sensibile alle lodi per il vantaggio del prossimo, perché lo sono di meno quando un'altra persona viene ingiustamente biasimata, che quando capita a me? Perché mi riesce più pungente l'ingiuria che scagliano contro di me di quella che, alla mia presenza e con la stessa cattiveria, investe un altro? Neppure questo so? Non resta che ammettere, forse, che sia io il seduttore di me stesso, e non pratichi affatto la verità davanti a te, nel cuore e sulla lingua...No, questa è la pazzia: via, cacciala da me, Signore: che il profumo del male non mi prenda alla testa, e mi condanni la mia stessa bocca.

38.63. Io sono un povero e manco di tutto: e sono un po' migliore soltanto quando piango in segreto nel disgusto di me stesso, e cerco la tua misericordia, sola capace di riempire il vuoto che mi divora, fino alla pienezza della pace - quella che l'occhio dell'arrogante non conosce. Ma le parole che escono dalla nostra bocca e le azioni che gli uomini vedono portano in sé una tentazione pericolosissima, radicata nell'amore per la lode: che per un po' di gloria personale va mendicando consensi... C'è, questa tentazione, anche quando sono io stesso a rimproverarmela, anzi nell'atto stesso di rimproverarmela. Spesso il disprezzo della vanagloria è motivo di gloria anche più vana: e allora non c'è gloria nel disprezzo della gloria, perché non la disprezza veramente chi di quello si gloria.

39.64. Anche dentro, sì, dentro c'è un'altra tentazione maligna di questo stesso genere, che fa vaneggiare dietro a se stessi quelli che di sé si compiacciono, anche se non sono apprezzati o sono addirittura disprezzati dagli altri, e loro non si curano di piacere. Ma pur piacendo a se stessi molto dispiacciono a te: in quanto si compiacciono, non soltanto di ciò che non è bene come se lo fosse, ma anche di beni tuoi come fossero loro; o anche come li avessero da te, sì, ma per i loro meriti; o infine come grazia tua, sì, ma da non condividere con gli altri, da tenersi gelosamente per sé soli. In mezzo a tutti questi rischi e questi tormenti, lo vedi come trema questo cuore. È più facile per te guarire anche subito le mie ferite, che per me evitare di procurarmele: lo sento.

Conclusioni

40.65. Dove non sei venuta con me, verità? Camminando al mio fianco, insegnandomi le cose da evitare e quelle da cercare, mentre ti raccontavo quelle che potevo intravedere io, nei bassifondi di me stesso, e ti chiedevo consiglio... A volo ho attraversato tutto il mondo esterno, fin dove giungono i sensi ad accenderlo, ho studiato la vita e la sensibilità stessa che il mio corpo ha da me. Di lì sono entrato nei recessi della mia memoria, nei suoi saloni e corridoi meravigliosamente stipati di tesori, senza numero, e la loro considerazione mi ha lasciato sgomento, e nessuno di essi avrei potuto distinguere senza di te, ma nessuno era te. E neppure ero io che li evocavo, anche se tutti li esploravo e mi sforzavo di distinguerli e valutarli secondo il loro rango: interrogando qui le informazioni ricevute da parte dei sensi, là accogliendo percezioni fuse a quelle del mio stesso essere. Ho esaminato uno per uno i vari ricettori, per poi soffermarmi nei vasti magazzini della memoria su alcuni suoi oggetti, altri lasciarne sepolti e altri ancora scavare alla luce. E neppure quell'io che faceva tutto questo, vale a dire la potenza che me ne rendeva capace, eri tu. Perché sei la luce ferma, tu, che io consultavo riguardo all'esistenza, alla natura e al valore di ciascuna cosa. E così faccio spesso, e mi piace farlo, e appena mi è possibile distogliermi un poco dai miei obblighi mi rifugio in questo piacere. Ma in tutto questo percorso che rifaccio consultando te non trovo un luogo sicuro per l'anima - se non in te. Un luogo dove si raccolga ogni cosa perduta, dove nessuna parte di me possa sottrarsi a te. Talvolta accade che tu mi immerga in uno stato d'animo del tutto insolito, in cui affondo fino a un'indefinibile dolcezza, che se mai fosse piena io non so che sarebbe: ma non più questa vita. E in questa io ricado sotto il peso delle angosce, e le solite cose mi riassorbono e mi tengono stretto e piango molto; ma molto stretto mi tengono. Tanto può il piombo dell'abitudine! Star qui, posso e non voglio, e là, voglio e non posso: qui come là infelice.

41.66. Per questo ho esaminato le malattie dei miei peccati, riconducendole a quella triplice forma dell'avidità, e ho invocato per la mia salvezza il soccorso della tua destra. Dalla fessura del mio cuore ho visto la tua luce e ho detto, folgorato: chi può arrivarci? Cacciato via dal lume dei tuoi occhi... Tu sei la verità che presiede all'universo. Ma io nella mia voglia avara non ti volevo perdere, no, ma senza rinunciare alla menzogna. Così nessuno vuol mentire fino al punto di non sapere più egli stesso che cosa sia vero. E così ti ho perduto, perché tu non ti lasci possedere insieme alla menzogna.

42.67. Chi potevo trovare, che mi riconciliasse con te? Dovevo far la corte agli angeli? E con che preghiere, con che cerimonie? Molti nel tentativo di tornare a te, e non riuscendoci da soli, mi si dice, han voluto saggiare questa via e si sono lasciati prendere dalla mania delle visioni e sono diventati visionari: se lo meritavano. Nella loro esaltazione ti cercavano tutti impaludati nella loro dottrina, gonfiando il petto invece di batterselo. E per intima affinità hanno attirato a sé le potenze dell'aria, ispirate dal loro stesso orgoglio, per lasciarsi ingannare dai loro poteri magici. Cercavano un mediatore che li purificasse: ma non lo trovarono. Il diavolo, trovarono, trasfigurato in angelo di luce. Molto seduceva la superbia della loro carne, che lui non possedesse un corpo di carne. Ma erano mortali e peccatori, e tu, Signore, con cui cercavano di riconciliarsi, eri immortale invece e senza colpa. Il mediatore fra gli uomini e Dio bisognava che fosse per un aspetto simile a Dio e per l'altro agli uomini: simile in tutto all'uomo, sarebbe stato troppo distante da Dio, ma in tutto a Dio, troppo lo sarebbe stato dagli uomini, e così non sarebbe stato il mediatore. E così quel falso mediatore, da cui nella tua misteriosa giustizia l'orgoglio merita di farsi illudere, ha una cosa in comune con gli uomini, cioè il peccato: e un'altra vuol far credere di avere in comune con Dio, atteggiandosi a immortale, perché non è ricoperto di carne mortale. Ma siccome la morte è il compenso del peccato, ciò che ha in comune con gli uomini è sufficiente a condannarlo a morte.

43.68. Ma il vero mediatore, che nella tua misteriosa bontà hai rivelato e inviato agli uomini, perché dal suo esempio apprendessero anche la stessa umiltà, quel mediatore fra Dio e gli uomini che è l'uomo Cristo Gesù, apparve fra i mortali peccatori e la giustizia immortale, mortale come gli uomini, giusto come Dio. E questo perché, essendo vita e pace il compenso della giustizia, per la giustizia che aveva in comune con Dio annientasse la morte di quelli che pur nella loro colpevolezza furono giustificati, morte che con loro volle condividere. È lui che fu rivelato ai giusti del tempo antico, perché fossero salvati dalla fede nella sua passione a venire, come noi lo siamo dalla fede nella sua passione avvenuta. Perché in quanto è uomo è mediatore, ma in quanto è Parola non sta in mezzo, ma è uguale a Dio e Dio presso Dio e insieme unico Dio.

- 69. Come ci hai amati Padre buono, tu che non hai risparmiato il tuo unico figlio, ma per noi l'hai consegnato agli empi. Come ci hai amati: perché lui non credendo usurpata / la parità con te / pure si sottomise / fino a morire in croce, lui, il solo libero fra i morti, lui che aveva il potere di lasciar l'anima e poi di riprenderla. Per noi al tuo cospetto vincitore e vittima, e vincitore proprio perché vittima; per noi al tuo cospetto sacerdote e sacrificio, e sacerdote perché sacrificio. Lui che nato da te s'è fatto nostro servo per farci figli tuoi da servi che eravamo. A ragione è ben salda in lui la mia speranza: mi guarirai da ogni malinconia attraverso di lui che siede alla tua destra e intercede per noi. Perché altrimenti sarei disperato. Son molte e grandi infatti le mie malinconie, son molte e grandi. Ma più abbondante è la tua medicina. Potevamo pensare che la tua Parola fosse lontana dall'unirsi all'uomo, e disperare di noi stessi - se non si fosse fatta carne e non avesse abitato fra noi.

- 70. Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia miseria avevo rimuginato in cuore un' idea di fuga nella solitudine: ma tu me la vietasti, facendomi coraggio con queste parole: Cristo è morto per tutti proprio perché chi vive non viva più per sé, ma per chi morì per lui. Vedi Signore, la mia angoscia la getto su di te per poter vivere! E mi darò alla meditazione della tua legge, alle sue meraviglie. Tu sai la mia ignoranza e l'incertezza: tu insegnami, guariscimi. Il tuo unigenito, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza mi riscattò col suo sangue. Via da me le calunnie dei superbi: questo fu il prezzo del mio riscatto, e a questo io penso e me ne faccio cibo e bevanda e lo dispenso, e da quel povero che sono mi struggo di saziarmi anch'io di lui in mezzo a quelli che lo sanno, che cosa sia mangiare a sazietà. Loderà Dio chi ne sente la mancanza.