WILLIAM SHAKESPEARE

ENRICO IV - PRIMA PARTE - ATTO TERZO

Atto Terzo
SCENA I - Il castello di Glendower nel Galles

Entrano Hotspur, Worcester, Mortimer, Glendower, quest’ultimo con un una mappa in mano.

Mortimer - Abbiamo qui affidabili promesse,
alleati sicuri: il nostro esordio
è farcito di prospere speranze.
Hotspur - Lord Mortimer, e tu, caro cugino
Glendower, non volete accomodarvi?
E tu, zio Worcester?... Ah, dannazione!
Ho scordato la mappa.
Glendower - Cugino Percy, siedi, statti comodo
cugino Sproneardente:
ogni volta che Lancaster ti nomina
con questo nomignolo,
si sbianca in volto e ti spedisce al cielo
con un lungo sospiro.
Hotspur - Così come spedisce te all’inferno
ogni volta che sente nominare
Owen Glendower.
Glendower - Non so biasimarlo:
al momento ch’io venni concepito
tutto l’arco del cielo
si riempì di forme fiammeggianti,
e quando poi son venuto alla luce
la struttura e le stesse fondamenta
della terra si misero a tremare
al pari delle membra d’un codardo.
Hotspur - Beh, in quel momento avrebbero tremato
pure se a partorire ,
fosse stata la gatta di tua madre
e tu non fossi mai venuto al mondo.
Glendower - Dico e ripeto che tremò la terra
nel momento ch’io son venuto al mondo...
Hotspur - E io dico e ripeto che la terra
era d’umore diverso dal mio,
se pensi che si sia messa a tremare
per paura di te.
Glendower - Il firmamento era tutto una fiamma,
e la terrà tremò.
Hotspur - Oh, allora è chiaro:
tremò pel firmamento che bruciava
non già per tema di te che nascevi.
La natura malata esplode spesso,
esplode spesso in eruzioni strane
ch’hanno del portentoso;
spesso la terra gravida è squassata
dagli spasimi come d’una colica
e tormentata dentro i suoi precordi
da una specie di vento irresistibile
che, stando prigioniero nel suo ventre
e sforzandosi di venirne fuori
ne scuote la malata vecchia crosta
e fa crollare giù i suoi campanili
e le sue torri coperte di muschio.
È verosimile che alla tua nascita
questa nostra vetusta Nonna Terra
fosse in preda a un simile disturbo,
e tremasse per via di quegli spasimi.
Glendower - Bada, cugino, non son molti gli uomini
da cui tollero d’esser contraddetto.
Permettimi d’insistere a ripeterti
che quand’io sono nato
la fronte dell’intero firmamento
si riempì di forme fiammeggianti,
le capre diruparono dai monti
e gli armenti lanciarono per l’aria
strani clamori agli atterriti campi.
Tutti questi portenti di natura
m’hanno segnato come un individuo
fuori dell’ordinario: e la mia vita,
in ogni fase del suo svolgimento,
sta ad indicare ch’io non sono iscritto
nel registro degli uomini comuni.
C’è forse chi, tra questo arco di mare
che cintura le coste d’Inghilterra,
della Scozia e del Galles, la persona
che possa dir ch’io sono suo discepolo
o che m’abbia insegnato qualche cosa?
E portatemi qui nato di donna
che sia capace di tenermi dietro
sulle sudate vie dell’arte magica,
o di tenere il passo insieme a me
negli intriganti suoi esperimenti .
Hotspur - Io per me credo che meglio di te
non c’è nessuno che parli il gallese .
E detto questo, me ne vado a pranzo.

(S’alza per uscire. Mortimer lo ferma)
Mortimer - (A parte, a Hotspur)
Cugino, modera; lo fai infuriare.
Glendower - Io riesco a evocare gli spiriti
con la voce, dai più profondi abissi.
Hotspur - Oh, per questo, evocarli con la voce,
posso anch’io e chiunque.
Resta però a vedere se, evocati,
gli spiriti verranno allo scoperto...
Glendower - Cugino, io posso dirti
come si fa a comandare al diavolo.
Hotspur - Ed io, cugino, ti posso insegnare
come scornarlo, il diavolo,
col dir la verità. Perché sta scritto:
“Se dici il vero, avrai scornato il diavolo”.
Se hai il potere di farlo venir fuori,
mandalo qui da me, e io - ti giuro -
ho il potere di farlo scappar via
per la vergogna. Di’ la verità,
finché vivi, ed avrai scornato il diavolo.
Mortimer - Su, su, basta con queste vane ciarle!
Glendower - Tre volte ha già spedito Enrico Bolingbroke
contro di me un esercito;
tre volte, io, dalle sponde del Wye
e dal sabbioso letto della Severn
l’ho ricacciato dentro i suoi confini
coi piedi scalzi e inzuppato di pioggia.
Hotspur - Eh, senza scarpe a casa, e col maltempo!
Come ha fatto a non prendersi un cimurro?
Glendower - Basta, questa è la mappa.
Vogliamo fare la ripartizione
delle zone che spettano a ciascuno
conformemente all’ordine fissato
col nostro patto a tre?
Mortimer - Ha provveduto già l’Arcidiacono ,
e con molta equità, a ripartirle
in tre lotti, perfettamente uguali.
L’Inghilterra, compresa a sud e ad est
tra la Severn e il Trent, è la mia parte;
tutta la zona ad occidente - il Galles -
aldilà delle rive della Severn
e la fertile piana limitata
entro questi confini va a Glendower.
(A Hotspur)
A te, cugino, tutta l’altra parte
che sta aldilà del Trent.
Il nostro patto è scritto in tre esemplari,
e, tosto che sia stato sigillato,
(il che può farsi questa notte stessa),
e ciascuno abbia avuto la sua copia,
ci metteremo in marcia, tu ed io,
cugino Percy, e il nostro buon lord Worcester,
domani stesso, per unirci, a Shrewsbury,
con tuo padre e l’esercito scozzese,
secondo i precedenti nostri accordi.
Per domani mio suocero Glendower
credo che non sarà ancora pronto;
ma non avrem bisogno del suo aiuto
almeno prima di due settimane.
(A Glendower)
Tu potrai radunare in questo tempo
sudditi, amici e nobili vicini.
Glendower - Non ci vorrà tanto tempo, signori,
perch’io possa raggiungervi non credo;
e con me condurrò le vostre mogli
dalle quali dovete ora partire
all’insaputa e senza dirvi addio:
se no chi sa qual diluvio di lacrime
sarebbe adesso la separazione.
Hotspur - (Esaminando la mappa)
Mi pare che la parte a me assegnata
a nord di Burton, qui, su questa mappa,
non sia eguale, quanto ad estensione,
ad alcuna delle vostre altre due.
Ecco, guardate: quest’ansa di fiume
taglia via un’enorme mezzaluna
di terra dalla mia parte migliore:
una mutilazione inconcepibile!
Sarò costretto a sbarrar la corrente
del fiume in questo punto,
e far sì che il tranquillo argenteo Trent
scorra placido e piano in nuovo letto,
eliminando così questa curva
che mi defrauda di sì ricca piana.
Glendower - La curva?... Ma ci vuole quella curva
al Trent. È necessaria. Deve farla.
Mortimer - (A Hotspur)
Infatti. E vedo poi come il suo corso
prosegue disegnando un’altra curva
dall’altra parte, che avvantaggia te,
perché si mangia, dalla riva opposta,
quanto sottrae a te la prima curva.
Worcester - Eppoi con poca spesa
si può sbarrare il fiume in questo punto
e guadagnar questa lingua di terra
a nord, a da quel punto convogliarlo
per un percorso dritto e pianeggiante.
Hotspur - Farò così, sarà spesa da poco.
Glendower - Ma io non voglio deviarlo, il fiume.
Hotspur - Ah, no?
Glendower - Non voglio, e tu non lo farai.
Hotspur - C’è chi potrà impedirmelo?
Glendower - Sì, io.
Hotspur - Meglio ch’io non intenda quel che dici.
Parla gallese.
Glendower - So parlare inglese,
come lo parli tu, signore mio.
Son cresciuto alla corte d’Inghilterra,
da giovane, ed ho composto là,
in inglese, da accompagnar con l’arpa,
più d’un mottetto di buona fattura
che ha reso nuova grazia a quella lingua,
dote che in te non trovò mai nessuno.
Hotspur - E ch’io son lieto di non possedere
con tutto il cuore, per la Santa Vergine.
Preferirei piuttosto essere un gatto,
e andare miagolando giorno e notte,
che non uno di questi versaioli
trafficanti di ballatette in rima.
È più dolce al mio orecchio lo stridio
d’un doppiere d’ottone sotto il torchio
o il cigolar sull’asse d’una ruota
male ingrassata: ché nulla di questo
mi farebbe allegare tanto i denti
quanto ascoltare le svenevolezze
sdolcinate di certa poesia:
è come udire il passo affaticato
d’un ronzino che strascica gli zoccoli.
Glendower - Va bene, via, fa’ deviare il Trent.
Hotspur - Non me ne importa niente. Sono pronto
a regalar tre volte tanta terra,
in amicizia, ad uno che lo meriti;
però in via di baratto, statti accorto,
so spaccare il capello in nove parti.
Sono stati stilati gli strumenti?
Si parte?
Glendower - C’è una bella luna chiara,
potrete cavalcare anche di notte.
Vado a sollecitare lo scrivano
e ad informare nello stesso tempo
le vostre mogli che siete partiti.
Mia figlia, temo, avrà una crisi isterica
innamorata com’è del suo Mortimer.

(Esce)
Mortimer - Evvia, cugino Percy! Che maniera
di stare sempre a contraddir mio suocero?
Hotspur - Non so che fare. Talvolta mi stizza
col venirmi vicino a raccontare
la storia della talpa e la formica,
o quella del lunatico Merlino
e le sue profezie,
del dragone e del pesce senza pinne,
del grifone dall’ali smozzicate,
o del corbaccio che muta le penne,
o del vecchio leone accovacciato,
o del gatto rampante, e che so io,
tante altre fanfaluche come queste,
che mi mettono fuori dalla grazia.
Ieri sera, ad esempio - senti questa -,
m’ha trattenuto fin quasi alle nove
ad elencarmi i nomi, ad uno ad uno,
dei diavoli che dice suoi lacchè.
Io sbottai alla fine: “Uhm, va’ là!”
senza averne capito una parola.
Ah, credimi, è stucchevole
come un cavallo che ha mangiato troppo ,
come una moglie piena di puntigli,
peggio d’una stamberga affumicata!
Meglio campare d’aglio e di formaggio
dentro un mulino a vento in capo al mondo,
che mangiar bene ed aver lui accanto
a raccontarmi quelle sue scempiaggini,
nella più bella abitazione estiva
di tutta la cristianità. Alla larga.
Mortimer - In fede mia, è un degno gentiluomo,
d’eccellenti letture, assai versato
in certe strane discipline occulte,
coraggioso come un leone, affabile
e conversevole oltre ogni dire,
prodigo come una miniera d’India ;
eppoi, cugino, te lo voglio dire,
ha gran rispetto per il tuo carattere
tanto da raffrenare in sé gli impulsi,
che pure gli verrebbero istintivi
quando vede che tu lo contraddici.
Ti dico che è così, parola mia.
Non c’è nessuno al mondo, t’assicuro,
che l’avrebbe potuto provocare
come l’hai fatto tu,
senza provar sapore di pericolo
o d’acerba rampogna; ma ti prego,
fa in modo di non abusarne troppo.
Worcester - È vero, mio signore:
tu fai mostra con lui di troppa asprezza,
e da quando sei qui,
hai fatto tutto per esasperarlo.
Devi correggerti assolutamente
d’un tal difetto; ché s’anche talvolta
esso è segnale di grandezza d’animo,
di coraggio e di buon temperamento
- e questo è il più pregevole ornamento
ch’esso ti conferisce - troppo spesso
rivela rugginosa ostilità,
mancanza di civile educazione,
insufficiente dominio di sé,
superbia, tracotanza, presunzione,
alterigia, disprezzo per il prossimo:
tutti vizi dei quali anche il più lieve,
quando è presente in un uomo di rango,
gli allontana le simpatie di tutti
e lascia dietro a sé una tale traccia
che macchia tutte l’altre belle doti,
rubando ad esse la debita lode.
Hotspur - Bene, mi son beccato la lezione.
Buon pro vi faccia la vostra creanza!
Ecco le nostre mogli;
convien da loro prendere congedo.

Entra Glendower con Lady Mortimer e Lady Percy
Mortimer - Ecco: m’indispettisce mortalmente
che mia moglie non sappia una parola
del mio inglese, e io del suo gallese.
Glendower - (A Mortimer, indicando Lady Mortimer che piange)
Mia figlia piange; non ti vuol lasciare;
vuole arruolarsi; venire alla guerra.
Mortimer - Buon padre, dille ch’ella e la zia Percy
ci seguiranno presto insieme a te.

(Glendower dice qualcosa in gallese alla figlia, che gli risponde
in gallese)
Glendower - Non vuol saperne di restare a casa,
e si dispera, questa riottosa,
testarda ed egoista pazzerella.

(Lady Mortimer dice qualcosa in gallese al marito, che non
capisce)
Mortimer - Io capisco il linguaggio dei tuoi occhi:
quel grazioso gallese
che versi da codesti cieli gonfi,
è linguaggio che so fin troppo bene,
e se non fosse che n’ho un po’ vergogna,
anch’io con esso ti risponderei .
(Lady Mortimer gli dice ancora qualcosa in gallese)
Io capisco il linguaggio dei tuoi baci,
e tu quello dei miei,
e questo è il nostro colloquiar con l’anima.
Ma non sarò un alunno negligente,
amore mio, perché voglio impararlo
codesto tuo linguaggio: in bocca a te
il gallese è una musica soave,
una canzone altamente ispirata
suonata da una splendida regina
sul tocco carezzante d’un liuto
sotto un bel pergolato un dì d’estate.
Glendower - Eh, se ti sciogli in certe tenerezze,
davvero adesso me la fai impazzire!

(Lady Mortimer dice ancora qualcosa in gallese, che Mortimer
non capisce, ed esclama:)
Mortimer - Ah, non capisco! Che ignorante sono!
Glendower - Ti chiede di adagiarti mollemente
su questa morbida stuoia di giunco
e di posare il capo nel suo grembo,
mentr’ella canterà la tua canzone,
quella che più ti piace,
a incoronare sopra le tue palpebre
il dio del sonno, incantando il tuo sangue
in un dolce torpore
tale da fare che tra veglia e sonno
sia come il tempo tra il giorno e la notte
un’ora prima che il carro celeste
cominci a oriente il dorato cammino.
Mortimer - Con tutto il cuore: mi metterò qui
seduto, ad ascoltar la sua canzone;
nel frattempo, sarà finita, spero,
la stesura dei nostri documenti.

(Si siede per terra, col capo poggiato sul grembo della moglie,
anch’essa seduta )
Glendower - Fate così, e i musici
che dovranno suonare qui per voi
già si libran nell’aria
mille leghe lontano, ma in un attimo
saranno qui. Sedete ed ascoltate.
Hotspur - Vieni anche tu, Catina,
tu sei perfetta nel metterti giù.
Vieni, su, presto, presto,
ch’io riposi il mio capo sul tuo grembo .
Lady percy - Oh, sta’ fermo, va’ via, papero pazzo!

(Egli la prende di forza per i polsi, ella si dibatte, poi cede; si siedono
entrambi a terra sui giunchi, e lui le posa il capo in grembo, mentre
Glendower dice qualcosa in gallese e una musica suona all’interno)
Hotspur - Oh, il diavolo capisce anche il gallese,
a quanto pare; e non c’è da stupirsene,
d’altra parte, lunatico com’è.
Ed è buon musicista, per la Vergine!
Lady percy - Allora dovresti essere tutto musica,
tu, che sei governato dalle lune.
Sta’ buono, ora, brigante,
sentiamo come canta in buon gallese
la dama.
Hotspur - La mia “Dama”,
preferirei sentire, la mia cagna ,
guaire in irlandese.
Lady percy - Vuoi star zitto?
Vuoi che ti rompa la testina?
Hotspur - No.
Lady percy - E allora zitto.
Hotspur - No, nemmeno questo:
è un difettuccio delle donne, questo.
Lady percy - Bene. Dio t’accompagni.
Hotspur - Al letto, sì, della dama gallese.
Lady percy - Che cosa dici?
Hotspur - Silenzio, ella canta.

(Lady Mortimer intona una canzone in gallese)

Catina, anche da te
voglio sentir cantare una canzone.
Lady percy - Oh no, in fede mia!
Hotspur - “In fede mia! “...
Tesoro mio, tu giuri alla maniera
della moglie del pasticcere all’angolo:
“Non tu, in fede mia”; “Iddio m’assista”;
“Com’è vero che sono viva e vegeta”;
“Lampante come la luce del giorno”,
e via dicendo: un modo di giurare
ch’esprime una certezza di taftà ,
d’una che non s’è mai allontanata
dal suo quartiere in tutta la sua vita .
Giurami un giuramento , mia Catina,
quale s’addice alla dama che sei,
di quelli che riempiono la bocca,
e lascia gli smielati “in fede mia”
e simili espressioni in panpepato
alle dame guarnite di velluto
ed ai borghesi in abito da festa .
Avanti, canta.
Lady percy - Ho detto che non voglio.
Hotspur - Eppure è questa la via più spedita
per imparare a diventare sarti
o insegnare a cantare ai pettirossi.
Se son pronti i contratti,
entro due ore io sarò partito,
e tu potrai seguirmi quando vuoi.
Glendower - Su, su, lord Mortimer; sei lento a muoverti
per quanto è ansioso e sempre sulla brace
il focoso Lord Percy. Il nostro patto
a quest’ora sarà stata stilato,
non dobbiamo far altro che siglarlo,
e via a cavallo.
Hotspur - Sì, non vedo l’ora!.

(Escono)
SCENA II - Londra, il palazzo reale.

Entrano Re Enrico, il Principe di Galles e nobili

Enrico - Signori, con licenza,
vogliate allontanarvi per un poco
da qui: il Principe di Galles ed io
dobbiamo intrattenerci qualche istante
in privato colloquio;
ma vi prego di non andar lontano,
fra poco avremo bisogno di voi.
(Escono i nobili)
Non so se sia la volontà di Dio,
per qualche mia azione a Lui sgradita,
o per imperscrutabil suo decreto,
ch’io generassi dal mio stesso sangue
la Sua vendetta e la mia punizione:
perché tu, con la vita che conduci
mi fai pensare che Dio t’ha segnato
per esser la cocente Sua vendetta,
la sua celeste verga,
a punizione dei peccati miei.
Se no, spiegami tu
come voglie così smodate e basse,
prodezze così ignobili e meschine,
spassi così sfacciati, da dementi,
compagnie così rozze e grossolane
come quelle che tu vai frequentando
quasi ad esse innestato,
si potrebbero mai accompagnare
alla regal grandezza del tuo sangue
e star al pari del tuo cuor di principe.
Principe - Con la licenza dell’altezza vostra,
di tutte queste accuse
vorrei potermi scagionare in pieno
con una chiara giustificazione
così come son certo
di potermi lavare da me stesso
di molte delle quali mi si biasima.
Pure, lasciatemi impetrar da voi,
dopo ch’io v’abbia dimostrate false
molte calunnie fabbricate ad arte
che troppo spesso l’orecchio dei grandi
deve ascoltar da sorridenti bocche
di sicofanti e bassi ciarlatani,
di poter io trovar da voi perdono,
per alcune mie colpe, queste sì,
di cui la mia sfrenata giovinezza
si sente pienamente consapevole.
Enrico - Ti voglia perdonare prima Iddio.
Ma come posso non meravigliarmi,
Harry, di queste tue inclinazioni
che van battendo l’ali sì lontano
dal cammino seguìto dai tuoi avi?
Hai perduto il tuo seggio nel Consiglio
per l’incivile tuo comportamento,
e s’è dovuto mettere al tuo posto
tuo fratello più giovane;
alla corte ti sei quasi alienato
tutti i cuori, così come anche quelli
di tutti i tuoi principeschi parenti.
Le speranze e le promettenti attese
della tua giovinezza son distrutte,
e tutti ormai, con spirito profetico,
non fan che presagir la tua caduta.
S’io fossi stato, come lo sei tu,
così consueto gli occhi della gente,
mi fossi reso così frusto e trito
e svilito per basse compagnie,
senza dubbio la pubblica opinione
che mi spianò la strada alla corona
si sarebbe tenuta ancor fedele
a colui che la deteneva prima,
e me avrebbe ancor lasciato al bando,
da uomo oscuro e privo d’ogni credito
e d’ogni prospettiva di successo.
Al contrario, mostrandomi di rado,
mai s’incontrò ch’io apparissi in pubblico
senz’essere guardato con stupore
e meraviglia, come una cometa.
E chi, indicandomi, diceva ai figli.
“Eccolo, è lui!”, chi chiedeva al vicino
avidamente: “Dove? Qual’è Bolingbroke?”
Ed io, rubando al cielo le sue grazie,
mi rivestivo di tale umiltà
da strappare obbedienza ai loro cuori
e osanna alle lor bocche,
anche in presenza dello stesso re.
Ho serbato così agli occhi loro
la mia persona sempre fresca e nuova,
la mia apparizione alla lor vista
preziosa come il manto d’un pontefice
che mai si vede senza meraviglia;
e così la regale mia presenza,
infrequente, ma sempre assai sontuosa,
assumeva un carattere di festa
più solenne per quanto più infrequente.
Il re, al contrario, frivolo com’era,
coll’andar sgambettando a destra e a manca
attorniato da insulsi perdigiorno
o da scapati spiriti salaci,
frascame presto acceso e presto spento,
scardassava la propria dignità
col mischiare la sua regal persona
a quella di grotteschi giocolieri
lasciando profanar dai loro lazzi
il suo grande casato,
e dando questo in pasto ai miagolii
di volgari e sboccati monellacci,
sopportando frecciate e doppi sensi
dal primo scriteriato sbarbatello,
associandosi a gente d’ogni risma,
vassallo della popolarità;
tantoché, ingoiato a sazietà
un giorno dopo l’altro, dai loro occhi,
finì per satollarli di quel miele,
e quelli si ridussero a schifare,
come sempre succede, quel dolciume
di cui appena più del poco è troppo.
Così, quando sorgeva alcun motivo
ch’egli apparisse ufficialmente in pubblico,
era per lui come il cuculo a giugno,
che canta, ma nessuno ci fa caso;
guardato, ma da occhi così stanchi
e resi ciechi dalla consuetudine
da non attrarre più sopra di sé
gli sguardi di stupita meraviglia
che attira il sole della maestà
quando splende di rado
all’ammirata vista della gente:
guardato, ma da palpebre assonnate,
che gli dormivano perfino in faccia,
o gli facevano ostentatamente
quell’aria corrucciata che hanno gli uomini
quando sono davanti ad un nemico,
tanto sazi eran tutti, anzi stuccati
ormai della sua vista.
Tale è la tua precisa situazione,
Harry, perché con questa tua condotta
hai perduto la tua prerogativa
di principe associandoti ogni giorno
a sì volgari e basse compagnie.
E non c’è occhio che della tua vista
non sia stuccato, tanto gli è consueta,
salvo purtroppo il mio,
che avrebbe invece assai desiderato
di vederti più spesso, e che, ahimè,
fa ora quel che non vorrei facesse
lasciandosi accecare
da lacrime di sciocca tenerezza.
Principe - Mi sforzerò, grazioso mio signore,
d’ora in avanti d’esser più me stesso.
Enrico - Quale sei oggi tu, per tutto il mondo,
era Riccardo , quando dalla Francia
rimisi piede a Ravenspurgh,
e quel ch’io ero allora è oggi Percy.
Ebbene, giuro su questo mio scettro
e sull’anima mia che più degno
di regger questo regno egli è di te,
che della mia successione sei l’ombra;
perché pur non avendone diritto
né lontana parvenza di diritto,
egli riempie i campi del reame
d’uomini armati ed ordigni di guerra,
leva il capo contro le fauci armate
del leone, e pur non essendo in debito
cogli anni più di quanto lo sia tu,
riesce a trascinare dietro di sé
anziani pari e reverendi vescovi
in cruente battaglie e duri scontri.
Quale gloria perenne
non s’è egli acquistata combattendo
contro l’illustre Douglas, le cui gesta,
le cui brucianti ardite scorribande
ed il gran nome nel mestier dell’armi
gli han guadagnato un grado eminentissimo
e il supremo comando
presso tutti gli eserciti dei regni
che riconoscono la fede in Cristo.
Tre volte questo Hotspur,
questo infante guerriero, un Marte in fasce,
ha sconfitto in battaglia il grande Douglas;
una volta l’ha preso prigioniero,
l’ha liberato e se l’è fatto amico
per dar più forte voce alla sua sfida
tesa a scrollare dalla fondamenta
la pace e la salute del mio trono.
Che dici tu, davanti a tutto questo?
Questo Percy, Northumberland suo padre,
sua grazia l’arcivescovo di York,
Mortimer, Douglas sono ora alleati
contro di noi e son già scesi in armi...
Oh, ma perché ti dico queste cose?...
Perché parlare a te dei miei nemici,
a te che sei, Harry, il più vicino
e il più crudele di questi nemici?
A te, che sei tal uomo,
che per servil paura o basso istinto,
o per un semplice accesso di stizza,
saresti anche capace di combattere
contro di me al soldo di quel Percy,
strisciargli alle calcagna come un cane,
inchinandoti ad ogni suo cipiglio,
ansioso di mostrare avanti a tutti
fino a che punto sei degenerato?
Principe - Non pensatelo questo. Non sarà.
Lo vedrete. Dio voglia perdonare
a chi ha tanto da me allontanato
il buon giudizio di vostra maestà.
Di tutto questo mi redimerò
con la testa di Percy,
e al tramonto d’un giorno vittorioso
oserò di chiamarmi vostro figlio:
avrò indosso un vestito tutto sangue,
ed una maschera di sangue in faccia
che, lavata, porterà via con sé
l’ultima traccia della mia vergogna.
E sarà il giorno - quando sia per sorgere -
in cui questo rampollo dell’onore
e della fama, questo prode Hotspur,
questo tanto osannato cavaliere
e il vostro oscuro ed ignorato Enrico
si saranno incontrati faccia a faccia.
Vorrei che diventasse moltitudine
ogni onore che splende sul suo elmo,
e che si raddoppiasse sul mio capo
ogni vergogna, perché verrà l’ora
ch’io questo baldo giovane del nord
costringerò a scambiare le sue glorie
con le mie indegnità.
Percy non è che il mio depositario,
mio buon signore, al quale ho dato incarico
d’incettare per me gesta gloriose,
di cui lo chiamerò a un certo punto
a rendere sì rigoroso conto
che dovrà cedermi tutta la gloria,
sì, signore, anche l’ultima
infinitesima parte d’onore
guadagnata in tutta sua vita,
o sarò io col filo della spada
a strappargli dal cuore questo conto .
Questo, davanti Dio, qui vi prometto;
e s’Ei così vorrà, lo adempirò;
e supplico la vostra maestà
di ritenere questa mia promessa
balsamo a risanare le ferite
della trascorsa mia dissolutezza.
Se no, che sia la fine di mia vita
a sanare ed estinguere ogni debito;
ch’io vo’ morir di centomila morti
prima d’infrangere di questo voto
la più piccola parte.
Enrico - E sia questo tuo voto
morte per centomila rivoltosi!
Avrai in questa guerra
il comando supremo dell’esercito
e la piena fiducia del tuo re.

Entra sir Walter Blunt

Che c’è, Blunt? I tuoi occhi
mi pare che trabocchino d’urgenza.
Blunt - Ed urgente è l’annuncio per cui vengo:
Lord Mortimer di Scozia fa sapere
che l’undici di questo mese, a Shrewsbury,
Douglas s’è unito ai rivoltosi inglesi.
Se le promesse saran mantenute
dalle due parti, avran formato insieme
il più potente e temibile esercito
che mai tramò ai danni d’uno Stato.
Enrico - Lord Westmoreland è già da oggi in marcia
coi nostri, ed è con lui anche mio figlio
Giovanni di Lancaster; la notizia
è già vecchia di almeno cinque giorni.
Tu, Harry, partirai mercoledì,
giovedì ci mettiamo in marcia noi.
Il nostro appuntamento è a Bridgenorth;
e, Harry, andrai per la contea di Gloucester;
sicché, a conti fatti,
e calcolando il tempo necessario
a sbrigare gli affari sottomano,
tutte le nostre forze
potran trovarsi concentrate a Bridgenorth
fra circa dodici giorni da oggi.
Abbiam le mani cariche d’impegni,
ed ogni nostro indugio
non fa che rimpinguare il lor vantaggio.

(Escono)
SCENA III - La taverna “Alla testa di cinghiale” a Eastcheap, prima mattina.

Entrano Falstaff, con una mazza ferrata alla cintola, e Bardolfo

Falstaff - Bardolfo, che ne dici, non ti pare
ch’io sia pietosamente dimagrito
dopo l’ultima nostra spedizione?
Non son calato? Diventato minzo?
Guarda, toh! Ho la pelle che mi casca
manco fosse la gonna sbrindolata
d’una vecchi matrona; sono vizzo
come la scorsa d’una mela secca .
Bah, devo fare proprio contrizione...
e subito finché mi trovo in carne,
perché presto sarò ridotto male
e non avrò nemmeno più la forza
per pentirmi. Se non mi son scordato
com’è fatto l’interno d’una chiesa
sono una nullità , un cavallo bolso .
L’interno d’una chiesa... Eh, che rovina.
sono state le male compagnie!
Bardolfo - Sir John, ma voi con tutti questi crucci
che vi date, non camperete molto.
Falstaff - Eh, sì, è vero. Su, cantami tu
allora qualche oscena canzoncella
che mi rimetta un poco in allegria.
Io ero un tipo incline alla virtù,
come convien che sia un gentiluomo,
virtuoso, voglio dire, quanto basta:
qualche bestemmia ogni tanto; coi dadi
non più di sette volte a settimana ,
non andavo al bordello
più d’una volta ogni quarto...
Bardolfo - Di luna ?
Falstaff - ... d’ora. I quattrini che prendevo a prestito
tre, quattro volte li ho restituiti .
Vivevo bene, insomma, e in buona regola;
adesso vivo fuor d’ogni misura,
e maledettamente fuori squadra.
Bardolfo - È che voi siete, sir John, così grasso
che per forza dovete essere fuori
da ogni ragionevole misura
Falstaff - Tu pensa ad emendare la tua faccia,
io penso ad emendare la mia vita.
Perché con quel tuo naso
tu sei come la lampada di poppa
dell’ammiraglia della nostra flotta:
il Cavalier della lampada ardente .
Bardolfo - Evvia, sir John, non v’ha mai fatto male.
questa mia faccia.
Falstaff - Ah, questo no, lo giuro.
Io mi servo di essa
come tanti si servon d’un anello
con la testa di morto, ovverossia
ne faccio l’uso d’un memento mori :
ché non posso guardare la tua faccia
senza pensare al fuoco dell’inferno
ed al ricco epulone del Vangelo
ch’era vissuto sempre nella porpora
ed ora eccolo lì, sulla tua faccia
che brucia e brucia nei suoi paramenti.
Se per caso tu fossi in qualche modo
una persona incline alla virtù,
sulla tua faccia ci potrei giurare:
“Giuro su questo fuoco” - giurerei -
ch’esso è quello d’un angelo di Dio”.
Ma tu sei tutto in potere del diavolo,
e se non fosse per quella lanterna
che porti sempre accesa sulla faccia,
saresti il figlio della super-tenebra.
Quando correvi su per la collina
di Gadshill, l’altra notte,
per andare a riprendermi il cavallo,
se non ti presi per un fuoco fatuo
o una palla infuocata da battaglia ,
al mondo non c’è più moneta buona .
Oh, tu sei proprio una luce perpetua,
un eterno falò. Con la tua luce
m’hai fatto risparmiare mille marchi
in torce e fiaccole, quando, di notte
passavamo da una taverna all’altra:
anche se tutto il vin secco di Spagna
che ti sei tracannato a spese mie
m’avrebbe consentito di comprare
a pari prezzo una serqua di lumi
dalla più cara cereria d’Europa.
Per ben trentadue anni ho mantenuto
la salamandra di quella tua faccia,
alimentandola a fuoco continuo,
che Dio Signore me ne renda merito!
Bardolfo - Sangue di Cristo, nella vostra pancia
dovreste averla voi questa mia faccia!
Falstaff - Misericordia di Dio! Di sicuro
brucerei tutto dentro dalla rabbia !

Entra l’ostessa Quickly

Ebbene, Donna Partlett la pollastra ,
siete poi riuscita ad accertare
chi è stato a ripulire la mia tasca?
Ostessa - Oh, che mi dite mai, Sir John, sir John!
Io, tener dei marioli in casa mia?
Ho frugato, cercato, interrogato,
e così ha fatto pure mio marito
con tutti i miei garzoni, ad uno ad uno.
Mai finora è mancata in casa mia
la millesima parte d’un capello.
Falstaff - Bugiarda d’un’ostessa! In questa casa
Bardolfo ci si fece far la barba
e perse più d’un pelo; e a me, qui dentro,
giuro che m’han ripulito le tasche.
Va’ là, va’ là, che sempre donna siete!
Ostessa - Che, io? Allora non mi conoscete !
Per la luce di Dio! Nessuno mai
m’ha chiamata così, in casa mia!
Falstaff - Va’ là, ch’io vi conosco troppo bene!
Ostessa - No, sir John, non mi conoscete affatto,
sir John, ma io conosco voi, sir John!
Voi mi dovete un bel po’ di quattrini,
e adesso m’attaccate briga apposta
per non restituirmeli, sir John!
Ho comprato per voi, di tasca mia,
una buona dozzina di camicie.
Falstaff - Robaccia, sporca tela di Bretagna.
L’ho regalata a mogli di fornai
perché ce ne facessero setacci.
Ostessa - Ah, che devo sentire! Quella roba,
com’è vero ch’io son donna per bene,
era finissima tela d’Olanda,
roba da otto scellini la canna!
Ed oltre a questo mi dovete ancora,
sir John, altro danaro per il vitto,
per le vostre bevute fuori pasto
e per quel prestituccio che v’ho fatto:
venticinque sterline, cavaliere!
Falstaff - (Indicando Bardolfo)
C’era anche lui. Che paghi la sua parte.
Ostessa - Lui? Poveretto, se non ha un quattrino!
Falstaff- “Poveretto?” Guardategli la faccia.
E chi chiamate ricco voi, allora?
Si può batter moneta con quel naso,
con quelle guance là. Per conto mio,
io non vi pago il becco un quattrino.
E che! Non sono mica un giovincello!
Ch’io non mi possa mettere a mio agio
tra le pareti della mia locanda
senza aver le mie tasche ripulite?
Ho perduto un anello di mio nonno,
un anello con tanto di sigillo,
quaranta marchi almeno di valore.
Ostessa - O Gesù! Ma non so quante mai volte
ho udito il Principe che gli diceva
che quell’anello era rame placcato!
Falstaff - Ah, sì, eh? Il principe è una canaglia,
un subdolo furfante. Fosse qui,
Sangue di Cristo, lo bastonerei
come un cane, se ripetesse questo!

Entra il Principe DI Galles, dietro di lui Peto; Falstaff va
loro incontro fingendo di suonare il piffero col bastone che ha alla
cintola, come a volerne accompagnare scherzosamente la marcia.
Falstaff - Beh, ragazzo, qual vento
spira da quella porta? Tutti in marcia ?
Bardolfo - Tutti in fila per due, come a Newsgate .
Ostessa - (Al Principe)
Monsignore, di grazia, una parola...
Principe - Oh, sì, madama Quickly, che mi dici?
Come sta di salute tuo marito?
Gli voglio bene, gran brava persona.
Ostessa - Mio buon signore, vogliate ascoltarmi...
Falstaff - Lasciala andare. Ascolta me piuttosto.
Principe - Che hai da dirmi, cocco?
Falstaff - L’altra sera mi sono addormentato
qui, dietro quell’arazzo, ed al risveglio
mi trovo borseggiato. Questa casa
è diventata un bordello: ci rubano.
Principe - Perché, ti manca qualche cosa, cocco?
Falstaff - Mi crederai, Hal, se te lo dico?
Tre o quattro obbligazioni del Tesoro
di quaranta sterline cadauna
e l’anello a sigillo di mio nonno.
Principe - Robetta, forse un otto pence in tutto.
Ostessa - Così gli ho detto anch’io, signore mio,
e che avevo sentito dir da voi
la stessa cosa; ma lui, monsignore,
parlò di voi nel modo più villano
da quella gran malalingua che è,
e disse che v’avrebbe bastonato.
Principe - Ha detto questo? No, non è possibile!
Ostessa - Se non è verità, potete dire
che in me non c’è più fede, verità
ed essenza di donna.
Falstaff - In quanto a fede,
non ce n’è in te sicuramente più
che in una prugna cotta ; e verità
quanta ce n’è in una volpe stanata;
e quanto poi all’essenza di donna,
la Pulzella Marianna , al tuo confronto
potrebb’esser la moglie intemerata
del vice capitano delle guardie.
Va’, va’, roba...
Ostessa - Che roba, di’, che roba?
Falstaff - Roba da farsi il segno della Croce !
Ostessa - Io non son roba da segno di Croce,
tienilo bene in mente!
Son la moglie d’un uomo rispettabile;
e tu, a parte il tuo cavalierato,
sei un infame a trattarmi così!
Falstaff - E tu, a parte il tuo essere donna,
sei una bestia a contraddirmi sempre.
Ostessa - E che bestia sarei per te, furfante?
Falstaff - Che bestia? Beh, una lontra.
Principe - E perché mai, sir John? Perché una lontra?
Falstaff - Perché come una lontra,
non si sa se sia carne o se sia pesce,
ed uno non sa mai come pigliarla.
Ostessa - Siete davvero ingiusto a dir così,
perché voi stesso, come chiunque altro,
sapete bene da che parte prendermi.
Principe - Parole sante, Ostessa! È una calunnia
questa che lui ti fa.
Ostessa - E come me,
anche calunnia vostra signoria.
Sapete che m’ha detto giorni fa?
Che voi dovete a lui mille sterline.
Principe - Gaglioffo, io mille sterline a te?
Falstaff - Macché mille, un milione me ne devi,
Hal, tanto vale l’amor tuo per me,
e di tanto mi sei tu debitore!
Ostessa - No, monsignore, vi chiamò canaglia,
e disse che v’avrebbe bastonato.
Falstaff - Bardolfo, ho detto questo?
Bardolfo - Eh, sì, sir John,
l’avete detto, ad essere sinceri.
Falstaff - Sì, ma sempre che lui avesse detto
che il mio anello era fatto di rame.
Principe - E così ho detto e ripeto: è di rame.
Confermi adesso quelle tue parole?
Falstaff - Beh, Hal, lo sai: con te in quanto uomo,
io del coraggio ce n’avrei da vendere;
ma di te come principe reale,
ho paura, così come ho paura
del ruggito d’un cucciolo leone.
Principe - D’un leone, perché?
Falstaff - Il re è leone:
solo di lui si deve aver paura.
Credi forse ch’io possa aver
la paura che ho del re tuo padre?
No, e se mai accada,
pregherò Dio che mi faccia spezzare
questa cintura .
Principe - Oh, chi sa che spettacolo,
la cintura spezzata, e le budella
che ti cascano giù fino ai ginocchi!
Ma in codesto tuo torso non c’è posto
per fede, verità ed onestà,
piena com’è di trippa e di budella.
Accusare una sì virtuosa donna
d’averti ripulito le saccocce!
Ma, screanzato figlio di puttana,
farabutto imbottito di grassume,
se nelle tasche tue non c’era altro
che un ciarpame di conti d’osteria,
e liste di bordelli, e un cartoccetto
con dentro un soldo di zucchero d’orzo
per tirarti su il fiato!
Se puoi provarmi che nelle tue tasche
oltre a questo ci fosse ancor dell’altro,
io sono una carogna imbalsamata!.
E ciò malgrado, insisti a contraddire
e ti rifiuti d’intascare il torto.
Non ti vergogni?
Falstaff - Hal, stammi a sentire:
tu sai in quale stato d’innocenza
cadde in peccato Adamo;
e che può fare il povero John Falstaff
in quest’epoca di ribalderia?
Tu lo vedi, ho io più carne addosso
di qualsiasi altro misero mortale,
e dunque pure più fragilità.
Confessi allora d’esser stato tu
ad aver ripulito le mie tasche?
Principe - Così parrebbe, a rigore di cronaca.
Falstaff - Quand’è così, Ostessa, ti discolpo.
Va’, pensa a preparar la colazione,
ad amar tuo marito,
a sorvegliare la tua servitù
e a trattare a dovere i tuoi clienti.
Mi troverai disposto d’ora innanzi
ad ogni ragionevole argomento.
Vedi che sono rappacificato.
No, ti prego, ora va’.

(Esce l’Ostessa)

Ed ora, Hal,
veniamo alle notizie dalla corte:
come si mette, cocco, la faccenda
della rapina?
Principe - Eh, mio dolce bue,
debbo ancora una volta essere io
il tuo angelo buono.
Quel denaro sarà restituito.
Falstaff - Ah, quest’usanza di restituire
non mi va a genio: è una doppia fatica .
Principe - Adesso sono in buona con mio padre,
posso permettermi qualunque cosa.
Falstaff - E permettiti, come prima cosa,
di sgraffignargli allora lo scacchiere ,
senza nemmeno stare a perder tempo
a lavarti le mani.
Bardolfo - Oh, sì, signore!
Fatelo.
Principe - (A Falstaff)
Vecchio John, t’ho procurato
un grado in una compagnia di fanti.
Falstaff - Meglio fossero stati cavalieri.
(Tra sé)
Dove lo trovo in mezzo a quelli un tipo
che sappia ben rubare ?
Mi servirebbe un ladruncolo in gamba,
d’età sui ventidue, o giù di lì.
Sono sguarnito in modo vergognoso .
Per fortuna ci son questi ribelli...
solo i virtuosi ce l’hanno con loro:
io li lodo e li approvo.
Principe - Bardolfo.
Bardolfo - Mio signore?
Principe - (Consegnandogli due lettere)
Questa lettera al principe di Lancaster,
mio fratello Giovanni, di carriera;
quest’altra a lord Westmoreland.
Noi due, Peto, a cavallo! Trenta miglia
dobbiamo fare entro l’ora di pranzo.
(A Falstaff)
Jack, ti farai trovare a Temple Hall
domani, per le due del pomeriggio:
Là ti diran la tua destinazione,
riceverai denaro ed istruzioni
per l’equipaggiamento della truppa.
La terra brucia, Percy alza la cresta
sempre più in alto; adesso o noi o loro:
uno dei due dovrà cadere in basso.

(Esce)
Falstaff - Parole sante! Mondo coraggioso!
Ostessa, presto, la mia colazione!
Ah, se questa taverna
potesse diventare il mio tamburo !

(Esce)