OSCAR WILDE

IL RITRATTO DI DORIAN GRAY III


XII

Era il nove di novembre, il giorno del suo trentottesimo compleanno, come ricordò più volte in seguito.
Tornava a casa verso le undici di sera, dopo aver pranzato da Lord Henry, avvolto in una pesante pelliccia perché la notte era fredda e nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square con South Adley Street un uomo in un ulster grigio col bavero alzato, lo superò muovendosi rapido nella nebbia. Teneva in mano una valigia. Dorian Gray lo riconobbe: era Basil Hallward. Si sentì assalire da uno strano, inspiegabile senso di paura. Finse di non riconoscere il pittore e proseguì in fretta verso casa.
Hallward però lo aveva visto. Dorian lo udì dapprima fermarsi sul marciapiedi, poi corrergli dietro. Pochi momenti dopo la mano di lui gli si posava su un braccio.
"Dorian! Che colpo di fortuna! Ti ho aspettato nella tua biblioteca fin dalle nove. Alla fine la stanchezza del tuo cameriere mi ha impietosito e me ne sono andato dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi con il treno di mezzanotte: ci tenevo molto a vederti prima di partire. Ho pensato che fossi tu, o meglio la tua pelliccia, nel passarti accanto, ma non ne ero affatto sicuro. Non mi hai riconosciuto?"
"Con questa nebbia, mio caro Basil? Non riesco nemmeno a riconoscere Grosvenor Square. Credo che la mia casa sia da queste parti, ma non ne sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu stia partendo, non ti vedo da secoli. Ma immagino che tornerai presto."
"No, rimarrò via dall'Inghilterra per sei mesi.
Ho intenzione di prendere uno studio a Parigi e di rinchiudermi dentro finché non avrò finito un grande quadro che ho in mente. Comunque, non era di me che volevo parlare. Eccoci alla porta di casa tua: fammi entrare un momento, ho qualcosa da dirti."
"Con molto piacere, ma non perderai il treno?" domandò pigramente Dorian Gray mentre saliva i gradini e apriva la porta.
La luce del lampione penetrava a fatica la nebbia e Hallward diede un'occhiata all'orologio. "Ho un sacco di tempo," rispose. "Il treno parte alle dodici e quindici e sono appena le undici. Stavo proprio andando al club a cercarti quando ti ho incontrato. Come vedi, non ho bagagli ingombranti: ho già spedito le cose più pesanti. Ho solo questa borsa e posso comodamente arrivare alla Victoria Station in venti minuti."
Dorian lo guardò e sorrise. "Che modo di viaggiare per un famoso pittore! Una borsa Gladstone e un ulster! Entra, altrimenti la nebbia mi viene in casa. E ricordati di non dirmi nulla di serio. Non c'è nulla di serio in questi tempi, o, almeno, non dovrebbe esserci."
Hallward entrò scuotendo il capo e seguì Dorian in biblioteca. Un allegro fuoco di legna ardeva nel grande camino. Le lampade erano accese e un portaliquori olandese d'argento ancora aperto era posato, insieme ad alcuni sifoni di soda e a grandi bicchieri di cristallo molato, su un minuscolo tavolino intarsiato.
"Come vedi, il tuo cameriere mi aveva messo a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le tue sigarette dal bocchino dorato. È una persona davvero ospitale. Mi piace molto di più di quel francese che avevi una volta. A proposito, che cosa è successo di lui?"
Dorian scrollò le spalle. "Credo che abbia sposato la cameriera di Lady Radley e l'abbia portata a Parigi come sarta inglese. Ho sentito che l'anglomanie è molto di moda, laggiù. È stupido da parte dei francesi, non ti pare? Ma non era affatto un cattivo cameriere, sai? Non mi era simpatico, ma non potevo lamentarmene. Spesso immaginiamo delle cose completamente assurde. In realtà, mi era molto devoto e mi sembrò molto dispiaciuto quando se ne andò. Vuoi un altro brandy con soda? O preferisci uno Hockheim al seltz? Io lo prendo sempre. Devo averne, nella stanza vicina."
"Grazie, non voglio altro," disse il pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva posato in un angolo. "E ora, mio caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le cose molto più difficili."
"Di che cosa si tratta?" esclamò Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano. "Spero non di me. Stasera sono stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro."
"Si tratta di te," rispose il pittore con la sua voce grave e profonda, "e te lo devo dire. Ti prenderà solo mezz'ora."
Dorian sospirò e accese una sigaretta. "Mezz'ora!" mormorò.
"Non è chiederti molto, Dorian, e parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra si dicono le cose più tremende sul tuo conto."
"Non desidero saperne nulla. Amo gli scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi interessano. Non hanno il fascino della novità."
"Devono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di te come di un personaggio vile e vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo, ma posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo non posso crederci. Il peccato è una cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte la gente parla di vizi segreti, ma cose simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea della bocca, nelle palpebre cadenti, persino nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il suo nome, ma lo conosci - per farsi fare il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito dire nulla sul suo conto, anche se in seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva. Rifiutai. C'era qualche cosa nella forma delle sue dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano assolutamente vere: conduce una vita spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la tua meravigliosa giovinezza intatta... non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai non vieni più nel mio studio; così, quando sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto, non so che cosa dire. Perché, Dorian, un uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come mai qui a Londra tanti gentiluomini non vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley. L'ho incontrato la settimana scorsa a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle miniature che hai prestato per la mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto artistico più squisito, ma che non si dovrebbe permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di rimanere dove ci sei anche tu. Gli ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così, davanti a tutti. Una cosa orribile. Perché la tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto delle guardie che si è suicidato. Eri suo grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra con il nome macchiato. Eravate inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che dire dell'unico figlio di Lord Kent e della sua cameriera? Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna e dal dolore. Che dire del giovane duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo frequenterebbe?"
"Smettila, Basil. Parli di cose di cui non sai nulla," disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di infinito disprezzo nella voce. "Mi chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto della sua vita e non perché lui sa qualche cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un passato pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro la sua depravazione? E se quell'imbecille del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa c'entro io? Se Adrian Singleton firma una cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le chiacchiere che si fanno in Inghilterra. I borghesi sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano a bassa voce di quelle che chiamano le dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona società e di essere in confidenza con quelli che calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una certa intelligenza perché ogni lingua mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si atteggiano a moralisti? Mio caro amico, dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia."
"Dorian," esclamò Hallward, "non è questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno e la società inglese è completamente sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo sei stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto ogni senso dell'onore, della bontà, della purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino in fondo. Ce li hai portati tu, sì, ce li hai portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di peggio. So che tu e Harry siete inseparabili. Non fosse che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse sulla bocca di tutti."
"Attento, Basil. Stai andando un po' troppo oltre."
"Devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva sfiorata nemmeno l'ombra di uno scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi vedere in carrozza con lei al Park? Ma se nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si dice che sei stato visto sgusciare all'alba da case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero? Può essere vero? La prima volta che le ho sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la tua casa di campagna e quello che succede laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che non intendo farti una predica. Ricordo quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato dilettante, comincia sempre col dire questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una predica. Voglio che tu conduca una vita che ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua reputazione siano senza macchia. Voglio che ti sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in questo modo, non essere così indifferente. Tu hai una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu corrompa tutti coloro che divengono tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche cosa di vergognoso. Non so se è vero o no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi hanno detto cose di cui sembra impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford. Mi ha fatto vedere una lettera che gli ha scritto sua moglie quando era in fin di vita, sola, nella sua villa di Mentone. Nella più terribile confessione che io abbia mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti conoscevo a fondo e che non saresti stato capace di cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere dovrei vedere la tua anima."
"Vedere la mia anima!" balbettò Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura.
"Sì," rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda sofferenza nella voce, "vedere la tua anima. Ma solo Dio può farlo."
Un'amara risata di scherno eruppe dalle labbra di Dorian Gray. "La vedrai tu stesso. Stasera!" esclamò afferrando una lampada sul tavolo. "Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se vorrai, potrai raccontarlo a tutti. Nessuno ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra epoca meglio di te, anche se tu ne vai cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di corruzione: adesso la guarderai in faccia."
In ogni parola pronunciata c'era la follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e infantile. Provava una gioia terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore del ritratto all'origine di tutta la sua vergogna avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva fatto.
"Sì," proseguì venendogli vicino e guardandolo fisso negli occhi severi, "ti farò vedere la mia anima. Vedrai quello che, a tuo avviso, solo Dio può vedere."
Hallward arretrò. "Questa è una bestemmia, Dorian!" gridò. "Non devi dire cose simili. Sono orribili e non significano niente."
"Lo credi davvero?" disse e rise nuovamente.
"Ne sono certo. E per quanto riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che sono sempre stato un amico leale."
"Non toccarmi. Finisci quel che hai da dire."
Un lampo contorto di sofferenza passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di pietà lo assalì. Dopotutto che diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un decimo di quello che si raccontava, quanto doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase immobile a guardare i ceppi ardenti, coperti da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma.
"Sto aspettando, Basil," disse il giovane con voce chiara e dura.
Basil si voltò. "Quel che ho da dire è questo," esclamò. "Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse che ti si fanno. Se mi dici che sono assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, infame."
Dorian Gray sorrise. Le labbra erano piegate in un'espressione sprezzante. "Vieni di sopra, Basil," disse con voce tranquilla, "tengo un diario della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene scritto. Te lo farò vedere se vieni con me."
"Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non chiedermi di leggere nulla, stasera. Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda."
"Ti verrà data di sopra. Non posso dartela qui.


XIII

Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece vibrare rumorosamente qualche finestra.
Giunti all'ultimo pianerottolo, Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella serratura. "Vuoi proprio sapere, Basil?" domandò a bassa voce.
"Sì."
"Ne sono felice," assentì sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: "Sei l'unica persona al mondo che abbia il diritto di sapere tutto di me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi." Prese la lampada, aprì la porta ed entrò. Una fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una scura lingua arancione. Rabbrividì. "Chiudi la porta," sussurro posando la lampada sul tavolo.
Hallward si guardò intorno perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un quadro coperto da un drappo, un vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse altro, salvo un tavolo e una sedia. Mentre Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del caminetto, vide che tutto era coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un guizzo dietro i pannelli che rivestivano le pareti. C'era un umido odore di muffa.
"Dunque credi che solo Dio possa vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia."
La voce era fredda e crudele. "Sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando," mormorò Hallward, accigliato.
"Non vuoi? Allora lo farò io," disse il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul pavimento.
Un grido di orrore sfuggì dalle labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli ghignava dalla tela. C'era in quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo cielo! Stava guardando il volto di Dorian Gray! Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora completamente distrutto la sua meravigliosa bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle labbra sensuali. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non avevano ancora abbandonato le narici cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva dipinto? Gli parve di riconoscere la sua tecnica e anche la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli faceva ugualmente paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome tracciato a lunghe lettere di vermiglio brillante.
Era una sconcia parodia, una satira ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro era suo. Lo riconobbe e gli parve che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa poltiglia di ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con uno sguardo nauseato. Le labbra gli tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare parola. Si passò una mano sulla fronte: era madida di un sudore viscido.
Il giovane era appoggiato alla mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né vero dolore: solo la passione dello spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore dalla giacca e lo odorava, o fingeva di farlo.
"Che cosa significa?" gridò infine Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio.
"Anni fa, quando ero ragazzo," disse Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, "mi hai incontrato, mi hai colmato di adulazioni e mi hai insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un amico che mi spiegò il prodigio della giovinezza e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento di follia, che persino ora non so se rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una preghiera..."
"Ricordo! Oh, come me ne ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I colori che ho usato contenevano qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile."
"Ah, che cosa è impossibile?" mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro appannato.
"Mi hai detto che lo avevi distrutto."
"Sbagliavo: ha distrutto me."
"Non credo che sia il mio quadro."
"Non riesci a vederci il tuo ideale?" disse Dorian con voce amara.
"Il mio ideale, come tu lo chiami..."
"Come tu lo chiamavi."
"Non aveva in sé nulla di malvagio, nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò mai più. Questo è il volto di un satiro."
"È il volto della mia anima."
"Cristo! Che cosa devo avere adorato! Ha gli occhi di Un demonio."
"In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil," esclamò Dorian con un gesto incontrollato di disperazione.
Hallward si voltò di nuovo verso il quadro e lo esaminò. "Mio Dio, se tutto questo è vero," esclamò, "e se questo è ciò che hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di te!" Sollevò ancora la candela, avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta, come quando l'aveva finita. Evidentemente quella vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita interiore la lebbra del peccato stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una tomba piena d'acqua non era così spaventosa.
La mano gli tremò, la candela cadde dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la premette sotto il piede e la spense. Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il viso tra le mani.
"Buon Dio, Dorian, che lezione! Che tremenda lezione!" Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane singhiozzare accanto alla finestra. "Prega, Dorian, prega," mormorò. "Che cosa ci hanno insegnato a dire durante l'infanzia? "Non indurci in tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata ascoltata. Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e tutti e due siamo stati puniti."
Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con occhi bagnati di lacrime. "È troppo tardi, Basil," disse balbettando.
"Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso che dice, "anche se i tuoi peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?"
"Queste parole non significano più nulla per me."
"Zitto! Non dire queste cose. Hai fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa che ci guarda?"
Dorian Gray lanciò un'occhiata al quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di odio nei confronti di Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero sussurrato quelle labbra ghignanti. Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e odiò l'uomo seduto al tavolo come non aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello sguardo. Qualche cosa riluceva sul cassettone dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era un coltello che, qualche giorno prima, aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di riportarlo via. Vi si avvicinò lentamente, passando accanto a Basil. Appena fu giunto alle sue spalle, lo afferrò e si voltò. Hallward si mosse sulla sedia come se volesse alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa vena dietro l'orecchio, premendogli la testa sul tavolo e colpendolo ancora ripetutamente.
Si udì un rantolo soffocato e l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward alzò le braccia tese, agitando grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si mosse. Qualche cosa cominciò a gocciolare sul pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi gettò il coltello sul tavolo e ascoltò.
Sentiva solo lo stillicidio del sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era del tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno. Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di oscurità ribollente. Poi tolse la chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.
La cosa era sempre seduta sulla sedia, distesa sul tavolo a testa china, la schiena curva e le lunghe braccia irreali. Se non fosse stato per lo squarcio rosso e slabbrato sul collo e per la chiazza nera e grumosa che si allargava lentamente sul tavolo, si sarebbe detto che l'uomo dormisse semplicemente.
Come era successo tutto in fretta! Si sentiva stranamente calmo e, avvicinatosi alla finestra, la aprì e uscì sul balcone. Il vento aveva disperso la nebbia e il cielo era simile a un'enorme coda di pavone, costellata da miriadi di occhi d'oro. Guardò in basso e vide il poliziotto di ronda dirigere il lungo raggio della lanterna sulle porte delle case silenziose. La macchia cremisi di una carrozza in cerca di clienti luccicò all'angolo, poi scomparve. Una donna avvolta in uno scialle svolazzante scivolava lentamente, barcollando, vicino alla cancellata; ogni tanto si fermava e si guardava alle spalle. Poi cominciò a cantare con voce rauca. Il poliziotto le si avvicinò e le disse qualche cosa. Lei si allontanò a passi incerti, ridendo. Una fredda folata di vento spazzò la piazza. Le fiamme dei lampioni a gas tremolarono e assunsero un colore blu, gli alberi spogli agitarono i rami di nero acciaio. Rientrò rabbrividendo e chiuse la finestra dietro di sé.
Giunto alla porta, girò la chiave e aprì. Non lanciò neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Sentiva che il segreto stava nel non rendersi conto della situazione L'amico, che aveva dipinto quel fatale ritratto responsabile di tutte le sue miserie era uscito dalla sua vita. Questo bastava.
Poi ricordò la lampada. Era un singolare esempio di artigianato moresco, in argento massiccio intarsiato con arabeschi di acciaio brunito e tempestato di turchesi grezze. Forse il cameriere ne avrebbe notato la mancanza e avrebbe fatto delle domande. Esitò un attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di vedere la cosa morta. Com'era immobile! E quelle lunghe mani orribilmente pallide! Assomigliava ad una spaventosa figura di cera.
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, scese cautamente. Il legno scricchiolava e pareva emettere gemiti di sofferenza. Si fermò diverse volte e attese. No: tutto era tranquillo. Era solo il rumore dei suoi passi.
Quando fu nella biblioteca, vide in un angolo la borsa ed il soprabito. Bisognava nasconderli. Aprì un ripostiglio segreto nel rivestimento a pannelli, dove teneva nascosti i suoi strani travestimenti, e li ripose. Poi estrasse l'orologio: erano le due meno venti.
Sedette e cominciò a pensare. Tutti gli anni, quasi ogni mese, in Inghilterra venivano impiccati uomini per avere commesso quello che lui aveva fatto. Era passata nell'aria una follia omicida? Forse qualche stella rossa era passata troppo vicino alla terra... E tuttavia quali erano le prove contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la casa alle undici. Nessuno lo aveva visto rientrare. Quasi tutti i domestici erano a Selby Royal. Il suo cameriere era andato a letto... Parigi! Sì, Basil era andato a Parigi con il treno di mezzanotte, come aveva deciso. Con le sue strane abitudini riservate, sarebbero passati mesi prima che nascessero sospetti. Mesi! Era possibile distruggere tutto molto prima.
Un'idea improvvisa lo colpì. Indossò la pelliccia e il cappello e uscì nel vestibolo. Qui si fermò, sentendo il passo lento e pesante del poliziotto sul lastricato all'esterno e vedendo il raggio della lanterna cieca riflettersi nelle finestre. Attese trattenendo il respiro.
Pochi momenti dopo, aprì il chiavistello e scivolò fuori chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Poi cominciò a suonare il campanello. Circa cinque minuti dopo il suo cameriere apparve, semivestito e molto assonnato.
"Mi dispiace di averti fatto alzare, Francis," disse, entrando, "ma ho dimenticato la chiave. Che ora è?"
"Le due e dieci, signore," rispose il cameriere, guardando l'orologio e socchiudendo gli occhi.
"Le due e dieci. È terribilmente tardi. Devi svegliarmi domani alle nove. Ho alcune cose da fare."
"Benissimo, signore."
"Mi ha cercato qualcuno, questa sera?"
"Il signor Hallward, signore. È rimasto qui fino alle undici, poi è andato a prendere il treno."
"Oh, mi dispiace di non averlo visto. Ha lasciato detto qualche cosa?"
"No, signore, solo che le avrebbe scritto da Parigi se non l'avesse trovata al club."
"Va bene, Francis. Non dimenticare di svegliarmi alle nove."
"No, signore"
L'uomo si allontanò lungo il corridoio ciabattando.
Dorian Gray gettò sul tavolo pelliccia e cappello ed entrò in biblioteca. Per un quarto d'ora camminò avanti e indietro nella stanza, mordendosi le labbra e riflettendo. Poi da uno degli scaffali prese il libro azzurro e cominciò a sfogliarlo. "Alan Campbell, 152 Hertford Street, Mayfair". Sì, questo era l'uomo di cui aveva bisogno.


XIV

Il mattino dopo, alle nove, il cameriere entrò con una tazza di cioccolata su un vassoio e aprì le imposte. Dorian dormiva pacificamente sul fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si fosse stancato giocando o studiando.
Il cameriere dovette toccarlo due volte sulla spalla prima che si svegliasse. Mentre apriva gli occhi, un debole sorriso gli sfiorò le labbra, come se si fosse smarrito in un sogno delizioso. In realtà non aveva sognato affatto. La notte non era stata turbata da immagini di piacere o di dolore. Ma la gioventù sorride senza motivo: è una delle sue principali attrattive.
Si voltò e, appoggiandosi sul gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il dolce sole di novembre inondava la stanza. Il cielo era limpido e nell'aria c'era un piacevole tepore. Pareva quasi un mattino di maggio.
Un poco alla volta gli eventi della notte precedente si insinuarono nella sua mente con piedi bagnati di sangue e, pezzo a pezzo, ripresero forma, terribilmente precisi. Trasalì, ricordando quanto aveva sofferto, e per un momento tornò in lui quello strano sentimento di odio per Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre era là seduto. Si sentì raggelare dall'emozione. Il morto era ancora là, sulla sedia, nella luce del sole. Che cosa orribile! Queste orribili cose erano fatte per la notte, non per il giorno.
Sentì che, se avesse continuato a rimuginare su quello che aveva passato, si sarebbe sentito male o sarebbe impazzito. Vi sono peccati il cui fascino sta più nel ricordo che nell'atto; strane vittorie che gratificano più l'orgoglio che le passioni e che danno all'intelletto un più vivo senso di piacere, superiore a qualunque piacere esse diano, o possano dare, ai sensi. Ma questo era diverso, era una cosa da scacciare dalla mente, da addormentare con l'oppio, da soffocare per non venirne soffocati.
Quando batté la mezza, si passò una mano sulla fronte, si alzò in fretta e si vestì con più cura del solito, scegliendo con molta attenzione la cravatta e la spilla e cambiando più volte gli anelli. Indugiò anche sulla colazione, assaggiando i vari piatti, parlando con il cameriere di certe nuove livree che intendeva far fare per la servitù di Selby e scorrendo la corrispondenza. Alcune lettere lo fecero sorridere, tre lo annoiarono, una la rilesse diverse volte e infine la strappò con una leggera espressione di fastidio. "Che cosa incredibile, la memoria di una donna!" come aveva detto una volta Lord Henry.
Dopo aver bevuto una tazza di caffè nero, si asciugò lentamente le labbra con un tovagliolo, ordinò con un cenno al cameriere di attendere, sedette alla scrivania e scrisse due lettere. Una la infilò in tasca, l'altra la consegnò al cameriere.
"Francis, portala al 152 di Hertford Street e, se il signor Campbell è fuori città, fatti dare il suo indirizzo."
Rimasto solo, accese una sigaretta e cominciò a fare degli schizzi su un foglio di carta, disegnando prima fiori, poi particolari architettonici, infine volti umani. Improvvisamente notò che ogni volto disegnato pareva avere un'incredibile rassomiglianza con Basil Hallward. Si accigliò e, alzatosi, si avvicinò a uno scaffale dove prese un libro a caso. Era deciso a non pensare all'accaduto finché non fosse assolutamente necessario.
Dopo essersi sdraiato sul divano, guardò il titolo del libro. Erano gli Émaux et Camées di Gauthier, nell'edizione Charpentier in carta giapponese con le acqueforti di Jacquemart. Era rilegato in pelle verde limone, con impresso un motivo di losanghe in oro e di melograni. Glielo aveva regalato Adrian Singleton. Mentre lo sfogliava, l'occhio gli cadde sulla poesia che parla della mano di Lacenaire, la fredda mano gialla "du supplice encore mal lavée", con la liscia peluria rossa e le "doigts de faune". Si guardò le bianche dita affusolate e, suo malgrado, rabbrividì. Passò oltre finché giunse a queste belle strofe su Venezia:

Sur une gamme chromatique
Le sein de perles ruisselant,
La Vénus de l'Adriatique,
Sort de l'eau son corps rose et blanc.

Les dômes, sur l'azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S'enflent comme des gorges rondes
Que soulève un soupir d'amour.

L'esquif aborde et me dépose
Jetant son amarre au pilier,
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.

Che versi squisiti! Leggendoli pareva di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti in una nera gondola dalla prua d'argento e dalle cortine fluttuanti. I singoli versi gli ricordavano quelle linee rette azzurro turchesi che ci seguono quando si prende il largo in direzione del Lido. Gli improvvisi lampi di colore gli ricordavano lo splendore degli uccelli dalla gola color dell'opale e dell'iris che frullano intorno all'alto campanile a forma di alveare, o che camminano con grazia così maestosa sotto gli archi scuri e polverosi. Disteso a occhi socchiusi, continuava a ripetere tra sé:

Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.

Tutta Venezia era in questi due versi. Ricordò l'autunno che vi aveva passato e un amore meraviglioso che lo aveva spinto ad appassionate, deliziose follie. Lo spirito romantico si trova ovunque, ma Venezia, come Oxford, aveva conservato lo scenario, e per un romantico lo scenario è tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui per, un po' di tempo ed era impazzito per il Tintoretto. Povero Basil! Che morte orribile, la sua!
Sospirò, riprese in mano il libro e cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori dal piccolo caffè di Smirne, dove gli Hagi siedono sgranando i loro rosari di ambra e i mercanti in turbante fumano le lunghe pipe infiocchettate e parlano gravemente tra loro; lesse dell'obelisco di Place de la Concorde che piange lacrime di granito nel suo esilio solitario e senza sole e desidera ritornare sul caldo Nilo coperto di loto dove sono le sfingi, gli ibis rosso rosati, i bianchi avvoltoi dagli artigli d'oro e i coccodrilli dai piccoli occhi di berillo che strisciano sul verde fango fumante; cominciò a meditare su quei versi che, traendo musica dal marmo consunto dai baci, parlano della singolare statua da Gauthier paragonata a una voce di contralto: il "monstre charmant" che riposa nella camera di porfido del Louvre. Ma dopo un poco il libro gli cadde dalle mani. Si innervosì e fu colto da un tremendo accesso di terrore. Che cosa sarebbe successo se Alan Campbell non fosse stato in Inghilterra? Sarebbero trascorsi giorni prima che potesse ritornare. Forse avrebbe rifiutato di venire. Che cosa avrebbe potuto fare in questo caso? Ogni istante era di importanza vitale. Un tempo, cinque anni prima, erano stati grandi amici, quasi inseparabili. Poi la loro intimità era improvvisamente finita. Quando si incontravano in società solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente intelligente, anche se non apprezzava veramente le arti figurative e quel poco di sensibilità estetica per la poesia lo aveva preso tutto da Dorian. La passione intellettuale che lo dominava era la scienza. A Cambridge, aveva trascorso la maggior parte del tempo nel lavoro di laboratorio e aveva ricevuto un ottimo punteggio nel concorso di scienze naturali del suo anno. Lo studio della chimica l'interessava ancora, e aveva un suo laboratorio nel quale era solito chiudersi per tutta la giornata con grande dispiacere della madre che sarebbe stata felice di vederlo presentarsi candidato al Parlamento e aveva la vaga idea che i chimici fossero una specie di farmacisti. Tuttavia, era anche un eccellente musicista e suonava il piano e il violino meglio di molti dilettanti. Proprio la musica li aveva avvicinati: la musica e quell'indefinibile attrazione che Dorian sembrava capace di esercitare quando voleva, e che infatti esercitava, spesso senza saperlo. Si erano incontrati da Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato Rubinstein e da allora si erano visti sempre insieme all'Opera o ovunque si desse buona musica. La loro intimità era durata diciotto mesi. Campbell era sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per altri, Dorian Gray era il modello di tutto ciò che vi è di meraviglioso e di affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se tra loro fosse sorto un litigio o meno ma, improvvisamente, la gente cominciò a notare che, quando si incontravano, si parlavano appena e che Campbell pareva abbandonare presto ogni party in cui era presente Dorian Gray. Inoltre era cambiato: a volte era stranamente malinconico, sembrava quasi che non gli piacesse più ascoltare la musica. Non suonava più: quando lo pregavano di farlo si scusava dicendo che la scienza lo assorbiva a un punto tale che non aveva più tempo per tenersi in esercizio. Ed era certamente vero: sembrava interessarsi sempre di più alla biologia e qualche volta il suo nome appariva su riviste scientifiche a proposito di strani esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray attendeva Ogni momento consultava l'orologio. Man mano che i minuti passavano la sua agitazione aumentava terribilmente. Alla fine si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, come un bell'animale in gabbia. Camminava a passi lunghi e furtivi, le mani erano stranamente fredde.
L'attesa divenne insopportabile. Aveva l'impressione che il tempo avanzasse con i piedi di piombo, mentre ali mostruose lo sospingevano verso il bordo irregolare di una buia fenditura o di una voragine. Sapeva che cosa lo aspettava, anzi lo vedeva, e scosso da un tremito premette le mani sudate sulle palpebre ardenti, come se volesse rubare la vista alla sua stessa mente e schiacciare i bulbi oculari nelle orbite. Era inutile. La mente aveva un suo alimento che divorava avidamente e l'immaginazione, resa grottesca dal terrore, aggrovigliata e contorta come una creatura viva sofferente, danzava come un assurdo burattino con il ghigno di una maschera greca. Poi, improvvisamente, il tempo si fermò. Sì: quella cosa cieca, dal lento respiro, non strisciava più, era morta e gli orrendi pensieri corsero turbinando dinanzi a lui, estrassero dal suo sepolcro un futuro spaventoso e glielo mostrarono. Egli guardò e impietrì dall'orrore.
Finalmente la porta si aprì ed entrò il cameriere. Dorian portò su di lui uno sguardo vitreo.
"Il signor Campbell, signore," annunciò l'uomo.
Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra secche e le guance ripresero colore.
"Fallo entrare subito, Francis." Si sentiva nuovamente se stesso: la crisi di paura era superata.
L'uomo fece un inchino e si ritirò. Pochi momenti dopo entrò Alan Campbell, pallido e con un'espressione di estrema severità. I capelli neri come il carbone e le sopracciglia scure ne accentuavano il pallore.
"Alan, sei stato molto gentile. Grazie per essere venuto."
"Avevo deciso di non entrare più in casa sua, Gray. Ma lei mi ha fatto dire che si trattava di una questione di vita o di morte." La voce era dura e fredda. Parlava lentamente, con decisione. Nel freddo sguardo indagatore che rivolse a Dorian Gray c'era un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nelle tasche del cappotto di astrakan e sembrava non aver notato il gesto con cui era stato accolto.
"Sì, è una questione di vita o di morte, Alan, e per più di una persona. Siediti."
Campbell prese la sedia accanto alla tavola e Dorian sedette di fronte a lui. I loro occhi si incontrarono. In quelli di Dorian c'era un'infinità pietà. Sapeva che quello che stava per fare era spaventoso.
Dopo un prolungato silenzio, si chinò sul tavolo e disse, con molta tranquillità ma osservando l'effetto di ogni parola sul viso dell'uomo che aveva mandato a chiamare: "Alan, in una stanza chiusa, all'ultimo piano di questa casa, una stanza nella quale solo io posso entrare, c'è un morto seduto ad un tavolo. È morto da dieci ore, ormai. Non agitarti e non guardarmi in quel modo. Chi sia l'uomo, perché è morto, come è morto, non sono cose che ti interessano. Quello che tu devi fare è..."
"Basta, Gray. Non voglio sapere nient'altro. Se quello che lei ha detto è vero o no, non è cosa che mi riguarda. Rifiuto assolutamente di immischiarmi nella sua vita. Tenga per lei i suoi orribili segreti. Non mi interessano più."
"Devono interessarti, Alan. Questo dovrà interessarti. Sono terribilmente spiacente per te, Alan, ma non posso farne a meno: sei l'unico in grado di salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti in questa faccenda, non ho scelta. Alan, tu sei uno scienziato, conosci la chimica e roba simile. Hai fatto esperimenti. Quel che devi fare è semplicemente distruggere la cosa che c'è di sopra, distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno l'ha visto entrare in questa casa. Anzi, in questo momento si pensa che sia a Parigi. La sua mancanza non verrà notata per mesi. Quando se ne accorgeranno, bisogna che qui non si trovi nessuna traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che gli appartiene in un pugno di cenere che io possa disperdere nell'aria."
"Sei pazzo, Dorian."
"Ah! Aspettavo che mi dessi del tu."
"Sei pazzo, ti dico... pazzo a immaginare che avrei sollevato un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa mostruosa confessione. Non voglio aver nulla a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che voglia mettere in pericolo la mia reputazione per te? Che cosa mi importa di questa diabolica faccenda in cui ti sei cacciato?"
"È stato un suicidio, Alan."
"Me ne rallegro. Ma chi lo ha spinto a questo? Tu, immagino."
"Insisti nel rifiutare di fare quel che ti ho chiesto ?"
"Certo che rifiuto. Non voglio averci assolutamente nulla a che fare. Non mi importa nulla della vergogna che può venirtene. Te la meriti tutta. Non mi dispiacerebbe vederti disonorato, pubblicamente disonorato. Come osi chiedere a me, proprio a me, di immischiarmi in questa orribile cosa? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere umano. Il tuo amico Lord Henry Wotton non deve averti insegnato molto in fatto di psicologia, qualunque altro cosa possa averti insegnato. Nulla mi indurrà ad accennare un passo per aiutarti. Non hai scelto la persona adatta. Va' da qualcuno dei tuoi amici, non venire da me."
"Alan, è stato un assassinio. L'ho ucciso. Non immagini che cosa mi ha fatto soffrire. Quale che sia la mia vita, la sua responsabilità, nel farla o nel rovinarla, è stata molto maggiore di quella del povero Harry. Può darsi che non lo abbia voluto, ma il risultato è stato lo stesso."
"Un assassinio! Buon Dio, Dorian, sei arrivato a questo? Non ti denuncerò, la cosa non mi riguarda. Del resto, se non mi occupassi di questa faccenda ti arresterebbero certamente: nessuno commette un delitto senza fare qualche stupidaggine, ma io non voglio averci nulla a che fare."
"Devi averci a che fare. Aspetta un momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Ti chiedo solo di compiere un certo esperimento scientifico. Tu entri negli ospedali e negli obitori e le cose orribili che fai là dentro non ti fanno nessun effetto. Se in qualche ripugnante sala di dissezione o in qualche fetido laboratorio, trovassi quest'uomo disteso su un tavolo di piombo con intorno dei canaletti rossi per far scorrere il sangue, ti limiteresti a ritenerlo un esemplare interessante. Non batteresti ciglio. Non penseresti affatto di fare qualche cosa di male. Al contrario, probabilmente avresti l'impressione di giovare alla specie umana, di aumentare la conoscenza del mondo, di gratificare la tua curiosità intellettuale, o qualche cosa di simile. Io ti chiedo solo di fare una cosa che hai fatto molte altre volte. Distruggere un cadavere deve essere molto meno orribile delle cose che sei solito fare. E, ricorda, è l'unica prova esistente contro di me. Se la scoprono, sono perduto, e verrò certamente scoperto se non mi aiuti."
"Non ho nessuna voglia di aiutarti, dimentichi questo. Tutta questa storia mi lascia semplicemente indifferente. Non mi riguarda affatto."
"Alan, ti supplico. Pensa alla situazione in cui mi trovo. Fino a un attimo prima che tu venissi, ero quasi svenuto di terrore. Un giorno potresti trovarti anche tu nella stessa situazione. No! Non pensare a questo. Cerca di vedere la cosa sotto l'aspetto puramente scientifico. Non ti chiedi da dove provengano i morti sui quali compi i tuoi esperimenti. Non domandartelo nemmeno ora. Ti ho già detto anche troppo. Ma ti prego di farlo. Una volta eravamo amici, Alan."
"Non parlare di quei tempi, Dorian: sono morti."
"A volte i morti se ne vanno in giro. L'uomo di sopra non se ne andrà. È seduto al tavolo con la testa reclinata e le braccia distese. Alan, Alan, se non mi vieni in aiuto sono rovinato. Pensa, mi impiccheranno, Alan! Non capisci? Mi impiccheranno per quel che ho fatto."
"È inutile tirare in lungo questa scena. Rifiuto assolutamente di occuparmi di questa faccenda. È pazzesco che tu me lo chieda."
"Ti rifiuti?"
"Sì."
"Te ne supplico, Alan."
"È inutile."
La stessa espressione di pietà ritornò negli occhi di Dorian Gray. Quindi allungò una mano, prese un pezzo di carta e vi scrisse qualche cosa. Lo lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse attraverso la tavola. Fatto questo, si alzò e andò alla finestra.
Campbell lo guardò sorpreso, poi prese il foglio e lo aprì. Mentre lo leggeva, sul volto gli apparve un pallore mortale. Ricadde a sedere e fu sopraffatto da un orribile senso di nausea. Aveva l'impressione che il cuore pulsasse fino a scoppiare in una vuota cavità.
Dopo un paio di minuti di terribile silenzio, Dorian si volse, gli si avvicinò e si fermò dietro di lui posandogli una mano sulla spalla.
"Mi dispiace moltissimo per te, Alan," mormorò, "ma non mi hai lasciato altra scelta. Ho già scritto una lettera: eccola. L'indirizzo lo vedi. Se non mi aiuti", sarò costretto a spedirla. Sai quali saranno le conseguenze. Ma tu mi aiuterai. Non puoi rifiutare, adesso. Ho cercato di risparmiarti. Sarai tanto onesto da ammetterlo. Sei stato severo, aspro, offensivo. Mi hai trattato come nessuno ha mai osato trattarmi... nessuno che sia vivo, almeno. Ho sopportato tutto. Adesso sono io a dettare le condizioni."
Campbell seppellì il volto tra le mani, scosso da un brivido.
"Sì, sono io a dettare le condizioni, Alan. Sai quali sono. La cosa è semplicissima. Avanti, non perdere il controllo dei nervi. La cosa deve essere fatta. Affrontala e falla."
Un gemito sfuggì dalle labbra di Campbell; un tremito lo scuoteva tutto. Il ticchettio dell'orologio sulla mensola del caminetto gli pareva dividesse il tempo in atomi separati di sofferenza, ognuno troppo spaventoso per essere sopportato. Gli parve che un anello di ferro gli si stringesse lentamente intorno alla fronte, come se la disgrazia che lo minacciava fosse già avvenuta. La mano sulla spalla pesava come se fosse di piombo. Era insostenibile, sembrava schiacciarlo.
"Avanti, Alan, devi decidere immediatamente."
"Non posso farlo," disse meccanicamente, come se le parole potessero modificare le cose.
"Devi. Non hai scelta. Non perdere tempo."
Campbell esitò un momento. "C'è del fuoco nella stanza?"
"Sì, una stufa a gas con il corpo di amianto."
"Devo andare a casa a prendere alcune cose in laboratorio."
"No, Alan, non devi lasciare questa casa. Scrivi su un foglio quello che ti occorre e il mio servo prenderà una carrozza e lo porterà qui."
Campbell scarabocchiò alcune righe, le asciugò con la carta assorbente e scrisse su una busta l'indirizzo del suo assistente. Dorian Gray prese il biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello, consegnò la busta al cameriere, ordinandogli di tornare il più presto possibile, e di portare le cose con sé.
Quando la porta di casa si chiuse, Campbell ebbe uno scatto e, alzatosi, si diresse verso il caminetto. Tremava come se avesse un attacco di malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due pronunciò parola. Una mosca ronzava fastidiosamente nella stanza e i battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando la pendola suonò l'una, Campbell si voltò e, lanciando un'occhiata a Dorian Gray, vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Nella purezza e nella perfezione di quel volto triste c'era qualche cosa che lo fece arrabbiare. "Sei infame, assolutamente infame!" mormorò.
"Zitto, Alan: mi hai salvato la vita," disse Dorian.
"La vita? Santo cielo! Che razza di vita! Sei passato di corruzione in corruzione, e adesso culmini in un delitto. Facendo quel che stai per fare - che mi costringi a fare - non è alla tua vita che penso."
"Ah, Alan," mormorò Dorian con un sospiro, "vorrei che tu provassi per me un millesimo della pietà che io provo per te." Mentre pronunciava queste parole si voltò e rimase immobile, guardando fuori, nel giardino. Campbell non rispose.
Dopo circa dieci minuti si sentì bussare alla porta ed entrò il cameriere con una grande cassa di mogano piena di prodotti chimici, una lunga serpentina di acciaio, un rotolo di filo di platino e due morsetti di ferro di forma insolita.
"Devo lasciare tutto qui, signore?" domandò a Campbell.
"Sì," disse Dorian. "E temo di avere un'altra incombenza per te, Francis. Come si chiama quell'uomo di Richmond che fornisce le orchidee a Selby?"
"Harden, signore."
"Già, Harden. Devi andare subito a Richmond, parlargli personalmente, dirgli di mandare il doppio delle orchidee che ho ordinato, e di metterne il meno possibile di bianche. Anzi, di bianche non ne voglio. È una bella giornata, Francis, e Richmond è un bel posto, altrimenti non ti infastidirei con questa cosa."
"Nessun fastidio, signore. Per che ora devo tornare?"
Dorian guardò Campbell. "Quanto tempo ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?" domandò con voce calma e indifferente. La presenza di una terza persona nella stanza sembrava dargli un coraggio straordinario.
Campbell aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. "Ci vorranno cinque ore circa," rispose.
"Allora, sarà sufficiente che tu sia di ritorno per le sette e mezzo, Francis. Anzi, aspetta: basta che tu tiri fuori il mio vestito da sera, poi sarai libero per tutta la serata. Non ceno a casa, quindi non avrò bisogno di te."
"Grazie, signore," disse l'uomo e uscì.
"Adesso, Alan, non c'è un momento da perdere. Com'è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu prendi le altre cose." Parlava rapidamente, in tono autoritario. Campbell si sentiva soggiogato. Lasciarono insieme la stanza.
Quando furono giunti sul pianerottolo dell'ultimo piano, Dorian levò di tasca la chiave e la girò nella toppa. Poi si fermò e un'espressione turbata gli apparve negli occhi. Rabbrividì. "Non credo di poter entrare, Alan," mormorò.
"Non importa, non ho bisogno di te," disse Campbell freddamente.
Dorian socchiuse la porta. Nel farlo vide il viso ghignante del ritratto nella luce del sole. Sul pavimento, davanti ad esso, era ammucchiato il drappo che aveva strappato. Ricordò che la notte precedente, per la prima volta in vita sua, aveva dimenticato di nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi a farlo quando arretrò con un brivido.
Che cos'era quella disgustosa rugiada rossa che brillava, umida e lucente, su una delle mani, come se la tela sudasse sangue? Com'era terribile!... ancor più orribile, gli sembrò in quel momento, della cosa silenziosa che sapeva riversa sulla tavola, quella cosa la cui ombra, grottesca e informe sul tappeto macchiato, mostrava che non si era mossa ma era ancora lì, come l'aveva lasciata.
Trasse un profondo respiro, aprì un poco di più la porta e, con gli occhi semichiusi, distogliendo il viso, entrò rapidamente deciso a non posare nemmeno per un attimo gli occhi sul cadavere. Poi, chinatosi, afferrò il drappo e lo gettò sul quadro.
Si fermò, timoroso di voltarsi, con gli occhi fissi sul complicato ricamo che aveva davanti. Sentì Campbell trascinare all'interno la pesante cassa, i ferri e gli altri strumenti necessari per il suo terribile lavoro. Cominciò a chiedersi se lui e Basil Hallward si fossero mai conosciuti e che cosa pensassero l'uno dell'altro.
"Adesso lasciami," disse una voce severa alle sue spalle. Si voltò e uscì in fretta, appena consapevole del fatto che il morto era stato rialzato contro la sedia e che Campbell stava esaminandone il volto giallo e lucente. Mentre scendeva le scale sentì girare la chiave nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo quando Campbell ritornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo. "Ho fatto quello che mi hai chiesto," mormorò. "E adesso, addio. Facciamo in modo di non vederci più."
"Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non me ne dimenticherò," disse Dorian, semplicemente.
Appena Campbell fu uscito, salì di sopra. Nella stanza c'era un orribile odore di acido nitrico. Ma la cosa che era stata seduta al tavolo era scomparsa.


XV

Quella sera, alle otto e mezzo, Dorian Gray, elegantissimo e con un mazzetto di violette di Parma all'occhiello, entrò nel salotto di Lady Narborough tra gli inchini dei camerieri. Sulla fronte sentiva sussultare, i nervi impazziti e si sentiva in preda a un'eccitazione selvaggia, Ma mentre si chinava sulla mano della sua ospite, i suoi modi erano come sempre sciolti e pieni di grazia. Forse non ci si sente mai a proprio agio come quando si recita una parte. Certo quella sera nessuno, guardando Dorian Gray, avrebbe potuto credere che era appena uscito da una tragedia orribile, come tutte le tragedie del nostro tempo. Non era possibile che quelle dita sottili avessero afferrato un coltello per commettere un delitto, né che quelle labbra sorridenti avessero bestemmiato contro Dio e contro la bontà. Lui stesso non poteva fare a meno di meravigliarsi della propria calma e per un momento provò acutamente il piacere di vivere una doppia vita.
Al party c'era poca gente, messa insieme in fretta da Lady Narborough, una donna molto intelligente, dotata di quelli che Lord Henry era solito chiamare i resti di una bruttezza davvero notevole. Si era dimostrata moglie eccellente di uno dei nostri ambasciatori più noiosi e, dopo aver sepolto correttamente il marito in un mausoleo di marmo da lei stessa ideato, aveva maritato le figlie a degli uomini più ricchi e piuttosto anziani e si era data ai piaceri del romanzo francese, della cucina francese e dell'esprit francese, quando riusciva a capirlo.
Dorian era uno dei suoi favoriti: gli diceva sempre che era estremamente felice di non averlo incontrato in gioventù. "Sono sicura, mio caro, che mi sarei follemente innamorata di lei," era solita dire, "e per lei "avrei lasciato il cappello dietro il mulino". È stata una grande fortuna che, a quel tempo, lei non fosse nemmeno un'intenzione. Del resto, i nostri cappelli erano così brutti e i nostri mulini erano così occupati a far vento, che non ho mai avuto nemmeno un flirt. Comunque, è stata tutta colpa di Narborough. Era tremendamente miope e non c'è nessun gusto quando si ha un marito che non vede nulla."
Gli ospiti della serata erano piuttosto noiosi. Il fatto era, come spiegò a Dorian Gray dietro un ventaglio piuttosto male in arnese, che una delle figlie sposate era venuta improvvisamente a stare per qualche tempo con lei e, per peggiorare le cose, aveva portato il marito. "Credo proprio che sia stato poco gentile da parte sua, mio caro," sussurrò. "È vero che d'estate sono loro ospite quando ritorno da Homburg, ma dopotutto una vecchia come me deve prendere un po' d'aria fresca ogni tanto e d'altra parte li rianimo un po'. Non immagina che vita fanno laggiù. Pura e intatta vita di campagna. Si alzano presto perché hanno moltissimo da fare e vanno a letto presto perché hanno pochissimo da pensare. Non c'è stato uno scandalo nelle vicinanze dai tempi della regina Elisabetta e così si addormentano subito dopo pranzo. Non deve mettersi vicino a nessuno dei due, lei si metterà vicino, a me e mi farà divertire."
Dorian mormorò un complimento gentile e si guardò intorno. Sì, era proprio un party noioso. C'erano due ospiti che non aveva mai visto; gli altri erano Ernest Harrowden, una di quelle mediocrità di mezza età che sono così comuni nei club londinesi, privi di nemici, ma accuratamente antipatici agli amici; Lady Ruxton, una donna sui quarantasette vestita con troppo lusso, con il naso a becco, che cercava continuamente di compromettersi, ma così scialba che, con suo grande disappunto, nessuno avrebbe mai pensato qualcosa di male sul suo conto; la signora Erlynne, un'arrivista senza qualità, con una deliziosa balbuzie e i capelli rosso veneziano; Lady Alice Chapman, figlia dell'ospite, una ragazza ottusa e malvestita; con una di quelle caratteristiche facce britanniche che una volte viste non si ricordano mai più, e il marito, un essere rubizzo dalle basette bianche che, come molti della sua classe, pensava che una giovialità disordinata possa compensare un'assoluta mancanza di idee.
Era piuttosto pentito di essere venuto, quando Lady Narborough guardando il grande orologio di bronzo dorato, adagiato in ricche volute sulla mensola del camino coperta da un panno mauve, esclamò: "È indecente, da parte di Henry Wotton, arrivare così in ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina sperando di trovarlo, e mi ha assicurato che non mi avrebbe delusa."
Il fatto che Henry dovesse arrivare lo consolò, e quindi, quando la porta si aprì e Dorian udì la voce lenta e musicale dare una veste affascinante a una falsa scusa, non si sentì più annoiato.
Ma a pranzo non riuscì a mangiare nulla. I Piatti passavano uno dopo l'altro senza che li toccasse. Lady Narborough continuava a sgridarlo per quello che chiamava "un insulto al povero Adolphe, che ha composto il menù apposta per lei" e, di tanto in tanto, Lord Henry gli lanciava un'occhiata, stupito del suo silenzio e dei suoi modi distratti. Ogni tanto il cameriere gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente ma la sete sembrava aumentare di continuo.
"Dorian," disse Lord Henry alla fine, mentre veniva servito lo chaud-froid, "che cosa ti succede, stasera? Mi sembri di pessimo umore."
"Credo che sia innamorato," esclamò Lady Narborough, "ma che abbia paura di dirmelo perché teme che io sia gelosa. Ha assolutamente ragione: lo sarei di certo."
"Cara Lady Narborough," mormorò Dorian sorridendo, "è da una settimana che non sono innamorato... da quando è partita Madame Ferrol."
"Mi domando come facciate, voi uomini, a innamorarvi di quella donna!" esclamò la vecchia signora. "Non riesco proprio a capirlo."
"Semplicemente, perché assomiglia a lei da bambina, Lady Narborough,", disse Lord Henry. "È l'unico legame che rimane tra noi e i suoi vestitini."
"Non ricorda proprio per niente i miei vestitini, Lord Henry. Ma la ricordo benissimo a Vienna trent'anni fa e ricordo anche l'ampiezza dei suoi décolletés."
"L'ampiezza c'è ancora," disse Lord Henry prendendo un'oliva con le lunghe dita; "e quando è molto elegante ricorda l'edition de luxe di un brutto romanzo francese. È davvero stupefacente e piena di sorprese. L'intensità dei suoi affetti familiari è straordinaria: quando morì il suo terzo marito divenne completamente bionda per il dispiacere."
"Henry, come puoi... !" esclamò Dorian Gray.
"È una spiegazione molto romantica," rise l'ospite. "Ma, il suo terzo marito, Lord Henry! Non vorrà dire che Ferrol è il quarto."
"Certo, Lady Narborough."
"Non ci credo assolutamente."
"Bene, lo chieda al signor Gray. È uno dei suoi più intimi amici."
"È vero, signor Gray?"
"Me lo ha assicurato lei, Lady Narborough," disse Dorian. "Le ho domandato se, come Margherita di Navarra, aveva fatto imbalsamare i loro cuori e li aveva appesi alla cintura. Mi ha detto che non lo aveva fatto perché nessuno di loro aveva un cuore."
"Quattro mariti! Parola mia, questo si chiama trop de zèle."
"Trop d'audace, io le ho detto," disse Dorian Gray.
"Oh, Madame Ferrol è audace in tutto, mio caro. E che tipo è il marito? Non lo conosco."
"I mariti delle donne molto belle appartengono alla categoria dei criminali," disse Lord Henry sorseggiando il vino.
Lady Narborough lo colpì con il ventaglio. "Lord Henry, non mi sorprende affatto che il mondo dica che lei è estremamente maligno."
"Ma quale mondo?" domandò Lord Henry, alzando le sopracciglia. "Non può essere che l'altro mondo, dato che questo mondo ed io siamo in ottimi rapporti."
"Tutti quelli che conosco dicono che lei è molto maligno," esclamò la vecchia signora, scuotendo il capo.
Lord Henry prese per un momento un'aria seria. "È assolutamente mostruoso," disse alla fine, "il modo che ha oggi la gente di dire alle nostre spalle cose che sono assolutamente e completamente vere."
"Non è incorreggibile?" esclamò Dorian Gray, piegandosi sulla sedia.
"Lo spero," disse la sua ospite ridendo. "Ma davvero se tutti voi adorate Madame Ferrol in questo modo ridicolo, sarò costretta a sposarmi per essere di moda."
"Lei non si sposerà più, Lady Narborough," interruppe Lord Henry. "È troppo felice. Quando una donna si risposa lo fa perché detestava il primo marito. Quando si risposa un uomo, lo fa perché adorava la prima moglie. Le donne mettono alla prova la loro fortuna, gli uomini la mettono a repentaglio."
"Narborough non era perfetto," disse la vecchia signora.
"Se lo fosse stato, lei non l'avrebbe amato, mia cara," fu la risposta, "Le donne ci amano per i nostri difetti. Se ne abbiamo a sufficienza, ci perdonano tutto, persino l'intelligenza. Dopo aver detto queste cose, temo che lei non mi inviterà più a pranzo, Lady Narborough; comunque sono cose vere."
"Certo che sono cose vere, Lord Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che cosa sarebbe di tutti voi? Nessuno di voi si sposerebbe. Sareste una massa di disgraziati scapoli. Non è che con questo le cose cambierebbero molto: di questi tempi tutti gli uomini sposati vivono da scapoli e tutti gli scapoli da sposati."
"Fin de siècle," mormorò Lord Henry.
"Fin du globe," replicò la padrona di casa.
"Vorrei che fosse davvero fin du globe," disse Dorian con un sospiro. "La vita è una grande delusione."
"Ah, mio caro," disse Lady Narborough infilandosi i guanti, "non mi dica che ha esaurito la vita. Quando un uomo dice una cosa simile, si è sicuri che la vita ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno e a volte vorrei esserlo stata anch'io: ma lei è fatto per essere buono, ha l'aria di esserlo. Devo trovarle una bella moglie. Lord Henry, non pensa che il signor Gray dovrebbe sposarsi?"
"Glielo dico sempre, Lady Narborough," disse Lord Henry con un inchino.
"Bene, dobbiamo cercargli un partito conveniente. Stasera sfoglierò attentamente il Debrett e ne tirerò fuori una lista di tutte le giovani fanciulle desiderabili."
"Con le rispettive età, Lady Narborough?" domandò Dorian.
"Naturalmente, con le rispettive età, in edizione leggermente riveduta. Ma non bisogna agire frettolosamente. Voglio che sia quello che il Morning Post chiamerebbe un matrimonio ben assortito, e voglio che siate felici tutti e due."
"Quante assurdità si dicono sui matrimoni felici!" esclamò Lord Henry. "Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, finché non ne è innamorato."
"Ah! Che cinico!" esclamò la vecchia signora, scostando la sedia e facendo un cenno a Lady Ruxton. "Deve ritornare presto a cena da me. Lei è veramente un tonico straordinario, molto meglio di quello che mi prescrive Sir Andrew. Deve dirmi chi le piacerebbe incontrare. Voglio che sia una riunione piacevolissima."
"Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro e le donne che hanno un passato," rispose Lord Henry. "O pensate che sarebbe un party di sole sottane?"
"Temo di sì," rispose la donna ridendo e si alzò. "Mille scuse, mia cara Lady Ruxton," aggiunse. "Non mi ero accorta che non aveva finito la sigaretta."
"Non importa, Lady Narborough. Fumo troppo. Ho intenzione di controllarmi, in futuro."
"Non lo faccia, per favore, Lady Ruxton," disse Lord Henry. "La moderazione è fatale. L'abbastanza è cattivo come un pasto, il troppo è buono come un banchetto."
Lady Ruxton lo guardò interessata. "Deve venire qualche pomeriggio a casa mia a spiegarmelo, Lord Henry. Mi pare una teoria affascinante," mormorò e scivolò fuori dalla stanza.
"Adesso, cercate di non discutere troppo di quella vostra politica e di scandali," esclamò Lady Narborough dalla porta. "Altrimenti, di sopra litigheremo di sicuro."
Gli uomini risero e il signor Chapman si alzò solennemente, spostandosi da un estremo all'altro della tavola. Dorian Gray cambiò posto e andò a sedere accanto a Lord Henry. Il signor Chapman cominciò a parlare a voce alta della situazione alla Camera dei Comuni, dileggiando i suoi avversari. La parola doctrinaire, parola terrorizzante per una mente inglese, riappariva di tanto in tanto tra le sue esplosioni di risa. Un prefisso allitterativo serviva da ornamento alla sua retorica. Issò l'Union Jack sui pinnacoli del pensiero. L'ereditaria stupidità della razza - da lui giovialmente definita sano buonsenso inglese - venne presentata come il giusto baluardo della società.
Un sorriso incurvò le labbra di Lord Henry che si voltò verso Dorian osservandolo.
"Ti senti meglio, caro amico?" domandò. "A cena sembravi piuttosto di malumore."
"Sto benissimo, Harry. Sono stanco. Tutto qui."
"Ieri sera eri affascinante. La piccola duchessa ti è completamente devota. Mi ha detto che verrà a Selby."
"Mi ha promesso di venire il venti."
"Ci sarà anche Monmouth?"
"Oh, sì, Harry."
"È terribilmente noioso, per me, quasi quanto per lei. Lei è molto intelligente, troppo per una donna. Le manca il fascino indefinibile della debolezza. Sono i piedi d'argilla che valorizzano l'oro della statua. I suoi piedi sono molto graziosi, ma non sono d'argilla. Piedi di porcellana bianca, se vuoi. Sono passati attraverso il fuoco e quello che il fuoco non distrugge, indurisce. Ha avuto delle esperienze."
"Da quanto tempo è sposata?" domandò Dorian.
"Da un'eternità, mi ha detto. Credo da dieci anni, stando all'almanacco nobiliare, ma dieci anni con Monmouth devono essere un'eternità più un po' di tempo ancora. Chi saranno gli altri?"
"Oh, i Willoughby, Lord Rugby con la moglie, la nostra ospite, Geoffrey Clouston: il solito giro. Ho chiesto a Lord Grotrian di venire."
"Mi è simpatico," disse Lord Henry, "a moltissimi non lo è, ma io lo trovo piacevole. Si fa perdonare il fatto di essere qualche volta un po' troppo ben vestito, con quello di essere sempre troppo ben educato. È un tipo molto moderno."
"Non so se potrà venire, Harry. Forse dovrà andare a Montecarlo con il padre."
"Ah, che seccatura i parenti! Cerca di farlo venire. A proposito, Dorian, te ne sei scappato molto presto ieri sera, prima delle undici. Che cosa hai fatto dopo? Sei andato subito a casa?"
Dorian gli lanciò una rapida occhiata, accigliandosi. "No, Harry," disse alla fine, "sono stato fuori fino alle tre circa."
"Sei andato al club?"
"Sì," rispose. Poi si morse un labbro. "No, non intendevo questo, non sono stato al club. Sono andato in giro. Ho dimenticato cosa ho fatto... Come sei indiscreto, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa fa la gente. Io cerco sempre di dimenticare quel che ho fatto. Sono rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora precisa. Avevo dimenticato la chiave a casa e ha dovuto aprirmi il mio cameriere. Se vuoi una testimonianza che appoggi la mia dichiarazione, puoi domandarglielo."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Mio caro amico, come se me ne importasse qualche cosa! Andiamo in salotto. Niente sherry, grazie, signor Chapman. Ti è successo qualche cosa, Dorian. Dimmi di che cosa si tratta. Questa sera non sei il solito."
"Non badare a me, Harry. Sono nervoso e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a Lady Narborough. Non vengo di sopra, vado a casa. Devo andare a casa."
"D'accordo, Dorian. Penso che ti vedrò domani all'ora del tè. Ci sarà anche la duchessa."
"Cercherò di venire, Harry," disse Dorian lasciando la stanza. Mentre tornava a casa in carrozza si rese conto che il senso di terrore che credeva di aver soffocato, lo aveva nuovamente sopraffatto. Le domande casuali di Lord Henry per un momento gli avevano fatto perdere il controllo dei nervi e voleva averli saldi. Bisognava distruggere alcune cose pericolose. Rabbrividì: solo l'idea di toccarle gli dava un estremo fastidio.
Tuttavia era necessario. Se ne rese conto e, dopo aver chiuso a chiave la porta della biblioteca, aprì il ripostiglio segreto nel quale aveva nascosto il cappotto e la borsa di Basil Hallward. Nel caminetto ardeva un grande fuoco. Vi gettò un altro ceppo. L'odore della stoffa e del cuoio che bruciavano era orribile. Ci vollero tre quarti d'ora prima che tutto fosse consumato. Alla fine si sentì fiacco e nauseato. Accese alcune pastiglie algerine in un braciere di rame traforato e bagnò mani e fronte con fresco aceto muschiato.
Improvvisamente sussultò. Gli occhi assunsero una strana luminosità e si morse nervosamente il labbro inferiore. Tra due finestre c'era un grande stipo fiorentino di ebano intarsiato di avorio e lapislazzuli blu. Lo guardò come se fosse una cosa a un tempo affascinante e spaventosa, come se contenesse qualche cosa di cui fosse bramoso e, insieme, disgustato. Fu sopraffatto da una folle bramosia. Accese una sigaretta, poi la gettò via. Le palpebre si abbassarono finché le lunghe frange delle ciglia gli sfiorarono le guance. Ma continuava a fissare lo stipo. Alla fine si alzò dal divano dove era sdraiato, si avvicinò al mobile e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì lentamente. Le sue dita si avvicinarono istintivamente, vi entrarono, si chiusero su qualche cosa. Era una piccola scatola cinese di lacca nera e oro minutamente lavorata, i fianchi erano decorati a motivi ondulati; dalla scatoletta pendevano due cordoncini di seta, intrecciati con filo metallico terminanti in due cristalli rotondi. L'aprì. Conteneva una pasta verde, lucente come cera, dall'odore stranamente greve e persistente.
Esitò qualche istante, con un sorriso stranamente immobile sul volto. Poi, rabbrividì, sebbene nella stanza ci fosse un caldo terribile, si raddrizzò e guardò l'orologio. Mancavano venti minuti a mezzanotte. Rimise la scatoletta al suo posto, richiuse il cassetto e si trasferì in camera da letto.
A mezzanotte, mentre nell'aria nebbiosa vibravano rintocchi di bronzo, Dorian Gray indossò un abito modesto, mise una sciarpa al collo e scivolò silenziosamente fuori di casa. In Bond Street trovò una carrozza con un buon cavallo. La chiamò con un cenno e a bassa voce diede un indirizzo al vetturino.
L'uomo scosse il capo. "Troppo lontano per me," brontolò.
"Ecco una sovrana," disse Dorian. "Se va in fretta ne avrà un'altra."
"D'accordo, signore," disse l'uomo, "ci sarà entro un'ora." E, dopo aver intascato il prezzo della corsa, fece girare il cavallo e si avviò rapido verso il fiume.


XVI

Cominciò a cadere una pioggia fredda; i lampioni offuscati proiettavano una luce debole nella bruma mista a pioggia. I locali pubblici stavano chiudendo e gruppi indistinti di uomini e donne si andavano raccogliendo davanti agli ingressi. Da qualche bar provenivano orribili scoppi di risa. In altri, degli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
Adagiato contro il fondo della carrozza, con il cappello abbassato sulla fronte, Dorian Gray osservava distrattamente la sordida vergogna della grande città e, di tanto in tanto, ripeteva tra sé le parole che Lord Henry gli aveva detto il primo giorno del loro incontro, "Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima". Sì, questo era il segreto. Lo aveva sperimentato diverse volte, e adesso lo avrebbe sperimentato di nuovo. C'erano le fumerie d'oppio, dove si poteva comperare l'oblio, rifugi di orrore dove era possibile distruggere il ricordo di vecchi peccati con la follia di peccati nuovi.
La luna era sospesa in basso nel cielo, come un teschio giallo. Di tanto in tanto, una grossa nube informe allungava un lungo braccio nascondendola. I lampioni a gas si andavano facendo più rari e le strade più strette e buie. Ad un certo punto il vetturino sbagliò strada e fu costretto a ritornare indietro per mezzo miglio. Un velo di vapore saliva dal cavallo quando schizzava intorno a sé l'acqua delle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano appannati da una nebbia grigia.
"Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima!" Come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! Certo, la sua anima era mortalmente malata. Era proprio vero che i sensi potevano curarla? Era stato versato del sangue innocente. Come sarebbe stato possibile espiarlo? Ah! Non c'era espiazione per questo; ma se il perdono non era possibile, era ancora possibile dimenticare, e lui era deciso a farlo, ad annientare quella cosa, a schiacciarla come si schiaccia la vipera che ci ha morso. In realtà, che diritto aveva Basil di parlargli in quel modo? Chi l'aveva autorizzato a giudicare? Aveva detto cose spaventose, orribili, insopportabili.
La carrozza continuava ad avanzare lentamente e gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò il divisorio e disse all'uomo di andare più in fretta. L'orribile fame d'oppio cominciava a roderlo. La gola gli bruciava e le mani delicate si torcevano nervosamente. In un gesto folle, colpì il cavallo con il bastone. Il vetturino rise e usò la frusta. Rispose a sua volta con una risata: l'uomo rimase in silenzio.
La via sembrava interminabile, le strade parevano la nera tela di un ragno enorme. La monotonia divenne insopportabile e, quando la nebbia cominciò a diventare più fitta, si sentì prendere dalla paura.
Passarono davanti a fornaci solitarie. Qui la nebbia era meno fitta e poté vedere gli strani forni a forma di bottiglia e le lingue di fuoco che ne uscivano, simili a ventagli arancione. Un cane abbaiò al loro passare e lontano nell'oscurità si sentì lo strido di un gabbiano vagante. Il cavallo inciampò in un solco, poi scartò e si lanciò al galoppo.
Dopo qualche tempo lasciarono la via di terra battuta e ripresero a sobbalzare su strade dal lastricato irregolare. Quasi tutte le finestre erano buie, ma, di tanto in tanto, ombre fantastiche si disegnavano in trasparenza contro le tende. Dorian le osservava con curiosità. Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature vive. Le odiò. Una cupa ira gli gonfiava il cuore. Mentre svoltavano all'angolo di una strada, da una porta una donna gridò loro qualche cosa e due uomini rincorsero la carrozza per un centinaio di metri. Il conducente li colpì con la frusta.
Dicono che la passione costringa il pensiero in circoli viziosi. Certo, con una mostruosa iterazione, le labbra di Dorian Gray formavano e riformavano quelle sottili parole sull'anima e sui sensi, finché trovò in esse la piena espressione, per così dire, del suo stato d'animo, giustificando con l'approvazione dell'intelletto passioni che altrimenti lo avrebbero dominato. Da una cellula all'altra del cervello passò quell'unico pensiero e il selvaggio desiderio di vivere, il più terribile degli istinti umani, diede una nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, che un tempo gli era stata odiosa perché rende le cose reali, adesso per la stessa ragione gli era cara. La bruttezza era l'unica realtà. Le risse volgari, i covi disgustosi, la cruda violenza della vita disordinata, persino la bassezza dei ladri e degli emarginati, nella loro intensa impressione di realtà erano più vividi di tutte le forme piene di grazia dell'arte, delle ombre sognanti del canto. Erano quel che gli era necessario per dimenticare. In tre giorni si sarebbe liberato.
Improvvisamente il conducente arrestò la vettura con uno strappo all'inizio di un vicolo buio. Oltre i tetti bassi e la lunga fila ineguale dei comignoli si levavano neri alberi di navi. Lembi di nebbia si aggrappavano ai pennoni come vele spettrali.
"È da queste parti, vero, signore?" domandò brusco il vetturino attraverso il divisorio.
Dorian si riscosse e si guardò attorno. "Va bene qui," disse. Scese in fretta, diede al vetturino la sovrana che gli aveva promesso e si diresse rapido verso le banchine. Di quando in quando appariva la lanterna di poppa di qualche grosso mercantile. La luce si rifletteva tremolando nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un vapore in partenza che stava rifornendosi di carbone. Il fondo viscido sembrava un incerato bagnato.
Si avviò in fretta verso sinistra, guardandosi ogni tanto alle spalle per vedere se lo seguiva qualcuno. Dopo sette o otto minuti arrivò davanti ad una casetta miserabile, stretta tra due fabbriche squallide. Una delle finestre in alto era illuminata. Si fermò e bussò in modo particolare.
Pochi istanti dopo udì dei passi nel corridoio e qualcuno tirò il catenaccio. La porta si aprì silenziosamente. Dorian entrò senza dire una parola alla figura acquattata e informe che si appiattì nell'ombra al suo passaggio. Il fondo del vestibolo era chiuso da una tenda verde che ondeggiò e fremette nel vento entrato con lui dalla strada. La scostò ed entrò in un locale lungo e basso che aveva l'aria di essere stata una sala da ballo di terz'ordine. Stridenti becchi a gas che si riflettevano offuscati e distorti negli specchi macchiati dalle mosche, erano allineati lungo le pareti. Dietro di essi erano posti dei riflettori di latta scanalata, sporchi di unto che proiettavano incerti circoli luminosi. Il pavimento era coperto di segatura color ocra a tratti ridotta a fango dal calpestio e macchiata da cerchi scuri dove era stato rovesciato del liquore. Alcuni malesi, accoccolati vicino a una piccola stufa a carbone, giocavano con tessere di osso, e parlavano mettendo in mostra i denti candidi. In un angolo, un marinaio era riverso su un tavolo con la testa nascosta tra le braccia; accanto al bancone dipinto a colori vistosi che teneva tutta una parete, due donne disfatte prendevano in giro un vecchio che si passava le mani sulle maniche della giacca con un'espressione di disgusto. "Crede di avere addosso delle formiche rosse," disse ridendo una delle donne mentre Dorian le passava accanto. L'uomo la guardò terrorizzato e cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta che portava in una stanza debolmente illuminata. Mentre Dorian saliva in fretta i tre gradini traballanti, fu investito da un pesante odore di oppio. Trasse un profondo respiro e le narici fremettero di piacere. Appena entrato, un giovane dai capelli biondi e lisci che era chino su una lampada ad accendere una lunga pipa sottile, alzò lo sguardo verso di lui, e gli rivolse un esitante cenno di saluto.
"Tu qui, Adrian?" mormorò Dorian.
"Dove dovrei essere?" rispose l'altro in tono indifferente. "Nessuno degli amici mi rivolge più la parola."
"Pensavo che te ne fossi andato dall'Inghilterra."
"Darlington non intende fare nulla. Mio fratello mi ha pagato la cambiale, finalmente. Anche George non mi rivolge più la parola... ma non mi importa," aggiunse con un sospiro. "Finché c'è questa roba, non si ha bisogno di amici. Penso di averne avuti troppi."
Dorian rabbrividì e fece passare lo sguardo sugli esseri grotteschi che giacevano in pose incredibili sui materassi consunti. Lo affascinavano le membra contorte, le bocche spalancate, senza luce. Sapeva in quali strani paradisi stessero soffrendo e quali cupi inferni stessero insegnando loro il segreto di qualche nuovo piacere. Stavano meglio di lui. Lui era prigioniero del pensiero. La memoria, come, una terribile malattia, gli stava divorando l'anima. Di quando in quando, gli pareva di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo fissavano. Tuttavia sentiva che non poteva rimanere: la presenza di Adrian Singleton lo turbava. Voleva essere in un posto dove nessuno lo conoscesse. Voleva sfuggire a se stesso.
"Vado nell'altro posto," disse, dopo un silenzio.
"Sulla banchina?."
"Sì."
"Ci troverai di certo quella gatta arrabbiata. Qui non la vogliono più, adesso."
Dorian scrollò le spalle. "Sono nauseato dalle donne innamorate di me. Le donne che odiano sono molto più, interessanti Inoltre, la roba è migliore là."
"La stessa, più o meno."
"A me piace di più. Vieni a bere qualche cosa. Devo bere qualche cosa."
"Non voglio nulla," mormorò il giovane.
"Non importa."
Adrian Singleton si sollevò a fatica e seguì Dorian Gray al bar. Un mezzosangue che portava un turbante consunto e un ulster male in arnese li accolse con un sorriso ripugnante, mentre posava davanti a loro una bottiglia di brandy e due bicchieri. Le donne si accostarono esitando e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e disse qualche cosa a bassa voce ad Adrian Singleton.
Un sorriso contorto come un kriss malese passò come un tremito convulso sul viso di una delle donne.
"Siamo molto superbi, stasera," disse in tono di scherno.
"Per l'amor di Dio, piantala," esclamò Dorian Gray battendo il piede a terra. "Che cosa vuoi? Soldi? Eccoli. Ma stattene zitta."
Due lampi rossi balenarono per un momento negli occhi acquosi della donna, poi guizzarono via lasciandoli vitrei e privi di vita. La donna scosse il capo e prese i soldi dal banco con dita avide. La sua compagna la osservava con invidia.
"È inutile," sospirò Adrian Singleton. "Non mi importa di ritornare indietro. Che cosa significa? Qui sono felice."
"Mi scriverai, se avrai bisogno di qualche cosa, non è vero?" disse Dorian dopo un silenzio.
"Forse."
"Buona notte, allora.
"Buona notte," rispose il giovane risalendo gli scalini e passandosi il fazzoletto sulla bocca inaridita.
Dorian si diresse verso la porta con un'espressione di sofferenza in viso. Mentre scostava la tenda una disgustosa risata uscì dalle labbra rosse della donna che aveva preso i soldi. "Il Patto col Diavolo se ne va!" singhiozzò con voce rauca.
"Maledetta!" si rivoltò lui. "Non chiamarmi così."
La donna schioccò le dita. "Ti piacerebbe farti chiamare Principe Azzurro, vero?" gli gridò dietro.
A quelle parole il marinaio addormentato balzò in piedi e si guardò attorno con un'espressione selvaggia. Gli giunse alle orecchie il rumore della porta di ingresso che si chiudeva. Si precipitò fuori come se volesse inseguire qualcuno.
Dorian Gray si affrettava lungo la banchina sotto la pioggia sottile. L'incontro con Adrian Singleton lo aveva stranamente commosso e si chiedeva se fosse davvero sua la responsabilità di quella giovane vita distrutta, come aveva detto Basil Hallward con un tono così insultante. Si morse le labbra e, per un momento, una luce di tristezza gli si accese negli occhi. Sì, dopotutto, che cosa gliene importava? La vita era troppo breve per caricarsi sulle spalle anche gli errori degli altri. Ogni uomo vive la propria vita e paga il proprio prezzo per viverla. Peccato solo che così di frequente si dovesse pagare per un unico errore. In realtà, si paga molte e molte volte Nei suoi rapporti con gli uomini il destino non chiude mai conti..
Secondo gli psicologi ci sono momenti, in cui la passione per i peccati, o per quelli che il mondo chiama peccati, domina talmente una persona che ogni fibra del corpo, ogni cellula del cervello, paiono imbevute di impulsi di terrore. In questi momenti uomini e donne perdono la padronanza della volontà. Si muovono come automi verso la loro terribile fine. Non hanno più la facoltà di scelta e la coscienza è morta o, se è viva, lo è solo per dare alla ribellione il suo fascino, le sue attrattive alla disobbedienza. Tutti i peccati, infatti, come i teologi non si stancano di ripeterci, sono peccati di disobbedienza. Quando quello spirito superiore, quella stella mattutina del male, cadde dal cielo, fu perché si era ribellato.
Insensibile, concentrato nel male, con la mente guasta e l'anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava a passi sempre più veloci ma, mentre piegava sotto un portico buio che molte volte aveva usato come scorciatoia per raggiungere il luogo malfamato dove era diretto, si sentì afferrare improvvisamente alle spalle e, prima che avesse la possibilità di difendersi, venne spinto contro il muro e una mano brutale lo afferrò alla gola.
Lottò follemente per la sopravvivenza e, con uno sforzo terribile, riuscì a strappare le dita che lo attanagliavano. In un secondo udì lo scatto di una rivoltella, vide il bagliore di una canna lucida puntata diritta contro la sua testa, e la sagoma indistinta di un uomo basso e tarchiato che gli si parava davanti.
"Che cosa vuoi?" ansimò.
"Sta' calmo," disse l'uomo. "Se ti muovi ti sparo."
"Sei pazzo. Che cosa ti ho fatto?"
"Hai distrutto la vita di Sibyl Vane," fu la risposta; "e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua morte è colpa tua.. Ho giurato che ti avrei ucciso. Ti ho cercato per anni. Non avevo tracce, non avevo indizi: le uniche due persone che ti conoscevano erano morte. Sapevo solo il soprannome che lei ti aveva dato. L'ho risentito questa sera per caso. Raccomanda l'anima a Dio, perché questa notte morirai."
Dorian si sentì prendere dal terrore. "Non l'ho mai conosciuta," balbettò. "Non l'ho mai sentita nominare. Sei pazzo."
"È meglio che tu confessi i tuoi peccati perché, quanto è vero che io sono James Vane, tu morirai." Ci fu un momento terribile. Dorian non sapeva che cosa dire o che cosa fare. "Inginocchiati!" gridò rauco l'uomo. "Ti do un minuto per dire le ultime preghiere. Non di più. Mi imbarco stanotte per l'India e prima devo sbrigare questa faccenda. Un minuto. È tutto."
Dorian Gray lasciò cadere le braccia. Paralizzato dal terrore, non sapeva che cosa fare. Improvvisamente una folle speranza gli attraversò la mente. "Fermati," gridò. "Da quando è morta tua sorella? Dimmelo, presto!"
"Da diciotto anni," disse l'uomo. "Perché me lo domandi? Che cosa contano gli anni?"
"Diciotto anni," rise Dorian Gray, con una nota di trionfo nella voce. "Diciotto anni! Portami sotto un fanale e guardami in faccia!"
James Vane esitò un attimo, senza capire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Nonostante la luce fosse incerta e indebolita dal vento, fu sufficiente per rivelare a James Vane il terribile equivoco, - almeno così pareva - nel quale era caduto, perché il viso dell'uomo che aveva cercato di uccidere aveva tutta la freschezza dell'adolescenza, tutta l'intatta purezza della giovinezza. Sembrava un ragazzo di poco più di vent'anni, appena più vecchio; forse, di sua sorella quando si erano separati, tanti anni prima. Era ovvio che non poteva essere questo l'uomo che aveva distrutto la sua vita.
Lasciò la stretta e arretrò. "Mio Dio, mio Dio!" esclamò, "ed io che stavo per ucciderti."
Dorian Gray trasse un lungo respiro. "Lei è stato sul punto di commettere un terribile delitto, amico," disse fissandolo con uno sguardo severo. "Che questo le serva da avvertimento a non cercare la vendetta con le proprie mani."
"Mi perdoni, signore," mormorò James Vane. "Sono stato ingannato. Una parola che ho sentito per caso in quella maledetta taverna mi ha messo su una pista sbagliata."
"Farebbe meglio ad andare a casa e a mettere via quella pistola, se non vuole finire nei pasticci," disse Dorian voltandosi e incamminandosi lentamente lungo la via.
James Vane rimase immobile, sconvolto.
Tremava da capo a piedi. Poco dopo, un'ombra nera che era strisciata lungo il muro grondante di pioggia, uscì sotto la luce e si avvicinò a lui cautamente. Sentì una mano posarglisi su un braccio e si guardò intorno sussultando. Era una delle donne che bevevano al bar.
"Perché non l'hai ucciso?" sibilò, avvicinando a lui il viso devastato. "Sapevo che gli stavi correndo dietro quando sei uscito da Daly. Stupido! Avresti dovuto ucciderlo. Ha un mucchio di soldi ed è cattivo come pochi."
"Non è l'uomo che cerco," rispose lui, "e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo che sto cercando deve essere sulla quarantina. Questo era poco più di un ragazzo. Grazie a Dio non mi sono sporcato le mani con il suo sangue."
La donna scoppiò in un'amara risata. "Poco più di un ragazzo!" disse in tono di scherno. "Sono quasi diciotto anni che il Principe Azzurro mi ha ridotta in questo stato."
"Tu menti!" gridò James Vane. La donna sollevò le braccia al cielo. "Giuro davanti a Dio che dico la verità," disse a voce alta.
"Davanti a Dio?"
"Che diventi muta se non è vero. È il peggiore tra tutti quelli che vengono qui. Dicono che si sia venduto al diavolo per conservare la sua bella faccia. Sono quasi diciannove anni che lo conosco e da allora non è cambiato molto. Io sì, invece," aggiunse con una smorfia di disgusto.
"Lo giuri?"
"Lo giuro," fu l'eco rauca che uscì da quella bocca avvilita. "Ma non, tradirmi," piagnucolò, "ho paura di lui. Dammi qualche cosa per andare a dormire."
James Vane si allontanò da lei bestemmiando e si precipitò all'angolo della strada, ma Dorian Gray era scomparso. Quando si guardò indietro, anche la donna era svanita.


XVII

Una settimana dopo, Dorian Gray, seduto nella serra di Selby Royal, conversava con la graziosa duchessa di Monmouth che, insieme al marito, un uomo sulla sessantina dall'aria affaticata, era tra i suoi ospiti. Era l'ora del tè e la luce morbida della grande lampada di merletto posta sopra la tavola accendeva le delicate porcellane e gli argenti battuti. La duchessa si era incaricata del servizio e le bianche mani si muovevano agilmente tra le tazze mentre le labbra, rosse e piene, sorridevano a qualche cosa che Dorian Gray le aveva sussurrato. Lord Henry, sdraiato in una sedia di vimini rivestita di seta, li guardava. Su un divano color pesca era seduta Lady Narborough che fingeva di ascoltare il duca, immerso nella descrizione dell'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre giovani in eleganti smoking servivano pasticcini ad alcune signore. La compagnia era composta da una dozzina di persone; se ne attendevano altre il giorno dopo.
"Di che cosa state parlando?" domandò Lord Henry avvicinandosi al tavolo e posando la tazza. "Spero che Dorian ti abbia parlato del mio progetto di ribattezzare tutto, Gladys. È una bellissima idea."
"Ma io non voglio essere ribattezzata, Henry," obiettò la duchessa, alzando su di lui due splendidi occhi.
"Sono soddisfattissima del mio nome, e sono sicura che il signor Gray è soddisfatto del suo."
"Mia cara Gladys, non vorrei cambiare né l'uno né l'altro per nulla al mondo. Sono perfetti. Mi riferivo soprattutto ai fiori. Ieri ho colto un'orchidea per metterla all'occhiello. Era splendidamente maculata, forte e viva come i sette peccati capitali. In un momento di distrazione ne chiesi il nome ad uno dei giardinieri. Mi disse che era un bell'esemplare di Robinsoniana, o qualche altro nome altrettanto orribile. È la triste verità, ma abbiamo perduto la capacità di dare bei nomi alle cose. I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le azioni. Litigo solo con le parole. Per questo odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l'unica cosa per cui è adatto."
"E allora come dovremmo chiamarti, Harry?"
"Il suo nome è Principe Paradosso," disse Dorian.
"Gli sta alla perfezione," esclamò la duchessa.
"Non ne voglio sapere," rise Lord Henry, sprofondando in una sedia. "A un'etichetta non c'è scampo! Rifiuto il titolo."
"I sovrani non possono abdicare," avvertirono le belle labbra.
"Allora vuoi che difenda il trono?"
"Sì."
"Io do le verità di domani."
"Preferisco gli errori di oggi," lei rispose.
"Tu mi disarmi, Gladys," esclamò lui cogliendo l'allusione.
"Del tuo scudo, Harry, non della tua spada."
"Non combatto mai contro la bellezza," disse lui con un gesto della mano.
"È qui che sbagli, Harry, credimi. Dai alla bellezza un valore troppo grande."
"Come puoi dire una cosa simile? Ammetto di ritenere che sia meglio essere belli che essere buoni ma, d'altra parte, nessuno è più pronto di me ad ammettere che è meglio essere buoni piuttosto che brutti."
"Allora la bruttezza è uno dei sette peccati capitali," esclamò la duchessa. "E che cosa succede del tuo paragone a proposito delle orchidee?"
"La bruttezza è una delle sette virtù mortali, Gladys. E tu, da buona conservatrice, non devi sottovalutarle. La birra, la Bibbia e le sette virtù mortali hanno ridotto la nostra Inghilterra nelle attuali condizioni.
"Allora non ti piace il tuo paese?" domandò.
"Ci vivo."
"Per poterlo criticare meglio."
"Vuoi che ti dica il parere dell'Europa?" domandò lui.
"Che cosa dicono di noi?"
"Che Tartufo è emigrato in Inghilterra e ha messo bottega."
"È tua, Harry?"
"Te la regalo."
"Non potrei usarla. È troppo vera."
"Non devi aver paura. I nostri compatrioti non riconoscono mai una descrizione."
"Sono pratici."
"Sono più furbi che pratici. Quando fanno il bilancio, contrappongono la stupidità alla ricchezza, e il vizio all'ipocrisia."
"Però abbiamo fatto grandi cose."
"Ce le hanno tirate addosso, Gladys."
"Ne abbiamo sopportato il peso."
"Solo fino alla Borsa."
Lei scosse il capo. "Credo nella razza," esclamò.
"La razza è solo la sopravvivenza degli arrivisti."
"Ha uno sviluppo."
"Mi interessa di più la decadenza."
"E l'arte?" domandò lei.
"È una malattia."
"L'amore?"
"Un'illusione."
"La religione?"
"Un surrogato alla moda della fede."
"Sei uno scettico."
"Niente affatto! Lo scetticismo è l'inizio della fede."
"Che cosa sei, allora?"
"Definire significa limitare."
"Dammi un filo da seguire."
"I fili si spezzano. Perderesti la strada nel labirinto."
"Mi disorienti. Parliamo di qualcun altro."
"Il nostro ospite è un soggetto piuttosto piacevole. Anni fa, fu battezzato Principe Azzurro."
"Ah, non ricordarmi queste cose," esclamò Dorian Gray.
"Il nostro ospite è un po' ispido stasera," notò la duchessa arrossendo. "Suppongo pensi che Monmouth mi abbia sposato esclusivamente per interesse scientifico, come il miglior esemplare di farfalla moderna che sia riuscito a trovare."
"Bene, spero che non la vorrà infilare con degli spilli, duchessa," disse Dorian, ridendo.
"Oh, lo fa già la mia cameriera quando è arrabbiata con me, signor Gray."
"E che cosa la fa arrabbiare con lei, duchessa?"
"Le cose più futili, signor Gray, le assicuro. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo essere vestita per le otto e mezzo."
"È davvero irragionevole. Dovrebbe farle una ramanzina."
"Non ne ho il coraggio, signor Gray. Sa, è lei che inventa i miei cappelli. Ricorda quello che portavo per il ricevimento all'aperto di Lady Hilstone? No, naturalmente. Ma è gentile da parte sua fingere di sì. Bene, l'ha messo insieme con niente. Tutti i bei cappelli sono fatti con niente."
"Come tutte le buone reputazioni, Gladys," interruppe Lord Henry. "Ogni volta che si ottiene un certo successo ci si fa un nemico. Per essere benvoluti da tutti bisogna essere mediocri."
"Non vale per le donne," disse la duchessa scuotendo il capo, "e sono le donne che governano il mondo. Le assicuro che non riusciamo a sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto qualcuno, amiamo con le orecchie, proprio come voi uomini amate con gli occhi, se pure amate."
"A me pare che non facciamo nient'altro," mormorò Dorian.
"Ah, ma allora lei non ama veramente, signor Gray," replicò la duchessa in tono scherzosamente triste.
"Mia cara Gladys," esclamò Lord Henry. "Come puoi dirlo? Un idillio sentimentale vive ripetendosi e la ripetizione trasforma il desiderio in arte. Inoltre, ogni volta che si ama è l'unica volta. La diversità dell'oggetto non muta l'unicità della passione ma si limita a intensificarla. Nel migliore dei casi in tutta la vita si riesce ad avere una sola esperienza, e il segreto della vita sta nel ripeterla il più spesso possibile."
"Anche quando si è rimasti scottati, Lord Henry?" domandò la duchessa dopo una pausa di silenzio.
"Specialmente quando si è rimasti scottati," rispose Lord Henry.
La duchessa si voltò e guardò Dorian Gray con una strana espressione negli occhi. "Che cosa ne pensa, signor Gray?"
Dorian esitò un attimo. Poi gettò all'indietro la testa e rise. "Sono sempre d'accordo con Harry, duchessa."
"Anche quando sbaglia?"
"Henry non sbaglia mai."
"E la sua filosofia la rende felice?"
"Non ho mai cercato la felicità. Chi la vuole? Ho cercato il piacere."
"E lo ha trovato, signor Gray?"
"Spesso. Troppo spesso."
La duchessa sospirò. "Io cerco la pace," disse, "e se non vado a vestirmi, questa sera non ne avrò affatto."
"Lasci che le colga qualche orchidea, duchessa," disse Dorian balzando in piedi e allontanandosi nella serra.
"Stai flirtando con lui scandalosamente," disse Lord Henry alla cugina. "È meglio che tu stia attenta: è molto affascinante."
"Se non lo fosse, non ci sarebbe nessuna lotta."
"I greci contro i greci, allora?"
"Io sono dalla parte dei troiani. Hanno combattuto per una donna."
"Ma sono stati sconfitti."
"Ci sono cose peggiori della cattura," lei rispose.
"Stai galoppando a briglia sciolta."
"È l'andatura a determinare la vita," fu la risposta.
"Lo scriverò nel mio diario, questa sera."
"Che cosa?"
"Che un bambino scottato ama il fuoco."
"Non mi sono nemmeno bruciacchiata. Le ali sono intatte."
"Le usi per tutto, fuorché per volare."
"Il coraggio è passato dagli uomini alle donne. È una nuova esperienza per noi."
"Hai una rivale."
"Chi è?"
Lui rise. "Lady Narborough," sussurrò. "Lo adora."
"Mi metti in ansia. Il richiamo dell'antichità è fatale per noi romantiche."
"Romantiche! Avete tutti i metodi della scienza."
"Ci hanno educate gli uomini."
"Ma non vi hanno spiegate."
"Prova a definirci come sesso," lo sfidò.
"Sfingi senza segreti."
Lei lo guardò sorridendo. "Quanto tempo ci mette, il signor Gray!" disse. "Andiamo a dargli una mano. Non gli ho ancora detto il colore del mio vestito."
"Ah, ma devi intonare il vestito ai suoi fiori, Gladys."
"Sarebbe una resa prematura."
"L'arte romantica comincia dal punto culminante."
"Devo lasciarmi una via di ritirata."
"Alla maniera dei Parti?"
"Loro si salvarono nel deserto. Io non potrei farlo."
"Le donne non sempre hanno la possibilità di scelta," rispose, ma aveva appena finito la frase quando, dall'altra estremità della serra, giunse un gemito soffocato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che cade pesantemente. Tutti balzarono in piedi. La duchessa era impietrita dal terrore. Con la paura negli occhi, Lord Henry si precipitò tra le palme alitanti e trovò Dorian Gray disteso con il volto contro il pavimento di mattoni, svenuto.
Venne immediatamente portato nel salotto azzurro e disteso su un divano. Dopo poco tempo rinvenne e si guardò intorno con un'espressione inebetita.
"Che cosa è successo?" domandò. "Oh! ricordo. Sono al sicuro qui?" Cominciò a tremare.
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, "sei semplicemente svenuto, tutto qui. Devi esserti stancato troppo. È meglio che tu non scenda a cena. Prenderò io il tuo posto."
"No, scenderò," disse Dorian rimettendosi in piedi. "Preferisco scendere. Non devo stare solo."
Salì in camera sua e si vestì. A tavola fu di un'allegria sfrenata e noncurante, ma ogni tanto lo scuoteva un fremito di terrore quando ricordava di aver visto, premuto contro il vetro della serra come un fazzoletto bianco, il viso di James Vane che lo fissava.


XVIII

Il giorno dopo non uscì di casa ma passò quasi tutto il tempo nella sua stanza, in preda ad una folle paura della morte e tuttavia indifferente alla vita. Cominciava a dominarlo la consapevolezza di essere cacciato, spiato, preso. Sussultava se il vento muoveva appena una tenda. Le foglie morte che urtavano i vetri piombati gli sembravano i suoi proponimenti sprecati e i suoi folli rimpianti. Quando chiudeva gli occhi, rivedeva il viso del marinaio che lo spiava attraverso i vetri annebbiati e, di nuovo, gli pareva che l'orrore gli avvolgesse il cuore.
Forse, però, era stata solo la sua fantasia che aveva gridato vendetta nel buio della notte mettendogli dinanzi agli occhi le orrende immagini della punizione. La vita concreta è un caos, ma c'è qualche cosa di tremendamente logico nell'immaginazione. È l'immaginazione che spinge il rimorso sulle tracce del peccato. È l'immaginazione che fa sopportare a ogni delitto le sue conseguenze deformi. Nella realtà di ogni giorno i malvagi non vengono puniti, né i buoni ricompensati: il successo premia i forti, il fallimento schiaccia i deboli. Nient'altro. D'altra parte, se intorno alla casa si fosse aggirato un estraneo i domestici o i custodi lo avrebbero visto. Se i giardinieri avessero scoperto delle impronte sulle aiuole lo avrebbero riferito. Sì, era stata solo la sua fantasia. Il fratello di Sibyl Vane non era ritornato per ucciderlo. Era salpato con la sua nave per naufragare in qualche bufera invernale. Da lui, ad ogni modo, era al sicuro. Dopotutto quell'uomo non sapeva chi fosse: non poteva saperlo. La maschera della giovinezza lo aveva salvato.
Se però era stata semplicemente un'illusione, quanto era terribile pensare che la coscienza potesse far sorgere così terribili fantasmi, dare loro forma visibile, farli muovere davanti a noi! Che vita sarebbe mai stata la sua se giorno e notte le ombre del suo delitto l'avessero spiato da angoli silenziosi, l'avessero deriso da luoghi nascosti, gli avessero bisbigliato all'orecchio durante i banchetti, l'avessero svegliato con dita di ghiaccio mentre dormiva! Mentre quest'idea si impadroniva lentamente della sua mente, divenne pallido di paura e l'aria gli parve farsi improvvisamente gelida. Oh! in quale selvaggio istante di follia aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo della scena. La rivedeva tutta. Ogni disgustoso particolare tornava a lui ancora più orribile. Dalla nera caverna del tempo, terribile e fasciata di scarlatto, sorgeva l'immagine della sua colpa. Quando Lord Henry alle sei entrò nella sua stanza lo trovò che piangeva come se gli si spezzasse il cuore.
Soltanto tre giorni dopo si arrischiò ad uscire. Nell'aria limpida e odorosa di pino, di quel mattino d'inverno c'era qualche cosa che sembrava restituirgli l'allegria e la voglia di vivere. Ma non erano state solo le condizioni ambientali a produrre il cambiamento: la sua natura si era ribellata all'eccessiva angoscia che aveva cercato di tarpare e di guastare la sua perfetta serenità. Ai temperamenti delicati e complicati succede sempre così: le forti passioni, li schiacciano o ne vengono schiacciate, li uccidono o ne vengono uccise. Solo le passioni o i dispiaceri superficiali continuano a vivere, mentre i grandi amori, o i grandi dolori, sono distrutti dalla loro stessa, pienezza. D'altra parte, si era convinto di essere stato vittima della sua immaginazione sconvolta dal terrore, e ripensava alle sue paure con un po' di pietà e non poco disprezzo.
Dopo colazione fece una passeggiata di un'ora nel giardino con la duchessa, poi attraversò in carrozza il parco per raggiungere la partita di caccia. Uno strato di brina scricchiolante ricopriva l'erba come se fosse sale. Il cielo era una coppa rovesciata di metallo blu. Un sottile strato di ghiaccio orlava lo stagno coperto di giunchi.
All'angolo della pineta scorse Sir Geoffrey Clouston, fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due cartucce esplose. Scese con un salto dalla carrozza e, dopo aver detto al servo di riportare la cavalla nella scuderia, andò in direzione dell'ospite facendosi strada tra i rami spogli e il fitto, sottobosco.
"Hai fatto buona caccia, Geoffrey?" domandò.
"Non tanto, Dorian. Credo che la maggior parte degli uccelli sia andata, all'aperto. Penso che le cose miglioreranno dopo mezzogiorno, quando, passeremo in un'altra zona."
Dorian si incamminò al suo fianco. L'aria sottile e profumata, le luci rosse e brune che balenavano nel bosco, le grida rauche dei battitori che si levavano ogni tanto, i secchi colpi di fucile che le seguivano, lo affascinavano e lo colmavano di un senso di deliziosa libertà. Si sentiva dominato dalla spensieratezza della felicità, dall'estrema indifferenza della gioia. Improvvisamente, da un ciuffo di erba secca una ventina di metri davanti a loro, le orecchie dalla punta nera erette, le lunghe zampe posteriori scattanti, uscì di corsa una lepre e fuggì verso un folto di ontani. Sir Geoffrey imbracciò il fucile, ma nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualche cosa che incantava stranamente Dorian Gray; gridò subito: "Non sparare, Geoffrey. Lasciala vivere."
"Che assurdità, Dorian!" rispose il compagno. E sparò mentre la lepre si infilava nel folto.
Si sentirono due grida: quello terribile di una lepre ferita, e quello di un uomo colpito a morte, più terribile ancora.
"Santo cielo! Ho colpito un battitore!" esclamò Sir Geoffrey. "Che somaro a mettersi di fronte a un fucile! Smettete di sparare, laggiù!" gridò a tutta voce. "C'è un ferito."
Il capocaccia arrivò di corsa con un bastone in mano.
"Dove, signore? Dov'è?" gridò. Contemporaneamente, lungo la linea dei cacciatori gli spari cessarono.
"Qui," rispose rabbioso Sir Geoffrey, correndo verso il folto. "Perché diavolo non tiene indietro i suoi uomini? Mi ha rovinato la caccia per tutta la giornata."
Dorian li osservò entrare nel boschetto di ontani, scostando i rami. Pochi momenti dopo ne uscirono trascinando un corpo alla luce del sole. Si girò sopraffatto dall'orrore. Pareva che la sfortuna lo seguisse ovunque andasse. Udì Sir Geoffrey domandare se l'uomo era morto davvero e la risposta affermativa del guardiacaccia. Gli parve che il bosco si fosse improvvisamente animato di facce. Si sentiva il calpestio di migliaia di piedi e un sommesso mormorio. Un grande fagiano dal petto color rame passò alto sopra i rami, battendo le ali.
Dopo pochi istanti, che nel suo turbamento gli parvero ore di sofferenza interminabili, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Sobbalzò e si guardò intorno..
"Dorian," disse Lord Henry, "sarebbe meglio dire che per oggi la caccia è sospesa. Non farebbe una bella impressione se si continuasse."
"Vorrei che venisse sospesa per sempre, Harry," rispose amaro. "È una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo è... ?"
"Temo di sì," rispose Lord Henry. "Si è preso tutta la scarica nel petto. Deve essere morto quasi istantaneamente. Vieni, andiamo a casa."
Camminarono insieme lungo il viale per una cinquantina di metri, in silenzio. Poi Dorian guardò Lord Henry e disse, con un profondo sospiro: "È un cattivo presagio, Harry, molto cattivo."
"Che cosa?" domandò Lord Henry. "Oh, l'incidente, suppongo. Mio caro amico, non lo si poteva evitare. È stata colpa dell'uomo. Perché si è messo davanti ai fucili? D'altra parte, non ci riguarda direttamente. È piuttosto scocciante per Geoffrey, naturalmente. La gente poi dice che uno non sa sparare. E Geoffrey non se lo merita: ha un'ottima mira. Ma è inutile parlare ancora di questa faccenda."
Dorian scosse il capo. "È un cattivo presagio, Harry. Sento come se, qualche cosa di terribile dovesse capitare a qualcuno di noi. A me, forse," aggiunse, passandosi una mano sugli occhi con un gesto di sofferenza.
Il più anziano dei due rise. "L'unica cosa terribile al mondo è l'ennui, Dorian. È l'unico peccato per il quale non esiste perdono. Ma non è probabile che ne soffriremo, a meno che gli amici non si mettano a parlare della faccenda a pranzo. Devo dire loro che l'argomento è tabù. E per quanto riguarda i presagi, cose simili non esistono. Il destino non invia araldi. È troppo saggio o troppo crudele per farlo. D'altronde, che cosa ti potrebbe capitare, Dorian? Hai tutto ciò che un uomo può desiderare. Non esiste nessuno che non sarebbe felice di essere al tuo posto."
"E non esiste nessuno con cui non sarei disposto a cambiarlo, Harry. Non ridere così. Ti sto dicendo la verità. Quel disgraziato contadino che è appena morto, sta meglio di me. Non ho paura della morte. È il suo approssimarsi che mi fa paura. Mi sembra che le sue ali mostruose battano intorno a me nell'aria plumbea. Santo cielo! Non vedi un uomo che si muove tra gli alberi, laggiù, che mi sta osservando, che mi aspetta?"
Lord Henry guardò nella direzione che la mano coperta dal guanto indicava tremando. "Sì," disse sorridendo. "Vedo il giardiniere che ti aspetta. Immagino che voglia chiederti quali fiori vuoi sulla tavola stasera. Sei assurdamente nervoso, mio caro! Quando ritorneremo in città dovrai andare dal mio medico."
Dorian sospirò di sollievo, vedendo avvicinarsi il giardiniere. L'uomo si toccò il berretto, diede un'occhiata esitante a Lord Henry, poi estrasse una lettera e la porse al padrone. "Sua Grazia mi ha detto di aspettare la risposta," mormorò.
Dorian infilò la lettera in tasca. "Di' a Sua Grazia che sto rientrando," disse freddamente. L'uomo si voltò e si diresse rapido verso la casa.
"Le donne hanno la passione di fare le cose pericolose," disse ridendo Lord Henry. "È una delle doti che ammiro di più in loro. Una donna sarebbe disposta a flirtare con chiunque purché la notassero."
"E tu hai la passione di dire le cose pericolose, Harry. In questo momento sei completamente fuori strada. La duchessa mi piace molto ma non l'amo."
"E la duchessa ti ama molto, ma le piaci molto meno, quindi siete perfettamente assortiti."
"Stai facendo pettegolezzi, Harry, e i pettegolezzi, non hanno mai una base."
"La base di tutti i pettegolezzi è una certezza immorale," disse Lord Henry accendendo una sigaretta.
"Tu, Harry, saresti disposto a sacrificare chiunque sull'altare di una battuta."
"La gente sale sull'altare di sua volontà," fu la risposta.
"Vorrei poter amare," esclamò Dorian Gray con una commozione profonda nella voce. "Ma mi pare di aver perso la passione e dimenticato il desiderio. Mi concentro troppo su me stesso. La mia personalità si è fatta un peso. Voglio fuggire, andarmene via, dimenticare. Ho fatto una sciocchezza a venire qui. Credo che spedirò un telegramma a Harvey perché mi faccia allestire lo yacht. Su uno yacht si è al sicuro."
"Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu devi trovarti in qualche guaio. Perché non mi dici di che cosa si tratta? Sai che ti aiuterei."
"Non posso dirtelo, Harry," rispose Dorian tristemente. "E forse si tratta solo di una mia fantasia. Questo disgraziato incidente mi ha sconvolto. Ho l'orribile presentimento che succederà anche a me qualche cosa del genere."
"Che assurdità."
"Lo spero, ma non posso fare a meno di sentire così. Ah, ecco la duchessa: sembra Artemide con un abito su misura. Come vede, siamo tornati, duchessa."
"Ho saputo tutto, signor Gray," lei rispose. "Il povero Geoffrey è terribilmente sconvolto. E pare che lei gli abbia chiesto di non sparare. Che strano!"
"Sì, è molto strano. Non so che cosa mi abbia spinto a dirlo. Un capriccio, immagino. Mi pareva un animaletto bellissimo. Mi dispiace che le abbiano raccontato di quell'uomo. È un argomento odioso."
"È un argomento noioso," interruppe Lord Henry. "Non ha nessun interesse psicologico. Quanto sarebbe stato interessante, invece, se Geoffrey lo avesse fatto apposta! Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ha commesso un delitto vero e proprio."
"È orribile da parte tua, Harry!" esclamò la duchessa. "Non le pare, signor Gray? Il signor Gray si sente male di nuovo. Sta per svenire."
Dorian Gray si riprese con uno sforzo e sorrise. "Non è nulla, duchessa," mormorò, "ho i nervi terribilmente scossi, tutto qui. Temo di aver camminato troppo questa mattina. Non ho sentito quel che ha detto Harry. Era una cosa molto brutta? Devi dirmela, in qualche altra occasione. Credo di dover andare a stendermi un poco. Mi scusate, vero?"
Erano arrivati alla grande gradinata che portava dalla serra al terrazzo. Appena la porta a vetri si fu chiusa alle spalle di Dorian, Lord Henry si voltò e si rivolse alla duchessa, fissandola con i suoi occhi sonnolenti. "Ne sei molto innamorata?" domandò.
Per un po' la duchessa non rispose; osservava immobile il paesaggio. "Vorrei saperlo," rispose alla fine.
Lord Henry scosse il capo. "Il saperlo sarebbe fatale. È l'incertezza che affascina. La nebbia rende le cose meravigliose."
"Si può perdere la strada."
"Mia cara Gladys, tutte le strade conducono allo stesso punto."
"E cioè?"
"Alla disillusione."
"È stato il mio debut nella vita," sospirò lei.
"Ti è arrivato con la corona."
"Sono stanca delle sue foglie di fragola."
"Ti stanno bene."
"Solo in pubblico."
"Ti mancherebbero," disse Lord Henry.
"Non vorrei perderne nemmeno una."
"Monmouth ha le orecchie."
"I vecchi sono duri d'orecchio."
"Non è mai stato geloso?"
"Vorrei che lo fosse stato."
Lord Henry si guardò intorno cercando qualcosa. "Che cosa stai cercando?" domandò lei.
"Il bottone del tuo fioretto," rispose Lord Henry. "Lo hai lasciato cadere."
Lei rise. "Ho ancora la maschera."
"Ti abbellisce gli occhi," fu la risposta.
La duchessa rise di nuovo. I denti apparvero come minuscoli semi bianchi in un frutto scarlatto.
Sopra, nella sua stanza, Dorian Gray, sdraiato su un divano, fremeva di terrore in ogni fibra. D'improvviso la vita era diventata un fardello troppo pesante da sopportare. L'orribile morte dello sfortunato battitore, colpito nel boschetto come un animale selvatico, gli pareva prefigurare anche la sua morte. Le parole che Lord Henry aveva detto in un moto casuale di scherzoso cinismo, per poco non lo avevano fatto svenire.
Alle cinque suonò per il cameriere e gli ordinò di preparargli le valige, in tempo per il rapido della sera per Londra, e di far preparare la carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non dormire a Selby Royal una notte di più. Era un luogo di malaugurio. La morte vi appariva alla luce del sole. L'erba del bosco era macchiata di sangue.
Poi scrisse un biglietto per Lord Henry, dicendogli di intrattenere gli ospiti durante la sua assenza. Mentre stava infilandolo nella busta, bussarono alla porta e il cameriere lo informò che il sovrintendente desiderava vederlo. Si accigliò e si morse le labbra. "Fallo entrare," mormorò, dopo alcuni attimi di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato Dorian tirò fuori il libretto degli assegni da un cassetto e lo aprì davanti a sé.
"Immagino che lei sia venuto per la disgrazia di questa mattina, Thornton," disse, prendendo la penna.
"Sì, signore," rispose il capocaccia.
"Era sposato quel poveretto? Aveva qualcuno a carico?" domandò Dorian con espressione annoiata. "In caso positivo, non vorrei che questa gente si trovasse in difficoltà e farò loro avere qualunque somma lei ritenga necessaria."
"Non sappiamo chi sia, signore. Per questo mi sono preso la libertà di venire da lei."
"Non sa chi sia?" domandò Dorian in tono indifferente. "Che cosa intende dire? Non era uno dei suoi uomini?"
"No, signore. Mai visto prima. Sembra un marinaio, signore."
Dorian lasciò cadere la penna di mano e gli parve che il cuore avesse improvvisamente smesso di battere. "Un marinaio?" gridò. "Ha detto un marinaio?"
"Sì, signore. Ha l'aria di essere stato qualche cosa di simile. Ha tatuaggi su tutte e due le braccia e roba del genere."
"Aveva qualche cosa addosso?" domandò Dorian, piegandosi in avanti e guardando l'uomo con occhi sbarrati. "Qualche cosa che permetta di identificarlo?"
"Un po' di soldi, signore... non molti, e una pistola a sei colpi. Ma nessun nome. Sembra una persona come si deve, signore, ma un po' rude. Una specie di marinaio, diremmo."
Dorian balzò in piedi. Una terribile speranza aleggiava in lui e vi si aggrappò follemente. "Dov'è il corpo?" esclamò. "Presto! Devo vederlo!"
"È in una stalla vuota alla fattoria, signore. I contadini non lo vogliono in casa: dicono che un morto porta disgrazia."
"Alla fattoria! Vada là immediatamente e mi aspetti. Dica a uno dei mozzi di portarmi qui un cavallo. No. Non importa. Andrò alla scuderia a piedi, farò prima."
Meno di un quarto d'ora dopo Dorian Gray galoppava a briglia sciolta sul lungo viale. Gli alberi sembravano passargli a fianco in una spettrale processione, mentre ombre tumultuose si gettavano davanti a lui. La cavalla scartò a un cancello bianco e per poco non lo disarcionò. La colpì sul collo col frustino. L'animale fendeva l'aria nebbiosa come una freccia. I sassi schizzavano via sotto gli zoccoli.
Alla fine raggiunse la fattoria. Due uomini oziavano sull'aia. Balzò di sella e gettò le redini a uno dei due. Nella stalla più lontana tremolava una luce. Qualche cosa sembrava dirgli che il corpo era là. Si affrettò verso la porta e posò una mano sul chiavistello.
Si arrestò un attimo, sentendo che stava per fare una scoperta che gli avrebbe ridato la vita o gliel'avrebbe distrutta. Quindi spalancò la porta ed entrò.
Nell'angolo più lontano, su un mucchio di sacchi, era disteso il corpo senza vita di un uomo vestito con una camicia grezza e un paio di calzoni blu. Sul volto gli avevano messo un fazzoletto sudicio. Accanto crepitava una candela grezza, infilata in una bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Si rese conto che, con le sue mani, non sarebbe stato in grado di togliere il fazzoletto e chiamò uno degli uomini della fattoria.
"Togligli quell'affare dalla faccia. Voglio vederlo," disse, appoggiandosi allo stipite per sostenersi.
Quando l'uomo ebbe eseguito, avanzò di un passo. Un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo che era stato colpito nel folto era James Vane.
Rimase immobile per alcuni minuti a guardare il cadavere. Mentre cavalcava verso casa, aveva gli occhi pieni di lacrime, perché sapeva di essere salvo.


XIX

"È inutile che tu mi dica che hai l'intenzione di diventare buono," esclamò Lord Henry, immergendo le bianche dita in una coppetta di rame rosso riempita di acqua di rose. "Così sei perfetto. Ti prego di non cambiare."
Dorian scosse il capo. "No, Harry. Ho commesso troppe cose orribili nella mia vita. Non voglio commetterne più. Ho cominciato ieri le mie buone azioni."
"Dove sei stato ieri?"
"In campagna, Harry. In una piccola locanda, da solo."
"Mio caro ragazzo," esclamò Lord Henry, sorridendo, "in campagna tutti possono essere buoni: non ci sono tentazioni. Per questo chi non vive in città è così profondamente incivile. La civiltà non è affatto facile da raggiungere. Ci si può arrivare solo in due modi: attraverso la cultura o attraverso la corruzione. La gente di campagna non ha la possibilità di essere né colta né corrotta: per questo ristagna."
"Cultura e corruzione," gli fece eco Dorian Gray. "Ho conosciuto un poco sia l'una che l'altra. Mi Pare terribile ora che si debba sempre trovarle insieme. Adesso infatti ho un nuovo ideale, Harry. Sto cambiando, credo di essere già cambiato."
"Non mi hai ancora raccontato la tua buona azione. Oppure mi hai detto di averne fatta più di una?" domandò l'amico, ammucchiando nel piatto una minuscola piramide cremisi di fragole e spolverandola di zucchero con un cucchiaio traforato a forma di conchiglia.
"Te la posso dire, Harry, ma non è una storia che potrei raccontare a chiunque. Ho risparmiato una persona. Potrà sembrarti vanità, ma capisci cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava moltissimo a Sibyl Vane. Forse per questo mi ha attratto, all'inizio. Ricordi Sibyl, non è vero? Quanto tempo sembra che sia passato! Bene, Hatty non era una del nostro ceto, naturalmente. Era solo una ragazza di campagna, ma l'amavo davvero. Sono sicuro che l'amavo. Per tutto questo splendido mese di maggio sono andato a trovarla due o tre volte alla settimana. Ieri ci siamo incontrati in un piccolo frutteto. I fiori del melo le cadevano di continuo sui capelli e lei rideva. Avremmo dovuto fuggire insieme questa mattina all'alba. Improvvisamente decisi di lasciarla pura come un fiore, come l'avevo trovata."
"Direi che la novità dell'emozione debba averti procurato un brivido di vero piacere, Dorian," lo interruppe Lord Henry. "Ma posso finire io la storia di questo idillio. Le hai dato dei buoni consigli e le hai spezzato il cuore. Questo è stato l'inizio della tua redenzione."
"Harry, sei terribile! Non devi dire queste cose tremende. Non ho spezzato il cuore di Hatty. Naturalmente ha pianto, e così via. Ma non l'ha colpita nessuna disgrazia. Può continuare a vivere, come Perdita, nel suo giardino di menta e calendule."
"E piangere su un infedele Florizel," disse Lord Henry ridendo e abbandonandosi all'indietro sulla sedia. "Mio caro Dorian, sei stranamente infantile. Credi che questa ragazza, adesso, sarà mai veramente soddisfatta con uno della sua condizione? Immagino che un giorno la sposeranno a un rozzo carrettiere o a un bifolco dall'espressione ebete. Bene, il semplice fatto di averti incontrato, di averti amato, le insegnerà a disprezzare il marito e sarà rovinata. Dal punto di vista morale, non mi pare che la tua grande rinuncia abbia un notevole valore. Anche come inizio, è misero. D'altra parte, come fai ad essere sicuro che in questo momento questa Hatty non stia galleggiando in qualche stagno illuminato dalla luna, circondata da belle ninfee come Ofelia?"
"È insopportabile, Harry! Ridi di tutto e poi suggerisci le peggiori tragedie. Ora mi dispiace di avertelo raccontato. Ma non mi importa di ciò che mi dici. So di aver avuto ragione comportandomi così. Povera Hatty! Questa mattina mentre passavo a cavallo davanti alla fattoria ho visto alla finestra il suo pallido viso, come un tralcio di gelsomini. Non parliamone più e non cercare di convincermi che la prima buona azione che ho fatto da anni, il mio primo piccolo sacrificio, sia in realtà una specie di peccato. Voglio essere migliore. Ma parlami un poco di te. Che cosa succede in città? Non vado al club da diversi giorni."
"La gente parla sempre della scomparsa del povero Basil."
"Pensavo che se ne fossero stancati, ormai," disse Dorian, versandosi un po' di vino e aggrottando leggermente le sopracciglia.
"Mio caro ragazzo, ne parlano soltanto da sei settimane e il pubblico britannico non ha assolutamente le capacità intellettuali di trovare più di un argomento nuovo ogni tre mesi. Tuttavia, negli ultimi tempi ha avuto molta fortuna. Ci sono stati il mio processo di divorzio e il suicidio di Alan Campbell. Adesso c'è la misteriosa scomparsa di un artista. Scotland Yard insiste ancora nel dire che l'uomo dall'ulster grigio partito il nove di novembre per Parigi con il treno di mezzanotte fosse il povero Basil mentre la polizia francese dichiara che Basil non è affatto giunto a Parigi. Immagino che fra un paio di settimane verremo a sapere che è stato visto a San Francisco. È strano, ma tutti quelli che scompaiono li vedono a San Francisco. Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive dell'altro mondo."
"Che cosa credi che sia successo a Basil?" domandò Dorian, osservando controluce il borgogna e chiedendosi come mai potesse parlare con tanta calma dell'argomento.
"Non ne ho la minima idea. Se Basil decide di nascondersi, non è affar mio. Se è morto, non voglio pensarci. La morte è l'unica cosa che mi terrorizza. La odio."
"Perché?" domandò il giovane con voce stanca.
"Perché," disse Lord Henry, passandosi sotto le narici la griglia dorata di una boccettina di sali, "oggi a tutto si può sopravvivere fuorché a questo. La morte e la volgarità, nel diciannovesimo secolo, sono gli unici due fenomeni che non si riescono a spiegare. Andiamo a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi Chopin. L'uomo con cui è scappata mia moglie suonava Chopin divinamente. Povera Victoria! Le volevo molto bene. La casa è vuota senza di lei. Ovviamente la vita coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine. Ma si rimpiangono sempre le perdite, anche delle peggiori abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più. Sono una parte così essenziale della nostra personalità."
Dorian non disse nulla ma si alzò e, trasferitosi nella stanza accanto, sedette al pianoforte facendo scorrere le dita sull'avorio bianco e nero dei tasti. Quando ebbero portato il caffè, si interruppe e, guardando Lord Henry, disse.: "Harry, hai mai pensato che Basil possa essere stato assassinato?"
Lord Henry sbadigliò. "Basil era simpatico a tutti e portava sempre un orologio Waterbury. Perché avrebbero dovuto assassinarlo? Non era abbastanza intelligente per avere nemici. Naturalmente, per la pittura aveva un talento straordinario, ma si può dipingere come Velasquez ed essere tuttavia la persona più ottusa del mondo. Basil era davvero alquanto ottuso. Mi ha interessato una sola volta, quando mi ha detto che aveva per te un'adorazione folle e che eri il motivo dominante della sua arte."
"Volevo molto bene a Basil," disse Dorian con una nota di tristezza nella voce. "Ma non si dice che è stato assassinato?"
"Oh, lo sostengono alcuni giornali. A me però sembra del tutto improbabile. So che ci sono dei posti pericolosi a Parigi, ma Basil non era il tipo da frequentarli. Non era curioso. Era il suo principale difetto."
"Che cosa diresti, Harry, se ti confessassi che sono stato io ad uccidere Basil?" disse il giovane osservandolo attentamente mentre pronunciava queste parole.
"Direi, mio caro amico, che cerchi di recitare una parte che non ti si addice. Ogni delitto è volgare, proprio come è un delitto la volgarità. Commettere un delitto, Dorian, non è da te. Mi dispiacerebbe ferire la tua vanità, dicendoti questo, ma ti assicuro che è vero. Il delitto è un'esclusività delle classi inferiori, e non le biasimo affatto per questo. Immagino che per loro rappresenti quello che per noi è l'arte: semplicemente un metodo per procurarsi straordinarie sensazioni."
"Un metodo per procurarsi sensazioni? Allora, secondo te, chi ha commesso un delitto una volta ne potrebbe commettere un altro? Non mi dirai una cosa simile."
"Oh, ogni cosa si trasforma in un piacere se la si fa troppo spesso," disse Lord Henry ridendo. "Questo è uno dei più importanti segreti dell'esistenza. Tuttavia, secondo me il delitto è sempre un errore. Non si dovrebbe mai fare nulla di cui non si possa parlare dopo pranzo. Ma lasciamo perdere il povero Basil. Vorrei poter credere che abbia avuto davvero una morte romantica come quella che hai immaginato, ma non posso. Forse è caduto nella Senna da un omnibus e il conduttore ha soffocato lo scandalo. Sì, suppongo che questa sia stata la sua fine. Lo vedo disteso supino sotto quell'acqua verde sporco mentre le chiatte gli passano sopra e le lunghe alghe gli si impigliano nei capelli. Sai, penso che non avrebbe più fatto nulla di buono. Negli ultimi dieci anni la sua pittura era molto calata di tono."
Dorian sospirò; Lord Henry attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare uno strano pappagallo di Giava, un grosso uccello dalle piume grige con la cresta e la coda rosa, in equilibrio su un trespolo di bambù. Al tocco delle dita affusolate, l'uccello lasciò cadere la bianca pellicola rugosa delle palpebre sui neri occhi di cristallo e cominciò a oscillare avanti e indietro.
"Sì," proseguì voltandosi e levando di tasca il fazzoletto, "la sua pittura era assolutamente calata di tono. Mi pareva che avesse perso qualche cosa. Aveva perduto, un ideale. Da quando non foste più grandi amici, cessò di essere un grande artista. Che cosa vi aveva divisi? Immagino che ti sia venuto a noia. Se è così, non te lo perdonò mai. È tipico delle persone noiose. A proposito, che cosa è successo di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di averlo visto da quando fu terminato. Ah, ricordo: un giorno, anni fa, mi hai detto che lo avevi spedito a Selby e che era stato rubato o era andato perduto durante il viaggio. Non l'hai più ritrovato? Che peccato! Era davvero un capolavoro. Ricordo che volevo comperarlo. Vorrei averlo fatto, ora. Era del miglior periodo di Basil. Da allora la sua pittura è stata quel curioso, miscuglio di pessima pittura e di ottime intenzioni che permette sempre a un uomo di essere chiamato un esponente rappresentativo dell'arte britannica. Hai fatto delle inserzioni per ritrovarlo? Dovresti farlo."
"Me ne sono dimenticato," disse Dorian. "Forse le ho fatte. Ma non mi è mai piaciuto veramente. Mi dispiace di aver posato: il suo ricordo mi è odioso. Perché ne parli? Mi ha sempre ricordato quegli strani versi di una commedia - l'Amleto mi pare - come dicono?

"Come il ritratto di una pena
un volto senza cuore,"

Sì, era proprio così."
Lord Henry rise. "Se un uomo ha con la vita un rapporto artistico, ha il cervello nel cuore," rispose, affondando in una poltrona.
Dorian Gray scosse il capo e toccò alcune note basse. "Come il ritratto di una pena," ripeté, "un volto senza cuore."
Il più anziano si allungò sulla poltrona e lo guardò socchiudendo gli occhi. "A proposito, Dorian," disse dopo un silenzio, ""che cosa guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde" - com'è la citazione? - "e perde l'anima?""
La musica ebbe una dissonanza. Dorian Gray sussultò poi fissò l'amico. "Perché me lo domandi, Harry?"
"Mio caro amico," disse Lord Henry inarcando meravigliato le sopracciglia, "te lo chiedo perché pensavo che fossi capace di darmi una risposta. Tutto qui. Domenica scorsa attraversavo il Park; vicino a Marble Arch c'era una piccola folla di straccioni che ascoltava uno dei soliti predicatori di strada. Mentre passavo sentii urlare questa domanda all'auditorio. Mi colpì perché era piuttosto drammatica. Londra ti dà molte impressioni di questo genere: una domenica piovosa, un cristiano arruffato con un impermeabile, un cerchio di facce pallide e malaticce sotto un tetto ineguale di ombrelli gocciolanti e una magnifica frase lanciata nell'aria da una voce stridula, isterica... era davvero bellissimo, a suo modo, molto suggestivo. Pensavo di rispondere al profeta che l'arte ha un'anima, l'uomo no. Temo però che non mi avrebbe capito." "No, Harry. L'anima è una terribile realtà; la si può comperare, vendere e barattare. La si può avvelenare o rendere perfetta. Ognuno di noi ha un'anima. Lo so."
"Ne sei assolutamente certo, Dorian?"
"Assolutamente certo."
"Ah! Allora dev'essere un'illusione. Le cose di cui si è assolutamente certi non sono mai vere. È questa la fatalità della fede, la lezione del sentimento. Che aria solenne! Non essere così serio. Che cosa abbiamo a che fare, tu ed io, con le superstizioni della nostra epoca? No: abbiamo abbandonato la nostra fede nell'anima. Suonami qualche cosa, suonami un notturno, Dorian. E mentre suoni, dimmi a bassa voce come hai fatto a conservare la giovinezza. Devi avere un segreto. Ho solo dieci anni più di te e sono pieno di rughe, sono logoro e ingiallito. Sei proprio meraviglioso, Dorian. Non sei mai stato bello come stasera. Mi ricordi il giorno in cui ti vidi per la prima volta. Eri piuttosto sfacciato, molto timido e assolutamente straordinario. Certo sei cambiato, ma non nell'aspetto. Vorrei che mi dicessi il tuo segreto. Farei di tutto per ritrovare la giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve. Giovinezza! Non c'è nulla che la equivalga. È assurdo parlare dell'ignoranza della giovinezza. Le sole persone di cui oggi ascolto le opinioni con un certo rispetto sono molto più giovani di me. Mi pare che siano più avanti di me. La vita ha rivelato loro le sue più recenti meraviglie. Quanto ai vecchi, li contraddico sempre. Per motivi di principio. Se chiedi qual'è il loro punto di vista su un fatto accaduto ieri, ripetono solennemente le opinioni -correnti del 1820 quando la gente portava il colletto alto, credeva a tutto e non sapeva assolutamente nulla. Che bello il pezzo che stai suonando! Chissà se Chopin l'ha scritto a Maiorca mentre il mare singhiozzava intorno alla villa e gli spruzzi salmastri si frangevano contro i vetri? È meravigliosamente romantico. È una benedizione che ci sia rimasta un'arte non contraffatta! Non smettere. Stasera ho voglia di musica. Mi pare che tu sia il giovane Apollo e io Marsia che l'ascolta. Intimamente soffro, Dorian, per cose che nemmeno tu sai. La tragedia della vecchiaia non sta nel fatto di essere vecchi ma in quello di essere giovani. A volte la mia stessa sincerità mi sorprende. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita splendida hai avuto! Hai bevuto a sazietà ogni cosa, hai mangiato l'uva direttamente dal grappolo, nulla ti è rimasto nascosto e tutto è stato per te solo il suono della musica. Non ti ha logorato. Sei sempre lo stesso."
"Non sono lo stesso, Harry."
"Sì, lo sei. Mi domando come sarà il resto della tua vita. Non rovinarlo con rinunce. Attualmente sei perfetto. Non togliere qualcosa alla tua perfezione. Non hai difetti, ora. Non far segno di no: lo sai benissimo. E poi, Dorian, non ingannare te stesso. La vita non è retta dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi di fibre e di cellule in lenta formazione, in cui il pensiero si nasconde e la passione elabora i suoi sogni. Puoi immaginare di essere salvo e crederti forte, ma una nota casuale di colore in una stanza o nel cielo mattutino, un particolare profumo che un tempo hai amato e che associ a sottili ricordi, il verso di una poesia dimenticata che ti si ripresenta:, il ritmo di un pezzo musicale che hai smesso di suonare... ti dico, Dorian, da cose come queste dipende la vita. Browning lo ha scritto da qualche parte, ma i nostri sensi lo immaginano per noi. Ci sono momenti in cui l'odore di lilas blanc mi colpisce all'improvviso e sono costretto a rivivere quello strano mese della mia vita. Vorrei essere al tuo posto, Dorian. La gente ha sempre parlato male di noi due ma per te ha sempre avuto un'adorazione e ti adorerà sempre. Tu sei il modello di ciò che la nostra epoca sta cercando e che teme di aver trovato. Sono così contento che non hai mai fatto nulla, che non hai mai scolpito una statua, dipinto un quadro o creato qualche cosa se non te stesso! La vita è stata la tua arte: ti sei dato alla musica e i tuoi giorni sono i tuoi sonetti."
Dorian si alzò dal pianoforte passandosi una mano fra i capelli. "Sì, la vita è stata squisita," mormorò, "ma non condurrò più questa vita, Harry. E non devi dirmi queste cose bizzarre. Di me non sai tutto. Credo che se lo sapessi, anche tu ti allontaneresti da me. Ridi, ma non è il caso."
"Perché hai smesso di suonare, Dorian? Torna al pianoforte e suonami di nuovo quel notturno. Guarda quella grande luna color miele sospesa nell'aria fosca. Aspetta che tu la incanti e, se suoni, si avvicinerà alla terra. Non vuoi? Andiamo al club, allora. È stata una serata affascinante e dobbiamo finirla in modo affascinante. C'è una persona da White che desidera infinitamente conoscerti: il giovane Lord Poole, il figlio minore di Bournemouth. Ha già copiato le tue cravatte e mi ha pregato di presentartelo. È molto piacevole e ti assomiglia un poco."
"Spero di no," disse Dorian con un'espressione di tristezza nello sguardo. "Ma stasera sono stanco, Harry. Non verrò al club. Sono quasi le undici e voglio andare a letto presto."
"Rimani. Non hai mai suonato bene come questa sera. C'era nel tuo tocco qualche cosa di meraviglioso: una forza espressiva che non avevo mai sentito prima."
"È perché sto per diventar buono," rispose Dorian, sorridendo. "Un poco sono già cambiato."
"Per me non puoi cambiare, Dorian," disse Lord Henry. "Tu ed io saremo sempre amici."
"Tuttavia una volta mi hai avvelenato con un libro e non lo dimenticherò. Harry, promettimi che non presterai a nessuno quel libro: è dannoso."
"Mio caro ragazzo, adesso fai davvero il moralista. Tra poco andrai in giro come i convertiti e i revivalisti a mettere in guardia la gente contro i peccati di cui ti sei stancato. Ma sei troppo bello per farlo. E, d'altra parte, è inutile: tu ed io siamo quel che siamo e saremo quel che saremo. Quanto all'essere avvelenato da un libro, è una cosa impossibile. L'arte non ha nessuna influenza sulle azioni: annulla il desiderio di agire. I libri che la gente dice immorali sono quelli che rivelano alla gente le sue vergogne. Tutto qui. Ma non voglio discutere di letteratura. Fatti vedere, domani. Andrò a cavalcare alle undici. Potremmo andare insieme e dopo ti porterò a cena da Lady Branksome. È una donna piena di fascino e vorrebbe il tuo parere su alcune tappezzerie che intende comperare. Ricordati di venire. Oppure andremo a pranzo con la nostra duchessina? Dice che non ti ha più visto. Ti sei forse stancato di Gladys? Lo pensavo. Quei suoi discorsi intelligenti danno sui nervi. Bene, ad ogni modo, vieni alle undici."
"Devo proprio venire?"
"Certo. Il Park è molto bello in questo periodo. Non credo che ci siano stati dei lillà così belli da quando ti ho conosciuto."
"Benissimo. Sarò qui alle undici," disse Dorian. "Buona notte Harry." Quando fu sulla soglia esitò un attimo, come volesse dire ancora qualche cosa, poi sospirò ed uscì.


XX

Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto. Sentì uno dei due sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray." Ricordò come gli faceva piacere una volta quando lo indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo villaggio dove era stato tanto spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse. Aveva detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto. Una volta le aveva detto di essere malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua risata pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò a pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza?
Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non "perdona i nostri peccati", ma "colpiscici per le nostre iniquità" dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia." La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel migliore dei casi? Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato.
Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo laboratorio, senza però rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si sarebbe esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la morte di Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva dipinto il ritratto e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di tutto. Basil gli aveva detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia momentanea. Per quanto riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà, la cosa non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono.
Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere.
Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla rinuncia. Ora se ne rendeva conto.
Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela.
Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare.
"Di chi è questa casa, agente?" domandò il più giovane dei due.
"Del signor Dorian Gray, signore," rispose il poliziotto.
I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton.
All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia.
Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.