Ferruccio Busoni

LETTERE ALLA MOGLIE

a cura di Friedrich Schnapp

Traduzione e prefazione

di Luigi Dallapiccola








AVVERTENZA DEL CURATORE

Questo volume presenta una larga scelta delle lettere (più di 800) di Ferruccio Busoni a sua moglie Gerda, a cominciare dall'anno 1895. Il contenuto delle lettere precedenti non è sembrato adatto alla pubblicazione.
In generale sono omessi, nella stampa, l'inizio e la chiusa delle lettere. Tutte le altre omissioni, che riguardano per lo più comunicazioni di natura strettamente privata, sono segnate con tre punti di sospensione.
Le aggiunte del curatore, a parte le note, sono chiuse tra parentesi quadre.
I nomi di persone meno note sono accompagnati da una breve nota esplicativa nell'indice.
Quando non c'è altra indicazione, le lettere si intendono indirizzate a Berlino.

NOTA DEL TRADUTTORE

Le parole, le frasi e i nomi stampati in corsivo corrispondono a parole, frasi e nomi sottolineati da Busoni. Inoltre sono stampate in corsivo le frasi italiane del testo originale, per conservare loro il necessario rilievo.
Si è conservata, per quanto possibile, l'interpunzione originale dell'autore, comprese le parentesi tonde delle intestazioni delle lettere.
Titoli di brani musicali, di libri, ecc., spesso citati abbreviatamente e talora non esattamente (non si dimentichi che queste lettere sono un documento familiare) sono inseriti tra virgolette, per evitare equivoci.


PREFAZIONE

Da una ventina d'anni a questa parte, i libri di natura autobiografica dovuti a compositori, a solisti, a direttori d'orchestra, si sono andati moltiplicando. Se un siffatto fenomeno sia da attribuirsi a quella che Miguel de Unamuno ebbe a definire «ansia d'immortalità» o ad altre cause potrà essere stabilito e spiegato, forse, dal sociologo o dallo psicologo: esulerebbe senza dubbio dal mio compito discuterne.
Potrò tuttavia notare che, se in certi casi gli autori si sono almeno sottoposti alla fatica di scrivere il testo di proprio pugno (Casella: I segreti della giara; Milhaud: Notes sans musique; ecc.), in altri hanno preferito affidare le loro confidenze a un compiacente intervistatore, organizzando (e spesso con incredibile ingenuità) il gioco delle domande e delle risposte (Honegger: Je suis compositeur; Corredor: Conversations avec Casals; ecc.). Se, nel primo caso, ciò che colpisce il lettore di primo acchito è il corrente e alquanto dimesso tono cronachistico, nell'altro - in parte anche per l'intervento stesso dell'intermediario - è la singolare mancanza di spontaneità che talora (come nel volume del Corredor) assurge a un tono agiografico, incontrollato e inaccettabile.
Nell'uno e nell'altro caso troppo spesso, inoltre, si ha l'impressione che gli autori, affaccendati a far conoscere al pubblico i loro infiniti spostamenti di latitudine, le loro lotte, i loro successi - di preferenza -, si siano isolati dal mondo esterno. Al punto che, quando riferiscono su incontri fatti, anzichè trovarsi di fronte a persone vive, il lettore ha la strana sensazione di imbattersi in un seguito di nomi che, pure appartenendo a personalità di primissimo ordine, restano sempre e soltanto nomi, ammutoliti sulla carta.
Ben diverso è il presente epistolario di Ferruccio Busoni. Due elementi fondamentali concorrono a farne un libro vivo: la sincerità assoluta del musicista e il suo commovente amore per la moglie.
Mai una volta in queste lettere appare la preoccupazione che contemporanei o posteri possano esaminarle e giudicarle; mai vi si trova la raccomandazione che così spesso Dostoievski faceva nelle sue missive ad Annetta: «Tu non farai vedere ad alcuno questo scritto». Busoni sa che, in un angolo di Berlino, esiste per lui un'Itaca. Qui potrà confidarsi completamente e senza sottintesi, potrà riposarsi dei viaggi lunghi e logoranti che gli tolgono concentrazione, potrà ripiegarsi su se stesso e ricercare e ritrovare se stesso. Ma sopra tutto ritroverà chi lo attende, chi è per davvero convinto della sua autentica grandezza, chi lo consiglierà e lo sorreggerà negli inevitabili momenti di scoramento. Con tono indimenticabile, commosso e toccante, Busoni lo riconosce tante e tante volte.
Alla moglie potrà scrivere con brutale franchezza «Suono ogni giorno peggio» (6 febbraio 1902) e ammettere di essere stanco e triste; a lei potrà comunicare - con la gioia di un bambino di fronte a un balocco nuovo - di aver scoperto il Concerto in fa maggiore di Mozart, rimastogli sino allora sconosciuto (10 novembre 1919); per lei conierà la frase «desolazione della carriera del virtuoso». È attraverso queste lettere che lo potremo seguire nei molti giorni scuri della ricerca senza risultato e in quei pochi in cui una nuova illuminazione lo scuote e in quelli, infine, in cui un nuovo progetto lo rianima e gli ridà la gioia della vita.
Alla Signora Gerda potrà anche esprimere opinioni per noi criticamente inaccettabili (la sua assoluta mancanza di comprensione per Debussy, la sua antipatia per il mondo wagneriano e, in modo particolare, per «La Walkiria»). Giudizi del genere vanno considerati alla stessa stregua di quanto Debussy, in una lettera a Pierre Louys, scrisse a proposito del Quartetto, op. 131 di Beethoven («une longue fumisterie», facendo precedere una così singolare e affrettata critica da un «décidément»!). Che poi, quando si trattò di dettare una pagina destinata al pubblico, Busoni abbia seriamente meditato si osserva rileggendo l'ammirevole scritto «Sulla partitura del « Parsifal».
Ma, fortunatamente, Busoni non è egocentrico né limitato e in queste lettere non si parla soltanto di concerti o di musica. Ed è anche ciò che rende il libro così differente dagli altri e così affascinante.
Scrive alla moglie per informarla delle sue letture e delle considerazioni a cui queste lo portano, dei paesaggi svariatissimi che gli passano sotto gli occhi, delle sue preoccupazioni per l'avvenire degli uomini. E ancora delle architetture che massimamente lo colpiscono, del volo di Blériot, della vita nelle strade, delle camere d'albergo che lo ospitano, delle sue veglie, dei suoi sonni, dei suoi sogni. E del tempo, del
tempo che passa.
Quest'ultimo è
uno dei motivi dominanti nelle lettere, sotto al quale sembra nascondersi l'inconscio timore di non riuscire a realizzare tutto ciò che balena nella sua grande mente, e talora assume un'intonazione addirittura tragica. E parla del suo compleanno. Egli che così di rado riguardava al passato, egli che la dire nel «Doktor Faust» al protagonista «Solo chi guarda innanzi a sé ha lo sguardo lieto», il primo giorno d'aprile si comporta come se il sole si dovesse fermare per ventiquattr'ore. E la un bilancio del lavoro compiuto e la progetti per l'avvenire.
Quando riferisce di un incontro, questo è tratteggiato con assoluta nettezza di contorni e non è disgiunto, spesso, da una punta di umorismo. Il suo primo colloquio a Parigi con Gabriele D'Annunzio è vivissimo, parlante. È chiaro che Busoni si sia accorto subito come il Poeta, prima di riceverlo, si fosse informato delle sue predilezioni letterarie. E da ciò sorge la stupenda improvvisazione dannunziana, a mezza via tra E. T. A. Hoffmann ed Edgard A. Poe. Busoni si presta allo scherzo e la sua narrazione rende con tono leggerissimo il divertimento intellettuale del Poeta compiaciuto delle inverosimili affermazioni che escono dalla sua bocca e quello del musicista che ascolta.


Né meno affascinante è il racconto di un fatto di sangue che riferisce dopo aver parlato con un tale Bartolini, proprietario di un ristorante italiano a Berlino. Qui la capolino la suprema ammirazione che Busoni ha sempre nutrita per Benvenuto Cellini: infatti il mediocre fattaccio è da lui così commentato: «Il tutto nello stile del più puro Rinascimento».
Alla moglie può parlare delle sue angoscie e delle sue speranze, delle sue crisi e delle sue nostalgie. Fra queste ultime, il sole occupa il primo posto: è la nostalgia del Mezzogiorno, ben nota ai popoli nordici. Tuttavia, come avviene di frequente agli abitanti del settentrione, il contatto col sole meridionale è troppo violento e si rivela insostenibile. Ecco sorgere così il dissidio, l'inquietudine, il tormento del musicista.
Una volta ancora sarà necessario ripetere che, se Ferruccio Busoni è nato ad Empoli, la sua prima educazione ebbe luogo a Trieste, nella strana inquieta città dove confluiscono tre culture e tre civilizzazioni. Che Trieste abbia esercitato su di lui un influsso decisivo, che abbia pesato sulla sua formazione e sul suo avvenire in ben più larga misura che non la città natale è ovvio.
Eccolo, quindi, partire dal Nord pieno di speranza, desideroso di sole, e trovarsi di fronte a mille piccole contrarietà che lo deludono e lo umiliano. Lo vediamo a colloquio (Milano, 1895) con i maggiorenti di una società di concerti: gente che afferma di essere seria, ma che non conosce la differenza tra la banale «riduzione» per pianoforte e la «trascrizione»; lo troviamo deluso delle orchestre italiane e scoraggiato al punto di arrischiare pronostici in verità troppo sinistri. Né diversa è la sua situazione personale a Bologna (1913-1914) quando assume la direzione di quel Liceo musicale; è aggravata, anzi, da un lato burocratico le mille miglia lontano dal suo spirito e dalle sue possibilità. Ha l'esatta sensazione di parlare una lingua che gli altri non intendono.
A completare il suo tormento, ecco la guerra del 1914. Stefan Zweig, ne Il mondo di ieri, nel capitolo intitolato Il mondo di ieri, scrive: «I più commoventi fra questi individui erano per me - quasi m'avesse già sfiorato il presagio del mio futuro destino - gli uomini senza patria, o ancor peggio, quelli che in luogo di una patria ne avevano due o tre e non sapevano interiormente a quale appartenessero». E ci parla degli incontri a Zurigo con James Joyce e con Ferruccio Busoni. «Lo rivedevo ora - scrive Zweig - ma i suoi capelli eran grigi e gli occhi velati di dolore. 'A chi appartengo?' - mi domandò una volta. - 'Quando la notte sogno, mi accorgo al destarmi di aver parlato in sogno in italiano. Ma se poi scrivo, penso parole tedesche'.»
Quanto S. Zweig ci riferisce dev'essere tenuto presente da chi si accosta a questo libro e ciò non per giustificare certi apprezzamenti sul'Italia di cinquant'anni or sono (in quale paese, a eccezione che nella sua Itaca, Busoni si trovò a suo agio, o almeno dove non si sentì estraneo?), bensì per penetrare il dissidio interiore del Maestro, che, con l'età, andò aggravandosi.
Dell'Italia egli amò sopra tutto la cultura, è noto. Ma non è altrettanto noto come dall'arte italiana gli siano venuti gli stimoli più allettanti e più arditi. In queste lettere lo vediamo pensare a Dante (25 gennaio 1913) e a Leonardo (23 giugno 1913): a Trento acquista lo spartito di «Un Ballo in maschera» (luglio 1906) «per avere qualche ora dì compagnia» e con stupore vi ritrova molte cose che gli sono familiari sin dall'infanzia; da Vienna scrive di aver udito il «Rigoletto» e, in foglio aggiunto alla stessa lettera due giorni dopo, narra di non aver mai lavorato alla Brautwahl con tanta facilità. In altra lettera, del 19 maggio 1908, scrìve che da due giorni (cioè da quando aveva sentito il «Rigoletto»!) è ossessionato da un'idea, cioè di scrivere, non appena ultimata la «Brautwahl», un'«opera italiana».
Che tali progetti non siano stati realizzati nella forma in cui apparvero originariamente a Busoni è altro discorso. Che Leonardo si sia trasformato in Faust dipende dalle circostanze più diverse.
Leggendo questo volume è impossibile non notare il crescendo d'interesse che lo anima dal principio alla fine. Busoni comincia come «virtuoso» ed è naturale che i concerti lo interessino e che attribuisca una certa importanza al successo e persino alla stampa. Ma, gradatamente, il «virtuoso» si trasforma in grande artista (il 7 marzo 1909 può scrivere alla Signora Gerda: «non suono più quasi con le dita») e la carriera del concertista gli diventa sempre più penosa («è una tortura imprigionare e paralizzare in questo modo i miei anni di maggiore forza spirituale»; 25 marzo 1911). Allo stesso modo vediamo come il compositore, dotato dapprincipio di grande facilità, progredendo, a questa facilità rinunciasse e come il suo lavoro, affrontando sempre nuovi problemi, diventasse inevitabilmente difficile.
Nella penultima lettera della raccolta, troviamo: «Mi piace di nuovo un po' di più suonare il pianoforte: vorrei fare ancora un passo innanzi in quest'arte; e credo quasi che mi riuscirà». Parallelamente, nel Doktor Faust, man mano che ci si avvicina alla fine, tutto diventa immateriale e si spiritualizza.
Nessun motto si addice di più a Ferruccio Busoni uomo e artista che la frase di Hólderlin: «Wir sind nichts; was wir suchen ist alles».