PAUL VERLAINE

POESIE VI



CONGEDO

Principe e principessa, andate, eletti,
in trionfo per la strada dove io
fatico su una pista in discesa.
Ma io, vedo la vita in rosso.

Mani


Non sono mani d'Altezza,
da bel prelato un po' santo.
Eppure una delicatezza
vi lascia il suo garbo succinto.

Non sono mani d'artista,
da poeta propriamente detto,
ma qualcosa vagamente triste
ne fa quasi un gruppo in miniatura;

perché le mani hanno un loro carattere,
è tutto un mondo in movimento,
dove il pollice e il mignolo
fanno i poli della calamita.

Le meteore della testa
e le tempeste del cuore,
tutto vi si ripete e si riflette
per un dono logico e vincitore.

E non sono neppure le palme
di un rurale o di uno dei sobborghi;
ancora le loro grandi linee calme
dicono: "Lavoro che nulla deve".

Sono magre, lunghe, grigie,
falange larga, unghia quadrata.
Ne hanno di simili nelle vetrate di chiesa
i santi sotto il fogliame dorato,

e certi vecchi militari
disabituati alle battaglie,
a ricordare le loro lunghe guerre
che narrano vagamente.

Stasera hanno, queste mani secche,
sotto i loro radi ispidi peli,
un'aria particolarmente ruvida,
come in preda ad aspri pensieri.

Il nero cruccio che le irrita,
il loro acre trasognare fa loro
fare una smorfia sinistra
a modo loro, da mani quali sono.

Ho paura a vederle sul tavolo
premeditare, sotto i miei occhi,
qualcosa di temibile,
d'inflessibile e furioso.

La mano destra è certo alla mia destra,
l'altra alla mia sinistra, io sono solo.
Nella mia stretta stanza le lenzuola
assumono aspetti da sudario,

fuori il vento urla senza tregua,
scende insidiosa la sera...
Ah! se sono mani di sogno,
tanto meglio, - o tanto peggio - o tanto meglio!

Pierrot monello


Non è Pierrot in erba
non più che Pierrot in mannello,
è Pierrot, Pierrot, Pierrot.
Pierrot monello, Pierrot ragazzo,
la noce fuori del guscio,
è Pierrot, Pierrot, Pierrot!

Benché sia alto poco più d'un metro,
il bricconcello sa mettere
nei suoi occhi il lampo d'acciaio
che s'addice al genio sottile
della sua malizia infinita
di poeta-smorfioso.

Labbra rosso-ferita
dove sonnecchia la lussuria,
faccia pallida dal ghigno fine,
lunga, accentuata,
che pare abituata
a contemplare ogni fine,

corpo esile ma non magro,
voce di fanciulla ma non stridula,
corpo d'efebo in piccolo,
voce di testa, corpo in festa,
creatura sempre pronta
a saziare ogni appetito.

Va', fratello, va', compagno,
fa' il diavolo, batti la strada
nel tuo sogno e su Parigi
e per il mondo, e sii l'anima
vile, alta, nobile, infame
del nostro spirito innocente!

Cresci, poiché così si usa,
moltiplica la tua ricca amarezza,
esagera la tua allegria,
caricatura, aureola,
la smorfia e il simbolo
della nostra semplicità!

Læti et errabundi


Le corse furono intrepide
(come pesa oggi il riposo!)
tra steamers e rapidi
(che vuole da me quest'obeso at home?).

Andavamo - ve ne ricordate,
viaggiatore scomparso chissà dove? -
filando leggeri nell'aria sottile
come due spettri gioiosi!

Poiché le passioni appagate
insolentemente oltre ogni misura
riempivano di feste le nostre teste
e i sensi, che tutto rassicura,

tutto, la giovinezza, l'amicizia
e i nostri cuori, ah quanto liberi
dalle donne commiserate
e dall'ultimo dei pregiudizi,

lasciando il timore dell'orgia
e lo scrupolo al buon eremita
perché, varcata la soglia,
Ponsard non ammette limiti.

Tra altri biasimevoli eccessi,
credo che bevemmo di tutto,
dai più gran vini francesi
al faro, allo stout,

passando per le acqueviti
considerate terribili,
l'anima rapita al settimo cielo,
il corpo, più umile, sotto i tavoli.

Paesaggi, città
posavano per i nostri occhi instancabili;
le nostre belle curiosità
avrebbero mangiato ogni atlante.

Fiumi e monti, bronzi e marmi,
i tramonti d'oro, l'alba magica,
l'Inghilterra, madre degli alberi,
e il Belgio figlio di torrioni,

il mare, terribile e insieme dolce,
ricamavano sull'amato romanzo
cui non lasciava tregua
la nostra anima - e quid nella nostra carne?...

il romanzo di vivere in due uomini
meglio che sposi modello,
ciascuno versando nel mucchio somme
di affetti forti e fedeli.

L'invidia dagli occhi di basilisco
censurava quel modo di quotarsi:
pranzavamo di biasimo pubblico
e cenavamo con la stessa pietanza.

Talvolta anche la miseria
infuriava nel falansterio:
si reagiva col coraggio,
la gioia e le patate.

Scandalosi senza sapere perché
(forse era troppo bello)
la nostra coppia restava serena
come due bravi portabandiera,

serena nell'orgoglio d'essere più liberi
dei più liberi di questo mondo,
sorda ai paroloni di ogni calibro,
inaccessibili al riso immondo.

Avevamo lasciato senza commozione
a Parigi ogni impedimento,
lui qualche sciocco sbeffeggiato, e io
una certa principessa Sorcio,

una scema che finì anche peggio...
Poi, ad un tratto, la nostra gloria cadde,
e noi, da marescialli dell'Impero
decaduti a briganti della Loira,

ma decaduti di nostra volontà!
Fu come una licenza,
per dirla militarmente,
la nostra separazione,

licenza sotto le suole delle scarpe,
e dopo quante campagne!
Avete perdonato alle femmine?
Io, ho rivisto poco quelle compagne,

abbastanza però per soffrirne.
Ah, che debole cuore il mio cuore!
Ma è meglio soffrire che morire
e soprattutto morire di languore.

Dicono che siete morto. Il Diavolo
si porti chi la diffonde
la notizia irreparabile
che batte alla mia porta!

Non voglio crederci. Morto, voi,
tu, dio tra i semidei!
Sono pazzi quelli che lo dicono.
Morto, il mio grande peccato radioso,

tutto quel passato che ancora brucia
nelle mie vene e nel mio cervello
e che risplende e sfolgora
sul mio sempre nuovo fervore!

Morto tutto quel trionfo inaudito
che risuonava senza freno né fine
sul motivo mai svanito
scandito dal mio cuore che fu divino.

Ma come! il poema miracoloso
e l'omni-filosofia,
e la mia patria e la mia bohème
morti? Ma andiamo! tu vivi la mia vita!

Ballata della cattiva reputazione


Ebbe talvolta un po' di denaro
e convitò i suoi compagni
d'un sesso o due, intelligenti
o incantevoli, o entrambe le cose,
cosicché nelle menti malate
la sua buona reputazione
subì certi capitomboli!
Lucullo? No. Trimalcione.

Sotto il suo tetto, erano canti
e parole niente affatto insulse.
Eros e Bacco indulgenti
presiedevano a quelle serenate
accompagnate da abbracci.
Poi, cori e conversazioni
cessavano per fini poco spiacevoli.
Lucullo? No. Trimalcione.

L'alba spuntava e quei birbanti
la salutavano con cento albate
che svegliavano lontano la gente
perbene, e con mille bevute.
Intanto vaghe brigate
- zelo o delazione? -
deponevano davanti agli àlcadi.
Lucullo? No. Trimalcione.

CONGEDO

Principe, altissimo marchese di Sade,
un sorriso per il vostro rampollo
fiero dietro la sua palizzata.
Lucullo? No. Trimalcione.

Ballata Saffo


Tua amante e tuo amante, la mia dolce mano
passa e ride sulla tua cara carne in festa,
ride e gioisce del tuo godere.
Sai bene ch'essa è fatta per servirla,
e il tuo bel corpo io devo svestirlo
a inebriarlo senza fine di un'arte
sempre nuova nella pronta carezza.
Io sono simile alla grande Saffo.

Lascia che la mia testa vaghi e sprofondi
alla ventura, un po' selvaggia, in cerca
d'ombra e di odore e di lavoro incantevole
verso i sapori delle tua gloria segreta.
Lascia vagabondare l'anima del tuo poeta
ovunque, per campi o boschi, monti o valli,
come tu vuoi e se io lo desidero.
Io sono simile alla grande Saffo.

E allora avidamente stringo il tuo corpo,
la tua carne contro il mio corpo d'atleta
che si tende e a momenti si rilassa,
felice del trionfo e della disfatta
in questo conflitto del cuore e della testa.
Per la sterile stretta in cui il cervello
viene infine a completare la natura
io sono simile alla grande Saffo.

CONGEDO

Principe o principessa, onesto o disonesta,
chiunque ne mugugni, quale sia il suo livello,
poeta saccente o divino prosseneta,
io sono simile alla grande Saffo.

da DEDICHE



V o A Stéphane Mallarmé


Dei giovani - imprudenti -
hanno, si dice, fatto una lista
in cui passate per simbolista.
Simbolista? Intanto

altri, nel loro ardente
disgusto ingenuo o fumista
per questa povera rima ista,
m'hanno bombardato decadente.

Sia! Ognuno di noi insomma
si vede definito così bene?
Non m'infiammo poi tanto

tranne che per le n...infe, come
voi non siete male armato
più di quanto Sully non sia Prud'homme.

VIII o A Villiers de L'isle-Adam


Ci sfuggi, come fugge il sole sotto il mare,
dietro una greve tenda di porpore letargiche,
stanco di splendere, solo, sulle tragiche ombre
della terra senza verbo e dell'etere cieco.

Parti, anima cristiana, mi dicono rassegnata
perché sapevi che il tuo Dio preparava
una festa di luce, infine, al tuo cuore trasparente,
un amore tutto fiamma al tuo amore infuocato.

Noi rimaniamo qui ancora un po',
conservando il tuo ricordo nella nostra speranza raggelata,
come morenti che assaporano l'olio dell'estrema unzione.

Villiers, sii invidiato come ti si addiceva
dai tuoi fratelli impazienti del giorno supremo
quando in te saluteranno la gloria di un eletto.

XII o A Germain Nouveau


Fu a Londra, città dominata dall'Inglese,
che c'incontrammo per la prima volta,
e in King's Cross, crogiuolo di ferraglie, passi e voci,
subito riconoscendoci per il nostro buon aspetto.

Poi, scavandoci la sete come una miniera,
quel precipitarci, appena fuori dal treno,
verso i bar attraenti come ai vecchi tempi,
dove lunghe miss più bianche dell'ermellino

fan scorrere birra e bitter nello stagno chiaro
e il cristallo sonoro e leggero come l'aria,
- e quel bere senza sete alla futura amicizia!

Il nostro brindisi mantenne la promessa. Eccoci,
un po' invecchiati dopo quell'avventura,
ancora non avendo raggelati né gomito né cuore.

XXIX o A Charles de Sivry


Artista, tu, fino al fantastico,
poeta, io, fino all'idiozia,
eccoci, la barba mezza grigia,
io pazzo di versi e tu di musica.

Eccoci qua, non senza qualche fatica,
ricchi, io dell'acqua dell'Ippocrene,
tu delle canzoni della Sirena,
maturi per la gloria e i suoi patiboli.

Bah! avremo avuto il nostro piacere
che non è quello di tutti
e lo svago del nostro desiderio.

Benediciamo così la pace profonda
che in mancanza di un tesoro meno sottile
ci donarono quei così sia.

XXXIII o A Emmanuel Chabrier


Chabrier, noi facevamo, un caro amico ed io,
per voi parole cui davate ali,
e tutti e tre frementi quando, a benedire il nostro zelo,
passava l'Ecce deus e il Non so che.

Da mia madre, incantevole e divinamente buona,
il vostro genio improvvisava al piano,
ed era tutt'intorno come un anello ardente
di simpatia e di amabile agio raggiante.

Ahimè! mia madre è morta, è morto il caro amico,
ed eccomi simile al cristiano nel porto,
a sorvegliare gli scogli estremi del mondo.

Non tuttavia senza salutare, all'orizzonte,
come una vela al largo che bianca freme,
il ricordo dei dolci momenti di pace profonda.

XLI o A G...


Mi sei piaciuta per la tua grazia
e la tua folle frivolezza.
Amo i tuoi occhi per la loro gioia
e il tuo corpo per la sua venustà.

Ma subito ho detestato
l'ingordigia della tua carne.
Aborro il tuo bisogno di sbornie
(non quella che mi è tanto cara,

il bisogno di stare con quest'uomo
ancora verde che sarei io),
e mi fa orrore, per dirla
come si deve, il tuo gusto per l'eccesso passionale

gioioso, infantile, senza dubbio incantevole...
Il problema è, ci penso, che sono vecchio
tanto (cinquant'anni!) e tu in cammino
verso i diciotto anni... povero vecchio!

LIV o Anniversario


a William Rothenstein.
"E avevo cinquant'anni quando ciò mi accadde."

Non credo più al linguaggio dei fiori
e l'Uccello azzurro non canta più per me.
I miei occhi si sono stancati dei colori
e anch'io sono stanco di richiami superflui.

È, in una parola, la triste cinquantina.
Mia età matura, per frutti porti solo
una vista esitante e un passo incerto,
e sui tuoi rami soltanto foglie morte!

Ma alcuni amici giunti dall'estero,
- nessuno, si dice, è profeta in patria -
hanno voluto, se non incoraggiare,
almeno consolare questi odiati lustri.

Si sono inerpicati fino al mio piano
e con le mani piene di fiori, senza inganno,
gentili hanno augurato alla mia sciocca età
molti anni ancora e salute migliore,

e mentre si beveva a questi voti del cuore
il vino d'oro che ride nel fine cristallo,
mi è parso che dai mazzi di fiori, in coro,
si levassero voci su un motivo divino;

e poiché alla mia finestra il fringuello
e il canarino, suo vicino di gabbia,
pigolavano lieti, credetti di riudire
l'Uccello azzurro a cantare nel boschetto.

Parigi, 30 marzo 1894.

LX o A Edmond Lepelletier


Mio più vecchio amico sopravvissuto
a un gruppo già di fantasmi
che danzano come atomi
in un raggio di luce davanti

ai nostri occhi incupiti e sognanti
sotto le fronde policrome
che l'autunno arrotonda in cupole
funebri dove geme il vento,

bah! la vita è così corta infine
- che stupido risveglio dopo quale storia! -
che non bisogna più pensare ai morti

tranne per piangerli e per ungerli
di rimpianti immuni da rimorsi;
non andiamo forse a raggiungerli?

LXII o A Arthur Rimbaud


Mortale, angelo E dèmone, vale a dire Rimbaud,
tu meriti il primo posto in questo mio libro,
benché uno sciocco imbrattacarte t'abbia trattato da debosciato
imberbe e mostro in erba e studente ubriaco.

Le spirali d'incenso e gli accordi di liuto
segnalano il tuo ingresso nel tempio della memoria
e il tuo nome radioso canterà nella gloria,
perché mi hai amato come bisognava.

Le donne ti vedranno gran giovanotto forte,
bellissimo d'una bellezza contadina ed astuta,
molto desiderabile, di un'indolenza audace!

La storia ti ha scolpito trionfante sulla morte
e fino ai puri eccessi amante della vita,
poggiati i bianchi piedi sulla testa dell'Invidia!

C o All'amata


Ecco quà dei capelli grigi e barba grigia.
Me li chiedesti in un giorno di allegria
per, dicevi, incorniciarli così gentilmente
su quel ritratto della mia "grazia" agonizzante.

Povera foto! Ma credo che sarà adeguata
quando i miei stanchi occhi saran chiusi a dovere,
e la terra cullerà il suo figlio dormiente,
allora sarà il momento, mia cara - squisita

attenzione! - di far fare con quei capelli, tinti,
e quella barba, tinta in riccioli biondi, bruni
o in altra sfumatura tra le tante opportune,

da un bravo parrucchiere, su fondali dipinti,
la tomba, pianta finalmente senza astuzia,
del giovane che avrei dovuto essere.

Ospedale Broussais, 18 settembre 1893.

da DONNE



Ouverture


Tra le vostre cosce e natiche voglio perdermi,
puttane, del solo vero Dio sacerdotesse vere,
bellezze mature o no, novizie o professe,
oh! nelle vostre fessure, nelle pieghe vivere!

I vostri piedi splendidi, sempre vanno all'amante,
con l'amante ritornano, riposano soltanto
a letto nell'amore, poi gentilmente sfiorano
i piedi dell'amante rannicchiato stanco e ansante,

serrati, profumati, baciati, leccati dalla pianta
alle dita, succhiate una ad una,
fino alle caviglie, fino ai laghi delle lente vene,
piedi più belli di quelli di eroi e apostoli!

Quanto mi piace la vostra bocca e i suoi giochi graziosi,
di lingua e di labbra e di denti,
che mordicchiano la lingua e talvolta anche meglio,
quasi altrettanto gentile che metterlo dentro;

e i vostri seni, duplice monte d'orgoglio e lussuria,
tra i quali il mio orgoglio virile a volte si solleva
per gonfiarsi a suo agio e strofinarci la capoccia:
come cinghiale nelle valli del Parnaso e del Pindo.

E le vostre braccia! adoro anche le braccia così belle e bianche,
tenere e dure, molli, nervose quando serve, e belle
e bianche come i vostri culi, e altrettanto eccitanti;
calde durante l'amore, e poi fresche come tombe.

E le mani in fondo a quelle braccia, ch'io possa mangiarle!
La carezza e la pigrizia le hanno benedette,
rianimatrici del glande rattrappito e schivo,
masturbatrici dalle infinite cure!

Ma tutto questo è niente, Puttane, al confronto dei vostri
culi e delle fiche la cui vista e il gusto e l'odore
e il tatto fanno dei vostri devoti degli eletti,
tabernacoli e Santi dell'impudicizia.

Perciò, sorelle, tra le vostre cosce e tra le vostre natiche
voglio perdermi tutto, sole compagne vere,
bellezze mature o no, novizie o professe,
e nelle vostre fessure, nelle vostre pieghe, vivere!

II o A colei che dicono sia frigida


Non sei la più innamorata
tra quelle che hanno preso la mia carne;
non sei la più gustosa
tra le mie donne dell'inverno scorso.

Ma ti adoro lo stesso!
Del resto, il tuo corpo tenero e dolce,
nella sua calma suprema
è così grassamente femminile,

così voluttuoso senza storie,
dai piedi baciati lungamente
fino a quegli occhi chiari puri d'estasi,
ma come e quanto bene appagati!

dalle gambe e dalle cosce
giovinette sotto la giovane pelle,
attraverso il tuo odore di formaggio
e di gamberi freschi, bello,

piccolino discreto, dolce Cosino
ombrato appena da una parvenza d'oro,
che t'apri in un'apoteosi
alla mia rauca e muta voglia,

fino ai capezzoli belli di bambina,
di miss appena in pubertà,
fino al seno trionfante
nella sua gracile venustà,

e a quelle spalle lucenti,
fino alla bocca, fino alla fronte
ingenue dall'aspetto innocente
che tuttavia i fatti smentiranno,

fino ai capelli corti riccioluti
come i capelli di un bel giovinetto,
ma la cui onda c'incanta, insomma,
nella loro naturalezza ricercata,

passando sulla schiena lenta
gustosamente carnosa, fino al
culo sontuoso, divino candore,
rotondità degna del tuo scalpello,

languido Canova! fino alle cosce
che ancora è doveroso salutare,
fino ai polpacci, solide delizie,
fino ai talloni di rosa e d'oro! -

Furono incoercibili i nostri nodi?
No, ebbero tuttavia un loro fascino.
Furono terribili i nostri fuochi?
No, eppure dettero il loro calore.

Venendo al punto - frigida, o meglio fresca!
io dico che la nostra "cosa seria"
fu soprattutto, e me ne lecco i baffi,
un'eccellente masturbazione,

benché tutte quelle premure
ti sapessero preparare senza più -
come tu dici - inconvenienti,
o collegiale che mi piacesti,

e ti conservo tra le donne
del rimpianto, non senza qualche speranza,
se forse un giorno ci amammo,
di poterci possedere ancora.

Settembre 1889.

IV o Gusti regali


Amava poco i profumi Luigi Quindicesimo.
Io lo imito e acconsento nella giusta misura.
Né flaconi né sacchetti in amore, ve ne prego!
Ma un'aria ingenua e piccante fluttui intorno
a un corpo che sia dotato dell'arte di eccitarmi;
e il mio desiderio ama, e la mia scienza approva
nella carne agognata, in ogni nudità,
l'odore del vigore e della pubertà
o il prelibato afrore delle belle donne mature.
E anche adoro - taci, morale, i tuoi mormorii -
come dire? quegli aromi, tenuti segreti,
del sesso e dintorni, di prima e dopo
il divino amplesso e durante la carezza,
quale essa sia, o debba, o appaia.
Poi, quando sul cuscino il mio odorato stanco,
come gli altri sensi, del piacere replicato,
sonnecchia e i miei occhi muoiono verso un volto
che quasi si spegne, ricordo e presagio
dell'intrico delle gambe e delle braccia,
dei piedi fulvi che si baciano nelle lenzuola madide,
da quel languore ancor più sensuale un gusto
sale d'umanità non privo di vergogna
ma così buono, così buono da mangiarne!
Da quel momento vorrei un veleno straniero,
d'una fragranza selvatica e bestiale,
che vi stravolga il cuore e vi bruci la testa,
poiché possiedo, a esaltazione della voluttà,
esattamente la quintessenza della beltà!

VI o Alla signora ***


Quando tra le tue cosce mi stringi
la testa o le cosce, riempiendomi
la gola delle gentili delizie
del tuo giovane sugo astringente,

o con la fica di giusta misura
per un tale passe-partout mordendo
il mio cazzo non grosso, ma canaglia
dai coglioni alla cima,

quando succhi o sei leccata
torci il tuo culo in una maniera
che non è certo da donna onesta;
e, per Dio, hai proprio ragione!

Mi dai certe linguate,
quando ci amiamo, così lunghe
e di ardore smisurato,
che mi arrivano, merda! dritte al cuore,

e la tua fica mi spreme il cazzo
come fa un orso che succhia una tetta,
orso ben leccato, vello lussuoso,
del vello mio fiero tappeto.

Orso ben leccato: ingordo ed ebbro,
e la mia lingua lo può attestare,
che tante volte ti succhiò il clitoride
da non poterle ricordare.

Ben leccata, sì, ma aspra, diavolo,
la tua fica graziosa, dispettosa, briccona,
che rossa ride su fondo di sabbia:
come le labbra di Arlecchino.

VIII o Idillio high-life


La birichina
a piene mani
sbatacchia il cazzo
del bel ragazzino.

Lo studentello
ben scappucciato
gode e sputacchia
da ogni lato.

La bimba ride
a vedere quel latte
e curiosa di che
possa trattarsi,

annusa una goccia
su quel tettino,
poi, perbacco! dai,
avanti, che importa!

e lecca e bacia
la punta graziosa,
non esitare,
pompalo tutto!

O viscontino
di Non-so-dove,
non raccontare
troppo il successo,

fior d'eleganze,
convegni d'amore
delle vacanze
del novanta:

di tali scene,
dentro i castelli,
i tuoi compagni,
anche i più goffi,

senza fatica
e senza inventare
te ne raccontano
una dozzina;

e le cugine
angeli caduti
a tali cucine
e a tali succhi

sono consuete,
povere bambine,
fin dalla prima
comunione:

questo, fratelli cari,
nell'attesa
dei loro adulterî
che su di voi incombono.

IX o Quadro popolare


L'apprendista quindicenne, non troppo magro, non bello,
gentile, rudezza un po' molle, pelle
smorta, occhio vivo e infossato, tira fuori dal camice blu,
focoso e bello duro, un cazzo già grosso
e chiava la padrona, grassona ancora in gamba,
in deliquio - mascalzona - sul bordo del letto,
gambe in aria e seno scoperto, con un atteggiamento!
A vedere il ragazzo che sotto la giubba stringe le chiappe
e quei piedi che spingono in fretta in avanti
è evidente che non teme di ficcarlo più in fondo
né di mettere incinta la bella, che se ne frega
(non c'è poi il suo cornuto, fiducioso e ricco?).
E così, giunta al supremo momento,
nel delirio improvviso lei si mette a gridare:
"M'hai fatto un figlio, lo sento, e per questo ti amo
ancora di più. - Ed ecco i confetti del battesimo!"
lei dice dopo il fatto, e tenera, accovacciata,
gli soppesa e gli palpa e gli bacia i coglioni.

Morale in breve


Una testa bionda e di grazia svenevole,
sotto un collo che freme di belle tette dritte,
e il bruno medaglione del capezzolo in fiamme,
e il busto seduto su dei cuscini bassi, e intanto
tra due gambe vibranti, in aria,
una donna in ginocchio, impegnata in quali cure
lo sa Amore, mostra agli dei soltanto l'epopea
candida del suo splendido culo, specchio chiaro
della Bellezza che là si ammira per crederci.
Culo di donna, sereno vincitore del culo virile,
fosse anche efebico, fosse anche puerile,
culo di donna, culo di tutti i culi, lode, culto e gloria!

da HOMBRES



I


Oh non bestemmiare, poeta, e ricordati.
Certo la donna non è male, chiavarla val la pena,
il culo le fa onore, anche se un po' obeso,
e quanto a me l'ho gustato molte volte.

Quel culo (e le tette), che nido per le nostre carezze!
In ginocchio lo bacio e lecco il suo pertugio
mentre nell'altro pozzo frugano le mie dita,
e quei bei seni, che lascive pigrizie!

E poi quel culo serve ancora, soprattutto a letto,
in aiuto ai cuscini e come sottopancia,
molla a spirale del vero ventre perché più a fondo
penetri l'uomo dentro la donna eletta.

Lì riposo le mani, anche le braccia, le gambe,
i piedi. - Così tanta freschezza, elastica rotondità
ne fanno per me un pregiato luogo di riposo
dove in arzilli voti vaga e saltella il desiderio.

Ma confrontare il culo dell'uomo a quel buon culo,
a quel grosso culo meno voluttuoso che pratico,
il culo dell'uomo, fiore di gioia e di estetica,
e soprattutto proclamarsene il servo e il vinto,

"È male!" ha detto l'Amore. E la voce della Storia:
"Culo dell'uomo, onore puro dell'Ellade e fasto
divino di Roma vera e più divino ancora,
di Sodoma morta, martire per la sua gloria.

"Shakespeare, d'un tratto abbandonando Ofelia,
Cordelia, Desdemona, tutto il suo bel sesso,
cantava in versi magnifici - si offenda uno sciocco -
la forma mascolina e il suo alleluja.

"I Valois impazzivano per il maschio e nella nostra era
l'Europa imborghesita e tanto femminile
ammira tuttavia quel Luigi di Baviera,
il re vergine dal gran cuore che solo per l'uomo batte.

"La Carne, perfino la carne della donna, proclama
il culo, il cazzo, il torso e l'occhio del fiero Pulzello,
- e perciò, secondo il consiglio di Rousseau,
talvolta, poeta, "bisogna lasciare la dama" per un po'".

1891.

II · Mille e tre


I miei amanti non sono delle classi ricche:
sono operai dei sobborghi o di campagna,
i loro quindici o vent'anni alla buona non sono avari
di modi assai brutali e grossolani.

Me li godo in abito di lavoro, giacca e giubba;
non profumano d'ambra e odorano di salute
pura e semplice; il loro passo un po' greve, è veloce
tuttavia, perché giovane, e grave nell'elasticità;

i loro occhi franchi e scaltri crepitano di malizia
cordiale e parole ingenuamente astute
escono non senza il sapore d'una gaia bestemmia
dalla bocca freschissima dai solidi baci;

il loro cazzo vigoroso e le gioiose chiappe
deliziano la notte il mio uccello e il mio culo;
sotto la lampada e all'alba le loro carni gioiose
resuscitano la mia stanca voglia, mai vinta.

Cosce, anime, mani, tutto il mio essere alla rinfusa,
memoria, piedi, cuore, schiena e l'orecchio e il naso,
la coratella, tutto sbraita un ritornello
e fa un gran baccano tra le loro braccia forsennate.

Un baccano, un ritornello, entrambi pazzi,
e piuttosto divini che infernali, più infernali
che divini, che mi ci perdo, e nuoto e volo
nel loro sudore e nel loro respiro, in quei balli.

I miei due Charles: uno, giovane tigre con occhi di gatta,
sorta di cherichetto che cresce da soldataccio;
l'altro, un fiero pezzo d'uomo, bello sfrontato che si fa stupire
solo dalla mia discesa vertiginosa verso il suo dardo.

Odilon, un monello, già piantato come un uomo,
i suoi piedi amano i miei appassionati dei suoi alluci
ancor meglio, ma non più che del resto insomma
adorabile in tutto, ma i suoi piedi ineguagliabili!

Carezzevoli, fresco raso, delicate falangi
sotto le piante, intorno alle caviglie
sulla venosa inarcatura, e quegli strani baci
così dolci, di quattro piedi con anima, sicuro!

E poi Antonio, dal cazzo proverbiale,
lui, mio re trionfale e mio supremo Dio,
che mi consuma il cuore con la pupilla azzurra,
e il mio culo col suo spiedo spaventoso;

Paul, atleta biondo dai superbi pettorali,
bianco petto dai duri capezzoli succhiati
come la buona punta; François agile come un fascio d'erba:
le sue gambe di ballerino, e che bel mazzuolo!

Auguste che diventa più maschio di giorno in giorno
(com'era carino quando ci capitò di farlo!);
Jules, un po' puttana nella sua pallida bellezza;
Henri, miracoloso coscritto che, ahimè! se ne va;

e tutti voi! in fila o alla rinfusa, in banda
o soli, visione così netta dei giorni passati,
passioni del presente, futuro che cresce e si rizza,
amati innumerevoli che non bastate mai!

1891.

XII


In quel caffè gremito d'imbecilli, noi due,
soli, figuravamo il cosiddetto schifoso
vizio d'essere "da uomo" e smerdavamo
quegli idioti ignari dall'aria bonaria,
i loro amori normali, la loro morale di merda,
e intanto, menati di taglio e di punta,
a più non posso, a volontà, per principio
tuttavia, velati dai fiocchi delle nostre pipe
(come un tempo Era copulava con Zeus)
i nostri cazzi, come nasi gioiosi di Karagoz
che le nostre mani soffiassero con gesto delizioso,
starnutivano sotto il tavolo getti di sperma.

1891.

Il sonetto del buco del culo
di Paul Verlaine e Arthur Rimbaud


Oscuro e increspato come un garofano viola
respira, umilmente rannicchiato nel muschio
umido ancora d'amore che segue il dolce pendio
delle bianche natiche al limite dell'orlo.

Filamenti simili a lacrime di latte
hanno pianto sotto il vento crudele che le respinge
attraverso piccoli coaguli di marna rossiccia
a perdersi là dove il pendio le chiamava.

La mia bocca spesso s'accoppiò alla sua ventosa,
la mia anima, gelosa del coito materiale,
ne fece il fulvo nido di lacrime e singhiozzi.

È l'oliva in deliquio e il flauto carezzevole,
è il tubo in cui scende la celeste pralina,
Canaan femminile nel dischiuso madore!

da FELICITÀ



XIX


La neve attraverso la nebbia
cade e muta tappezza
il sentiero scavato che conduce
alla chiesa dove i lumi s'accendono
per la messa di mezzanotte.

Londra cupa fiammeggia e fuma:
oh, i cibi che vi si cuociono
e le bevande che li seguiranno!
È Christmas con il suo rito
da mezzanotte a mezzanotte.

Sopra la piuma e l'asfalto
Parigi grida e gioisce.
Bisboccia e lieto sollazzo
sull'asfalto e la piuma
si esasperano da mezzanotte.

Il malato nell'amarezza
dell'ospizio dove lo incalza
una speranza sempre distrutta
si spaventa e si consuma
nel nero di una lunga mezzanotte...

La campana dal suono chiaro d'incudine
nella torre sottile che risplende,
lontano dal peccato che ci nuoce,
vestiti a festa ci chiama
alla messa di mezzanotte.

XXIII


Partite le campane
nel mezzo del GLORIA,

dopo la solita ora dei vespri
si consacra l'Olio Santo
che scorterà un lungo corteo
di pontefici e leviti.
Pioviggina, nevischia,
vuota l'inverno la sua cesta.

Il tabernacolo, vuoto, sbadiglia,
l'altare spoglio non ha più ceri,
grandi drappi neri pendono dalle grate,
sono muti gli organi sacri.
E nebbia che danza
e cielo ancora livido.

A fiotti si dispensa l'acqua benedetta,
tutti i ceri sono accesi,
e musica solenne
nel coro s'esalta e ascende alla tribuna.
Un sole chiaro che inebria
riscalda l'aspro vento.

GLORIA! Ecco le campane
che ritornano! ALLELUIA!

XXVI


A proposito di PARALLELAMENTE.

Quei versi dovettero essere scritti,
fu necessaria quella confessione,
testimonianza di un cuore sincero
e tutto buono o tutto cattivo.

Cattivo, sì, ma non malvagio.
La sola sensualità,
carne folle, lombi e gola,
turba il suo desiderio benedetto.

Bellezza dei corpi e degli occhi,
profumi, festini, le ebbrezze,
le carezze, la pigrizia,
sole sbarravano la via verso il cielo.

È finita davvero? Tu lo assicuri,
sorta di presentimento
di una quiete finale,
divino medicatore di ferite,

umano remuneratore
dei meriti minimi,
arbitro dei legittimi
slanci verso l'altezza

del dovere finalmente visibile,
dopo un cammino così duro,
divina anima, cuore umano,
celeste e terreno bersaglio!

Guardate, mio Dio, i miei voti,
udite i miei gridi di debolezza,
datemi tutta la semplicità
per volere ciò che voglio.

Allora saranno cancellate
ai vostri occhi non più offesi,
insieme ai miei torti confessati,
queste righe pensate così poco.

XXXI


Immediatamente dopo la sontuosa benedizione,
spenta la luminaria tranne i ceri liturgici,
in tono minore son pronunciati i salmi per i morti
dai chierici e dal popolo preso da malinconia.

Lento un rintocco si diffonde dai campanili della cattedrale;
gli rispondono tutti i campanili della diocesi,
e plana e piange sulle città e la campagna
nella notte calata presto dell'autunno avanzato.

Ognuno se ne va a letto dietro la voce dolente
e dolce all'infinito del bronzo commemorativo
che cullerà il sonno un po' triste dei viventi
nel ricordo dei defunti di tutte le parrocchie.

XXXII


È maestosa la cattedrale
che immagino in piena campagna
su un affluente di qualche Mosa
non lontano dall'Oceano in cui si versa,

l'Oceano non visto che indovino
dall'aria satura di sali e aromi.
La croce è d'oro nella notte divina
nell'ascesa delle torri e delle cupole.

Angelus fanno intorno ai campanili
una canora corona d'argento.
Gufi bianchi, dai lunghi gracili gridi,
girano incantevoli senza sosta.

Processioni giovani e chiare
vanno e vengono da portici innumerevoli,
seta e perle di rosarî viventi,
rogazioni per cari frutti d'ombra.

Non è un sogno, e neppure la vita,
è il mio pensiero casto e bello,
e se volete, la mia filosofia,
la morte proprio mia in questo aspetto.

XXXIII


Voce di Gabriele
presso l'umile Maria,
campane di Natale
nella notte fiorita,
secoli, celebrate
i miei sensi liberati.

Martiri, bianco gregge,
e i confessori,
frutti d'oro del ramo,
voi, fratelli e sorelle,
vergini nella gloria,
cantate la mia vittoria.

I Santi ignorati,
virtù disprezzate,
che ci salverete
per vostra intercessione,
pregate, che la fede
dimori umile in me.

Peccatori, per il mondo,
che vi pentite
nel profondo ardore
del riscatto,
ora io vi contemplo,
datemi l'esempio.

Natura, animali,
acque, piante e pietre,
i vostri semplici lavori
sono umili preghiere.
Voi obbedite:
a Dio basta.

da CANZONI PER LEI



II


Compagna saporita e buona
cui ho affidato la cura
definitiva della mia persona,
tu, mio ultimo, mio solo testimone,
vieni, cara, ch'io ti baci,
che t'abbracci a lungo e forte,
il mio cuore accanto al tuo batte di piacere
e d'amore fino alla morte:
Amami,
perché, senza te,
nulla posso,
nulla sono.

Misero mi aggiro come un topo di chiesa
e tu non hai che le tue dieci dita;
la tavola non è spesso apparecchiata
nei nostri sottosuoli, nelle nostre soffitte;
ma il nostro letto non sciopera mai,
sempre gioioso, sempre festeggiato
dove io sono il re del reame
della tua allegria, della tua salute!
Amami,
perché, senza te,
nulla posso,
nulla sono.

Dopo le nostre notti di amore forte
esco dalle tue braccia meglio temprato,
la tua ricca carezza è quella giusta,
senza nessun inganno alla mia carne,
l'amore tuo diffonde il suo vigore
in tutto il mio essere, come un vino,
e, unica, tu sai la scienza
d'inebriarmi un cuore divino.
Amami,
perché, senza te,
nulla posso,
nulla sono.

Che importa il tuo passato, bella mia,
e che importa, perbacco! il mio:
ti amo d'un amore fedele
e tu non m'hai fatto che del bene.
Uniamo nelle nostre due miserie
il perdono che ci fu rifiutato
e io ti stringo e tu stringi me
e al diavolo le chiacchiere della gente!
Amami,
perché, senza te,
nulla posso,
nulla sono.

IX


Tu m'hai colpito, è ridicolo,
io t'ho picchiata, è spaventoso:
io me ne pento, e tu ce l'hai con me.
E va bene, è secondo la formula.

Non avevo che da starmene quieto
sotto l'amabile rovescio di ceffoni
della tua mano esperta in manrovesci,
senza neppure chiedere perché.

E tu, il tuo diritto, anzi il tuo dovere,
a rischio d'estenuarti
sarebbe di continuare
in modo estremo e superbo...

Soltanto, oh non volermene più,
benché sia stato un crimine
far di te la mia vittima...
Di', mai più rifiuti assoluti,

picchiami, piccola, di santa ragione,
ma poi vieni a baciarmi,
vero? Perché rendere eterno
un litigio troppo bizzarro?

Per guastarci più d'un istante,
il tempo di farci una smorfia
spenta da un bacino sulla guancia,
poi sulla bocca, in attesa

di meglio ancora, non è vero, briccona?
Promettilo senza esitare.
D'accordo? Sì? Posso osare?
Su, basta con il broncio!

X


Orribile notte d'insonnia!
- senza la presenza benedetta
del tuo caro corpo accanto a me,
senza la tua bocca tanto baciata
anche se troppo scaltra
e sempre in malafede,

senza la tua bocca tutta menzogne,
ma così franca quando ci penso
e che sa consolarmi
sotto l'aspetto e la specie
di una fragola - e, buona commedia! -
di un plausibilissimo parlare,

e soprattutto il pentacolo
dei tuoi sensi e il miracolo
multiplo e uno, fiore e frutto,
dei tuoi duri occhi di strega,
duri e dolci a modo tuo...
Buon Dio! che terribile notte!

XII


Tu bevi, che schifo! quasi quanto me.
Io bevo, vergogna! quasi più di te,
non è più quel che si dice una vita...
Ah! la donna, pazzo, è pazzo chi le si affida!

Gli uomini, bene! sono fieri e fedeli,
ci si può fidare, ecco i veri amici!
Noi beviamo, ma voi, care signore, l'ebbrezza
meno che a noi si addice, - in tigre ti trasforma,

me tutt'al più in un semplice maiale,
qualche sciocco ideale nella capoccia,
qualche scemenza in più, e inoltre
qualche sciocchezza, - ma tu, il non far nulla,

la cattiveria, l'ostinazione,
un poco il vizio e molto l'opzione,
di essere più folle, credimi!
della mia follia già così folle.

Queste riflessioni mi costano molto,
ma stasera ho un umore da lupi.
Scusa l'arroganza delle mie parole,
ma stasera è pessimo il mio umore.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Bah, beviamo, non troppo (se ci riesce),
la mia bocca è un buco, un setaccio la tua.
Dio saprà ben riconoscere i suoi.
Morale: soprattutto baciamoci - e vieni!

XIII


Sei bruna o sei bionda?
Sono neri o blu
i tuoi occhi?
Io non ne so nulla ma amo la loro luce profonda,
ma adoro i tuoi capelli in disordine.

Sei dolce o sei dura?
È sensibile o beffardo
il tuo cuore?
Io non ne so nulla ma ringrazio la natura
d'aver fatto del tuo cuore il mio padrone, il mio vincitore.

Fedele o infedele?
Ma che cosa importa,
veramente?
Poiché sempre dispone a coronare il mio zelo
la tua bellezza è il pegno del mio più caro auspicio.

XIV


Non mi piaci agghindata
e detesto la veletta
che mi oscura i tuoi occhi, i miei cieli,
e aborro gli sbuffi del vestito
parodia e caricatura
delle tue sontuose attrattive.

Sono ostile ad ogni veste
che più o meno nasconde e sottrae
i tuoi incanti, in fondo i migliori:
la tua gola, mia più cara delizia,
le tue spalle e la malizia
dei tuoi polpacci seduttori.

Accidenti alla donna troppo vestita!
Io ti voglio, mia bella, in camicia,
- amabile velo, ostacolo scherzoso,
tovaglia d'altare per l'alma messa,
vezzosa bandiera vinta senza tregua
mattina e sera, sera e mattina.

XVI


L'estate non fu adorabile
dopo un inverno infernale
e che primavera sfavorevole!
e l'autunno inizia male.
Bah! ci riscaldammo
mischiando le nostre anime.

La povertà, nostra compagna,
di cui avremmo fatto a meno,
vanamente conduceva la campagna
durante quei lunghi gelidi mesi...
noi smerdavamo l'intrusa,
la sua astuzia e i suoi inganni.

E, ricchi di baci innumerevoli,
- l'unica opulenza, credimi, -
che c'importa che il tempo sia cupo
se c'è il sole in me, accanto a te,
e il piacere ride
alla nostra miseria?

XX


Tu, credi ai fondi di caffè,
ai presagi, alle carte:
io, credo soltanto nei tuoi occhi.

Tu, credi ai racconti di fate,
ai giorni infausti, ai sogni,
io, credo soltanto nelle tue menzogne.

Tu, credi in un Dio assai vago,
in qualche santo speciale,
in tale Ave contro un dato male.

Io credo solo alle ore blu
e rosa che tu mi apri
nella voluttà delle notti bianche!

E talmente è profonda la mia fede
in tutto quel che credo,
che ormai io vivo solo per te.

XXII


Stanotte ho sognato di te:
in deliquio, in mille pose,
tubavi un sacco di cose...

E io, come si gusta un frutto
ti baciavo a piena bocca
un po' dappertutto, monte, valle o pianura.

Ero di un'elasticità,
di un vigore davvero ammirevole:
perdiana che fiato, che reni!

E tu, cara, a tua volta,
che reni, che fiato,
che elasticità di gazzella...

Al risveglio fu, tra le tue braccia,
ma più intensa e più perfetta,
esattamente la stessa festa!

XXV


Fui mistico e non lo sono più
(la donna mi avrà ripreso del tutto)
non senza serbare un rispetto assoluto
per l'ideale che bisognò rinnegare.

Ma la donna mi ha ripreso del tutto!

Andavo pregando il Dio della mia infanzia
(oggi sei tu ad avermi ai tuoi ginocchi).
Ero pieno di fede, di bianca speranza,
di santa carità dai fuochi puri e dolci.

Ma oggi sei tu ad avermi ai tuoi ginocchi!

La donna, con te, ridiventa il padrone,
padrone onnipotente e tirannico,
ma quanto infido! che finge di permettere tutto
per giungere a tale fine satanico...

Oh, il tempo benedetto quando ero quel mistico!

da ODI IN SUO ONORE



VI


Ma dopo le meraviglie
impareggiabili
della spalla e del seno,
bisogna in altro tono
elevare una bella ode
al glorioso bacino.

Bisogna cantare la bianca
sinuosità dell'anca,
la sua solida ampiezza,
cantare il pingue ventre
e la sua curva sublime
verso il sesso vorace

che castamente, sebbene
graziosamente, decora
e difende in modo assai adeguato
l'ombra che si addice
alle cose divine, fitte tende
intrecciate, poco oscure,

adorabile Teutates,
Saturno più amorevole,
antropofago caro
che vuole in sacrificio
non sangue di giovenche
ma il latte della mia carne.

E poi canteremo
il biondo inguine e la sua fuga
ambrata dentro la Santa...
Ma deponiamo la lira,
abbandoniamoci al delirio
ragionevole e parco!

no! pazzo, suonato, orgiastico,
all'apache, alla canaque
ubriaco di tafià:
noi non siamo l'uomo
per la sapiente Sodoma
quando la Donna è qui.

VII


Fifì s'è risvegliato. Fin dall'alba m'hai detto
buongiorno con due baci e il povero piccolo
pigolò, poi ripose la testa sotto l'ala
e tacque per il momento il gentil ritornello.
Allora ti resi un bacio, in cambio dei tuoi,
un bacio multiforme, ubiquista, che si posò
dalla pianta dei piedi alla punta dei capelli scuri
con soste nei luoghi dei lampi e delle ombre,
un gioco (e tu ridevi) ridicolmente tenero,
e, brusco, spinsi tra le tue le mie ginocchia,
subito su di esse mi rialzai e, chino sulla tua bocca,
fui brutale senza che tu apparissi scontrosa,
anzi ringraziavi con uno sguardo languido.
Fu allora che Fifì, del tutto risvegliato,

il minuto compagno! simile ai buontemponi
che l'altrui felicità non rende invidiosi,
salutò il mio trionfo con salve di trilli
che tutto il suo cuoricino pareva lanciare nei cieli.

E saltellava, orgogliosetto, come un ragazzotto che s'inarchi,
acclamando un vincitore giustamente rinomato,
e l'aurora, esplodendo sui vetri della stanza,
senza mentire attestava che noi avevamo amato.

VIII


Cosce grosse ma affusolate,
tenere e sotto sode,
e sopra dure ma tenere,
muscolose e grassocce,

cosce così buone, tanto baciate
da lì, da dove nascono,
più bianche di una rosa tea,
la parte migliore dei miei pensieri,

ginocchia, piccole teste d'angeli
paffuti nella loro snellezza,
polpacci frementi che fanno furore
in calze chiare che temono il fango,

piedi eretti per alzarti
alla mia altezza per abbracciarti,
e sollevarti e adagiarti
sul letto, piedi bellissimi arcuati

dalla caviglia di molle avorio,
profumati della loro freschezza;
dita delicate, fragile rossore
dolcemente fulvo al tallone,

e pelle assai forte per camminare,
ma come! forse non serve al caro corpo,
base solida e sostegno robusto,
al caro corpo che protegge la mia Arca?

L'arca di timore e di blandizie
in cui io entro, espiata ogni colpa,
come si salirebbe al cielo. Piedi
divini, ginocchia prelibate, buone cosce!

IX


Fosti spesso crudele,
talvolta perfino ingiusta,
ma che importa, mia bella,
poiché credo in te sola

e sono cosa tua?

Che m'inganni con Pierre,
Louis, et cœtera punctum,
lo so, ma via! non mi riguarda,
non sono che l'umile factotum

del tuo umore lieto o rattristato.

Se capita che tu mi picchi,
mi schiaffeggi, mi graffi,
sei tu il padrone in casa nostra,
e io il cornuto, il bastonato,

sono contento e vedo tutto rosa.

E poi, perbacco! spero
che nel vedermi così
tuo, finirai, divina,
per amarmi almeno un po'

come ci s'affeziona a una cosa propria.

XI


Ricco ventre che mai ha concepito,
seni opulenti che mai hanno allattato,
braccia fresche e grasse, pure da ogni cura servile,

bel collo che s'è piegato sotto il solo peso
di lenti baci in tutti i punti cari,
mento da cui traspare l'indolenza,

bocca splendente e rossa da cui nulla
mai uscì se non parole che amavo,
oziose e liete - e che nido di delizie!

naso all'insù in cerca degli unici profumi
della salute robusta, occhi più che bruni
e meno che neri, indulgentemente complici,

fronte poco pensierosa e per questo più bella,
lunghi capelli neri la cui grande onda di seta
fino alle reni s'avventura grevemente,

schiena superba e che ama l'indolenza
tranne nelle fatiche del piacere supremo,
nei gai combattimenti di cui è retroguardia,

gambe, infine, vigorose soltanto
nel piacevole gioco, al giusto momento,
quando mi stringono il busto e danzano al cielo,

poi, in riposo - cosce, ginocchi, polpacci, -
odorosi come ambra e bianchi come latte:
- ecco il pastello della mia donna nuda.

XV


Quando mi racconti i trascorsi
della tua vita da cani, anche la tua,
le mie lacrime cadono pesanti
come fontane in vasche,
e i miei lunghi afflitti sospiri
si mischiano ai tuoi lenti racconti.

Mi parli dei tuoi primi amori:
ragazza di campagna con ragazzi,
poi giovane in città, e i colpi di testa
e i tradimenti abituali
e reciproci senza rimorsi
da entrambe le parti, come d'accordo.

Poi d'un tratto un capriccio,
in fretta maturato in passione
selvaggia, come l'umile pollone
cresciuto svelto in palma
che in un verde paesaggio
agita un vento del deserto.

Fedele tu, infedele l'altro,
tu sofferente, abbattuta, e infine
furiosa, ubriaca del vino
del vizio, con un colpo d'ala
librando il tuo cuore come aquila ferita,
ma senza poter sfuggire il passato...

Ti ascolto, e tutta la mia pietà,
tutta la mia ammirazione,
un affetto indicibile,
ti vengono da me per quale via
se non quella di un amore puro
che a sua volta, cara, soffrirebbe,

che soffrirà, e ne ho paura,
che soffre già, e tu lo sai,
tu cattiva talvolta fino all'eccesso
e pure incantevole come una santa
con me, buon vecchio amante,
l'ultimo, eh, probabilmente?

da EPIGRAMMI



III


Dopotutto, hanno senz'altro ragione
poiché la nostra vita è per tre quarti compiuta;
tocca a noi cedere loro la casa,
sia pure riservandoci la parte alta.

La giovinezza, ahimè! ama trionfare.
Noi stessi fummo giovani e trionfanti
non più propensi di loro alla filosofia.
Bah, si tengano la fame, noi ci terremo i digiuni.

E si tengano Ibsen! Per noi era Hugo.
E siano tanto e più; noi restiamo gli stessi,
non troppo vecchi, non più tanto liberi
di pensare ancora ai tuffi supremi.

Lasciamoli crescere. La loro arte maturerà:
sono appena entrati nel tempio,
e la nostra morte compianta approverà
coloro cui abbiamo dato l'esempio.

VII


a Francis Poictevin.

Non mi occorre più che un'aria di flauto,
molto lontana, in tramonti spenti.
Sono così stanco della lotta
che non mi occorre più che un'aria di flauto
molto spenta in tramonti lontani.

Ah, non più la tromba folle dell'aurora!
Il coraggio è stanco di andare più avanti.
Vuole e non può camminare ancora
al suono della tromba folle dell'aurora:
d'un canto che lo culli ora ha bisogno.

La rossa azione della giornata
non è più che un sogno indolenzito
per la sua testa ancora incoronata,
e la vittoria della giornata
fluttua nel dormiveglia laureato.

Donna, per questo eroe che inciampa
per aver camminato sempre avanti,
sii l'olio sul corpo dopo la lotta:
- non più la tromba folle: il molle flauto!
D'ora in avanti la pace nel suo cuore.

XIII


Quando andremo, se mai dovrò vederla,
nell'oscurità del bosco nero,

quando saremo ebbri d'aria e di luce
sulla riva del chiaro fiume,

quando in un attimo ci troveremo altrove
via da questa Parigi di cuori infranti,

e se la bontà lenta della natura
ci cullerà in un sogno duraturo,

allora dormiamo pure l'ultimo sonno!
Ci penserà Dio al risveglio.

XVII


a F.-A. Cazals.

Grazie a te mi vedo di schiena
e assai più verosimile:
nel tuo schizzo, a passi goffi
me ne vado dritto al diavolo.

Proprio io che per la posterità
sopra un'ala celeste
credevo di prendere il volo, ribelle,
fatale e tutto il resto!

- M'incammino lentamente,
a un trotto più o meno lesto,
attratto da una doppia calamita,
verso il diavolo... o il resto.

XXVIII o SOPRA UN ESEMPLARE DEI FIORI DEL MALE
(prima edizione)


Paragono questi strani versi
ai versi strani che comporrebbe
un marchese di Sade discreto
che conoscesse la lingua degli angeli.

da INVETTIVE



IV o Letteratura


Buoni compagni della Stampa
e così pure della Poesia,
fiori di cafonaggine e di bassezza,
élite scelta da quale Dio,
da quale Dio d'ogni bassezza?

Confratelli con me malfratelli,
che quasi mi seppelliste un tempo
sotto quel gran silenzio - perché? -
fin dall'orrido settanta,
confratelli con me malfratelli,

perché quel silenzio malfratello
per così lunghi anni,
e di colpo come in collera
tanti clamori quasi sbalorditi?
Perché un tale mutamento malfratello?

Ah, se mi si potesse soffocare
sotto questa pila di giornali
dove il mio nome, che si finge di scoprire
come si trova un gheriglio di noce,
si gonfia fino a farlo scoppiare!

È ciò che si chiama la Gloria
- con il diritto alla fame,
alla grande Miseria nera
e perfino, quasi, ai pidocchi -
è ciò che si chiama la Gloria!

XXI o Sonetto per lacrimare


Giudice di pace più che insolente
e magistralmente ingiusto,
che cammini massiccio, ventre che balla,
gambe storte - e quel tronco!

Voglio parlare del tuo maltalento,
del tuo modo rustico e rozzo
d'essere pedante... e sonnolento,
e scemo, così robustamente!

Non ho dimenticato, no, no!
(questo complimento di nuova specie
che io ti rimo ne è la prova).

Non ho dimenticato il tuo nome,
le tue solfe, la tua trippa,
la tua goffaggine - e neppure il mio odio!

XXXIV o Puero debetur reverentia


Se avessi venti figli, avrebbero venti cavalli!
(ÉMILE DESCHAMPS.)

Se avessi venti figli, avrebbero venti cavalli
e fuggirebbero al galoppo il Pedante e la Scuola,
infami per i quali questa donnaccia adesca
in un paese vinto i piccoli cervelli.

Imbrogliona! che vuole per i suoi sporchi lavori,
bestemmia, poi peccato, sedurre, come si ruba,
il bimbo, il mio, il vostro, oh! sinistra folle!
il bimbo, il vostro orgoglio e il mio valore!

E se di figli ne avessi cento, avrebbero cento cavalli
per disertare in fretta il Sergente e l'Esercito
che quei briganti hanno creato, e quei vessilli.

Furfanti! che darebbero la Francia, nostra amata,
a chi offre di più, dopo averne fatto
quella cosa impura, debole e sozza che sappiamo.

XLVII o Griefs


Mi dicono vecchio, ma chi? I giovani d'oggi!
Anche Omero è vecchio, io mi richiamo a lui
non in termini equivoci né barocchi,
il mio spirito che non ha bisogno dei loro gingilli
per risuonare e splendere al vero sole d'estate.
Cinquant'anni, non suonati, non han troppo inebetito,
che io sappia, lo spirito che Dio mi attribuì.

Mi dicono vecchio, ma chi? Gli amanti di questa
epoca, manichini intirizziti, venuti da Gomorra.
Ora, io sono nel pieno della forza, lo attestano Venere
e le signore. Mi dicono vecchio, ma chi? Quel maestro
in Anarchia (parola superata), piccolo traditore
della patria in lutto, del povero ch'egli vorrebbe
incattivire invece delle cure che gli servono,
e dolci consigli, la presenza di Dio, pane, vino, mano tesa
e la buona morte attesa con pazienza
come liberazione in una vita infine
felice!
Mi dicono vecchio, ma chi? Quell'imbroglione
imberbe, ma pescatore emerito in acqua torbida,
che mi compiange per la mia indigenza tripla e doppia,
unica! senza pensare un attimo, il poveretto,
che io sono ricco, essendo onesto. Aspro segreto,
ricetta mica male, essere ricco in quanto onesto!

Ancora mi dicono vecchio. Quale bestia ancora?
Ah sì, talvolta io stesso, soprattutto quando
ho agito male, parlato male, pigolato come una ghiandaia,
trotterellato come un asino attraverso questa o quella
preoccupazione, sordidezza o bagattella.
Ma sono presto rinverdito in mezzo a questi detriti
e mi avvolgo in virtù quasi infantili,
in sforzi da adolescente, in virilissime
azioni contro i miei futili discorsi!

Chiedo perdono per la loro voce poco alta
e il tono acceso, - ma si è giovani una sola volta.

LXVI o Sogno


Rinuncio alla poesia!
Domani sarò ricco.
Passo la mano ad altri:
chi vuole, chi vuol farmi da Sosia?

Bell'impiego! ne chiamo a testimoni
le buone ore di passeggiata
quando, rimacchiando qualche ballata
passavo le mie notti tardi e in giro.

Sotto la luna lucida e chiara
i ponti rilucevano insidiosi,
con flutti graziosi l'acqua bagnava
Parigi lieta come un cimitero.

Rinuncio a tutta questa felicità
e ai giovani lascio la mia lira!
Ragazzi, ereditate il mio delirio,
io eredito una borsa seduttrice.

LXVII o Risveglio


Ritorno alla poesia!
La ricchezza decisamente
non vuol saperne della mia indigenza:
ed è una triste conclusione.

A me la squisita provvigione:
l'acqua chiara e pura e questo pane secco
quotidiano non senza, con,
un'arietta gentile di ribeca!

A me il letto problematico
dalle notti bianche, dai sogni neri,
a me le eterne speranze
pavoneggiate da mattino a sera!

A me l'etica e l'estetica!
Io sono il poeta famoso
che rima versi strabilianti
all'ombra di una fumosa quinquet!

Io sono l'anima scelta da Dio
per incantare i miei contemporanei
con certi rari e fini ritornelli
cantati a digiuno, o cieli sereni!

Ritorno alla poesia.

da VARIE



Ultima speranza


C'è un albero nel cimitero
che cresce in piena libertà,
non piantato da un lutto di rito, -
e ondeggia lungo un'umile pietra.

Su quell'albero, d'estate e d'inverno,
viene un uccello a gorgheggiare
la sua canzone tristemente fedele.
Quell'albero e quell'uccello siamo noi:

tu il ricordo, io l'assenza
che il tempo - che passa - scandisce...
Ah, vivere ancora ai tuoi ginocchi!

Ah, vivere ancora! Macché, mia bella,
il nulla è il mio freddo vincitore...
Ma almeno, dimmi, vivo nel tuo cuore?

(da Le livre posthume)

XIII


Oh, l'assenza! il meno clemente di tutti i mali!
(LA BUONA CANZONE.)

Ho detto un tempo che l'assenza
è il più crudele dei mali;
ci si trastulla con delle parole,
è l'orrore dell'impotenza

senza la consolazione
almeno di qualche carezza,
si muore senza sembrarlo,
si è morti, dico, e se

fingiamo di respirare ancora,
accade meccanicamente.
Oh, lo scoraggiamento
a veder levarsi l'aurora!

Ora, da quando in questi luoghi
soffro - da quando sei venuta,
per quale forza ignota
mi sento infinitamente meglio?

È la storia dell'efebo
che lontano dalla vergine muore!
Ch'ella giunga e sia testimone
di quanto sfotte e sfugge l'Erebo!

E finché vi resterò,
accorri in questo livido limbo:
io che già ti amo e ti amo,
oh quanto ti adorerò!

(da Dans les Limbes)

Money!


Ah sì, la questione dei soldi!
cioè vederti a tuo agio
in un vestito che ti piaccia,
senza troppe furbizie o arrangiamenti;

cioè adorare il tuo capriccio
e favorire, se piovono luigi,
i giochi in cui tu sbocci,
tutta vizio e malizia;

ed essere, in questa Waterloo,
la vita a Parigi, di riserva,
vecchia guardia imperturbabile
e che nel quadro fa una buona figura;

e privarmi di ogni gioia
in tuo favore, anche se tu dovessi
ancora ingannare questo testardo, me,
che si ostina a restare la tua preda!

Me l'hanno assai rimproverato
quelli che non ti comprendono,
grande amante che dal basso
adoro, china sul mio cuore,

amici di Giobbe dai consigli vili,
che mai si son sentiti battere
un cuore innamorato per quattro
attraverso miseria e pericoli!

Mai avranno la fortuna
né l'onore di morire d'amore
e di versare tutto il loro sangue
per il tuo solo amore, bionda o bruna!

(da Chair)

AEgri somnia


Da dieci anni, mia gamba sinistra,
quanti tiri m'hai giocato!
È scoraggiante, com'essere falciati,
sarà così per sempre?

Se cammino, mi immagino
di trascinare una palla, forzato
innocente, ma tu non te ne curi!
- Chi volle dunque che tanto pesasse

dietro di me quest'arto rigido
e doloroso? il diavolo o Dio?
Che sia il rimedio per i miei peccati,
l'espiazione? Allora, è poco.

Oppure Satana, mai in errore
quando si tratta di non fare del bene,
vuole tentare, ospite invisibile,
la mia pazienza di cristiano?...

Bah! non è nulla. Dio lo vede il mio zelo
nel soffrire in questo oggi,
e la mia gamba trasformata in ala,
morto, in volo mi porterà da Lui.

16 marzo 1895.

I o Bibliofilia


Il vecchio libro che si è letto e riletto tante volte!
In pezzi, straziato e desolante, logoro e orrendo,
rieccolo d'un tratto vivo, vezzoso, volto giovane,
delicato al tatto, delizia degli occhi e delle dita.

Quel libro creduto morto, cosa d'ombra e spavento,
la sua resurrezione "non stupisce il saggio".
Chi sa, o Rilegatore, artista e insieme mago,
quanto tu faccia anche meglio del dovuto.

Lo si riprende, quel libro in piena giovinezza,
come una vecchia amante cui una fata
abbia restituito tutta la sua verginità;

lo si rilegge come ascoltando la Musa
d'un tempo, voce d'oro arrochita dall'età,
di nuovo limpida, a divertirci ancora.

12 ottobre 1895.
(da Bibliosonnets)

Morte!


Le Armi hanno taciuto gli ordini in attesa
di vibrare di nuovo in mani ammirevoli
o scellerate e, tristi, le braccia ciondolanti,
erriamo, male sognando, nel vago delle Favole.

Le Armi hanno taciuto gli ordini che attendevano
perfino i sognatori bugiardi che noi siamo,
vergognosi di un braccio inerte e lento,
e delusi andiamo tra gli uomini.

Armi, vibrate! ammirevoli mani, impugnatele!
o, in loro assenza, mani scellerate!
afferratele, fate un cenno a chi è svanito
nelle favole più incerte delle sabbie.

Tirate fuori dal sogno il nostro esodo!
Noi moriamo d'esser così languidi, quasi infami!
Armi, parlate! I vostri ordini saranno finalmente per noi
la vita in fiore sia pure sulla punta delle spade.

La morte che noi amiamo, che sempre ci fu mèta
di questo cammino dove prosperano il rovo
e l'ortica, oh! morte senza più grevi angosce,
deliziosa, la cui vittoria è l'annuncio!

Dicembre 1895.