PAUL VERLAINE POESIE VI |
|
CONGEDO Principe e principessa, andate, eletti, in trionfo per la strada dove io fatico su una pista in discesa. Ma io, vedo la vita in rosso. Mani Non sono mani d'Altezza, da bel prelato un po' santo. Eppure una delicatezza vi lascia il suo garbo succinto. Non sono mani d'artista, da poeta propriamente detto, ma qualcosa vagamente triste ne fa quasi un gruppo in miniatura; perché le mani hanno un loro carattere, è tutto un mondo in movimento, dove il pollice e il mignolo fanno i poli della calamita. Le meteore della testa e le tempeste del cuore, tutto vi si ripete e si riflette per un dono logico e vincitore. E non sono neppure le palme di un rurale o di uno dei sobborghi; ancora le loro grandi linee calme dicono: "Lavoro che nulla deve". Sono magre, lunghe, grigie, falange larga, unghia quadrata. Ne hanno di simili nelle vetrate di chiesa i santi sotto il fogliame dorato, e certi vecchi militari disabituati alle battaglie, a ricordare le loro lunghe guerre che narrano vagamente. Stasera hanno, queste mani secche, sotto i loro radi ispidi peli, un'aria particolarmente ruvida, come in preda ad aspri pensieri. Il nero cruccio che le irrita, il loro acre trasognare fa loro fare una smorfia sinistra a modo loro, da mani quali sono. Ho paura a vederle sul tavolo premeditare, sotto i miei occhi, qualcosa di temibile, d'inflessibile e furioso. La mano destra è certo alla mia destra, l'altra alla mia sinistra, io sono solo. Nella mia stretta stanza le lenzuola assumono aspetti da sudario, fuori il vento urla senza tregua, scende insidiosa la sera... Ah! se sono mani di sogno, tanto meglio, - o tanto peggio - o tanto meglio! Pierrot monello Non è Pierrot in erba non più che Pierrot in mannello, è Pierrot, Pierrot, Pierrot. Pierrot monello, Pierrot ragazzo, la noce fuori del guscio, è Pierrot, Pierrot, Pierrot! Benché sia alto poco più d'un metro, il bricconcello sa mettere nei suoi occhi il lampo d'acciaio che s'addice al genio sottile della sua malizia infinita di poeta-smorfioso. Labbra rosso-ferita dove sonnecchia la lussuria, faccia pallida dal ghigno fine, lunga, accentuata, che pare abituata a contemplare ogni fine, corpo esile ma non magro, voce di fanciulla ma non stridula, corpo d'efebo in piccolo, voce di testa, corpo in festa, creatura sempre pronta a saziare ogni appetito. Va', fratello, va', compagno, fa' il diavolo, batti la strada nel tuo sogno e su Parigi e per il mondo, e sii l'anima vile, alta, nobile, infame del nostro spirito innocente! Cresci, poiché così si usa, moltiplica la tua ricca amarezza, esagera la tua allegria, caricatura, aureola, la smorfia e il simbolo della nostra semplicità! Læti et errabundi Le corse furono intrepide (come pesa oggi il riposo!) tra steamers e rapidi (che vuole da me quest'obeso at home?). Andavamo - ve ne ricordate, viaggiatore scomparso chissà dove? - filando leggeri nell'aria sottile come due spettri gioiosi! Poiché le passioni appagate insolentemente oltre ogni misura riempivano di feste le nostre teste e i sensi, che tutto rassicura, tutto, la giovinezza, l'amicizia e i nostri cuori, ah quanto liberi dalle donne commiserate e dall'ultimo dei pregiudizi, lasciando il timore dell'orgia e lo scrupolo al buon eremita perché, varcata la soglia, Ponsard non ammette limiti. Tra altri biasimevoli eccessi, credo che bevemmo di tutto, dai più gran vini francesi al faro, allo stout, passando per le acqueviti considerate terribili, l'anima rapita al settimo cielo, il corpo, più umile, sotto i tavoli. Paesaggi, città posavano per i nostri occhi instancabili; le nostre belle curiosità avrebbero mangiato ogni atlante. Fiumi e monti, bronzi e marmi, i tramonti d'oro, l'alba magica, l'Inghilterra, madre degli alberi, e il Belgio figlio di torrioni, il mare, terribile e insieme dolce, ricamavano sull'amato romanzo cui non lasciava tregua la nostra anima - e quid nella nostra carne?... il romanzo di vivere in due uomini meglio che sposi modello, ciascuno versando nel mucchio somme di affetti forti e fedeli. L'invidia dagli occhi di basilisco censurava quel modo di quotarsi: pranzavamo di biasimo pubblico e cenavamo con la stessa pietanza. Talvolta anche la miseria infuriava nel falansterio: si reagiva col coraggio, la gioia e le patate. Scandalosi senza sapere perché (forse era troppo bello) la nostra coppia restava serena come due bravi portabandiera, serena nell'orgoglio d'essere più liberi dei più liberi di questo mondo, sorda ai paroloni di ogni calibro, inaccessibili al riso immondo. Avevamo lasciato senza commozione a Parigi ogni impedimento, lui qualche sciocco sbeffeggiato, e io una certa principessa Sorcio, una scema che finì anche peggio... Poi, ad un tratto, la nostra gloria cadde, e noi, da marescialli dell'Impero decaduti a briganti della Loira, ma decaduti di nostra volontà! Fu come una licenza, per dirla militarmente, la nostra separazione, licenza sotto le suole delle scarpe, e dopo quante campagne! Avete perdonato alle femmine? Io, ho rivisto poco quelle compagne, abbastanza però per soffrirne. Ah, che debole cuore il mio cuore! Ma è meglio soffrire che morire e soprattutto morire di languore. Dicono che siete morto. Il Diavolo si porti chi la diffonde la notizia irreparabile che batte alla mia porta! Non voglio crederci. Morto, voi, tu, dio tra i semidei! Sono pazzi quelli che lo dicono. Morto, il mio grande peccato radioso, tutto quel passato che ancora brucia nelle mie vene e nel mio cervello e che risplende e sfolgora sul mio sempre nuovo fervore! Morto tutto quel trionfo inaudito che risuonava senza freno né fine sul motivo mai svanito scandito dal mio cuore che fu divino. Ma come! il poema miracoloso e l'omni-filosofia, e la mia patria e la mia bohème morti? Ma andiamo! tu vivi la mia vita! Ballata della cattiva reputazione Ebbe talvolta un po' di denaro e convitò i suoi compagni d'un sesso o due, intelligenti o incantevoli, o entrambe le cose, cosicché nelle menti malate la sua buona reputazione subì certi capitomboli! Lucullo? No. Trimalcione. Sotto il suo tetto, erano canti e parole niente affatto insulse. Eros e Bacco indulgenti presiedevano a quelle serenate accompagnate da abbracci. Poi, cori e conversazioni cessavano per fini poco spiacevoli. Lucullo? No. Trimalcione. L'alba spuntava e quei birbanti la salutavano con cento albate che svegliavano lontano la gente perbene, e con mille bevute. Intanto vaghe brigate - zelo o delazione? - deponevano davanti agli àlcadi. Lucullo? No. Trimalcione. CONGEDO Principe, altissimo marchese di Sade, un sorriso per il vostro rampollo fiero dietro la sua palizzata. Lucullo? No. Trimalcione. Ballata Saffo Tua amante e tuo amante, la mia dolce mano passa e ride sulla tua cara carne in festa, ride e gioisce del tuo godere. Sai bene ch'essa è fatta per servirla, e il tuo bel corpo io devo svestirlo a inebriarlo senza fine di un'arte sempre nuova nella pronta carezza. Io sono simile alla grande Saffo. Lascia che la mia testa vaghi e sprofondi alla ventura, un po' selvaggia, in cerca d'ombra e di odore e di lavoro incantevole verso i sapori delle tua gloria segreta. Lascia vagabondare l'anima del tuo poeta ovunque, per campi o boschi, monti o valli, come tu vuoi e se io lo desidero. Io sono simile alla grande Saffo. E allora avidamente stringo il tuo corpo, la tua carne contro il mio corpo d'atleta che si tende e a momenti si rilassa, felice del trionfo e della disfatta in questo conflitto del cuore e della testa. Per la sterile stretta in cui il cervello viene infine a completare la natura io sono simile alla grande Saffo. CONGEDO Principe o principessa, onesto o disonesta, chiunque ne mugugni, quale sia il suo livello, poeta saccente o divino prosseneta, io sono simile alla grande Saffo. da DEDICHE V o A Stéphane Mallarmé Dei giovani - imprudenti - hanno, si dice, fatto una lista in cui passate per simbolista. Simbolista? Intanto altri, nel loro ardente disgusto ingenuo o fumista per questa povera rima ista, m'hanno bombardato decadente. Sia! Ognuno di noi insomma si vede definito così bene? Non m'infiammo poi tanto tranne che per le n...infe, come voi non siete male armato più di quanto Sully non sia Prud'homme. VIII o A Villiers de L'isle-Adam Ci sfuggi, come fugge il sole sotto il mare, dietro una greve tenda di porpore letargiche, stanco di splendere, solo, sulle tragiche ombre della terra senza verbo e dell'etere cieco. Parti, anima cristiana, mi dicono rassegnata perché sapevi che il tuo Dio preparava una festa di luce, infine, al tuo cuore trasparente, un amore tutto fiamma al tuo amore infuocato. Noi rimaniamo qui ancora un po', conservando il tuo ricordo nella nostra speranza raggelata, come morenti che assaporano l'olio dell'estrema unzione. Villiers, sii invidiato come ti si addiceva dai tuoi fratelli impazienti del giorno supremo quando in te saluteranno la gloria di un eletto. XII o A Germain Nouveau Fu a Londra, città dominata dall'Inglese, che c'incontrammo per la prima volta, e in King's Cross, crogiuolo di ferraglie, passi e voci, subito riconoscendoci per il nostro buon aspetto. Poi, scavandoci la sete come una miniera, quel precipitarci, appena fuori dal treno, verso i bar attraenti come ai vecchi tempi, dove lunghe miss più bianche dell'ermellino fan scorrere birra e bitter nello stagno chiaro e il cristallo sonoro e leggero come l'aria, - e quel bere senza sete alla futura amicizia! Il nostro brindisi mantenne la promessa. Eccoci, un po' invecchiati dopo quell'avventura, ancora non avendo raggelati né gomito né cuore. XXIX o A Charles de Sivry Artista, tu, fino al fantastico, poeta, io, fino all'idiozia, eccoci, la barba mezza grigia, io pazzo di versi e tu di musica. Eccoci qua, non senza qualche fatica, ricchi, io dell'acqua dell'Ippocrene, tu delle canzoni della Sirena, maturi per la gloria e i suoi patiboli. Bah! avremo avuto il nostro piacere che non è quello di tutti e lo svago del nostro desiderio. Benediciamo così la pace profonda che in mancanza di un tesoro meno sottile ci donarono quei così sia. XXXIII o A Emmanuel Chabrier Chabrier, noi facevamo, un caro amico ed io, per voi parole cui davate ali, e tutti e tre frementi quando, a benedire il nostro zelo, passava l'Ecce deus e il Non so che. Da mia madre, incantevole e divinamente buona, il vostro genio improvvisava al piano, ed era tutt'intorno come un anello ardente di simpatia e di amabile agio raggiante. Ahimè! mia madre è morta, è morto il caro amico, ed eccomi simile al cristiano nel porto, a sorvegliare gli scogli estremi del mondo. Non tuttavia senza salutare, all'orizzonte, come una vela al largo che bianca freme, il ricordo dei dolci momenti di pace profonda. XLI o A G... Mi sei piaciuta per la tua grazia e la tua folle frivolezza. Amo i tuoi occhi per la loro gioia e il tuo corpo per la sua venustà. Ma subito ho detestato l'ingordigia della tua carne. Aborro il tuo bisogno di sbornie (non quella che mi è tanto cara, il bisogno di stare con quest'uomo ancora verde che sarei io), e mi fa orrore, per dirla come si deve, il tuo gusto per l'eccesso passionale gioioso, infantile, senza dubbio incantevole... Il problema è, ci penso, che sono vecchio tanto (cinquant'anni!) e tu in cammino verso i diciotto anni... povero vecchio! LIV o Anniversario a William Rothenstein. "E avevo cinquant'anni quando ciò mi accadde." Non credo più al linguaggio dei fiori e l'Uccello azzurro non canta più per me. I miei occhi si sono stancati dei colori e anch'io sono stanco di richiami superflui. È, in una parola, la triste cinquantina. Mia età matura, per frutti porti solo una vista esitante e un passo incerto, e sui tuoi rami soltanto foglie morte! Ma alcuni amici giunti dall'estero, - nessuno, si dice, è profeta in patria - hanno voluto, se non incoraggiare, almeno consolare questi odiati lustri. Si sono inerpicati fino al mio piano e con le mani piene di fiori, senza inganno, gentili hanno augurato alla mia sciocca età molti anni ancora e salute migliore, e mentre si beveva a questi voti del cuore il vino d'oro che ride nel fine cristallo, mi è parso che dai mazzi di fiori, in coro, si levassero voci su un motivo divino; e poiché alla mia finestra il fringuello e il canarino, suo vicino di gabbia, pigolavano lieti, credetti di riudire l'Uccello azzurro a cantare nel boschetto. Parigi, 30 marzo 1894. LX o A Edmond Lepelletier Mio più vecchio amico sopravvissuto a un gruppo già di fantasmi che danzano come atomi in un raggio di luce davanti ai nostri occhi incupiti e sognanti sotto le fronde policrome che l'autunno arrotonda in cupole funebri dove geme il vento, bah! la vita è così corta infine - che stupido risveglio dopo quale storia! - che non bisogna più pensare ai morti tranne per piangerli e per ungerli di rimpianti immuni da rimorsi; non andiamo forse a raggiungerli? LXII o A Arthur Rimbaud Mortale, angelo E dèmone, vale a dire Rimbaud, tu meriti il primo posto in questo mio libro, benché uno sciocco imbrattacarte t'abbia trattato da debosciato imberbe e mostro in erba e studente ubriaco. Le spirali d'incenso e gli accordi di liuto segnalano il tuo ingresso nel tempio della memoria e il tuo nome radioso canterà nella gloria, perché mi hai amato come bisognava. Le donne ti vedranno gran giovanotto forte, bellissimo d'una bellezza contadina ed astuta, molto desiderabile, di un'indolenza audace! La storia ti ha scolpito trionfante sulla morte e fino ai puri eccessi amante della vita, poggiati i bianchi piedi sulla testa dell'Invidia! C o All'amata Ecco quà dei capelli grigi e barba grigia. Me li chiedesti in un giorno di allegria per, dicevi, incorniciarli così gentilmente su quel ritratto della mia "grazia" agonizzante. Povera foto! Ma credo che sarà adeguata quando i miei stanchi occhi saran chiusi a dovere, e la terra cullerà il suo figlio dormiente, allora sarà il momento, mia cara - squisita attenzione! - di far fare con quei capelli, tinti, e quella barba, tinta in riccioli biondi, bruni o in altra sfumatura tra le tante opportune, da un bravo parrucchiere, su fondali dipinti, la tomba, pianta finalmente senza astuzia, del giovane che avrei dovuto essere. Ospedale Broussais, 18 settembre 1893. da DONNE Ouverture Tra le vostre cosce e natiche voglio perdermi, puttane, del solo vero Dio sacerdotesse vere, bellezze mature o no, novizie o professe, oh! nelle vostre fessure, nelle pieghe vivere! I vostri piedi splendidi, sempre vanno all'amante, con l'amante ritornano, riposano soltanto a letto nell'amore, poi gentilmente sfiorano i piedi dell'amante rannicchiato stanco e ansante, serrati, profumati, baciati, leccati dalla pianta alle dita, succhiate una ad una, fino alle caviglie, fino ai laghi delle lente vene, piedi più belli di quelli di eroi e apostoli! Quanto mi piace la vostra bocca e i suoi giochi graziosi, di lingua e di labbra e di denti, che mordicchiano la lingua e talvolta anche meglio, quasi altrettanto gentile che metterlo dentro; e i vostri seni, duplice monte d'orgoglio e lussuria, tra i quali il mio orgoglio virile a volte si solleva per gonfiarsi a suo agio e strofinarci la capoccia: come cinghiale nelle valli del Parnaso e del Pindo. E le vostre braccia! adoro anche le braccia così belle e bianche, tenere e dure, molli, nervose quando serve, e belle e bianche come i vostri culi, e altrettanto eccitanti; calde durante l'amore, e poi fresche come tombe. E le mani in fondo a quelle braccia, ch'io possa mangiarle! La carezza e la pigrizia le hanno benedette, rianimatrici del glande rattrappito e schivo, masturbatrici dalle infinite cure! Ma tutto questo è niente, Puttane, al confronto dei vostri culi e delle fiche la cui vista e il gusto e l'odore e il tatto fanno dei vostri devoti degli eletti, tabernacoli e Santi dell'impudicizia. Perciò, sorelle, tra le vostre cosce e tra le vostre natiche voglio perdermi tutto, sole compagne vere, bellezze mature o no, novizie o professe, e nelle vostre fessure, nelle vostre pieghe, vivere! II o A colei che dicono sia frigida Non sei la più innamorata tra quelle che hanno preso la mia carne; non sei la più gustosa tra le mie donne dell'inverno scorso. Ma ti adoro lo stesso! Del resto, il tuo corpo tenero e dolce, nella sua calma suprema è così grassamente femminile, così voluttuoso senza storie, dai piedi baciati lungamente fino a quegli occhi chiari puri d'estasi, ma come e quanto bene appagati! dalle gambe e dalle cosce giovinette sotto la giovane pelle, attraverso il tuo odore di formaggio e di gamberi freschi, bello, piccolino discreto, dolce Cosino ombrato appena da una parvenza d'oro, che t'apri in un'apoteosi alla mia rauca e muta voglia, fino ai capezzoli belli di bambina, di miss appena in pubertà, fino al seno trionfante nella sua gracile venustà, e a quelle spalle lucenti, fino alla bocca, fino alla fronte ingenue dall'aspetto innocente che tuttavia i fatti smentiranno, fino ai capelli corti riccioluti come i capelli di un bel giovinetto, ma la cui onda c'incanta, insomma, nella loro naturalezza ricercata, passando sulla schiena lenta gustosamente carnosa, fino al culo sontuoso, divino candore, rotondità degna del tuo scalpello, languido Canova! fino alle cosce che ancora è doveroso salutare, fino ai polpacci, solide delizie, fino ai talloni di rosa e d'oro! - Furono incoercibili i nostri nodi? No, ebbero tuttavia un loro fascino. Furono terribili i nostri fuochi? No, eppure dettero il loro calore. Venendo al punto - frigida, o meglio fresca! io dico che la nostra "cosa seria" fu soprattutto, e me ne lecco i baffi, un'eccellente masturbazione, benché tutte quelle premure ti sapessero preparare senza più - come tu dici - inconvenienti, o collegiale che mi piacesti, e ti conservo tra le donne del rimpianto, non senza qualche speranza, se forse un giorno ci amammo, di poterci possedere ancora. Settembre 1889. IV o Gusti regali Amava poco i profumi Luigi Quindicesimo. Io lo imito e acconsento nella giusta misura. Né flaconi né sacchetti in amore, ve ne prego! Ma un'aria ingenua e piccante fluttui intorno a un corpo che sia dotato dell'arte di eccitarmi; e il mio desiderio ama, e la mia scienza approva nella carne agognata, in ogni nudità, l'odore del vigore e della pubertà o il prelibato afrore delle belle donne mature. E anche adoro - taci, morale, i tuoi mormorii - come dire? quegli aromi, tenuti segreti, del sesso e dintorni, di prima e dopo il divino amplesso e durante la carezza, quale essa sia, o debba, o appaia. Poi, quando sul cuscino il mio odorato stanco, come gli altri sensi, del piacere replicato, sonnecchia e i miei occhi muoiono verso un volto che quasi si spegne, ricordo e presagio dell'intrico delle gambe e delle braccia, dei piedi fulvi che si baciano nelle lenzuola madide, da quel languore ancor più sensuale un gusto sale d'umanità non privo di vergogna ma così buono, così buono da mangiarne! Da quel momento vorrei un veleno straniero, d'una fragranza selvatica e bestiale, che vi stravolga il cuore e vi bruci la testa, poiché possiedo, a esaltazione della voluttà, esattamente la quintessenza della beltà! VI o Alla signora *** Quando tra le tue cosce mi stringi la testa o le cosce, riempiendomi la gola delle gentili delizie del tuo giovane sugo astringente, o con la fica di giusta misura per un tale passe-partout mordendo il mio cazzo non grosso, ma canaglia dai coglioni alla cima, quando succhi o sei leccata torci il tuo culo in una maniera che non è certo da donna onesta; e, per Dio, hai proprio ragione! Mi dai certe linguate, quando ci amiamo, così lunghe e di ardore smisurato, che mi arrivano, merda! dritte al cuore, e la tua fica mi spreme il cazzo come fa un orso che succhia una tetta, orso ben leccato, vello lussuoso, del vello mio fiero tappeto. Orso ben leccato: ingordo ed ebbro, e la mia lingua lo può attestare, che tante volte ti succhiò il clitoride da non poterle ricordare. Ben leccata, sì, ma aspra, diavolo, la tua fica graziosa, dispettosa, briccona, che rossa ride su fondo di sabbia: come le labbra di Arlecchino. VIII o Idillio high-life La birichina a piene mani sbatacchia il cazzo del bel ragazzino. Lo studentello ben scappucciato gode e sputacchia da ogni lato. La bimba ride a vedere quel latte e curiosa di che possa trattarsi, annusa una goccia su quel tettino, poi, perbacco! dai, avanti, che importa! e lecca e bacia la punta graziosa, non esitare, pompalo tutto! O viscontino di Non-so-dove, non raccontare troppo il successo, fior d'eleganze, convegni d'amore delle vacanze del novanta: di tali scene, dentro i castelli, i tuoi compagni, anche i più goffi, senza fatica e senza inventare te ne raccontano una dozzina; e le cugine angeli caduti a tali cucine e a tali succhi sono consuete, povere bambine, fin dalla prima comunione: questo, fratelli cari, nell'attesa dei loro adulterî che su di voi incombono. IX o Quadro popolare L'apprendista quindicenne, non troppo magro, non bello, gentile, rudezza un po' molle, pelle smorta, occhio vivo e infossato, tira fuori dal camice blu, focoso e bello duro, un cazzo già grosso e chiava la padrona, grassona ancora in gamba, in deliquio - mascalzona - sul bordo del letto, gambe in aria e seno scoperto, con un atteggiamento! A vedere il ragazzo che sotto la giubba stringe le chiappe e quei piedi che spingono in fretta in avanti è evidente che non teme di ficcarlo più in fondo né di mettere incinta la bella, che se ne frega (non c'è poi il suo cornuto, fiducioso e ricco?). E così, giunta al supremo momento, nel delirio improvviso lei si mette a gridare: "M'hai fatto un figlio, lo sento, e per questo ti amo ancora di più. - Ed ecco i confetti del battesimo!" lei dice dopo il fatto, e tenera, accovacciata, gli soppesa e gli palpa e gli bacia i coglioni. Morale in breve Una testa bionda e di grazia svenevole, sotto un collo che freme di belle tette dritte, e il bruno medaglione del capezzolo in fiamme, e il busto seduto su dei cuscini bassi, e intanto tra due gambe vibranti, in aria, una donna in ginocchio, impegnata in quali cure lo sa Amore, mostra agli dei soltanto l'epopea candida del suo splendido culo, specchio chiaro della Bellezza che là si ammira per crederci. Culo di donna, sereno vincitore del culo virile, fosse anche efebico, fosse anche puerile, culo di donna, culo di tutti i culi, lode, culto e gloria! da HOMBRES I Oh non bestemmiare, poeta, e ricordati. Certo la donna non è male, chiavarla val la pena, il culo le fa onore, anche se un po' obeso, e quanto a me l'ho gustato molte volte. Quel culo (e le tette), che nido per le nostre carezze! In ginocchio lo bacio e lecco il suo pertugio mentre nell'altro pozzo frugano le mie dita, e quei bei seni, che lascive pigrizie! E poi quel culo serve ancora, soprattutto a letto, in aiuto ai cuscini e come sottopancia, molla a spirale del vero ventre perché più a fondo penetri l'uomo dentro la donna eletta. Lì riposo le mani, anche le braccia, le gambe, i piedi. - Così tanta freschezza, elastica rotondità ne fanno per me un pregiato luogo di riposo dove in arzilli voti vaga e saltella il desiderio. Ma confrontare il culo dell'uomo a quel buon culo, a quel grosso culo meno voluttuoso che pratico, il culo dell'uomo, fiore di gioia e di estetica, e soprattutto proclamarsene il servo e il vinto, "È male!" ha detto l'Amore. E la voce della Storia: "Culo dell'uomo, onore puro dell'Ellade e fasto divino di Roma vera e più divino ancora, di Sodoma morta, martire per la sua gloria. "Shakespeare, d'un tratto abbandonando Ofelia, Cordelia, Desdemona, tutto il suo bel sesso, cantava in versi magnifici - si offenda uno sciocco - la forma mascolina e il suo alleluja. "I Valois impazzivano per il maschio e nella nostra era l'Europa imborghesita e tanto femminile ammira tuttavia quel Luigi di Baviera, il re vergine dal gran cuore che solo per l'uomo batte. "La Carne, perfino la carne della donna, proclama il culo, il cazzo, il torso e l'occhio del fiero Pulzello, - e perciò, secondo il consiglio di Rousseau, talvolta, poeta, "bisogna lasciare la dama" per un po'". 1891. II · Mille e tre I miei amanti non sono delle classi ricche: sono operai dei sobborghi o di campagna, i loro quindici o vent'anni alla buona non sono avari di modi assai brutali e grossolani. Me li godo in abito di lavoro, giacca e giubba; non profumano d'ambra e odorano di salute pura e semplice; il loro passo un po' greve, è veloce tuttavia, perché giovane, e grave nell'elasticità; i loro occhi franchi e scaltri crepitano di malizia cordiale e parole ingenuamente astute escono non senza il sapore d'una gaia bestemmia dalla bocca freschissima dai solidi baci; il loro cazzo vigoroso e le gioiose chiappe deliziano la notte il mio uccello e il mio culo; sotto la lampada e all'alba le loro carni gioiose resuscitano la mia stanca voglia, mai vinta. Cosce, anime, mani, tutto il mio essere alla rinfusa, memoria, piedi, cuore, schiena e l'orecchio e il naso, la coratella, tutto sbraita un ritornello e fa un gran baccano tra le loro braccia forsennate. Un baccano, un ritornello, entrambi pazzi, e piuttosto divini che infernali, più infernali che divini, che mi ci perdo, e nuoto e volo nel loro sudore e nel loro respiro, in quei balli. I miei due Charles: uno, giovane tigre con occhi di gatta, sorta di cherichetto che cresce da soldataccio; l'altro, un fiero pezzo d'uomo, bello sfrontato che si fa stupire solo dalla mia discesa vertiginosa verso il suo dardo. Odilon, un monello, già piantato come un uomo, i suoi piedi amano i miei appassionati dei suoi alluci ancor meglio, ma non più che del resto insomma adorabile in tutto, ma i suoi piedi ineguagliabili! Carezzevoli, fresco raso, delicate falangi sotto le piante, intorno alle caviglie sulla venosa inarcatura, e quegli strani baci così dolci, di quattro piedi con anima, sicuro! E poi Antonio, dal cazzo proverbiale, lui, mio re trionfale e mio supremo Dio, che mi consuma il cuore con la pupilla azzurra, e il mio culo col suo spiedo spaventoso; Paul, atleta biondo dai superbi pettorali, bianco petto dai duri capezzoli succhiati come la buona punta; François agile come un fascio d'erba: le sue gambe di ballerino, e che bel mazzuolo! Auguste che diventa più maschio di giorno in giorno (com'era carino quando ci capitò di farlo!); Jules, un po' puttana nella sua pallida bellezza; Henri, miracoloso coscritto che, ahimè! se ne va; e tutti voi! in fila o alla rinfusa, in banda o soli, visione così netta dei giorni passati, passioni del presente, futuro che cresce e si rizza, amati innumerevoli che non bastate mai! 1891. XII In quel caffè gremito d'imbecilli, noi due, soli, figuravamo il cosiddetto schifoso vizio d'essere "da uomo" e smerdavamo quegli idioti ignari dall'aria bonaria, i loro amori normali, la loro morale di merda, e intanto, menati di taglio e di punta, a più non posso, a volontà, per principio tuttavia, velati dai fiocchi delle nostre pipe (come un tempo Era copulava con Zeus) i nostri cazzi, come nasi gioiosi di Karagoz che le nostre mani soffiassero con gesto delizioso, starnutivano sotto il tavolo getti di sperma. 1891. Il sonetto del buco del culo di Paul Verlaine e Arthur Rimbaud Oscuro e increspato come un garofano viola respira, umilmente rannicchiato nel muschio umido ancora d'amore che segue il dolce pendio delle bianche natiche al limite dell'orlo. Filamenti simili a lacrime di latte hanno pianto sotto il vento crudele che le respinge attraverso piccoli coaguli di marna rossiccia a perdersi là dove il pendio le chiamava. La mia bocca spesso s'accoppiò alla sua ventosa, la mia anima, gelosa del coito materiale, ne fece il fulvo nido di lacrime e singhiozzi. È l'oliva in deliquio e il flauto carezzevole, è il tubo in cui scende la celeste pralina, Canaan femminile nel dischiuso madore! da FELICITÀ XIX La neve attraverso la nebbia cade e muta tappezza il sentiero scavato che conduce alla chiesa dove i lumi s'accendono per la messa di mezzanotte. Londra cupa fiammeggia e fuma: oh, i cibi che vi si cuociono e le bevande che li seguiranno! È Christmas con il suo rito da mezzanotte a mezzanotte. Sopra la piuma e l'asfalto Parigi grida e gioisce. Bisboccia e lieto sollazzo sull'asfalto e la piuma si esasperano da mezzanotte. Il malato nell'amarezza dell'ospizio dove lo incalza una speranza sempre distrutta si spaventa e si consuma nel nero di una lunga mezzanotte... La campana dal suono chiaro d'incudine nella torre sottile che risplende, lontano dal peccato che ci nuoce, vestiti a festa ci chiama alla messa di mezzanotte. XXIII Partite le campane nel mezzo del GLORIA, dopo la solita ora dei vespri si consacra l'Olio Santo che scorterà un lungo corteo di pontefici e leviti. Pioviggina, nevischia, vuota l'inverno la sua cesta. Il tabernacolo, vuoto, sbadiglia, l'altare spoglio non ha più ceri, grandi drappi neri pendono dalle grate, sono muti gli organi sacri. E nebbia che danza e cielo ancora livido. A fiotti si dispensa l'acqua benedetta, tutti i ceri sono accesi, e musica solenne nel coro s'esalta e ascende alla tribuna. Un sole chiaro che inebria riscalda l'aspro vento. GLORIA! Ecco le campane che ritornano! ALLELUIA! XXVI A proposito di PARALLELAMENTE. Quei versi dovettero essere scritti, fu necessaria quella confessione, testimonianza di un cuore sincero e tutto buono o tutto cattivo. Cattivo, sì, ma non malvagio. La sola sensualità, carne folle, lombi e gola, turba il suo desiderio benedetto. Bellezza dei corpi e degli occhi, profumi, festini, le ebbrezze, le carezze, la pigrizia, sole sbarravano la via verso il cielo. È finita davvero? Tu lo assicuri, sorta di presentimento di una quiete finale, divino medicatore di ferite, umano remuneratore dei meriti minimi, arbitro dei legittimi slanci verso l'altezza del dovere finalmente visibile, dopo un cammino così duro, divina anima, cuore umano, celeste e terreno bersaglio! Guardate, mio Dio, i miei voti, udite i miei gridi di debolezza, datemi tutta la semplicità per volere ciò che voglio. Allora saranno cancellate ai vostri occhi non più offesi, insieme ai miei torti confessati, queste righe pensate così poco. XXXI Immediatamente dopo la sontuosa benedizione, spenta la luminaria tranne i ceri liturgici, in tono minore son pronunciati i salmi per i morti dai chierici e dal popolo preso da malinconia. Lento un rintocco si diffonde dai campanili della cattedrale; gli rispondono tutti i campanili della diocesi, e plana e piange sulle città e la campagna nella notte calata presto dell'autunno avanzato. Ognuno se ne va a letto dietro la voce dolente e dolce all'infinito del bronzo commemorativo che cullerà il sonno un po' triste dei viventi nel ricordo dei defunti di tutte le parrocchie. XXXII È maestosa la cattedrale che immagino in piena campagna su un affluente di qualche Mosa non lontano dall'Oceano in cui si versa, l'Oceano non visto che indovino dall'aria satura di sali e aromi. La croce è d'oro nella notte divina nell'ascesa delle torri e delle cupole. Angelus fanno intorno ai campanili una canora corona d'argento. Gufi bianchi, dai lunghi gracili gridi, girano incantevoli senza sosta. Processioni giovani e chiare vanno e vengono da portici innumerevoli, seta e perle di rosarî viventi, rogazioni per cari frutti d'ombra. Non è un sogno, e neppure la vita, è il mio pensiero casto e bello, e se volete, la mia filosofia, la morte proprio mia in questo aspetto. XXXIII Voce di Gabriele presso l'umile Maria, campane di Natale nella notte fiorita, secoli, celebrate i miei sensi liberati. Martiri, bianco gregge, e i confessori, frutti d'oro del ramo, voi, fratelli e sorelle, vergini nella gloria, cantate la mia vittoria. I Santi ignorati, virtù disprezzate, che ci salverete per vostra intercessione, pregate, che la fede dimori umile in me. Peccatori, per il mondo, che vi pentite nel profondo ardore del riscatto, ora io vi contemplo, datemi l'esempio. Natura, animali, acque, piante e pietre, i vostri semplici lavori sono umili preghiere. Voi obbedite: a Dio basta. da CANZONI PER LEI II Compagna saporita e buona cui ho affidato la cura definitiva della mia persona, tu, mio ultimo, mio solo testimone, vieni, cara, ch'io ti baci, che t'abbracci a lungo e forte, il mio cuore accanto al tuo batte di piacere e d'amore fino alla morte: Amami, perché, senza te, nulla posso, nulla sono. Misero mi aggiro come un topo di chiesa e tu non hai che le tue dieci dita; la tavola non è spesso apparecchiata nei nostri sottosuoli, nelle nostre soffitte; ma il nostro letto non sciopera mai, sempre gioioso, sempre festeggiato dove io sono il re del reame della tua allegria, della tua salute! Amami, perché, senza te, nulla posso, nulla sono. Dopo le nostre notti di amore forte esco dalle tue braccia meglio temprato, la tua ricca carezza è quella giusta, senza nessun inganno alla mia carne, l'amore tuo diffonde il suo vigore in tutto il mio essere, come un vino, e, unica, tu sai la scienza d'inebriarmi un cuore divino. Amami, perché, senza te, nulla posso, nulla sono. Che importa il tuo passato, bella mia, e che importa, perbacco! il mio: ti amo d'un amore fedele e tu non m'hai fatto che del bene. Uniamo nelle nostre due miserie il perdono che ci fu rifiutato e io ti stringo e tu stringi me e al diavolo le chiacchiere della gente! Amami, perché, senza te, nulla posso, nulla sono. IX Tu m'hai colpito, è ridicolo, io t'ho picchiata, è spaventoso: io me ne pento, e tu ce l'hai con me. E va bene, è secondo la formula. Non avevo che da starmene quieto sotto l'amabile rovescio di ceffoni della tua mano esperta in manrovesci, senza neppure chiedere perché. E tu, il tuo diritto, anzi il tuo dovere, a rischio d'estenuarti sarebbe di continuare in modo estremo e superbo... Soltanto, oh non volermene più, benché sia stato un crimine far di te la mia vittima... Di', mai più rifiuti assoluti, picchiami, piccola, di santa ragione, ma poi vieni a baciarmi, vero? Perché rendere eterno un litigio troppo bizzarro? Per guastarci più d'un istante, il tempo di farci una smorfia spenta da un bacino sulla guancia, poi sulla bocca, in attesa di meglio ancora, non è vero, briccona? Promettilo senza esitare. D'accordo? Sì? Posso osare? Su, basta con il broncio! X Orribile notte d'insonnia! - senza la presenza benedetta del tuo caro corpo accanto a me, senza la tua bocca tanto baciata anche se troppo scaltra e sempre in malafede, senza la tua bocca tutta menzogne, ma così franca quando ci penso e che sa consolarmi sotto l'aspetto e la specie di una fragola - e, buona commedia! - di un plausibilissimo parlare, e soprattutto il pentacolo dei tuoi sensi e il miracolo multiplo e uno, fiore e frutto, dei tuoi duri occhi di strega, duri e dolci a modo tuo... Buon Dio! che terribile notte! XII Tu bevi, che schifo! quasi quanto me. Io bevo, vergogna! quasi più di te, non è più quel che si dice una vita... Ah! la donna, pazzo, è pazzo chi le si affida! Gli uomini, bene! sono fieri e fedeli, ci si può fidare, ecco i veri amici! Noi beviamo, ma voi, care signore, l'ebbrezza meno che a noi si addice, - in tigre ti trasforma, me tutt'al più in un semplice maiale, qualche sciocco ideale nella capoccia, qualche scemenza in più, e inoltre qualche sciocchezza, - ma tu, il non far nulla, la cattiveria, l'ostinazione, un poco il vizio e molto l'opzione, di essere più folle, credimi! della mia follia già così folle. Queste riflessioni mi costano molto, ma stasera ho un umore da lupi. Scusa l'arroganza delle mie parole, ma stasera è pessimo il mio umore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bah, beviamo, non troppo (se ci riesce), la mia bocca è un buco, un setaccio la tua. Dio saprà ben riconoscere i suoi. Morale: soprattutto baciamoci - e vieni! XIII Sei bruna o sei bionda? Sono neri o blu i tuoi occhi? Io non ne so nulla ma amo la loro luce profonda, ma adoro i tuoi capelli in disordine. Sei dolce o sei dura? È sensibile o beffardo il tuo cuore? Io non ne so nulla ma ringrazio la natura d'aver fatto del tuo cuore il mio padrone, il mio vincitore. Fedele o infedele? Ma che cosa importa, veramente? Poiché sempre dispone a coronare il mio zelo la tua bellezza è il pegno del mio più caro auspicio. XIV Non mi piaci agghindata e detesto la veletta che mi oscura i tuoi occhi, i miei cieli, e aborro gli sbuffi del vestito parodia e caricatura delle tue sontuose attrattive. Sono ostile ad ogni veste che più o meno nasconde e sottrae i tuoi incanti, in fondo i migliori: la tua gola, mia più cara delizia, le tue spalle e la malizia dei tuoi polpacci seduttori. Accidenti alla donna troppo vestita! Io ti voglio, mia bella, in camicia, - amabile velo, ostacolo scherzoso, tovaglia d'altare per l'alma messa, vezzosa bandiera vinta senza tregua mattina e sera, sera e mattina. XVI L'estate non fu adorabile dopo un inverno infernale e che primavera sfavorevole! e l'autunno inizia male. Bah! ci riscaldammo mischiando le nostre anime. La povertà, nostra compagna, di cui avremmo fatto a meno, vanamente conduceva la campagna durante quei lunghi gelidi mesi... noi smerdavamo l'intrusa, la sua astuzia e i suoi inganni. E, ricchi di baci innumerevoli, - l'unica opulenza, credimi, - che c'importa che il tempo sia cupo se c'è il sole in me, accanto a te, e il piacere ride alla nostra miseria? XX Tu, credi ai fondi di caffè, ai presagi, alle carte: io, credo soltanto nei tuoi occhi. Tu, credi ai racconti di fate, ai giorni infausti, ai sogni, io, credo soltanto nelle tue menzogne. Tu, credi in un Dio assai vago, in qualche santo speciale, in tale Ave contro un dato male. Io credo solo alle ore blu e rosa che tu mi apri nella voluttà delle notti bianche! E talmente è profonda la mia fede in tutto quel che credo, che ormai io vivo solo per te. XXII Stanotte ho sognato di te: in deliquio, in mille pose, tubavi un sacco di cose... E io, come si gusta un frutto ti baciavo a piena bocca un po' dappertutto, monte, valle o pianura. Ero di un'elasticità, di un vigore davvero ammirevole: perdiana che fiato, che reni! E tu, cara, a tua volta, che reni, che fiato, che elasticità di gazzella... Al risveglio fu, tra le tue braccia, ma più intensa e più perfetta, esattamente la stessa festa! XXV Fui mistico e non lo sono più (la donna mi avrà ripreso del tutto) non senza serbare un rispetto assoluto per l'ideale che bisognò rinnegare. Ma la donna mi ha ripreso del tutto! Andavo pregando il Dio della mia infanzia (oggi sei tu ad avermi ai tuoi ginocchi). Ero pieno di fede, di bianca speranza, di santa carità dai fuochi puri e dolci. Ma oggi sei tu ad avermi ai tuoi ginocchi! La donna, con te, ridiventa il padrone, padrone onnipotente e tirannico, ma quanto infido! che finge di permettere tutto per giungere a tale fine satanico... Oh, il tempo benedetto quando ero quel mistico! da ODI IN SUO ONORE VI Ma dopo le meraviglie impareggiabili della spalla e del seno, bisogna in altro tono elevare una bella ode al glorioso bacino. Bisogna cantare la bianca sinuosità dell'anca, la sua solida ampiezza, cantare il pingue ventre e la sua curva sublime verso il sesso vorace che castamente, sebbene graziosamente, decora e difende in modo assai adeguato l'ombra che si addice alle cose divine, fitte tende intrecciate, poco oscure, adorabile Teutates, Saturno più amorevole, antropofago caro che vuole in sacrificio non sangue di giovenche ma il latte della mia carne. E poi canteremo il biondo inguine e la sua fuga ambrata dentro la Santa... Ma deponiamo la lira, abbandoniamoci al delirio ragionevole e parco! no! pazzo, suonato, orgiastico, all'apache, alla canaque ubriaco di tafià: noi non siamo l'uomo per la sapiente Sodoma quando la Donna è qui. VII Fifì s'è risvegliato. Fin dall'alba m'hai detto buongiorno con due baci e il povero piccolo pigolò, poi ripose la testa sotto l'ala e tacque per il momento il gentil ritornello. Allora ti resi un bacio, in cambio dei tuoi, un bacio multiforme, ubiquista, che si posò dalla pianta dei piedi alla punta dei capelli scuri con soste nei luoghi dei lampi e delle ombre, un gioco (e tu ridevi) ridicolmente tenero, e, brusco, spinsi tra le tue le mie ginocchia, subito su di esse mi rialzai e, chino sulla tua bocca, fui brutale senza che tu apparissi scontrosa, anzi ringraziavi con uno sguardo languido. Fu allora che Fifì, del tutto risvegliato, il minuto compagno! simile ai buontemponi che l'altrui felicità non rende invidiosi, salutò il mio trionfo con salve di trilli che tutto il suo cuoricino pareva lanciare nei cieli. E saltellava, orgogliosetto, come un ragazzotto che s'inarchi, acclamando un vincitore giustamente rinomato, e l'aurora, esplodendo sui vetri della stanza, senza mentire attestava che noi avevamo amato. VIII Cosce grosse ma affusolate, tenere e sotto sode, e sopra dure ma tenere, muscolose e grassocce, cosce così buone, tanto baciate da lì, da dove nascono, più bianche di una rosa tea, la parte migliore dei miei pensieri, ginocchia, piccole teste d'angeli paffuti nella loro snellezza, polpacci frementi che fanno furore in calze chiare che temono il fango, piedi eretti per alzarti alla mia altezza per abbracciarti, e sollevarti e adagiarti sul letto, piedi bellissimi arcuati dalla caviglia di molle avorio, profumati della loro freschezza; dita delicate, fragile rossore dolcemente fulvo al tallone, e pelle assai forte per camminare, ma come! forse non serve al caro corpo, base solida e sostegno robusto, al caro corpo che protegge la mia Arca? L'arca di timore e di blandizie in cui io entro, espiata ogni colpa, come si salirebbe al cielo. Piedi divini, ginocchia prelibate, buone cosce! IX Fosti spesso crudele, talvolta perfino ingiusta, ma che importa, mia bella, poiché credo in te sola e sono cosa tua? Che m'inganni con Pierre, Louis, et ctera punctum, lo so, ma via! non mi riguarda, non sono che l'umile factotum del tuo umore lieto o rattristato. Se capita che tu mi picchi, mi schiaffeggi, mi graffi, sei tu il padrone in casa nostra, e io il cornuto, il bastonato, sono contento e vedo tutto rosa. E poi, perbacco! spero che nel vedermi così tuo, finirai, divina, per amarmi almeno un po' come ci s'affeziona a una cosa propria. XI Ricco ventre che mai ha concepito, seni opulenti che mai hanno allattato, braccia fresche e grasse, pure da ogni cura servile, bel collo che s'è piegato sotto il solo peso di lenti baci in tutti i punti cari, mento da cui traspare l'indolenza, bocca splendente e rossa da cui nulla mai uscì se non parole che amavo, oziose e liete - e che nido di delizie! naso all'insù in cerca degli unici profumi della salute robusta, occhi più che bruni e meno che neri, indulgentemente complici, fronte poco pensierosa e per questo più bella, lunghi capelli neri la cui grande onda di seta fino alle reni s'avventura grevemente, schiena superba e che ama l'indolenza tranne nelle fatiche del piacere supremo, nei gai combattimenti di cui è retroguardia, gambe, infine, vigorose soltanto nel piacevole gioco, al giusto momento, quando mi stringono il busto e danzano al cielo, poi, in riposo - cosce, ginocchi, polpacci, - odorosi come ambra e bianchi come latte: - ecco il pastello della mia donna nuda. XV Quando mi racconti i trascorsi della tua vita da cani, anche la tua, le mie lacrime cadono pesanti come fontane in vasche, e i miei lunghi afflitti sospiri si mischiano ai tuoi lenti racconti. Mi parli dei tuoi primi amori: ragazza di campagna con ragazzi, poi giovane in città, e i colpi di testa e i tradimenti abituali e reciproci senza rimorsi da entrambe le parti, come d'accordo. Poi d'un tratto un capriccio, in fretta maturato in passione selvaggia, come l'umile pollone cresciuto svelto in palma che in un verde paesaggio agita un vento del deserto. Fedele tu, infedele l'altro, tu sofferente, abbattuta, e infine furiosa, ubriaca del vino del vizio, con un colpo d'ala librando il tuo cuore come aquila ferita, ma senza poter sfuggire il passato... Ti ascolto, e tutta la mia pietà, tutta la mia ammirazione, un affetto indicibile, ti vengono da me per quale via se non quella di un amore puro che a sua volta, cara, soffrirebbe, che soffrirà, e ne ho paura, che soffre già, e tu lo sai, tu cattiva talvolta fino all'eccesso e pure incantevole come una santa con me, buon vecchio amante, l'ultimo, eh, probabilmente? da EPIGRAMMI III Dopotutto, hanno senz'altro ragione poiché la nostra vita è per tre quarti compiuta; tocca a noi cedere loro la casa, sia pure riservandoci la parte alta. La giovinezza, ahimè! ama trionfare. Noi stessi fummo giovani e trionfanti non più propensi di loro alla filosofia. Bah, si tengano la fame, noi ci terremo i digiuni. E si tengano Ibsen! Per noi era Hugo. E siano tanto e più; noi restiamo gli stessi, non troppo vecchi, non più tanto liberi di pensare ancora ai tuffi supremi. Lasciamoli crescere. La loro arte maturerà: sono appena entrati nel tempio, e la nostra morte compianta approverà coloro cui abbiamo dato l'esempio. VII a Francis Poictevin. Non mi occorre più che un'aria di flauto, molto lontana, in tramonti spenti. Sono così stanco della lotta che non mi occorre più che un'aria di flauto molto spenta in tramonti lontani. Ah, non più la tromba folle dell'aurora! Il coraggio è stanco di andare più avanti. Vuole e non può camminare ancora al suono della tromba folle dell'aurora: d'un canto che lo culli ora ha bisogno. La rossa azione della giornata non è più che un sogno indolenzito per la sua testa ancora incoronata, e la vittoria della giornata fluttua nel dormiveglia laureato. Donna, per questo eroe che inciampa per aver camminato sempre avanti, sii l'olio sul corpo dopo la lotta: - non più la tromba folle: il molle flauto! D'ora in avanti la pace nel suo cuore. XIII Quando andremo, se mai dovrò vederla, nell'oscurità del bosco nero, quando saremo ebbri d'aria e di luce sulla riva del chiaro fiume, quando in un attimo ci troveremo altrove via da questa Parigi di cuori infranti, e se la bontà lenta della natura ci cullerà in un sogno duraturo, allora dormiamo pure l'ultimo sonno! Ci penserà Dio al risveglio. XVII a F.-A. Cazals. Grazie a te mi vedo di schiena e assai più verosimile: nel tuo schizzo, a passi goffi me ne vado dritto al diavolo. Proprio io che per la posterità sopra un'ala celeste credevo di prendere il volo, ribelle, fatale e tutto il resto! - M'incammino lentamente, a un trotto più o meno lesto, attratto da una doppia calamita, verso il diavolo... o il resto. XXVIII o SOPRA UN ESEMPLARE DEI FIORI DEL MALE (prima edizione) Paragono questi strani versi ai versi strani che comporrebbe un marchese di Sade discreto che conoscesse la lingua degli angeli. da INVETTIVE IV o Letteratura Buoni compagni della Stampa e così pure della Poesia, fiori di cafonaggine e di bassezza, élite scelta da quale Dio, da quale Dio d'ogni bassezza? Confratelli con me malfratelli, che quasi mi seppelliste un tempo sotto quel gran silenzio - perché? - fin dall'orrido settanta, confratelli con me malfratelli, perché quel silenzio malfratello per così lunghi anni, e di colpo come in collera tanti clamori quasi sbalorditi? Perché un tale mutamento malfratello? Ah, se mi si potesse soffocare sotto questa pila di giornali dove il mio nome, che si finge di scoprire come si trova un gheriglio di noce, si gonfia fino a farlo scoppiare! È ciò che si chiama la Gloria - con il diritto alla fame, alla grande Miseria nera e perfino, quasi, ai pidocchi - è ciò che si chiama la Gloria! XXI o Sonetto per lacrimare Giudice di pace più che insolente e magistralmente ingiusto, che cammini massiccio, ventre che balla, gambe storte - e quel tronco! Voglio parlare del tuo maltalento, del tuo modo rustico e rozzo d'essere pedante... e sonnolento, e scemo, così robustamente! Non ho dimenticato, no, no! (questo complimento di nuova specie che io ti rimo ne è la prova). Non ho dimenticato il tuo nome, le tue solfe, la tua trippa, la tua goffaggine - e neppure il mio odio! XXXIV o Puero debetur reverentia Se avessi venti figli, avrebbero venti cavalli! (ÉMILE DESCHAMPS.) Se avessi venti figli, avrebbero venti cavalli e fuggirebbero al galoppo il Pedante e la Scuola, infami per i quali questa donnaccia adesca in un paese vinto i piccoli cervelli. Imbrogliona! che vuole per i suoi sporchi lavori, bestemmia, poi peccato, sedurre, come si ruba, il bimbo, il mio, il vostro, oh! sinistra folle! il bimbo, il vostro orgoglio e il mio valore! E se di figli ne avessi cento, avrebbero cento cavalli per disertare in fretta il Sergente e l'Esercito che quei briganti hanno creato, e quei vessilli. Furfanti! che darebbero la Francia, nostra amata, a chi offre di più, dopo averne fatto quella cosa impura, debole e sozza che sappiamo. XLVII o Griefs Mi dicono vecchio, ma chi? I giovani d'oggi! Anche Omero è vecchio, io mi richiamo a lui non in termini equivoci né barocchi, il mio spirito che non ha bisogno dei loro gingilli per risuonare e splendere al vero sole d'estate. Cinquant'anni, non suonati, non han troppo inebetito, che io sappia, lo spirito che Dio mi attribuì. Mi dicono vecchio, ma chi? Gli amanti di questa epoca, manichini intirizziti, venuti da Gomorra. Ora, io sono nel pieno della forza, lo attestano Venere e le signore. Mi dicono vecchio, ma chi? Quel maestro in Anarchia (parola superata), piccolo traditore della patria in lutto, del povero ch'egli vorrebbe incattivire invece delle cure che gli servono, e dolci consigli, la presenza di Dio, pane, vino, mano tesa e la buona morte attesa con pazienza come liberazione in una vita infine felice! Mi dicono vecchio, ma chi? Quell'imbroglione imberbe, ma pescatore emerito in acqua torbida, che mi compiange per la mia indigenza tripla e doppia, unica! senza pensare un attimo, il poveretto, che io sono ricco, essendo onesto. Aspro segreto, ricetta mica male, essere ricco in quanto onesto! Ancora mi dicono vecchio. Quale bestia ancora? Ah sì, talvolta io stesso, soprattutto quando ho agito male, parlato male, pigolato come una ghiandaia, trotterellato come un asino attraverso questa o quella preoccupazione, sordidezza o bagattella. Ma sono presto rinverdito in mezzo a questi detriti e mi avvolgo in virtù quasi infantili, in sforzi da adolescente, in virilissime azioni contro i miei futili discorsi! Chiedo perdono per la loro voce poco alta e il tono acceso, - ma si è giovani una sola volta. LXVI o Sogno Rinuncio alla poesia! Domani sarò ricco. Passo la mano ad altri: chi vuole, chi vuol farmi da Sosia? Bell'impiego! ne chiamo a testimoni le buone ore di passeggiata quando, rimacchiando qualche ballata passavo le mie notti tardi e in giro. Sotto la luna lucida e chiara i ponti rilucevano insidiosi, con flutti graziosi l'acqua bagnava Parigi lieta come un cimitero. Rinuncio a tutta questa felicità e ai giovani lascio la mia lira! Ragazzi, ereditate il mio delirio, io eredito una borsa seduttrice. LXVII o Risveglio Ritorno alla poesia! La ricchezza decisamente non vuol saperne della mia indigenza: ed è una triste conclusione. A me la squisita provvigione: l'acqua chiara e pura e questo pane secco quotidiano non senza, con, un'arietta gentile di ribeca! A me il letto problematico dalle notti bianche, dai sogni neri, a me le eterne speranze pavoneggiate da mattino a sera! A me l'etica e l'estetica! Io sono il poeta famoso che rima versi strabilianti all'ombra di una fumosa quinquet! Io sono l'anima scelta da Dio per incantare i miei contemporanei con certi rari e fini ritornelli cantati a digiuno, o cieli sereni! Ritorno alla poesia. da VARIE Ultima speranza C'è un albero nel cimitero che cresce in piena libertà, non piantato da un lutto di rito, - e ondeggia lungo un'umile pietra. Su quell'albero, d'estate e d'inverno, viene un uccello a gorgheggiare la sua canzone tristemente fedele. Quell'albero e quell'uccello siamo noi: tu il ricordo, io l'assenza che il tempo - che passa - scandisce... Ah, vivere ancora ai tuoi ginocchi! Ah, vivere ancora! Macché, mia bella, il nulla è il mio freddo vincitore... Ma almeno, dimmi, vivo nel tuo cuore? (da Le livre posthume) XIII Oh, l'assenza! il meno clemente di tutti i mali! (LA BUONA CANZONE.) Ho detto un tempo che l'assenza è il più crudele dei mali; ci si trastulla con delle parole, è l'orrore dell'impotenza senza la consolazione almeno di qualche carezza, si muore senza sembrarlo, si è morti, dico, e se fingiamo di respirare ancora, accade meccanicamente. Oh, lo scoraggiamento a veder levarsi l'aurora! Ora, da quando in questi luoghi soffro - da quando sei venuta, per quale forza ignota mi sento infinitamente meglio? È la storia dell'efebo che lontano dalla vergine muore! Ch'ella giunga e sia testimone di quanto sfotte e sfugge l'Erebo! E finché vi resterò, accorri in questo livido limbo: io che già ti amo e ti amo, oh quanto ti adorerò! (da Dans les Limbes) Money! Ah sì, la questione dei soldi! cioè vederti a tuo agio in un vestito che ti piaccia, senza troppe furbizie o arrangiamenti; cioè adorare il tuo capriccio e favorire, se piovono luigi, i giochi in cui tu sbocci, tutta vizio e malizia; ed essere, in questa Waterloo, la vita a Parigi, di riserva, vecchia guardia imperturbabile e che nel quadro fa una buona figura; e privarmi di ogni gioia in tuo favore, anche se tu dovessi ancora ingannare questo testardo, me, che si ostina a restare la tua preda! Me l'hanno assai rimproverato quelli che non ti comprendono, grande amante che dal basso adoro, china sul mio cuore, amici di Giobbe dai consigli vili, che mai si son sentiti battere un cuore innamorato per quattro attraverso miseria e pericoli! Mai avranno la fortuna né l'onore di morire d'amore e di versare tutto il loro sangue per il tuo solo amore, bionda o bruna! (da Chair) AEgri somnia Da dieci anni, mia gamba sinistra, quanti tiri m'hai giocato! È scoraggiante, com'essere falciati, sarà così per sempre? Se cammino, mi immagino di trascinare una palla, forzato innocente, ma tu non te ne curi! - Chi volle dunque che tanto pesasse dietro di me quest'arto rigido e doloroso? il diavolo o Dio? Che sia il rimedio per i miei peccati, l'espiazione? Allora, è poco. Oppure Satana, mai in errore quando si tratta di non fare del bene, vuole tentare, ospite invisibile, la mia pazienza di cristiano?... Bah! non è nulla. Dio lo vede il mio zelo nel soffrire in questo oggi, e la mia gamba trasformata in ala, morto, in volo mi porterà da Lui. 16 marzo 1895. I o Bibliofilia Il vecchio libro che si è letto e riletto tante volte! In pezzi, straziato e desolante, logoro e orrendo, rieccolo d'un tratto vivo, vezzoso, volto giovane, delicato al tatto, delizia degli occhi e delle dita. Quel libro creduto morto, cosa d'ombra e spavento, la sua resurrezione "non stupisce il saggio". Chi sa, o Rilegatore, artista e insieme mago, quanto tu faccia anche meglio del dovuto. Lo si riprende, quel libro in piena giovinezza, come una vecchia amante cui una fata abbia restituito tutta la sua verginità; lo si rilegge come ascoltando la Musa d'un tempo, voce d'oro arrochita dall'età, di nuovo limpida, a divertirci ancora. 12 ottobre 1895. (da Bibliosonnets) Morte! Le Armi hanno taciuto gli ordini in attesa di vibrare di nuovo in mani ammirevoli o scellerate e, tristi, le braccia ciondolanti, erriamo, male sognando, nel vago delle Favole. Le Armi hanno taciuto gli ordini che attendevano perfino i sognatori bugiardi che noi siamo, vergognosi di un braccio inerte e lento, e delusi andiamo tra gli uomini. Armi, vibrate! ammirevoli mani, impugnatele! o, in loro assenza, mani scellerate! afferratele, fate un cenno a chi è svanito nelle favole più incerte delle sabbie. Tirate fuori dal sogno il nostro esodo! Noi moriamo d'esser così languidi, quasi infami! Armi, parlate! I vostri ordini saranno finalmente per noi la vita in fiore sia pure sulla punta delle spade. La morte che noi amiamo, che sempre ci fu mèta di questo cammino dove prosperano il rovo e l'ortica, oh! morte senza più grevi angosce, deliziosa, la cui vittoria è l'annuncio! Dicembre 1895.
|
|
|