ROBERT MUSIL

I TURBAMENTI DEL GIOVANE TÖRLESS II


[5]

Nei giorni seguenti la questione sembrò quasi dimenticata. Reiting, tranne che alle lezioni e a tavola, quasi non si vedeva, Beineberg era più taciturno che mai, e Törless evitava continuamente di meditare su quella storia.
Basini si muoveva tra i compagni come se niente fosse accaduto.

Era un po' più alto di Törless, ma di complessione molto debole, aveva movenze molli e indolenti e una fisionomia effeminata. La sua intelligenza era scarsa, in scherma e in ginnastica era uno degli ultimi, però aveva un certo garbo insinuante che lo rendeva simpatico. Da Bo_ena a suo tempo c'era andato solo per darsi l'aria dell'uomo fatto: dato il ritardo del suo sviluppo fisico, c'era da pensare che una vera sensualità gli fosse ancora del tutto ignota. Gli appariva piuttosto una necessità, una cosa opportuna e doverosa, che alla sua persona non mancasse, agli occhi degli altri, un alone di esperienze galanti. Il momento più bello, per lui, era quando lasciava Bo_ena e tutto era finito, giacché l'unica cosa che gli interessava era possedere un ricordo.
A volte, per vanità, diceva pure delle bugie. Così tornava da ogni vacanza con i ricordi di qualche avventuretta: nastri, riccioli, letterine. Ma una volta che si era portato nella valigia una giarrettiera, una piccola giarrettiera celeste graziosa e profumata, e poi s'era scoperto che questa non apparteneva ad altri che alla sua sorellina dodicenne, era stato molto canzonato per quella ridicola vanteria.
L'inferiorità morale di cui dava prova e la sua stupidità avevano la medesima radice: non era in grado di resistere a nessun impulso, e le conseguenze lo sorprendevano ogni volta. In questo somigliava a certe donne dalla fronte incorniciata di graziosi ricciolini che a ogni pasto somministrano al marito una dose di veleno e poi ascoltano sbigottite e stupefatte le dure, inconsuete parole del pubblico accusatore e la sentenza di morte.

Törless lo evitava. E così a poco a poco sfumò anche l'intimo sgomento che sulle prime l'aveva tanto scosso, attanagliandolo quasi alla radice dei suoi pensieri. Intorno a lui la ragione riprese il sopravvento; lo sconcerto diminuì e divenne ogni giorno più irreale, come le tracce di un sogno che non trovano spazio nel solido mondo concreto rischiarato dal sole.
Per sentirsi ancor più sicuro di questo stato d'animo raccontò ogni cosa in una lettera ai suoi genitori. Solo di quel che aveva provato lui non fece parola.
S'era di nuovo convinto che, nonostante tutto, la cosa migliore fosse insistere, alla prima occasione, per l'allontanamento di Basini dall'istituto. Non poteva nemmeno immaginare che i suoi genitori fossero di un altro parere. Si aspettava da loro un severo e sdegnato giudizio su Basini, quasi il gesto di scoccar via costui con la punta delle dita come un insetto immondo che non si può tollerare vicino al proprio figlio.
Niente di tutto questo nella lettera che ricevette in risposta. I genitori s'erano onestamente sforzati di soppesare da persone ragionevoli tutte le circostanze, nella misura in cui potevano farsene un'idea in base alle notizie sconnesse e smozzicate di quella lettera frettolosa. Il risultato era che loro preferivano il giudizio più indulgente e moderato, tanto più che, probabilmente, la descrizione del loro figliolo conteneva qualche esagerazione dovuta al suo rigorismo giovanile. Essi perciò approvavano la decisione di dar modo a Basini di correggersi, ed esprimevano il parere che non fosse lecito compromettere il futuro di una persona per un piccolo fallo. Tanto più - e questo, com'era giusto, lo sottolineavano con particolare insistenza - che in quel caso non s'aveva a che fare con persone mature ma con animi ancora teneri, in via di formazione. Nei confronti di Basini, certo, si doveva mostrare comunque rigore e severità, ma si doveva anche trattarlo con benevolenza e cercare di correggerlo. Suffragarono quest'opinione con tutta una serie di esempi che Törless conosceva perfettamente. Lui ricordava bene, infatti, che molti ragazzi delle prime classi - quando la direzione amava ancora mostrarsi di una severità draconiana e poneva limiti rigorosi alle piccole somme a disposizione dei cadetti - spesso non sapevano trattenersi dall'elemosinare dai più fortunati tra quei piccoli ghiottoni che tutti loro erano un pezzo di panino col prosciutto o altre cose del genere. Neanche lui era sempre stato immune da questo difetto, anche se allora nascondeva la propria vergogna dietro gli insulti alla dura e incomprensiva direzione. E non doveva solo agli anni ma anche ai severi quanto bonari ammonimenti dei suoi genitori se un po' alla volta aveva imparato a far prevalere il suo amor proprio su siffatte debolezze.
Ma oggi tutte queste argomentazioni non ebbero effetto.
Certo doveva ammettere che i suoi genitori, sotto molti aspetti, avevano ragione, e sapeva pure che ben difficilmente si poteva ben giudicare così da lontano: alla loro lettera tuttavia sembrava mancare qualcosa di ben più importante.
Era la capacità di capire che era successo qualcosa di irreparabile, qualcosa che tra le persone di un certo ceto non dovrebbe mai succedere. Mancavano lo stupore e la costernazione. Loro parlavano come se quella fosse una cosa normale, da sistemare con tatto senza farne un dramma. Una macchia, non certo bella ma anche inevitabile, come i quotidiani bisogni corporali. Neanche l'ombra, in loro come in Beineberg e Reiting, di un atteggiamento più personale e allarmato.
Törless avrebbe potuto far buon viso anche a quelle parole. E invece strappò la lettera in pezzi minuti e la bruciò. Era la prima volta in vita sua che veniva meno in quel modo alla pietà filiale.
Era stata scatenata in lui una reazione opposta a quella voluta. In contrasto con l'atteggiamento conciliante che gli veniva proposto, gli s'era ripresentato di colpo l'aspetto problematico, equivoco del fallo di Basini. Si disse, scrollando la testa, che bisognava pensarci ancora, pur non sapendo in alcun modo spiegarsene il perché...
La cosa più strana era quando considerava tutto ciò più fantasticando che riflettendo. Allora Basini gli appariva comune, semplice, preciso nei suoi tratti come dovevano vederlo i suoi genitori e i suoi amici; un attimo dopo scompariva per poi tornare, tornare di continuo sotto forma di una figurina minuscola che riluceva ogni tanto contro uno sfondo lontanissimo...


[6]

Una volta, di notte - era molto tardi, e ormai tutti dormivano - Törless fu scosso dal sonno.
Sull'orlo del suo letto sedeva Beineberg. Il fatto era tanto insolito che lui capì subito che doveva trattarsi di qualcosa di particolare.
"Alzati. Ma non far rumore, che nessuno si accorga di noi. Si va di sopra, devo raccontarti una cosa."
Törless si vestì alla meglio, si gettò sulle spalle il cappotto e s'infilò le pantofole...
Di sopra Beineberg rimise a posto con cura particolare tutti gli ostacoli e poi preparò del tè.
Törless, che aveva ancora le membra intorpidite dal sonno, si lasciò pervadere con un senso di benessere da quel calore dorato e aromatico. S'accucciò in un angolo e si fece piccolo: s'aspettava una sorpresa.
Infine Beineberg disse: "Reiting ci tradisce."
Törless non si sentì affatto stupito. Gli parve ovvio che quella storia dovesse avere un seguito più o meno del genere; anzi, aveva quasi l'impressione di non aver aspettato che quello. Involontariamente disse: "Me l'ero immaginato!"
"Davvero? Immaginato? Accorto però non ti eri di niente, eh? Non sarebbe proprio da te."
"Infatti, non ho notato niente; d'altra parte non m'ero più curato della faccenda."
"Ma in compenso sono stato bene attento io. Ho diffidato di Reiting fin dal primo giorno. Lo sai, no, che Basini mi ha restituito i soldi? E prendendoli dove, secondo te? Dalle sue tasche?... No."
"E tu pensi che qui ci sia lo zampino di Reiting?"
"Di sicuro." Sulle prime Törless pensò soltanto che ora anche Reiting s'era invischiato in una storia del genere.
"Credi dunque che Reiting, come Basini ... ?"
"Ma che vai a pensare! Reiting ha semplicemente sborsato di tasca sua il necessario perché Basini potesse pagare il debito che aveva con me."
"Non riesco proprio a capire perché l'avrebbe fatto."
"Neanch'io ci sono riuscito per un bel po'. Comunque avrai notato anche tu che Reiting fin dall'inizio è intervenuto a favore di Basini. Tu, quella volta, avevi perfettamente ragione: la cosa più naturale sarebbe stata che quell'individuo venisse buttato fuori. Ma io non mi sono schierato di proposito con te, perché mi son detto: devo vedere cosa c'è sotto. È vero che non so esattamente se lui, allora, avesse già delle intenzioni precise o se volesse solo aspettare il momento opportuno, quando fosse stato sicuro di Basini una volta per tutte. Comunque, so come stanno le cose oggi."
"E cioè?"
"Aspetta, non si può mica raccontarlo in due parole. Tu la conosci, no?, la storia che è successa nel collegio quattro anni fa?"
"Quale storia?"
"O bella! Quella tale storia!"
"Solo vagamente. So soltanto che allora c'è stato un grande scandalo per certe porcherie e che s'è dovuta mandar via per punizione un sacco di gente."
"Ecco, proprio di questo parlavo. Ne ho saputo qualcosa di più una volta, durante le vacanze, da uno che aveva fatto parte di quella classe. Avevano con sé un bel ragazzino, e molti se n'erano innamorati. La cosa non ti riuscirà nuova, perché succede tutti gli anni. Quelli là però avevano ecceduto."
"Come?"
"Be'... come! Non far domande stupide! E lo stesso fa Reiting con Basini."
Törless capì cosa c'era fra quei due e si sentì la gola ruvida, come piena di sabbia.
"Non l'avrei detto, di Reiting!" Non seppe dir niente di meglio. Beineberg alzò le spalle.
"Crede di poterci ingannare."
"È innamorato?"
"Manco per sogno. Non è mica così sciocco. La cosa lo diverte, tutt'al più gli eccita i sensi."
"E Basini?"
"Quello? Non ti sei accorto com'è diventato insolente negli ultimi tempi? Da me non si lascia più dire quasi niente. Ha in bocca solo Reiting... come se quello fosse il suo santo patrono. Meglio, avrà pensato, subire tutto da uno che qualcosa da tutti. E Reiting gli avrà promesso di proteggerlo se lui si piega a tutte le sue richieste. Ma vedranno che si sono sbagliati, e Basini lo rimetterò in riga io!"
"Come te ne sei accorto?"
"Una volta li ho seguiti."
"Dove?"
"Qui accanto, nel solaio. Reiting aveva avuto da me la chiave dell'altro ingresso. Io allora sono venuto qui, ho sgombrato pian piano il buco e strisciando sono arrivato fino a loro."
Nella sottile parete divisoria che separava lo stanzino dal solaio era stato aperto un varco, largo giusto perché una persona potesse infilarcisi. Avrebbe dovuto servire da uscita di sicurezza nel caso che li si fosse sorpresi, e di solito lo chiudevano dei mattoni che vi venivano spinti dentro.
Era sopravvenuto un lungo silenzio, in cui si coglieva solo il crepitio del tabacco.
Törless non riusciva a pensare a niente. Vedeva... vedeva come di colpo, dietro le palpebre abbassate, un folle mulinello di eventi... persone; persone violentemente illuminate, con luci vivide e ombre inquiete, fonde; visi... un viso; un sorriso... un batter di ciglia... un brivido a fior di pelle; vedeva persone, ma come non le aveva mai viste né colte prima: le vedeva senza vedere, senza figure, senza immagini, come se a vederle fosse soltanto la sua anima; erano così nitide che veniva penetrato in mille modi dalla loro intensità: ma quelle, come fermandosi davanti a una soglia che non potevano varcare, si ritraevano non appena lui cercava d'impadronirsi di loro. Non poté fare a meno di chiedere ancora. La voce gli vibrava.
"E... hai visto?"
"Sì."
"E... com'era Basini?"
Ma Beineberg tacque, e di nuovo si sentì soltanto l'irrequieto sfrigolio delle sigarette. Solo dopo un lungo silenzio Beineberg riprese a parlare.
"Ho riflettuto sulla faccenda per ogni verso, e tu sai che qui io la penso in un modo tutto mio. Per quanto riguarda Basini, innanzitutto, direi che di lui non c'è da preoccuparsi in nessun caso. Sia che lo denunciamo subito o che lo picchiamo o che, per nostro puro divertimento, lo torturiamo a morte. Perché io non riesco a figurarmi che un essere simile possa significare qualcosa nel mirabile meccanismo dell'universo. A me pare creato solo per caso, fuori dal programma. Cioè, un significato deve pur averlo anche lui, ma di sicuro irrilevante, al pari di un verme o di un sasso sulla strada, che non sappiamo se scansare o calpestare. E questo è come dire niente. Perché se l'anima universale vuole che una delle sue parti sopravviva, si esprime in modo più chiaro. Dice di no e crea una resistenza, ci fa scansare il verme e dà al sasso una durezza tale che non riusciamo a spaccarlo senza un attrezzo: e prima che noi ce lo siamo procurato lei ha frapposto da un pezzo le resistenze di una quantità di piccoli e tenaci scrupoli; e se noi superiamo questi, la cosa, appunto, aveva già in partenza un altro significato.
"Nel caso di un essere umano, questa durezza lei la pone nel suo carattere, nella sua coscienza di uomo, nel senso di responsabilità che gli viene dall'essere una parte dell'anima universale. Ora, se un uomo perde questa coscienza perde anche se stesso. Ma quando un uomo ha perso se stesso, ha perso il tratto specifico, peculiare per cui la natura l'ha creato uomo. E non si può mai essere sicuri come in questo caso d'aver a che fare con qualcosa di superfluo, con un guscio vuoto, con qualcosa che è già stato abbandonato da un pezzo dall'anima universale."
Törless non sentì in sé nessuna obiezione. Del resto non era stato gran che attento. Fino ad allora non aveva avuto occasione di dedicarsi a simili elucubrazioni metafisiche, né si era mai chiesto come a una persona dell'intelligenza di Beineberg potessero venire in mente idee del genere. L'intero problema insomma non era ancora entrato nell'orizzonte della sua esistenza.
Per questo non si curava nemmeno di verificare il senso di quanto Beineberg esponeva; ascoltava distrattamente e basta. Solo, non sapeva come si potesse partire da tanto lontano. Lui era tutto un fremito, e la pedanteria con cui Beineberg andava a pescare chissà dove i suoi pensieri gli appariva ridicola, inopportuna, e lo spazientiva. Ma Beineberg continuò con calma: "Quanto a Reiting, invece, le cose stanno ben diversamente. Anche lui, con quel che ha fatto, s'è messo nelle mie mani, ma la sua sorte non mi è certo indifferente come quella di Basini. Tu sai che sua madre non ha un gran patrimonio: quindi, se lui viene cacciato dal collegio ciò significa la fine di tutti i suoi progetti. Partendo da qui potrà concludere qualcosa, in caso contrario non avrà certo molte occasioni. E Reiting non mi ha mai potuto... capisci?... mi ha odiato... prima d'ora ha tentato di danneggiarmi dove e come poteva... credo che ancor oggi sarebbe contento se potesse disfarsi di me. Lo, vedi, adesso, cosa non potrei fare grazie a questo segreto che ho in mano?..."
Törless trasalì. Ma in uno strano modo, come se la sorte di Reiting colpisse lui stesso. Alzò sgomento lo sguardo su Beineberg. Questi aveva chiuso gli occhi a eccezione di una piccola fessura, e gli fece l'effetto di un grosso ragno sinistro, tranquillamente in agguato al centro della sua rete. Agli orecchi di Törless le sue ultime parole suonarono fredde e chiare come le condizioni di un ultimatum.
Non aveva seguito i discorsi precedenti, s'era detto soltanto: Beineberg sta parlando di nuovo delle sue idee che non hanno niente a che vedere con la faccenda... E ora tutt'a un tratto non sapeva come si fosse arrivati a quel punto. La tela, che pure era stata tessuta partendo da un qualche punto esterno, astratto, come lui ricordava, doveva essersi chiusa improvvisamente, con fantastica rapidità, perché di colpo era là concreta, viva, reale, e dentro si dibatteva una testa, il collo stretto nel laccio.
Non amava affatto Reiting, ma ora gli venne in mente la maniera amabile, insolente, scanzonata con cui quello imbastiva tutti i suoi intrighi, e Beineberg gli apparve invece osceno in quel suo atto di avviluppare l'altro tranquillamente, sogghignando, nella rete grigia, schifosa, tentacolare dei suoi pensieri.
Senza volerlo l'investì: "Non devi servirtene contro di lui!" Probabilmente aveva agito qui anche la sua costante, segreta avversione per Beineberg.
Ma Beineberg disse lui stesso, dopo breve riflessione: "E a che scopo del resto? Per lui sì che sarebbe un peccato. Tanto, d'ora in avanti non può più nuocermi comunque, ed è un tipo troppo in gamba per farlo inciampare in una simile sciocchezza." Questa parte della questione era così sistemata. Ma Beineberg continuò a parlare, e ora tornò a discutere la sorte di Basini.
"Tu sei dunque del parere che dobbiamo denunciarlo?" Ma Törless non rispose. Voleva sentir parlare Beineberg, le sue parole gli giungevano come passi rintronanti sotto le volte di un regno sotterraneo, e lui voleva assaporare fino in fondo quella situazione.
Beineberg seguì il filo dei suoi pensieri. "Io direi di tenerlo in mano nostra, per ora, e di punirlo noi stessi. Perché punito dev'essere, se non altro per la sua impudenza. Quelli del collegio tutt'al più lo espellerebbero scrivendo una lunga lettera a suo zio sull'accaduto... lo sai, più o meno, in che modo burocratico funziona la cosa: Eccellenza, Suo nipote s'è lasciato trasportare... traviare... riconsegniamo a Lei... confidiamo che a Lei riesca... la retta via... impossibile per ora che lui e gli altri... e così via. Forse che un caso simile ha un qualche valore o interesse per loro?"
"E per noi che valore deve avere?"
"Che valore? Per te forse nessuno, perché tu un giorno diventerai consigliere di corte o scriverai poesie: tu di questo non hai bisogno, anzi, forse ne hai persino paura. Ma io la mia vita la vedo diversamente!"
Törless questa volta si fece attento.
"Per me Basini un valore ce l'ha, e molto grande anche. Difatti, guarda: tu lo lasceresti semplicemente perdere e ti metteresti il cuore in pace dicendoti che era un essere indegno." Törless trattenne un sorrisetto. "Tu così saresti a posto, perché non hai né talento né interesse a trarre ammaestramento da un caso simile. Io quest'interesse ce l'ho. Quando si ha davanti una strada come la mia, bisogna considerare gli uomini in un modo tutto diverso. Così voglio tenermi Basini per averne un insegnamento."
"Ma in che modo pensi di punirlo?"
Beineberg fece attendere un momento la sua risposta, come se stesse ancora valutando l'effetto che c'era da aspettarsene. Poi disse cautamente, esitando: "Sbagli se credi che a me importi tanto del castigo. Certo, alla fine un castigo bisognerà pur proporlo... ma, per farla breve, io ho in mente qualcos'altro; voglio... sì, insomma... tormentarlo."
Törless si guardò dal far parola. Ancora non ci vedeva chiaro, ma sentiva che questa piega delle cose era quella che per lui - per il suo intimo - esse dovevano prendere. Beineberg, che non riusciva a capire quale effetto avessero sortito le sue parole, proseguì: "Non occorre che tu ti spaventi, non è poi così grave. Innanzitutto, come t'ho spiegato, con Basini non c'è da farsi nessuno scrupolo. La decisione di tormentarlo o magari di risparmiarlo va cercata solo nella necessità che noi sentiamo dell'una o dell'altra cosa, nei nostri motivi interiori. Tu ne hai? Le storie di moralità, società eccetera, che hai tirato in ballo l'altra volta, naturalmente non contano: spero anzi che tu stesso non ci abbia mai creduto. Quindi c'è da supporre che tu sia indifferente. Comunque puoi ancora tirarti fuori dall'intera faccenda se non vuoi rischiare niente.
"La mia strada invece non tornerà indietro né scanserà questa storia ma ci passerà giusto in mezzo. Non può essere altrimenti. Neanche Reiting mollerà, perché anche per lui ha un valore particolare tenere in pugno una persona e potersi esercitare a usarla come uno strumento. Lui cerca il dominio, e farebbe a te quello che fa a Basini se per caso la stessa occasione si presentasse con te. Per me invece si tratta di qualcosa di più ancora, quasi di un debito verso me stesso. Come posso spiegarti questa differenza tra noi? Tu sai quanto Reiting ammiri Napoleone: be', tieni presente invece che l'uomo che io preferisco a ogni altro somiglia più a un filosofo, a un santone indiano. Reiting sacrificherebbe Basini senza provare nient'altro che un certo interesse. Lo farebbe moralmente a pezzi per sapere a cosa si dev'essere preparati nell'affrontare simili imprese. E, come t'ho detto, lo farebbe a te o a me come a Basini, senza esserne minimamente toccato. Io invece sento, proprio come te, che dopotutto Basini è anche un essere umano. Anche in me c'è qualcosa che viene ferito se commetto una crudeltà. Ma proprio di questo si tratta: di un vero e proprio sacrificio! Vedi, anch'io sono legato a due fili: a questo qui, indefinito, che in contrasto con la mia chiara convinzione mi vincola a un'inerzia prodotta dalla pietà, ma anche a un altro, che va dritto alla mia anima, ai ' frutti di una conoscenza profonda, e mi tiene avvinto al cosmo. Esseri come Basini, ti dicevo, non significano niente... un guscio vuoto, casuale. I veri uomini son solo quelli che riescono a penetrare in se stessi, uomini cosmici capaci di scendere in profondità, fino a scorgere il proprio legame col grande processo dell'universo. Questi compiono miracoli a occhi chiusi perché sanno utilizzare tutta la forza del cosmo, che è in loro come fuori di loro. Ma tutti gli uomini che hanno seguito fin là il secondo filo hanno prima dovuto spezzare l'altro. Ho letto di spaventose penitenze compiute da monaci illuminati, e i sistemi usati dai santoni indiani, del resto, non sono del tutto ignoti neanche a te. Tutte le cose crudeli che avvengono in questo processo hanno solo lo scopo di uccidere le brame miserabili rivolte al mondo esterno, le quali, siano esse fame o vanità, piacere o compassione, non fanno che distogliere dal fuoco che ognuno è in grado di suscitare dentro di sé.
"Reiting conosce solo il di fuori, io seguo il secondo filo. Adesso lui, agli occhi di tutti, si trova in vantaggio perché la mia strada è più lunga e più insicura. Ma io posso superarlo di colpo, come si supera un verme. Vedi, si sostiene che il mondo è retto da leggi meccaniche che non si possono mutare di una virgola. Questo è falso, lo dicono solo i libri di scuola! Il mondo esterno, certo, è ostinato, e sulle sue cosiddette leggi, entro certi limiti, non si può influire, però ci sono stati uomini a cui questo è riuscito. Sta scritto in testi sacri che sono stati sottoposti a molte verifiche ma di cui i più non sanno niente. Da questi io so che ci sono stati uomini capaci di muovere le pietre, l'aria e l'acqua con un semplice moto della loro volontà, uomini davanti alle cui preghiere nessuna forza della terra era abbastanza salda. Ma anche questi sono soltanto i trionfi esteriori dello spirito. Perché chi riesce a vedere del tutto la propria anima si libera della propria esistenza corporea, che è solo casuale. Nei libri sta scritto che uomini simili sono entrati direttamente in un regno superiore delle anime."
Beineberg parlava con assoluta serietà, dominando appena la propria eccitazione. Törless tenne quasi ininterrottamente gli occhi chiusi; si sentiva addosso il fiato di Beineberg e l'aspirava come un narcotico paralizzante. Intanto Beineberg era avviato alla conclusione del suo discorso:
"Puoi vedere, quindi, di cosa si tratti per me. L'impulso che vuol convincermi a lasciar perdere Basini è di origine bassa ed esteriore. Obbediscigli tu, se vuoi. Per me è un pregiudizio di cui mi devo liberare come di tutto quello che mi distoglie dal mio cammino verso le profondità del mio animo.
"Proprio il fatto che mi riesca penoso torturare Basini - intendo umiliarlo, calpestarlo, allontanarlo da me - proprio questo è un bene. Richiede un sacrificio, e avrà un effetto purificatore. Io sono debitore a me stesso dell'ammaestramento che il suo caso mi fornisce, e cioè che il semplice essere uomini non significa proprio niente... una pura, scimmiottesca somiglianza esteriore."
Törless non capiva tutto quanto. Ebbe solo, un'altra volta, la sensazione che un laccio invisibile si fosse improvvisamente stretto in un nodo tangibile e mortale. Le ultime parole di Beineberg gli lasciarono dentro un'eco: "Una pura, scimmiottesca somiglianza esteriore," si ripeté. Ciò sembrava attagliarsi anche ai suoi rapporti con Basini. Il fascino singolare che questi esercitava su di lui non stava forse in simili visioni? Semplicemente nel fatto che non riusciva a calarsi col pensiero dentro l'altro e quindi ne coglieva sempre un'immagine vaga? Quando, poco prima, s'era figurato Basini non aveva scorto dietro il suo un secondo viso evanescente, di una somiglianza tangibile che tuttavia non si riusciva a collegare a nient'altro?
Fu così che Törless, anziché riflettere sui singolari progetti di Beineberg, cercò, mezzo stordito dalle sue nuove, strane impressioni, di veder chiaro in se stesso. Si ricordò del pomeriggio che aveva preceduto la sua conoscenza del fallo di Basini. A ben guardare quelle visioni c'erano già allora. C'era sempre stato qualcosa che i suoi pensieri non riuscivano a esaurire. Qualcosa che appariva tanto semplice e tanto strano. Aveva visto immagini che pure non erano immagini. Davanti a quelle casupole, e persino quand'era nella pasticceria assieme a Beineberg.
Erano somiglianze, e insieme, incolmabili diversità. E quel gioco, quella prospettiva segreta e del tutto personale, l'aveva eccitato.
E adesso un essere umano s'impossessava di ciò. Tutto, ora, s'era incarnato in una persona, diventando reale. Così l'intera singolarità della cosa si travasava in quella persona. Così passava dalla fantasia alla vita e diventava minacciosa...
Le emozioni avevano stancato Törless, i suoi pensieri ormai si concatenavano senza coerenza.
Ricordava solo che non doveva lasciarsi sfuggire quel Basini, che costui era destinato ad avere anche per lui una grande importanza, già vagamente intuita.
E intanto scuoteva meravigliato la testa ogni volta che pensava alle parole di Beineberg. Anche lui...?
Lui non può cercare le stesse cose che cerco io, eppure proprio lui ha trovato la definizione giusta.
Törless sognava più che pensare. Non era più in grado di distinguere il suo problema psicologico dalle fantasticherie di Beineberg. Alla fine ebbe solo la sensazione che l'immenso laccio stringesse sempre più forte ogni cosa.
Il colloquio non ebbe seguito. Spensero la luce e sgattaiolarono nel loro dormitorio.


[7]

I giorni seguenti non portarono nessuna risoluzione. A scuola c'era molto da fare, Reiting evitava prudentemente ogni incontro a quattr'occhi e anche Beineberg scansò nuovi scambi d'idee.
Così avvenne che in quei giorni l'accaduto, come un fiume frenato nel suo corso, scavò sempre più in profondità nell'animo di Törless, imprimendo ai suoi pensieri una direzione irreversibile.
In tal modo cadde definitivamente il proposito di allontanare Basini. Törless si sentiva per la prima volta tutto preso da se stesso, incapace di pensare ad altro. Anche Bozena gli era divenuta indifferente; quel che aveva provato per lei gli si mutò in un ricordo fantastico, che ora veniva scalzato da serie riflessioni.
Del resto, anche questa serietà sembrava non meno fantastica.

Immerso nei suoi pensieri, Törless se n'era andato a passeggiare da solo nel parco. Era l'ora del mezzogiorno, e il sole dell'autunno avanzato stendeva pallidi ricordi su prati e viottoli. Poiché, nella sua inquietudine, non aveva più voglia di proseguire la passeggiata, Törless si limitò a fare il giro dell'edificio e poi si gettò tra l'erba scolorita e frusciante, ai piedi del muro laterale quasi privo di finestre. Sopra di lui si stendeva il cielo, tinto dell'azzurro sbiadito e sofferente che è proprio dell'autunno; nuvolette bianche, a fiocchi, l'attraversavano veloci.
Törless giaceva sul dorso e guardava ammiccando, perso in vaghe fantasticherie, tra le chiome già mezze spoglie di due alberi che gli stavano davanti.
Pensò a Beineberg. Che individuo singolare era quello, però! Le sue parole sarebbero state al loro posto dentro un tempio indiano in rovina, in compagnia di idoli sinistri e di serpenti incantatori acquattati in profonde fessure: che ci facevano in pieno giorno, nel collegio, nell'Europa moderna? E tuttavia quelle parole, dopo essersi snodate all'infinito in mille giri tortuosi come una strada senza fine né prospettiva, sembravano esser giunte a un tratto dinanzi a una meta raggiungibile...
E all'improvviso si accorse - e gli parve che ciò avvenisse per la prima volta - di quanto alto fosse il cielo.
Fu come un trasalimento. Proprio sopra di lui brillava tra le nuvole un piccolo buco azzurro, indicibilmente profondo.
Gli sembrava quasi che con una scala lunga lunga dovesse esser possibile entrarvi. Ma quanto più vi si addentrava, sollevandosi con gli occhi, tanto più il vivido fondo azzurro si ritraeva. Eppure appariva possibile raggiungerlo una volta e fermarlo con gli sguardi. Questo desiderio divenne tormentosamente acuto.
Era come se la vista aguzzata all'estremo scoccasse, come frecce, sguardi tra le nuvole ma facesse ogni volta, per quanto lontano mirasse, un tiro troppo corto.
Törless si mise a meditare su questo fatto; si sforzò di restare più calmo e ragionevole che poteva. "Davvero non c'è fine," si disse, "avanti, e poi ancora avanti, all'infinito." Teneva gli occhi fissi sul cielo e recitava queste parole come se si trattasse di provare l'efficacia di una formula magica Ma senza successo: le parole non dicevano niente, o meglio dicevano qualcosa di affatto diverso, come se parlassero sì della stessa cosa, ma di un altro lato di essa, estraneo, indifferente.
"L'infinito!" Törless conosceva questa parola dalle lezioni di matematica, e non gli aveva mai detto nulla di particolare: ricorreva continuamente, qualcuno una volta l'aveva inventata e da allora era possibile farci dei calcoli come con un qualsiasi dato concreto; era ciò che di volta in volta valeva nel calcolo, e al di là di questo Törless non aveva mai cercato altro.
E adesso lo colpì come una scarica il pensiero che in questa parola c'era qualcosa di paurosamente inquietante. Gli pareva un concetto addomesticato con cui avesse fatto ogni giorno i suoi giochetti d'abilità e a cui ora fosse stata sciolta la catena. Una realtà che andava oltre l'intelletto, selvaggia, devastatrice, sembrava essere stata addormentata dal lavoro di un qualche inventore, e adesso, all'improvviso, era tornata in sé e produceva di nuovo i suoi frutti. Stava là, viva, in quel cielo sopra di lui e minacciava e scherniva.
Alla fine chiuse gli occhi perché quella vista lo tormentava troppo.

Quando di lì a poco fu risvegliato da una folata di vento che frusciò tra l'erba appassita quasi non sentì il proprio corpo. Gli saliva dai piedi una gradevole frescura che gli inchiodava le membra in uno stato di dolce torpore. Al trasalimento di prima s'era mescolata una sensazione di levità e di spossatezza. Si sentiva ancora incombere sopra il cielo, gigantesco e silenzioso, ma ora ricordò quanto spesso avesse già provato una simile impressione, e come in un dormiveglia riandò tutti quei ricordi e si sentì inviluppato nel tessuto delle loro relazioni.
C'era, intanto, quel ricordo d'infanzia in cui gli alberi si levavano muti e severi come uomini stregati. Già allora doveva aver provato il sentimento destinato a tornare poi tanto spesso. Persino in quei pensieri che gli erano venuti da Bo_ena c'era un po' di questo, una sensazione particolare, un presentimento che significava più di quanto quelli non dicessero. E quel momento di silenzio nel giardino, di là dalle finestre della pasticceria, prima che scendessero i veli scuri della sensualità, anche quello era stato così. E Beineberg e Reiting erano divenuti spesso, per la frazione di un secondo, esseri sconosciuti, irreali. E Basini infine? L'idea di quel che stava accadendo di costui aveva spaccato in due Törless: a tratti era sensata e normale, a tratti avvolta in quel silenzio balenante d'immagini che era comune a tutte queste impressioni, che a poco a poco era filtrato nelle percezioni di Törless e ora di colpo pretendeva d'esser considerato, proprio come poc'anzi l'idea dell'infinito, una realtà viva e concreta.
Törless ormai sentiva che ciò lo stringeva da ogni parte. Come un fascio di forze lontane e oscure incombeva da sempre, certo: ma lui se n'era ritratto spontaneamente, sfiorandolo solo di tanto in tanto con un'occhiata spaurita. Ora però un caso, un evento aveva acuito e attirato su ciò la sua attenzione, e come obbedendo a un segnale quel qualcosa irrompeva da ogni parte, trascinandosi dietro un immenso sconcerto che ogni istante tornava a far dilagare.
Lo prese una specie di mania di percepire cose, eventi e persone come qualcosa di ambivalente, come realtà che la forza di chissà quali inventori tenesse legate a parole inoffensive e chiarificatrici e come elementi affatto estranei, che da quelle parole minacciavano continuamente di staccarsi.
Certo: per ogni cosa esiste una spiegazione semplice e ovvia, e anche Törless lo sapeva, ma con sua trepida meraviglia questa sembrava strappare solo un involucro superficiale senza mettere a nudo l'interno, che Törless, quasi con occhi divenuti innaturalmente penetranti, vedeva sempre balenare al di là come una seconda natura.
Così se ne stava steso per terra ed era tutto inviluppato in ricordi da cui germogliavano come fiori esotici strani pensieri. Si affollavano in una ressa frastornante i momenti che nessuno dimentica, le situazioni in cui vien meno il nesso che di solito permette alla nostra vita di rispecchiarsi senza vuoti nel nostro intelletto, come se questo e quella corressero l'uno accanto all'altra, alla stessa velocità, su due linee parallele.
Il ricordo del silenzio così paurosamente immobile e immerso in tristi colori di certe sere s'alternava di colpo alla torrida, vibrante irrequietezza di un pomeriggio d'estate che una volta gli aveva sfiorato caldo l'anima come con le rapidissime zampette di una frotta di lucertole iridescenti.
Poi, tutt'a un tratto, gli tornò in mente un sorriso di quel piccolo principe: uno sguardo, un gesto - il giorno che era finito il loro accordo interiore - con cui quello s'era liberato in un solo, lieve colpo della rete di relazioni che Törless gli aveva tessuto intorno, ed era entrato in una lontananza nuova, ignota, che - quasi concentrata nella vita di un istante indescrivibile - gli s'era inaspettatamente spalancata davanti. Poi vennero ancora ricordi del bosco... della vita tra i campi. Poi una visione silenziosa - in una stanza immersa nel crepuscolo, a casa - che più tardi gli aveva ricordato all'improvviso il suo amico perduto. Gli tornarono in mente le parole di una poesia...
E ci sono anche altre cose in cui tra il vivere e il comprendere regna quest'incommensurabilità. Avviene però sempre che quel che noi viviamo, indiviso e senza interrogativi, in un attimo, divenga incomprensibile e confuso quando vogliamo imprigionarlo con le catene dei pensieri per farne un nostro possesso duraturo. E quel che appare estraneo all'uomo e grande finché le nostre parole cercano di coglierlo da lontano diventa semplice e perde quanto ha d'inquietante non appena entra nel campo d'azione della nostra vita.

E così tutti quei ricordi ebbero a un tratto in comune lo stesso mistero. Quasi fossero strettamente connessi, gli stavano tutti davanti, così nitidi che pareva di toccarli.
Ad essi, a suo tempo, s'era accompagnata una sensazione oscura alla quale lui non aveva fatto molto caso.
Proprio questa l'assorbiva ora. Gli venne in mente che una volta, mentre si trovava con suo padre davanti a uno di quei paesaggi, aveva esclamato all'improvviso: che bello! e poi aveva reagito con un senso d'imbarazzo al compiacimento di suo padre. Infatti avrebbe anche potuto dire: che triste! Quel che lo tormentava era un'inadeguatezza delle parole, la coscienza vaga che le parole erano solo sbocchi fortuiti delle sue sensazioni.
E oggi ricordò quell'episodio, ricordò le parole e, nitidamente, quell'impressione di mentire senza sapere come mai. Nel ricordo il suo occhio ripercorreva tutta la scena ma ogni volta ne usciva senza una soluzione. Un sorriso di esultanza per la ricchezza delle sue idee, conservato come per distrazione, fu a poco a poco attraversato da una venatura quasi impercettibile di sofferenza...
Sentiva il bisogno di cercare senza sosta un ponte, un legame, un confronto fra se stesso e quel che stava, muto, dinanzi alla sua mente.
Ma ogni volta che un pensiero lo tranquillizzava ecco ripresentarsi quell'incomprensibile obiezione: tu menti. Era come se avesse da eseguire una divisione senza fine da cui continuasse a saltar fuori ostinatamente un resto, o come se si affannasse con gesti febbrili, ferendosi le dita, a sciogliere un interminabile nodo.
E alla fine cedette. La ressa dei pensieri premeva da tutte le parti, i ricordi ingigantirono in un'innaturale deformazione.
Aveva rivolto di nuovo gli occhi verso il cielo, come se, chissà, fosse ancora possibile strappargli con l'aiuto del caso il suo segreto e indovinare, guardandolo, quel che ovunque lo sconcertava. Ma la stanchezza lo vinse, e una sensazione di profonda solitudine si abbatté su di lui. Il cielo taceva. E Törless sentì di essere completamente solo sotto quella volta immobile e muta, si sentì come un bruscolo vivo sotto quell'immane salma trasparente.
Ma ciò non lo spaventava quasi più. Come un antico dolore ormai familiare, adesso quella sensazione gli si era diffusa per tutte le membra.
Gli pareva che la luce avesse preso un riflesso lattiginoso e gli danzasse davanti agli occhi come una nebbia pallida e fredda.
Adagio, con precauzione, girò la testa e si guardò attorno per rendersi conto se davvero tutto fosse cambiato. E così il suo sguardo sfiorò per caso il muro grigio senza finestre che gli stava dietro la testa. Pareva che si fosse piegato su di lui e lo guardasse in silenzio. Ogni tanto ne pioveva un fruscio, e una vita inquietante si destava nella parete.
Aveva teso spesso l'orecchio a questi fremiti su nel nascondiglio, quando Beineberg e Reiting sciorinavano il loro mondo fantastico e se n'era compiaciuto come di una strana musica d'accompagnamento a uno spettacolo grottesco.
Ora però lo stesso giorno chiaro sembrava essersi trasformato in un nascondiglio senza fondo, e il silenzio palpitante circondava Törless da tutte le parti.
Non riusciva a distogliere il capo. Vicino a lui, in un angolo umido e scuro, il farfaro cresceva rigoglioso offrendo tra le sue ampie foglie fantastici nascondigli alle chiocciole e ai bruchi. Törless sentì il battito del proprio cuore. Poi ecco di nuovo un lieve bisbiglio, uno scroscio serpeggiante... E questi rumori erano l'unica cosa viva in un mondo muto, senza tempo...


[8]

Il giorno dopo Beineberg era con Reiting quando Törless si avvicinò a loro.
"Ho già parlato con Reiting," disse Beineberg, "e abbiamo stabilito ogni cosa. Tu, già, di queste faccende non ti preoccupi."
Dì fronte a quella svolta improvvisa Törless si sentì montare entro un senso di rabbia e di gelosia, ma non capì se fosse il caso di accennare in presenza di Reiting al colloquio notturno. "Be', avreste almeno potuto chiamare anche me, visto che a questa faccenda sono interessato né più né meno che voi."
"E l'avremmo anche fatto, caro Törless," s'affrettò a dire Reiting, che evidentemente questa volta ci teneva a evitare inutili difficoltà, "ma non si riusciva a trovarti, e poi contavamo sul tuo assenso. Ad ogni modo, cosa ne dici di Basini?" (Non una parola di scusa, come se il suo contegno fosse perfettamente ovvio).
"Cosa ne dico? Be', che è un essere spregevole," rispose Törless imbarazzato.
"Vero? Proprio spregevole."
"Anche tu però ne combini di belle!" E Törless sorrise un po' forzatamente, perché si vergognava di non provare nei confronti di Reiting uno sdegno maggiore.
"Io?" Reiting alzò le spalle. "E cosa c'è? Bisogna provarle tutte, e dal momento che lui è così stupido e abbietto..."
"Gli hai più parlato da allora?" s'intromise Beineberg a questo punto.
"Sì, ieri sera è stato da me e mi ha chiesto dei soldi perché ha di nuovo dei debiti che non riesce a pagare."
"Glieli hai già dati?"
"No, non ancora."
"Molto bene," osservò Beineberg, "così abbiamo bell'e pronta l'occasione che cercavamo per acciuffarlo. Potresti dirgli di venire questa sera in qualche posto."
"Dove? Nello stanzino?"
"Direi di no, perché di quello, per ora, non deve saper niente. Però ordinagli di venire su in solaio, dove sei stato con lui quella volta."
"Per che ora?"
"Diciamo... alle undici."
"Bene. Facciamo altri quattro passi?"
"Sì. Törless dovrà studiare ancora un po', vero?"
Törless in realtà non aveva più niente da fare, ma capì che i due avevano in comune altre cose che gli volevano nascondere. Si stizzì del suo amor proprio, che gli impediva di imporre la sua presenza.
Così li seguì con uno sguardo ingelosito facendo le più disparate congetture su ciò che quei due potevano concertare in segreto.
Lo colpì, guardandoli, l'amabilità e l'innocenza che trasparivano dal portamento sciolto ed eretto di Reiting: proprio come dalle sue parole. E per contrasto cercò di figurarselo come doveva essere stato quella sera: dentro, nell'anima. Doveva esserci stato come un lungo, lento sprofondare di due anime avvinghiate, e poi l'abissale lontananza di un mondo sotterraneo... e in mezzo un momento in cui i rumori del mondo, su in alto, molto in alto, s'affievolivano e si spegnevano.
Come può una persona, dopo un fatto simile, tornare ad essere così leggera e contenta? Di certo non aveva dato molta importanza alla cosa. Törless avrebbe tanto voluto fargli delle domande. E invece, per una bambinesca timidezza, l'aveva lasciato nelle mani di quel ragno di Beineberg!


[9]

A un quarto alle undici Törless vide Beineberg e Reiting sgusciar fuori dai loro letti, e si vestì a sua volta.
"Pst!... Aspetta, tu. Diamo troppo nell'occhio se usciamo tutt'e tre insieme."
Törless tornò a nascondersi sotto le coperte.
Poi, nel corridoio, si radunarono e salirono con la consueta cautela le scale del solaio.
"Dov'è Basini?" chiese Törless.
"Viene dall'altra parte. Reiting gli ha dato la chiave."
Restarono al buio per tutto il tempo. Solo di sopra, davanti alla grande porta di ferro, Beineberg accese la sua piccola lanterna cieca.
La serratura resisteva. Era inceppata da anni d'inattività e non voleva obbedire alla chiave falsa. Alla fine scattò con un suono secco; la porta pesante s'impuntava sfregando nella ruggine dei cardini, e cedeva assai lentamente.
Dal solaio li investì un soffio d'aria calda e viziata come quella delle piccole serre.
Beineberg richiuse la porta.
Scesero la scaletta di legno e s'accucciarono vicino a una grossa trave.
Al loro fianco c'erano delle gigantesche cisterne d'acqua destinate a funzionare in caso d'incendio. Evidentemente l'acqua che contenevano non era più stata rinnovata da tempo, ed esalava un tanfo dolciastro.
L'intero locale, del resto, era quanto mai opprimente: il gran calore sotto il tetto, l'aria cattiva e l'intrico delle grosse travi che in parte si perdevano nel buio verso l'alto e in parte serpeggiavano lungo il pavimento in una trama spettrale.
Beineberg schermò la lanterna; rimasero seduti immobili al buio, senza scambiare una parola, per lunghi minuti.
A un certo punto dalla parte opposta, nell'oscurità, cigolò la porta. Piano, con un suono esitante. Era un rumore che faceva balzare il cuore in gola, come il primo segnale della preda che s'avvicina.
Seguirono alcuni passi incerti, l'urto di un piede contro il legno rintronante, un rumore fioco, come di un corpo che s'imbatte in un ostacolo... Silenzio... Poi ancora dei passi incerti... Una pausa... Il suono sommesso di una voce... "Reiting?"
Allora Beineberg tolse lo schermo alla lanterna e diresse un largo fascio di luce verso il punto da cui veniva la voce.
Alcune travi poderose s'illuminarono proiettando un'ombra netta, ma oltre a questo non si vide altro che un cono di pulviscolo danzante.
I passi però si fecero più sicuri e s'avvicinarono.
Poi, vicinissimo, un piede urtò di nuovo contro il legno, e un attimo dopo entrò nell'ampia base del cono di luce il viso, cinereo nel chiarore incerto, di Basini.

Basini sorrise. Un sorriso cattivante, lezioso. Balzava fuori immobile dalla cornice di luce come il sorriso di un ritratto. Törless sedeva addossato alla sua trave e si sentiva tremolare i muscoli degli occhi.
Qui Beineberg elencò monotono, con parole rauche, le malefatte di Basini.
Poi la domanda: "Dunque non ti vergogni proprio?" e un'occhiata di Basini a Reiting come per dire: "Ecco, è il momento di aiutarmi." In quello stesso istante Reiting gli sferrò un pugno in faccia, l'altro indietreggiò barcollando, inciampò in una trave, cadde. Beineberg e Reiting gli furono subito sopra.
La lanterna s'era rovesciata e la sua luce si spandeva pigra e smarrita sul pavimento ai piedi di Törless...
Dai rumori Törless capì che spogliavano Basini e lo frustavano con qualcosa di sottile e flessibile. Evidentemente avevano preparato tutto già prima. Sentiva i gemiti e i lamenti sommessi di Basini, che non cessava d'implorare pietà; alla fine distinse solo un mugolìo, come un pianto soffocato, interrotto ogni tanto da ingiurie a mezza voce e dai caldi e veementi respiri di Beineberg.
Lui non s'era mosso dal suo posto. Sulle prime, veramente, l'aveva preso una voglia bestiale di buttarsi anche lui e di picchiare, ma la sensazione che sarebbe arrivato tardi e sarebbe stato in più l'aveva trattenuto. Una mano pesante gli paralizzava le membra.
Guardava con apparente indifferenza il pavimento davanti a sé. Non tendeva l'orecchio per seguire i rumori, e non sentiva il cuore battere più in fretta del solito. Seguiva con gli occhi la luce che si allargava in una pozza ai suoi piedi. Vedeva luccicare bruscoli di polvere e una brutta, piccola ragnatela. Più in là il chiarore filtrava tra le commessure delle travi morendo in una penombra sporca e polverosa.
Törless sarebbe rimasto anche un'ora seduto così, senza rendersene conto. Non pensava a niente, eppure, dentro, era occupatissimo. E intanto si osservava: ma come se fissasse il vuoto vedendo se stesso soltanto di scorcio in un barlume indistinto. E allora da quella penombra, sempre di scorcio, una smania gli affiorò, lenta ma sempre più distinta, alla coscienza.
Qualcosa spinse Törless a sorriderne. Ma poi la smania tornò più forte. Lo trascinò giù dal posto dov'era seduto, lo fece cadere in ginocchio, per terra. Lo costrinse a premere il corpo contro le tavole; lui sentiva che gli occhi gli si stavano dilatando come quelli di un pesce, attraverso il corpo nudo sentiva il cuore pulsare contro il legno.
Ora Törless era davvero in preda a una violenta eccitazione; dovette aggrapparsi alla sua trave per resistere alla vertigine che lo tirava giù.
Aveva la fronte imperlata di sudore e si chiese impaurito cosa significasse tutto questo.
Strappato così alla propria indifferenza tornò a tendere l'orecchio nel buio verso i tre.
Là s'era fatto silenzio; solo Basini si lamentava piano tra sé, cercando a tentoni i vestiti.
A Törless quei suoni lamentosi procurarono una sensazione gradevole. Un brivido gli corse giù per la schiena come su zampe di ragno; poi gli si piantò tra le scapole tirandogli indietro con artigli delicati la pelle del cranio. Con disappunto Törless s'accorse di trovarsi in uno stato d'eccitazione sessuale. Ripensò ai minuti precedenti, e pur senza ricordare quando questa fosse iniziata fu consapevole che ne faceva già parte la singolare smania di premere il corpo contro il pavimento. Ora ne provava vergogna, però essa l'aveva stordito montandogli alla testa come un potente fiotto di sangue.
Beineberg e Reiting tornarono indietro a tastoni e sedettero in silenzio accanto a lui. Beineberg fissava la lampada.
In quel momento Törless si sentì di nuovo trascinar giù. Emanava dagli occhi - ora lo sentiva - dagli occhi emanava come una fissità ipnotica in direzione del cervello. Era una domanda, ecco, una... no, una disperazione... oh, la conosceva bene... il muro, e quel giardino del caffè, le casupole dei contadini, quel ricordo d'infanzia... la stessa cosa, la stessa cosa! Guardò Beineberg. "Ma non prova niente quello lì," pensò. Ma Beineberg si chinò e fece per alzare la lanterna. Törless gli fermò il braccio. "Non sembra un occhio?" disse accennando al chiarore sparso sul pavimento.
"Sei forse in vena di far della poesia?"
"No. Ma non dici tu stesso che gli occhi hanno certe proprietà? Da loro, a volte pensa un po' alle tue idee predilette sull'ipnotismo - emana una forza che non trova posto in nessun insegnamento di fisica; e poi è certo che spesso si riesce a indovinare uno molto meglio dai suoi occhi che dalle sue parole..."
"Be'... e allora?"
"A me questa luce fa l'effetto di un occhio. Un occhio che permette di penetrare in un mondo sconosciuto. Ho la sensazione di dover indovinare una cosa e di non riuscirci. Mi piacerebbe berla a gran sorsi..."
"To', lo vedi che cominci a far della poesia?"
"No, sto dicendo sul serio. Sono proprio disperato. Ma guarda, guarda lì anche tu e avrai la stessa sensazione. Un bisogno di voltolarsi in questa pozzanghera... di strisciare a quattro zampe fino in fondo agli angoli polverosi, come se così si riuscisse a indovinare quella cosa..."
"Caro mio, queste sono bambinate, malinconie. Fammi il piacere di lasciar perdere queste cose, adesso."
Beineberg si chinò fino a terra e rimise a posto la lanterna. Ma Törless ebbe un moto di gioia maligna. Sentiva di cogliere quei fatti con un sesto senso che ai suoi compagni mancava.
Ora si mise ad aspettare la ricomparsa di Basini e sentì con un brivido segreto che la pelle del cranio gli si tendeva ancora sotto quegli artigli delicati.
Ormai sapeva bene che a lui era riservato qualcosa che gli si preannunciava continuamente, a intervalli sempre più brevi: una sensazione che agli altri era incomprensibile ma che per la sua vita doveva certo avere una grande importanza.
Una cosa però non sapeva: che parte avesse in ciò quella sensualità; ma si ricordò che, a ben guardare, era comparsa ogni volta che gli avvenimenti avevano cominciato ad apparire singolari solo a lui e a tormentarlo perché non capiva per quale ragione ciò avvenisse.
Così si ripromise di riflettere seriamente su questo fatto alla prima occasione. E intanto s'abbandonò per intero all'eccitante brivido che precedeva la ricomparsa di Basini.
Beineberg aveva rialzato la lampada, e di nuovo i suoi raggi ritagliarono un cerchio nel buio, come una cornice vuota.
E di colpo il viso di Basini vi riapparve dentro: proprio come la prima volta, con lo stesso sorriso fisso e lezioso, come se nel frattempo niente fosse accaduto; solo, sul labbro superiore, sulla bocca e sul mento alcune lente gocce di sangue disegnavano un rosso sentiero che si snodava come un verme.

"Là, siediti!" Reiting indicava la grossa trave. Basini obbedì. Reiting cominciò a parlare. "Tu magari pensavi già di essertela bell'e cavata, eh? Pensavi che io t'avrei aiutato, vero? Be', ti sbagliavi. Quello che ho fatto con te è stato solo per vedere fin dove arriva la tua bassezza."
Basini si schermì con un gesto. Reiting fece l'atto di saltargli ancora addosso. Allora Basini disse: "Vi prego, per l'amor di Dio, non avevo altra scelta."
"Taci!" urlò Reiting. "Siamo stufi delle tue scuse! Adesso sappiamo una volta per tutte come ti dobbiamo trattare, e ci regoleremo di conseguenza..."
Seguì un breve silenzio. E qui, a un tratto, Törless disse sottovoce, quasi con gentilezza: "Ripeti queste parole: "Sono un ladro."" Basini lo guardò con gli occhi spalancati, quasi attoniti. Beineberg rise in tono di approvazione.

Ma Basini taceva. Allora Beineberg gli diede un colpo nelle costole e gli gridò: "Hai sentito? Devi dire che sei un ladro! E subito!"
Vi fu di nuovo un breve silenzio, quasi inavvertibile; poi Basini disse a bassa voce, tutto d'un fiato e in tono il più possibile inespressivo: "Sono un ladro."
Beineberg e Reiting risero compiaciuti alla volta di Törless: "Hai avuto una buona idea, piccolo"; e a Basini: "E adesso dirai subito anche questo: "Sono una bestia, una bestia ladra, la vostra lurida bestia ladra!"
E Basini lo disse, senza interrompersi e ad occhi chiusi.
Ma Törless era già tornato ad appoggiarsi all'indietro, nel buio. La scena lo disgustava, e si vergognò di aver regalato agli altri la sua idea.


[10]

Durante l'ora di matematica Törless aveva avuto un'intuizione improvvisa.
Già nei giorni precedenti aveva seguito con particolare interesse le lezioni, poiché s'era detto: "Se questa è sul serio una preparazione alla vita, come dicono loro, ci si dovrà pur trovare anche un accenno a quel che cerco io." E aveva pensato proprio alla matematica, ancora sulla scia di quei suoi pensieri sull'infinito.
E infatti, nel bel mezzo della lezione, un lampo gli aveva traversato la mente. Subito dopo la fine dell'ora si sedette vicino a Beineberg, il solo con cui potesse parlare di cose simili.
"Di', hai capito bene, poco fa?"
"Cosa?"
"La faccenda dei numeri immaginari."
"Certo. Non è mica difficile. Bisogna solo ricordarsi che l'unità di calcolo è la radice quadrata di meno uno."
"Qui sta il punto: questa radice non esiste. Ogni numero, sia positivo che negativo, elevato al quadrato dà un valore positivo. Perciò non può esserci nessun numero reale che sia la radice quadrata di un valore negativo."
"Giustissimo. Ma perché non si dovrebbe tentare lo stesso di applicare anche a un numero negativo l'operazione di estrazione della radice quadrata? È naturale che non potrà risultarne un valore reale, e proprio per questo si definisce il risultato soltanto immaginario. È come se si dicesse: qui c'è sempre stato seduto uno, dunque mettiamogli una sedia anche oggi, e se anche nel frattempo fosse morto facciamo finta che debba venire."
"Ma come si può se si sa di sicuro, con sicurezza matematica, che è impossibile?"
"Appunto, si finge lo stesso che sia così. Ne uscirà pure un risultato. In fondo cosa c'è di diverso con i numeri irrazionali? Una divisione che non si conclude mai, una frazione di cui non si avrà mai e poi mai il valore, per quanti calcoli si facciano? E che idea puoi farti dicendo che delle linee parallele s'intersecano solo all'infinito? Io credo che se si fosse troppo scrupolosi la matematica non esisterebbe."
"Qui hai ragione. A guardarlo così il fatto è abbastanza curioso. Ma lo strano è appunto che con questi valori immaginari o comunque impossibili si possono lo stesso fare dei calcoli perfettamente reali, e che alla fine si ha in mano un risultato concreto!"
"Eh già, ma per arrivarci i fattori immaginari devono annullarsi a vicenda nel corso del calcolo."
"Sì, sì: tutto quel che dici lo so anch'io. Ma la cosa non è lo stesso molto singolare? Come posso esprimermi? Pensa: in un calcolo del genere, all'inizio ci sono dei numeri ben tangibili, che possono rappresentare metri o pesi o altre cose concrete, e per lo meno sono dei numeri reali. Alla fine dei calcolo ci sono numeri dello stesso tipo. Ma questi e quelli stanno in relazione tra loro grazie a qualcosa che non esiste affatto. Non è come un ponte di cui esistano solo il primo e l'ultimo pilastro, e che tuttavia si possa attraversare con la stessa sicurezza che se esistesse per intero? Per me un calcolo del genere ha qualcosa di vertiginoso, come se una parte del percorso portasse Dio sa dove. Ma quel che di un simile calcolo davvero mi sgomenta è la forza che ha in sé, capace di sostenere uno in modo da farlo approdare, nonostante tutto, nel punto giusto."
Beineberg fece un ghigno: "Parli quasi come il nostro prete: "... Tu vedi una mela - e qui c'entrano le vibrazioni della luce, l'occhio e così via - e allunghi una mano per rubarla - e qui ci sono i muscoli e i nervi che mettono in moto la mano -, ma fra i due eventi c'è qualcosa che fa nascere questo da quello, ed è l'anima immortale che in quest'atto ha peccato... eh sì, nessuna delle vostre azioni è spiegabile senza l'anima, che trae suoni da voi come dalla tastiera di un pianoforte..." E imitò il tono di voce con cui il catechista era solito esporre la vecchia similitudine. "E poi tutta questa faccenda m'interessa poco."
"Pensavo che dovrebbe interessare proprio te. Io per lo meno non ho potuto non pensare subito a te, perché questo, se è davvero così inspiegabile, sarebbe quasi una conferma di quello in cui credi tu."
"Perché non dovrebbe essere inspiegabile? Secondo me è possibilissimo che qui gli inventori della matematica abbiano inciampato nei loro stessi piedi. Perché mai infatti quel che sta al di là del nostro intelletto non dovrebbe essersi permesso uno scherzo ai danni di questo stesso intelletto? Ma io di queste cose non m'impiccio, perché non portano a niente."

Quel giorno stesso Törless aveva chiesto al professore di matematica di potergli far visita per avere dei chiarimenti su alcuni punti dell'ultima lezione.
Così il giorno dopo, durante l'intervallo di mezzogiorno, salì la scala che portava al piccolo appartamento dell'insegnante.
Adesso nutriva una gran considerazione per la matematica, visto che sembrava esserglisi inopinatamente trasformata da morta materia scolastica in qualcosa di assai vivo. E per effetto di questa considerazione provava una specie d'invidia per il professore, che doveva essere esperto di tutte quelle relazioni e che ne portava con sé la conoscenza come la chiave di un inaccessibile giardino. Ma, oltre a ciò, Törless era mosso anche da una certa, per quanto titubante, curiosità. Non era mai stato nella stanza di un giovane ormai adulto, e lo solleticava la voglia di sapere come si presentasse la vita di un'altra persona, di un uomo sapiente eppure quieto come quello: almeno per quel tanto che si poteva dedurre dalle cose che lo circondavano. Di solito invece era timido e riservato di fronte ai suoi insegnanti, e pensava di non godere per questo di una particolare simpatia da parte loro. Perciò la sua richiesta, ora che s'era fermato pieno d'emozione davanti alla porta, gli appariva un atto temerario volto non tanto ad avere un chiarimento - perché, dentro di sé, già dubitava di poterlo ottenere - quanto a gettare, per così dire, uno sguardo oltre le spalle del professore sul suo quotidiano concubinato con la matematica.
Venne introdotto nello studio. Era un locale lungo con una sola finestra; accanto a questa c'era uno scrittoio pieno di macchie d'inchiostro, e appoggiato alla parete un sofà rivestito di una ruvida stoffa a coste orlata da una frangia a nappine. Sopra questo sofà erano appesi uno sbiadito berretto goliardico e un gran numero di piccole fotografie marrone degli anni d'università, scurite dal tempo. Sul tavolino ovale dalle gambe incrociate, le cui volute che volevano essere graziose facevano l'effetto di un complimento mal riuscito, c'era una pipa e del trinciato grosso e scaglioso. Ne derivava a tutta la stanza un puzzo di tabacco scadente.
Törless aveva appena fatto sue queste impressioni e constatato in se stesso un certo disagio, come quando si viene a contatto con delle cose nauseabonde, che il suo insegnante entrò.
Era un giovanotto di non più di trent'anni, biondo, nervoso; valente matematico, aveva già presentato all'Accademia alcuni lavori importanti.
Sedette subito al suo scrittoio, frugò un po' tra le carte sparpagliate (Törless, più tardi, ebbe l'impressione che vi avesse cercato addirittura rifugio), si pulì il pince-nez col fazzoletto, accavallò le gambe e guardò Törless con aria interrogativa.
Questi aveva cominciato a passare in rassegna anche la sua persona. Notò un paio di grossi calzini bianchi di lana, poi s'accorse che i legacci delle mutande lunghe erano anneriti dal lucido degli stivali.
Per contro il fazzoletto spuntava candido e vezzoso dal taschino e la cravatta, anche se di quelle dal nodo cucito, era vivace come una tavolozza.
Suo malgrado, Törless si sentì ulteriormente respinto da queste piccole constatazioni; ormai non riusciva quasi più a sperare che quell'uomo fosse davvero in possesso di lumi notevoli, visto che sulla sua persona e in tutto quel che lo circondava non c'era di essi il minimo segno. Lui s'era figurato in tutt'altro modo lo studio di un matematico, con una qualche traccia evidente delle cose tremende che vi si pensavano. La banalità lo feriva: ne estese i caratteri alla matematica e la sua considerazione cominciò a cedere il posto a una diffidente riluttanza.
E siccome anche il professore si agitava impaziente sulla sedia senza sapere come interpretare quel lungo silenzio e quelle occhiate indagatrici, tra i due si creò sin da quel momento un clima d'incomprensione.
"Be', se vogliamo... se vuole... io sono ben lieto di darle dei ragguagli," esordì il professore.
Törless espresse le sue obiezioni sforzandosi di chiarire l'importanza che avevano per lui. Ma gli pareva d'esser costretto a parlare attraverso una nebbia fitta e opaca, e le parole migliori gli morivano sulle labbra.
Il professore sorrise, tossicchiò un poco, disse: "Compermesso" e si accese una sigaretta; la fumò a boccate frettolose, la carta - tutte cose che intanto Törless osservava e trovava banali - prendeva una sfumatura unticcia e ogni volta si arricciava sfrigolando; il professore si tolse il pince-nez, se lo rimise, annuì... infine non lasciò che Törless arrivasse in fondo. "Mi fa piacere, sì, caro Törless, mi fa davvero piacere," l'interruppe, "i suoi dubbi rivelano serietà, una certa qual riflessione, una... ehm... Però non è certo facile darle i chiarimenti che lei desidera... Non mi fraintenda.
"Vede, lei ha parlato dell'intervento di fattori... trascendenti... sì già... trascendenti si dice...
"Ora io non so quale sia al riguardo il suo modo di sentire; sa, le cose sovrasensibili, che stanno al di là dei limiti rigorosi dell'intelletto, sono una cosa tutta particolare. Io, a guardar bene, non ho la veste per intervenire in questo campo; non riguarda la mia materia: su questo punto si può pensarla in un modo o nell'altro, e io vorrei assolutamente astenermi dall'entrare in polemica con chicchessia... Ma per quanto concerne la matematica", e qui calcò la voce sulla parola "matematica" come se volesse chiudere una volta per tutte una porta fatale, "per quanto concerne, dicevo, la matematica, è certissimo che qui esiste anche un nesso naturale e soltanto matematico.
"Solo che io, per essere rigorosamente scientifico, dovrei fare delle premesse che lei ben difficilmente, adesso, potrebbe capire. Senza contare che ce ne manca il tempo.
"Sa, io non ho difficoltà ad ammettere che cose come questi numeri immaginari, questi valori che, eh eh, non esistono affatto, non sono certo un'inezia per un giovane studente. Lei deve accontentarsi di pensare che simili concetti matematici sono, appunto, semplici necessità del ragionamento matematico. Rifletta un po' : allo stadio elementare di apprendimento della materia a cui lei ancora si trova, riesce molto difficile dare l'esatta spiegazione di molti punti che si devono trattare. Per fortuna pochissimi lo avvertono, ma se uno, come lei oggi - e, le ripeto, la cosa mi ha fatto molto piacere - se uno invece viene gli si può dire soltanto: caro amico, devi semplicemente credere: quando di matematica ne saprai dieci volte più di adesso, capirai, intanto però: credere!
"Non c'è altro modo caro Törless, la matematica è tutto un mondo a sé, e bisogna esserci vissuti dentro un bel po' per sentire tutto quello che, in essa, è necessario."
Törless fu contento quando il professore tacque. Da quando aveva sentito chiudersi quella tale porta gli pareva che le parole si allontanassero sempre di più, di più... e si avviassero verso l'altra parte, quella indifferente, dove stanno tutte le spiegazioni esatte eppure insignificanti.
Ma era stordito da quella valanga di parole e dall'insuccesso, e non capì subito che ormai doveva alzarsi.
Allora il professore, per chiudere definitivamente il discorso, cercò un ultimo argomento persuasivo. Su un tavolinetto c'era, in bella mostra, un libro di Kant. Il professore lo prese e lo mostrò a Törless. "Vede questo? È un libro di filosofia, e contiene gli elementi che determinano le nostre azioni. E se lei potesse coglierne fino in fondo il senso s'imbatterebbe di continuo in simili concetti necessari al ragionamento, che determinano tutto pur non essendo, loro, senz'altro comprensibili. È qualcosa di molto simile a quel che succede in matematica. Eppure noi continuiamo a regolarci su di essi nelle nostre azioni. Ecco, qui ha già la prova di quanto siano importanti queste cose. Ma per ora," soggiunse con un sorriso, vedendo che Törless apriva sul serio il libro e lo sfogliava, "per ora lasci stare. Volevo solo farle un esempio di cui, più tardi, lei potrà ricordarsi. Per il momento è probabile che si tratti di cose troppo difficili per lei."