INTERVISTA A MATTIA ZAPPA

a cura di Laureto Rodoni

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Mattia Zappa, nato a Locarno nel 1973, si è formato in Ticino (Liceo e Conservatorio). A vent'anni è stato ammesso alla Juilliard School di New York, dove ha studiato nella classe del prof. Harvey Shapiro. Un consiglio, perentorio, di Mstislav Rostropovich, durante un fugace colloquio, in compagnia del collega violoncellista ticinese Orfeo Mandozzi, dinanzi alla Chiesa di S. Francesco a Locarno qualche anno prima. Il sogno di ogni giovane musicista. In America ha conosciuto il pianista napoletano Massimiliano Mainolfi con il quale ha formato un Duo. Tornato in Europa nel 1995, tre anni dopo ha conseguito il Solistendiplom alla Musikakademie di Basilea. Ora alterna l'attività orchestrale con quella solistica e cameristica. Da qualche anno vive a Meilen, in un appartamento sulle rive del lago di Zurigo. Nel suo studio campeggia il violoncello costruito a Firenze da G.B. Gabbrielli nel 1758: una stupefacente scultura lignea che sembra sempre in ansiosa attesa di chi sappia infonderle vita musicale.



MATTIA ZAPPA E MASSIMILIANO MAINOLFI

Mattia, in questo periodo hai aggiunto un altro, importante tassello alla tua carriera di violoncellista: la pubblicazione, in Duo con il pianista Massimiliano Mainolfi, del tuo primo CD ufficiale presso una prestigiosa casa discografica italiana. Come siete arrivati a questo traguardo?
Partecipando al concorso internazionale per musicisti da camera «Gaetano Zinetti» a Verona, Massimiliano ed io abbiamo vinto il «Premio discografico» che consiste appunto nella possibilità di registrare un CD presso la «Ducale». Si tratta di un premio ambitissimo, poiché questa Casa discografica è in grado di promuovere con efficacia e di distribuire capillarmente, anche sul piano internazionale, i suoi prodotti. Per noi che formiamo un giovane ensemble ciò è certamente un importante primo passo nella giungla del mondo discografico. Al giorno d'oggi quasi ogni melomane può possedere un apparecchio per coniare i propri CD "casalinghi" e quindi un proprio CD con il marchio di una casa distributrice seria stampato sulla copertina è un "biglietto da visita" necessario per presentare uno stralcio della propria attività e per crearsi uno spazio.
Recentemente in duo con Massimiliano siete stati premiati in numerosi concorsi internazionali di musica da camera di prestigio come per esempio nell'ultima edizione del Concorso "G.B. Viotti" a Vercelli. Con quale spirito affrontate questi impegni?
Per noi partecipare a concorsi seri di musica da camera è innanzitutto uno stimolo eccezionale verso un lavoro molto attento e minuzioso e un ampliamento del nostro repertorio. Inoltre il confronto con una giuria di esperti e la loro critica possono darci delle importanti indicazioni sul nostro lavoro e rinforzare la nostra solidità, perché credo che imparare a suonare con disinvoltura e tranquillità in simili condizioni di tensione e concentazione sia molto importante, soprattutto sul piano emotivo. Sono veramente contento dello spirito che abbiamo lentamente saputo creare con Massimiliano quando affrontiamo simili prove. Sono sempre delle esperienze bellissime e viaggi ricchi di incontri importanti. Spesso abbiamo ritrovato tra i concorrenti amici conosciuti tempo prima durante seminari, masterclass o ad altri concorsi. Il fatto di trasformare la tipica ed antipatica tensione da concorso fatta di competizione e agguerrita concorrenza tra i partecipanti in un sano incontro tra musicisti e scambio di idee, rende queste esperienze del tutto piacevoli e stimolanti.
Con quali criteri avete scelto il programma?
Essendo la «Ducale» una Casa discografica che orienta il suo repertorio verso musiche per così dire periferiche, non registrate dalle principali case discografiche, di rara esecuzione, ma raffinate e di sicuro valore artistico, non eravamo completamente liberi di scegliere il nostro programma. Ci è stata proposta una lunga lista di compositori italiani del Novecento. Ricercando in questo repertorio poco frequentato, abbiamo privilegiato tre compositori che non ci erano del tutto sconosciuti: Busoni, Casella e G. F. Malipiero, i cui Quartetti d'archi ci avevano impressionato per la loro originalità armonica. Siamo poi riusciti a inserire in questa lista anche una composizione del maestro Luciano Chailly, con cui già c'era un rapporto personale. Da lui avevo infatti ricevuto una composizione per violino e violoncello che ho eseguito con mia sorella Daria più volte in concerto. Sfruttando questa conoscenza, è stato facile far accettare alla casa discografica la nostra proposta.
Con Luciano Chailly, padre del direttore d'orchestra Riccardo, avete avuto contatti diretti?
Finora, purtroppo, no. Non se ne è mai presentata l'opportunità. Ci siamo però scambiati parecchie lettere, alcune delle quali molto calorose e schiette. Massimiliano ed io gli abbiamo mandato anche una registrazione del suo pezzo dopo una delle prime prove, e il maestro, molto garbatamente, ci ha risposto criticando l'esecuzione di alcuni passaggi ma anche complimentandosi per l'insieme dell'interpretazione. Per un musicista è un'opportunità eccezionale potersi confrontare con chi ha scritto la musica, soprattutto quando l'autore è del calibro di Luciano Chailly. La critica diretta del compositore, le osservazioni puntuali sul nostro modo di suonare la sua musica, i suoi suggerimenti soprattutto quando ci si trovava di fronte a passaggi stilisticamente ostici, le sue spiegazioni quando le indicazioni nello spartito non erano per noi del tutto chiare ci sono stati di grande utilità e ci hanno consentito un approccio stilistico più profondo e consapevole alla sua bellissima Sonata.
Un problema per i musicisti giovani come te è appunto la scelta del repertorio. Se tu suoni il «Concerto» di Schumann sai che su di te incombono le interpretazioni di violoncellisti sommi... Se invece esegui la «Sonatina» di Malipiero, che probabilmente non è mai stata registrata, sei confrontato con il problema opposto: la mancanza di punti di riferimento interpretativi. Come vivi queste due situazioni antitetiche?
È stato per noi interessantissimo affrontare una pagina sconosciuta. Premetto che tutti i pezzi registrati non facevano ancora parte del nostro repertorio, quindi abbiamo dovuto affrontarli partendo dal nulla, per così dire. La parte più interessante di questo lavoro è stata l'attingere alla nostra cultura musicale e artistica, coltivata durante anni di studio, per riuscire a trovare una personale chiave interpretativa anche su un terreno per così dire vergine, mai esplorato con i nostri maestri. Abbiamo cercato di sfruttare le nostre conoscenze riguardanti lo stile di altri compositori che hanno a che fare, chi più chi meno, con quelli da noi scelti. La lunga elaborazione di questi testi musicali è stata un lavoro affascinante. Prima ci siamo chinati separatamente sugli spartiti, poi abbiamo unito le nostre forze, ci siamo incontrati parecchie volte, abbiamo discusso a lungo: così, a poco a poco, è nata e si è sviluppata la nostra interpretazione. Naturalmente ci siamo anche avvalsi dei consigli di nostri colleghi più esperti: pur non essendo più studenti, si continua ad avere bisogno del parere di amici musicisti e musicologi. Abbiamo posto anche domande precise, ma alla fine ci siamo fatti una nostra idea e credo che la registrazione rispecchi veramente la nostra interpretazione e sia il risultato del nostro lungo lavoro.
Nel caso del Concerto di Schumann e del Triplo di Beethoven che hai registrato in un CD-DEMO promozionale com'è stato il tuo rapporto con la tradizione esecutiva? Per te è importante ascoltare altri musicisti che suonano il tuo stesso strumento o altri strumenti?
Credo che nel cuore di ogni musicista avvenga una specie di unione, ci sia cioè un crogiolo di tantissimi influssi. Io ho avuto la possibilità e la fortuna di studiare con maestri del calibro di Thomas Demenga, Harvey Shapiro, Steven Isserlis, Ralph Kirschbaum, tutti grandi musicisti che mi hanno dato direttamente e personalmente delle chiavi di lettura, degli aiuti molto importanti affinché fossi in grado di interpretare la musica in maniera stilisticamente e tecnicamente corretta. Se si aggiunge la possibilità di ascoltare molte registrazioni, di sentire dei concerti dal vivo con i più grandi musicisti (spesso accompagnandoli in orchestra), posso veramente affermare di essere stato influenzato a più livelli. Ma fondamentale resta l'influenza diretta dei propri professori, dei colleghi e dei direttori d'orchestra con cui si ha la fortuna di lavorare regolarmente. Tutte queste sollecitazioni portano però solo a una conoscenza stilistica e culturale di base: un imprescindibile punto di partenza dal quale il musicista può spiccare il volo per raggiungere la propria interpretazione, nuova e personale, risultato di un lungo lavoro di elaborazione tecnica, stilistica e spirituale.
Come affrontano l'insegnamento i tuoi maestri americani ed europei?
Ogni professore e ogni scuola hanno approcci differenti ai problemi tecnici e interpretativi e quindi hanno avuto varie influenze su di me, sul mio modo di suonare. Questi incontri sono avvenuti inoltre in momenti molto diversi del mio sviluppo musicale ed è difficile, quindi, fare paragoni, poiché io stesso necessitavo, a seconda del momento, di "lavate di capo" e "rivoluzioni" diverse...
Nei parecchi anni in cui sono stato allievo a Lugano del Maestro Taisuke Yamashita, per esempio, ho avuto la fortuna di lavorare con serietà e costanza ad una buona base tecnica imperniata sulle scale e sugli studi, a volte musicalmente meno interessanti, ma necessari. A Basilea ho potuto studiare con grande raffinatezza gli stili musicali dei vari periodi storici. Anche grazie alla Schola Cantorum, in questa città la musica barocca ha una grande tradizione a cui viene attribuita molta importanza. Qui ho avuto la possibilità di affacciarmi sul mondo barocco e classico con spirito più critico e con un rispetto filologico del testo scritto forse superiore a quello che ho riscontrato in America, dove mi ero concentrato più sull'aspetto della tecnica dell'arco e sul raggiungimento della sonorità ideale per interpretare la musica romantica. Ciò che ho apprezzato nella classe del professor Thomas Demenga a Basilea è il fatto che questo eminente musicista, pur dandoci rigorose e dotte indicazioni sullo stile di ogni compositore, lasciava ad ogni suo allievo la sua personalità, anzi, partiva dalla personalità e dall'estro dell'allievo per aiutarlo a costruire o potenziare il suo mondo musicale. All'interno della classe c'era quindi una sorprendente eterogeneità, non c'era un'unità di impostazione, di tecniche; ognuno aveva il proprio stile, la sua musicalità, la sua interpretazione anche dello stesso concerto. Questo atteggiamento didattico, è facile comprenderlo, stimolava il confronto fra noi studenti e ci arricchiva anche al di fuori dell'insegnamento vero e proprio.
Come giudichi in questa fase della tua vita in cui pullulano le attività più disparate la tua esperienza di orchestrale? Suonando nell'Orchestra dell'Opernhaus e della Tonhalle in particolare hai la possibilità di essere guidato da grandi direttori d'orchestra. Che peso ha nella tua formazione suonare in orchestra? È interessante per te in quanto solista o musicista da camera l'approccio esecutivo di un direttore d'orchestra?
Importantissima e molto affascinante trovo la mia attività in orchestra. Secondo me il poter lavorare su più fronti e in varie formazioni, dal duo, al quintetto con pianoforte, dall'orchestra da camera - come i Festival Strings Lucerne, con i quali ho appena terminato una lunga tournée in Sud America - alla grande orchestra sinfonica; dal gruppo jazz all'ensemble di musica barocca con strumenti originali - per esempio i Barocchisti di Lugano di Diego Fasolis - costituisce la ricchezza del mestiere di musicista che, come me, rifugge la routine e che nutre grande curiosità verso varie forme d'espressione.
Queste diverse situazioni professionali richiedono grande (se non enorme!) elasticità per quanto riguarda la natura del mio approccio verso il lavoro durante le prove, ma anche verso l'anima della musica stessa, sia per quanto riguarda il controllo del mio temperamento, sia per la disciplina verso il gusto della sonorità e l'uso del mio strumento, delle regole armoniche o del fraseggio che è in uso per tradizione in quel dato campo. In questo periodo lavoro a tempo parziale in ottime orchestre sia a Zurigo sia in Ticino; do nel contempo una grande importanza alla musica da camera e anche all'attività didattica (in estate sono insegnante nell'ambito di un festival che si svolge in un College nei pressi di New York). A volte mi capita di suonare come solista accompagnato da un'orchestra, o di dare un recital completamente da solo con il mio violoncello. Considero quindi arricchente non solo fermarsi in alcuni settori musicali, ma anche esplorare ambienti molto lontani da quelli in cui opero normalmente. Credo di aver ereditato da mio padre questo continuo desiderio di sperimentazione. A questo proposito, mi preme sottolineare che continuo a collaborare saltuariamente con lui , un musicista che ha coltivato e coltiva tuttora musiche disparate, dal folk, al jazz, al rock. Lavorare in orchestra per un musicista è oggi fondamentale anche perché, se penso per esempio all'Orchestra dell'Opera di Zurigo, si ha a che fare con una grande organizzazione e soprattutto con una grande tradizione, a cui io stesso posso attingere. A mio parere suonare in una buona orchestra oggi assume forse un significato nuovo e più nobile: il livello tecnico-musicale degli esecutori si sta alzando notevolmente e ho notato che alle ammissioni si presentano sempre più candidati e il livello è sempre più alto. Oggi quindi non si va più a suonare in orchestra come se ciò fosse un'alternativa di ripiego rispetto ad un'attività di solista mancata; anche questa attività può far parte di una carriera importante e ricca di grandi soddisfazioni. Mi auguro che anche in futuro io possa seguire vie diverse che si completino a vicenda.
I direttori d'orchestra carismatici e di grande cultura come Welser-Möst, von Dohnànyi, Zinman, Boulez con cui ho avuto la fortuna di lavorare, sono personaggi che lasciano il segno per la loro magica personalità e per la loro capacità di far "spiccare il volo" all'intera orchestra in una perfetta unità di entusiasmo. In quei casi lavorare per una produzione nelle file d'orchestra è come assistere esterrefatti ad una lezione di vita, di cultura, e la gratificazione sul piano umano è grande. Quando un direttore non ha questo fuoco sacro, quando egli non riesce a creare una genuina complicità con l'orchestra, una settimana d'orchestra può essere interminabile e molto noiosa...
Janos Starker ha dichiarato che non si può dire di eseguire la Sonata di Brahms senza aver suonato le sue Sinfonie, i suoi concerti per violino, pianoforte. E questo per entrare nel linguaggio di Brahms. Che ne pensi?
Sono completamente d'accordo con quanto afferma Starker. Conoscere un compositore soltanto in un ambito della sua attività può essere riduttivo. Confrontati con un'opera sinfonica o lirica, il musicista da camera può trovare nuove chiavi di lettura per entrare nel complesso mondo musicale e spirituale di un pezzo cameristico. Alcuni compositori a cui mi sento molto legato come Alban Berg non hanno purtroppo scritto composizioni per il mio strumento. È stata quindi per me un'esperienza esaltante quella di poter suonare nell'Orchestra dell'Opera di Zurigo le parti che Berg assegna ai violoncelli nel suo capolavoro «Lulu». Quando si suona in orchestra a livelli altissimi come mi è capitato con quest'opera di Berg sotto la direzione del maestro Welser-Möst ci si sente veramente parte di un tutto, anche se il tuo ruolo sembra marginale: il solista non può provare una tale bellissima sensazione, una tale ebbrezza.
Suonando nell'Orchestra dell'Opera di Zurigo hai non solo la possibilità di essere guidato dai più grandi maestri del mondo, ma puoi anche sentire le più grandi voci della lirica, da Edita Gruberova a Ruggero Raimondi a Mirella Freni a Thomas Hampson a Juan Pons a Cecilia Bartoli... Si dice che vi sia uno stretto rapporto tra violoncello e voce umana...
Trovo anch'io che ci siano molte somiglianze tra questi due 'strumenti'. Dipende però da che cosa il violoncello suona. Le composizioni molto virtuose scritte da solisti-compositori soprattutto nell'Ottocento hanno allontanato lo strumento dalle caratteristiche della voce umana. Quando il violoncello suona liricamente, suona delle melodie più semplici ma molto cantabili, con l'uso del vibrato e il suono sostenuto dall'arco si avvicina al timbro voce umana e questo aspetto affascina molto il pubblico e ha affascinato anche me sin dai primissimi approcci allo strumento. La «Sonatina» di Malipiero ha una scrittura che non è molto tecnica, non presenta salti con intervalli molto ampi, proprio come è tipico per la voce umana. È una scrittura che veramente si avvicina a quella vocale e quindi la parte per il violoncello potrebbe essere anche cantata, se si mettesse un testo. Forse Malipiero pensava il violoncello in questi termini, mentre Luigi Boccherini e Alfredo Piatti, per esempio, volendo esasperare l'aspetto virtuosistico ne erano invece molto lontani.
Il tuo giovane collega Pieter Wispelway è più perentorio e afferma che la sonorità del violoncello deve avvicinarsi all'espressività della voce umana. Afferma inoltre di essere stato molto influenzato da uno dei più grandi cantanti di tutti i tempi, Dietrich Fischer-Dieskau, che gli ha insegnato l'arte di essere espressivo e drammatico senza eccedere. Mi sembra molto significativo che un violoncellista abbia scelto un cantante per un corso di perfezionamento...
Per quanto mi riguarda, ogni musicista che ho la fortuna di incontrare, sia esso cantante o strumentista o musicologo, mi influenza in un qualche modo, mi può dare delle idee, dei suggerimenti o può essere un modello a cui riferirmi, non solo per la sua musicalità, ma anche per il suo metodo di studio, di vita, di rigore verso il lavoro.
Penso però che la voce umana sia solo uno degli aspetti del violoncello, uno strumento che può evocare altre sonorità: per esempio in concerto con mio padre ho voluto imitare alcune volte il suono della chitarra elettrica, facendo passare il suono acustico del mio violoncello attraverso un apparecchio elettrico di distorsione. Grazie alla tastiera senza barre il violoncello può esprimersi con grande libertà usando i glissandi, o esplorare rarefatti mondi sonori creati con l'uso degli armonici; il violoncello può assumere varie fattezze, a dipendenza di quel che si vuole ottenere. Può essere semplicemente un basso continuo in un tappeto armonico barocco in una cantata di Bach, in un concerto di Vivaldi, oppure assumere fattezze più solistiche da "primadonna". Mi piace molto questo aspetto per così dire 'mutevole' del mio strumento, questa sua personalità caleidoscopica.
Quali sono le diversità di approccio, di avvicinamento, di studio se cambia il contesto in cui tu suoni: orchestrale, recital, musica da camera, solista accompagnato da orchestra, improvvisatore nella band di tuo padre? Quest'ultima esperienza, antitetica rispetto a quella di solista o di orchestrale, ti dà un arricchimento e se sì a quale livello?
Il fatto di crescere in ambiente musicale particolare, lontano dal mondo classico, ha sicuramente forgiato la mia personalità musicale in modo diverso rispetto ad altri, dato che è inevitabile che ognuno attinga alle proprie origini. Io ho avuto la possibilità di suonare e di improvvisare in ambiti jazz o rock che mi hanno richiesto un cambiamento completo della mia personalità in quel momento (come dicevo prima), perché l'approccio che ho quando siedo nelle file dell'orchestra della Tonhalle è completamente diverso da quello che devo assumere quando suono i pezzi dei Beatles con mio padre al Cavern Club di Liverpool. Spesso molti musicisti "classici" che ho conosciuto sono un po' rigidi nel loro approccio verso la musica, tendono ad essere puristi e a non accettare altri generi musicali e anche la loro capacità di cambiare atteggiamento è molto ridotta. La musica d'avanguardia, quella in ambito "classico", richiede oggi comunque sempre più apertura d'idee all'interprete, il quale è sollecitato da compositori contemporanei a dare molto di più di una semplice performance con il suo strumento: spesso gli si chiede di cantare o di dare una coreografia teatrale alla sua interpretazione, di improvvisare addirittura partendo da alcune idee suggerite dall'autore (la famosa musica aleatoria...) . È dunque una fortuna, trovo, essere stato abituato sin da piccolo a superare quelle frontiere e quei limiti che il mondo tradizionale della musica classica per anni ha costruito attorno a sé come una roccaforte.
Tuttavia non deve esser facile far coesistere queste antitesi...
Certo, ho avuto dei conflitti con me stesso e con i miei professori perché trovavano molto difficile conciliare questi due aspetti così diversi. Non volevano che io "perdessi tempo" in troppe improvvisazioni. Io però quel tempo me lo prendevo ugualmente.
È comunque tutto relativo... mio padre spesso mi vede troppo "purista" e troppo "classico" e vorrebbe che io suonassi più spesso con lui e approfondissi la conoscenza della musica jazz. Non si può fare tutto investendo tutte le proprie energie, inoltre il violoncello rimane uno strumento dall'anima fondamentalmente..."romantica"!
L'improvvisazione è un elemento molto affascinante, che non è certamente stato inventato dai jazzisti: era molto usata già durante l'epoca barocca ed è purtroppo andata perdendosi nel corso della storia della musica "classica". Il senso di libertà e d'ebbrezza dato dalla sorpresa di ciò che scaturisce nell' istante e da quel pizzico di rischio che l'improvvisatore si assume mentre inventa mi ha sempre affascinato. La libertà viene però dalla disciplina. "Se il fisico, le idee, le possibilità - scrisse Isaac Stern - non hanno subìto una disciplina forte, non ci si può sentire liberi di lasciare la propria immaginazione volare nel momento in cui sta accadendo qualcosa. Perché quel momento non tornerà più. Ogni momento è un momento nuovo."
Osservo con grande piacere che in generale, oggi, le nuove generazioni di musicisti, anche tra i grandissimi, hanno un nuovo modo di pensare e un nuovo spirito con cui vivere la musica. Posso a questo proposito raccontare un simpatico aneddoto capitato quando il famoso violoncellista inglese Steven Isserlis era mio ospite a Meilen (in compagnia del suo Feuermann-Stradivari...) per un piatto di risotto ai funghi dopo la prova generale alla Tonhalle in cui aveva suonato il Triplo di Beethoven con Pamela Frank, Lars Vogt e Zinman sul podio: prima di sedersi a tavola era andato a curiosare tra i miei CD e, scegliendone uno tra i tanti di vari generi da ascoltare, prese con mio grande stupore "Rubber Soul" dei Beatles, e cominciò a raccontarmi con entusiasmo del suo incontro casuale qualche mese prima con Paul Mc Cartney in uno studio di registrazione. Avevano cominciato a improvvisare assieme una Jam Session e lo ricordava come uno dei momenti più eccitanti della sua carriera musicale.
Pinchas Zukerman ha dichiarato in un'intervista: "Non c'è giorno che io non suoni il violino. Io ho sposato il mio strumento, ecco la verità." Che ne pensi? È così difficile trovare un equilibrio tra strumento (che esige molto) e vita tout court in tutti i suoi ricchissimi aspetti. Devi rinunciare a qualcosa? Che rapporto hai con il tempo che scorre?
Dal momento in cui ho deciso di essere musicista professionista, di 'abbracciare' il mio strumento come la mia vita, sono cambiate molte cose, è cambiato il mio rapporto con la vita stessa. Si può certo parlare di matrimonio, poiché lo strumento è stato una parte della mia vita ogni giorno. Necessariamente ho dovuto operare molte scelte in nome del violoncello e molte sono state le rinunce. Per esempio a me sarebbe sempre piaciuto prendere la mia bicicletta e partire un mese, sacco in spalla, per fare un giro in Australia, per esempio, ma stare più di un mese senza strumento sarebbe, senza esagerazione, disastroso, perché si perde la sensibilità nelle dita, la condizione fisica e mentale vera e propria. Io paragono un musicista professionista che deve tenersi ad alto livello a un ciclista professionista che ogni stagione deve riportarsi alla sua piena forma per affrontare le gare importanti e il Tour de France. Se si ferma troppo durante i mesi invernali acquista peso e perde competitività e fiducia in se stesso. Ci sono molte somiglianze tra queste due attività... mi è anche capitato di imbattermi in colleghi che si affidano all'aiuto poco edificante di oscuri prodotti farmaceutici per contrastare la paura di esibirsi in pubblico ai massimi livelli, purtroppo.
A che età è nata questa consapevolezza dell'importanza dello strumento per la tua vita?
Prima parlavo di 'momento' ma in realtà è stato un processo durato molti anni. Posso però dire che ho percepito che questo processo mi avrebbe portato a un rapporto molto intenso con lo strumento quando ho conseguito il mio diploma di insegnante al Conservatorio di Lugano. A quel momento ho avuto coscienza di essere un professionista e che quindi dovevo comportarmi come tale, lavorare e pensare come tale, non ero più un violoncellista amatoriale, dovevo affrontare la vita 'strumentale' con occhi più maturi. Il proseguimento degli studi a New York, per corsi di perfezionamento alla Juilliard School, è stata una diretta conseguenza di questa consapevolezza e una meravigliosa opportunità per fare un importante salto di qualità, anche a livello psicologico. Mi sono trovato improvvisamente a contatto con tanti ottimi musicisti che insegnavano o studiavano in quella scuola. Questo confronto ha influito in maniera determinante sulla mia maturazione artistica.
A che età hai cominciato a prendere coscienza della tua individualità come interprete? Cioè quando ti sei reso conto che non stavi più facendo quello che il tuo maestro o tuo padre avevano detto, ma cominciavi ad incamminarti su una tua strada?
Me ne sono reso conto pienamente , attorno ai 23 anni, durante il periodo di studio con Thomas Demenga, il quale ha fatto sì che io mi staccassi dalla figura di 'guru' dei miei professori, a Lugano e a New York, dalla dipendenza quasi materna e credessi maggiormente nelle mie risorse. È questa una tappa fondamentale alla fine di un curriculum di studi, poiché chi affronta da solo la vita di musicista professionista deve poter attingere dalle proprie idee e avere il coraggio di sostenerle. È però evidente che occorre mantenere un occhio attento a ciò che capita attorno a noi: non dobbiamo cioè restare impermeabili alle influenze esterne del mondo musicale (concerti, registrazioni...)
Ti senti influenzato dai violinisti, dalla loro tecnica dell'arco; è possibile in questo modo allargare le possibilità del tuo strumento?
Credo che tutti i violoncellisti guardino i violinisti con occhio ammirato, perché il violino ha una diversa agilità rispetto al violoncello: è uno strumento più virtuosistico, spesso più agile; più ci si innalza di registro, anche con le voci umane, si va nel più tecnico, nel più veloce: È una legge della natura. E quindi il violinista può dare molti impulsi al violoncellista. Oggi il livello del violoncellismo si è alzato moltissimo ma bisogna pensare che nel Settecento questo strumento era soprattutto legato al basso continuo e suonava in sostegno ad un violinista che usciva allo scoperto con i suoi virtuosismi. Con l'andare del tempo il livello violoncellistico si innalza vertiginosamente, soprattutto dopo l'innovazione, introdotta da Boccherini, che consiste nell'usare il pollice come capotasto e suonare in modo disinvolto anche nel registro più acuto. Così molti compositori han pensato di scrivere per violoncello in modo diverso, che si avvicinasse alla brillantezza del violino.
In particolare tua sorella Daria ha o ha avuto influsso sul tuo modo di suonare?
Certo, da mia sorella ho ricevuto parecchie idee e stimoli, anche perché abbiamo la possibilità di suonare regolarmente insieme. Anche se sono consapevole che abbiamo una natura musicale a volte abbastanza diversa, ho sempre ammirato molto la sua impressionante solidità e la sua costanza nello studio.
Con lei ho esplorato gran parte del repertorio di duo per violino e violoncello e divido sempre molto volentieri il palcoscenico, perché non solo mi infonde grande sicurezza e la nostra intesa musicale è schietta e naturale, ma specialmente perché apprezzo il suo atteggiamento positivo e sereno verso l'attività concertistica.
Spero che in futuro possiamo continuare ad approfondire questo bellissimo rapporto d'intesa musicale, nato quasi 20 anni fa, quando suonavamo da bambini durante i fine settimana nei piccoli teatri con nostro padre come in un lungo e molto particolare apprendistato alla meravigliosa vita di concertisti.
È difficile con i ritmi di orchestrale e di concertista trovare il tempo e la possibilità di studiare? Ti capita di rifiutare degli impegni per far spazio al suo studio?
Non è sempre facile trovare il tempo per studiare perché le orchestre hanno molte ore di prova. Però occorre fare una distinzione: ci sono delle orchestre che hanno ritmi di lavoro che tengono in maggior conto il bisogno di ogni singolo musicista di esercitarsi ogni giorno. Quindi spesso la prova ha luogo soltanto la mattina e lasciano veramente spazi ed energie ad ogni musicista per studiare. Altre orchestre hanno magari meno giorni di lavoro con più ore. In questo caso la situazione si complica perché dopo sei ore di prove in orchestra non è più possibile un lavoro personale fresco e produttivo sullo strumento, sia per mancanza di tempo, sia per l'inevitabile stanchezza. Quando lavoro all'Opera di Zurigo, ho molti giorni liberi; inoltre, essendo le rappresentazioni serali, ho la possibilità di organizzare al meglio il mio studio durante il giorno.
Qual è il peso della musica da camera nella crescita artistica di un interprete? Rispetto alla scuola, per esempio.
L'attività in duo con Massimiliano Mainolfi è quella che mi dà più soddisfazioni al momento. Non è importante solo il fatto di far musica insieme; trovo estremamente arricchente il dialogo, la comunicazione. Sono esperienze che si fanno in due, si divide il palcoscenico in due, si viaggia assieme, divertendosi nello stesso tempo e arricchendosi anche sul piano umano. Non si tratta quindi soltanto, lo ripeto, di collaborazione sul piano musicale. C'è per così dire un 'divertimento d'amicizia' che scaturisce dalla nostra unione musicale.
Esiste quando suoni in duo con Max una precisa prassi di lavoro? Per esempio in che modo avete affrontato la Sonata tritematica di Luciano Chailly?
Di solito prepariamo un pezzo nuovo separatamente; poi ci ritroviamo. Noi abbiamo la fortuna di poter lavorare molto un pezzo insieme. Ogni brano matura molto soprattutto in questa seconda fase, con l'apporto di ognuno, ma nel momento della riunione. Quando ci troviamo a Monaco (dove Max abita e insegna), a Zurigo o in Ticino, l'incontro è sempre molto creativo: scambi di idee e di critiche, anche. Ciò è dovuto al fatto che abbiamo radici comuni: ci siamo conosciuti durante i nostri studi a New York e questo bagaglio comune che portiamo dentro di noi fa sì che spesso le nostre idee siano sulla stessa lunghezza d'onda. Raramente abbiamo delle grosse dispute sul piano musicale. Il lavoro è costruttivo e sereno.
I pezzi del CD sono estremamente complessi, soprattutto dal punto di vista stilistico. I quattro autori hanno avuto una formazione musicale composita, molto ricca, con influenze lontanissime e recentissime, dal gregoriano all'avanguardia, per esempio, nel caso di Malipiero. In che modo avete affrontato questo spinoso problema?
Si facevano delle ipotesi, si avanzavano delle proposte, sempre esemplificate sullo strumento. Essendo Massimiliano un pianista molto musicale, le sue intuizioni sono sempre pertinenti, hanno una loro logica profonda e chiara, e quindi è più facile incontrarsi sul terreno dell'interpretazione. Non mi è mai capitato di dover subire un modo di interpretare un pezzo. Voglio sottolineare il fatto che il discorso interpretativo evolve più rapidamente quando portiamo un intero programma o singoli pezzi sul palcoscenico, dinanzi a un pubblico. Capita spesso in queste occasioni che l'inevitabile tensione connessa all'esibizione in pubblico, e che ovviamente non compare durante le prove, stimoli la nostra inventiva musicale, susciti in noi nuove idee che poi elaboriamo e perfezioniamo. Prima di registrare il CD abbiamo provato più volte i pezzi in pubblico proprio perché consapevoli che si tratta di fasi di maturazione molto importanti, in cui finalmente si può capire se l'interpretazione è stilisticamente coesa. Anche la reazione stessa del pubblico è molto importante per noi; se notiamo che il pubblico perde attenzione e interesse spesso vuol dire che qualcosa non va, che l'interpretazione ha qualche falla.
La componente dell'autocritica, dopo il concerto?
Molto importante se si vuole continuare a crescere. Anche se i giudizi che noi ci diamo sono negativi e pesanti, non ci si abbatte mai, l'atteggiamento verso la perfomance nella sua globalità è sempre positivo, troviamo sempre degli aspetti che ci permettono di dire che comunque vi sono stati dei progressi. In parole povere, l'autocritica è sempre costruttiva. Ciò ci permette di mantenere quell'armonia e quella serenità, fondamentali per continuare la costruzione della nostra interpretazione.
Ricordo come eravate insoddisfatti dopo l'esibizione a Minusio, quando avete proposto al pubblico i quattro pezzi del CD...
Si trattava di uno dei primi concerti con questo nuovo programma. Abbiamo noi stessi trovato molti punti deboli su cui lavorare. Inoltre era importante la nostra reazione suonando tutti i pezzi insieme. Quel concerto ci ha dato molti impulsi per rifinire, ritoccare l'interpretazione prima di entrare in sala di registrazione. Il nostro atteggiamento positivo nonostante le autocritiche ci ha aiutato a mantenere quella serenità indispensabile per far musica con piacere e gioia.
E in sala di registrazione, ben sapendo che il tempo era limitato, come era il vostro stato d'animo?
Avevamo una gran voglia di suonare, perché, reduci da un lungo e minuzioso lavoro, eravamo desiderosi di fissare su un CD la nostra interpretazione. C'era però anche quel pizzico di paura, dato che il tempo a disposizione per un programma così impegnativo era limitato. Si era consapevoli della mole di lavoro che ci aspettava, concentrata in tre soli giorni e del conseguente sforzo anche fisico. Per questo motivo, in questi casi, l'autodisciplina (andare a letto presto, presentarsi in forma alle sedute di registrazione...) è stata molto importante.
Il microfono riesce a sostituire il pubblico, vi mette in una tensione analoga a quella che si prova sul palcoscenico?
Sono molto contento del risultato, anche se sono convinto che le registrazioni dal vivo hanno sempre quel pizzico di fascino in più, sono più genuine proprio per la tensione del pubblico che interagisce con la nostra. Tuttavia non è sempre possibile fare delle registrazioni dal vivo, poiché si richiede una precisione esecutiva, tecnica che è difficile mantenere nell'arco dell'intero programma. Proprio per avvicinarci il più possibile all'esecuzione dal vivo, allo spirito del concerto, abbiamo preferito tenere come base per la registrazione una delle tante esecuzioni 'da cima a fondo', senza interruzioni, apportando delle modifiche laddove esse erano strettamente necessarie. Solo così secondo noi, si può mantenere quella freschezza che avvicina la registrazione in studio a un live, con il pubblico in sala. Se ci si ferma ogni due battute per un eccesso di perfezionismo, quella freschezza viene inevitabilmente a mancare.
Come è stato il rapporto con il tecnico del suono?
Siamo stati molto fortunati da questo punto di vista. Florian Schmidt, un berlinese che lavora anche alla nostra Radio, avendo alle spalle una lunga esperienza ed essendo lui stesso un musicista ci ha aiutati moltissimo, poiché ascoltando criticamente le nostre esecuzioni, ci ha fatto notare alcune cose che noi come musicisti impegnati nell'esecuzione non potevamo sentire. È stato lui stesso a proporci di eseguire più volte il programma integralmente: da questo punto di vista c'erano quindi una perfetta intesa e una fattiva collaborazione, rafforzata dal fatto che il programma da noi scelto era di suo pieno gradimento. Non conosceva i pezzi quando siamo entrati in sala di registrazione. La sua presenza era paragonabile a quella di un pubblico, pur ridotto a una sola unità. Eravamo quindi stimolati a suonare al meglio anche per permettere a Florian una ottimale fruizione dei pezzi. Volevamo catturare il suo interesse per un repertorio molto particolare e per il nostro modo di suonare. Dopo tre giorni di lavoro è nata una bellissima amicizia, rafforzata dalla stima reciproca.
C'è un violoncellista contemporaneo che è molto vicino al tuo modo di suonare e di intendere l'interpretazione musicale?
Per sensibilità e gusto musicali direi Steven Isserlis. Lo ammiro moltissimo e ho avuto la fortuna di studiare con lui in Inghilterra. Ma anche Yo Yo Ma, in un modo diverso per come riesce a esplorare ogni angolo e genere della musica: per esempio, ha anche suonato tanghi di Piazzolla con musicisti sudamericani, musica country americana. Sono sicuramente due grandi modelli per me, anche per la loro strabiliante facilità tecnica e la loro chiarezza di mente.
Il tuo strumento...
L'ho visto in un atelier di liuteria a Basilea poco prima del mio Solistendiplom, su segnalazione del mio professore Demenga che sapeva che io stavo cercando uno strumento solistico che mi desse la possibilità di affrontare al meglio dal punto di vista delle qualità sonore e timbriche la vita del musicista professionista. È stato un amore a prima vista, è stato un acquisto molto sofferto perché estremamente caro per le mie possibilità finanziarie: ho dovuto chiedere aiuti a fondazioni, prestiti... che sto tuttora restituendo a poco a poco. Ne sono entrato in possesso nel 1998: era veramente lo strumento dei miei sogni, costruito in Italia nell'epoca d'oro della liuteria mondiale. Al di là dell'aspetto affettivo, questo strumento può senz'altro essere considerato, quanto a resa sonora, a livello di altri violoncelli ancora più prestigiosi quanto a "paternità". È chiaro che come ogni strumento ha le sue caratteristiche che bisogna scoprire lentamente: deve essere a poco a poco "conosciuto", e forgiato.
In che modo ti sei accostato alla musica del XX secolo?
Lentamente, soprattutto grazie al prof. Demenga, esperto interprete e compositore di musica contemporanea; ma anche alla Musikakademie di Basilea in cui ho avuto la possibilità di suonare e di sentire tantissima musica contemporanea. Inoltre le orchestre in cui suono hanno spesso il coraggio di rinnovare il repertorio inserendo brani di musica del tardo Novecento o in prime esecuzioni assolute, anche se il pubblico fa ancora fatica a capirla e ad accettarla.
Che importanza hanno per te i contenuti emozionali della musica?
Sono fondamentali a mio parere. È la dimensione musicale a cui tengo di più sia quando ascolto musica, sia quando la suono. Ma deve essere associata anche al rigore stilistico per evitare l'enfasi, il sentimentalismo, i manierismi. Inoltre Demenga e Shapiro in modi diversi mi hanno fatto capire l'importanza dell'onestà di un'interpretazione rispetto alla scrittura, allo spartito, ma anche verso se stessi: occorre essere semplici e schietti, chiari e limpidi nel modo di interpretare, evitando di essere troppo asettici in nome di uno stile o di un modo di suonare lo strumento. Non bisogna secondo me pensare di comunicare emozioni: la comunicazione avviene in modo naturale. Se manca questa naturalezza, si suona in modo artefatto e pretenzioso.
Trovo sempre molto bello quando un solista, suonando in pubblico, riesce a mostrare il lato più vulnerabile ed intimo di se stesso attraverso la sua espressività, senza freni di inibizione, lasciando libero sfogo al lato emozionale e drammatico della musica.
L'approfondimento e la conoscenza di altre arti può secondo te influire sul modo di suonare?
Ne sono convinto: non direi nulla di nuovo... Direi anzi che ogni esperienza di vita, non solo la lettura, il cinema, la pittura, i media, ma anche gli incontri con le persone, le amicizie e le relazioni affettive, in particolare. Tutto questo forgia la personalità di ogni uomo, non solo di un musicista.
A quali compositori ti senti più vicino?
È difficile rispondere... Certamente Bach è sopra a tutti, anche perché mi ha regalato le sue Sei Suites, sei perle - sei universi che mi accompagneranno per tutta la vita.
Ho nel mio cuore Schumann per la componente emotiva che è profondissima nella sua musica in cui continui e repentini sono gli sbalzi d'umore. Per lo stesso motivo Alban Berg e Alfred Schnittke. Adoro Gustav Mahler e Anton Bruckner per la sensibilità e ricchezza armoniche e la sensualità nell'uso dell'orchestra. Ravel per il gusto armonico e sicuramente Stravinsky e Bartok per il ritmo viscerale che caratterizza le loro composizioni più importanti. Poi, per fare un netto e un po' provocatorio contrasto, i Beatles, non solo per la loro raffinatezza, ma per la loro instancabile ricerca musicale e per gli arrangiamenti dei loro pezzi, grazie all'apporto del "Quinto Beatle": George Martin. Seguo con passione anche alcuni bravissimi cantautori italiani e Andreas Vollenweider, che ho sempre ammirato per la sua originalità e per la qualità dei suoi dischi, la cui magica musica mi accompagna spesso.
E per quanto riguarda pittori, scrittori, registi...
Dipende dai momenti. Come nelle musica, devo avere a disposizione un largo spettro di generi, a dipendenza di come io mi sento in quel particolare momento. Trovo sempre brillanti i film di Woody Allen che ho più d'una volta: essi mi riportano con un brivido in schiena alla particolare atmosfera newyorkese dei miei studi alla Juilliard. I film di Giuseppe Tornatore mi hanno sempre coinvolto profondamente.
Libri che ricordo con particolare affetto? "La casa degli Spiriti" di Alliende, i grandi romanzi "invernali" di Dostojewsky, come "I fratelli Karamazov" o "L'Idiota". I racconti di Cekov. Elias Canetti. I racconti del Commissario Montalbano ambientati nella Sicilia di Camilleri. Tutti i romanzi di spionaggio di Frederik Forsith, senza dubbio, che ho divorato! In pittura... le donne sensuali di Klimt e quelle pastello di Modigliani.
In «Canone inverso» il violinista afferma che «la tecnica è a volte la contraffazione del talento». Condividi una tale affermazione? Qual è secondo te il rapporto tra talento e genio? Un interprete può secondo te essere definito un genio, come Glenn Gould nel «Soccombente» di Thomas Bernhard? Qual è, a tuo parere, la figura ideale d'artista?
Genio è una parola molto, troppo comune in America. A me non piace tanto perché è difficile definire che cosa o chi sia il genio. Preferisco parlare di talento musicale, che permette di capire e comunicare con più facilità di altri la musica. Esso è la base per poter fare musica a buon livello. Il musicista di talento deve poi lavorare moltissimo per poter utilizzare al meglio questo suo dono. Chiaramente il musicista compositore lavora su un altro piano che reputo superiore. L'interprete, mi diceva Demenga, può esser più facilmente cancellato dal tempo, dalle successive interpretazioni; è colui che riporta in vita la musica dei compositori per un certo periodo e per il pubblico di quel momento. Il compositore dà all'umanità qualcosa di ben più "sostanzioso" e forse solo lui, nel campo della musica, ha diritto eventualmente, secondo me, a un tale epiteto.
Recentemente, in America, hai avuto la possibilità di insegnare in un College. È (potrà essere) importante per te l'esperienza didattica? Il concerto finisce... ma quello che si insegna, gli studenti porteranno dentro quello che si è trasmesso per tutta la vita... Che cosa si può insegnare oltre alla tecnica?
Devo premettere che la mia esperienza di insegnante è ancora troppo ridotta. Mi piacerebbe che in futuro l'insegnamento potesse avere una parte cospicua nella mia attività musicale. Le poche esperienze che ho avuto finora mi hanno dato moltissimo, anche sul piano umano. In America ho insegnato violoncello e musica da camera durante l'estate. I miei allievi, di un'età compresa tra i 12 e i 20 anni, erano tutti molto interessati e desiderosi di imparare. Indiscutibile il loro talento musicale. Per un maestro, rendersi conto che le idee che vengono proposte sono subito realizzate, danno subito frutti è molto gratificante e dà una bellissima sensazione. Spero di aver saputo applicare il metodo di insegnamento dei miei maestri... Nel mio modo di insegnare è racchiusa tutta la mia esperienza di allievo finora avuta. È interessante per me vedere che ciò che ho acquisito in anni di studio, lo posso dare ad altri.
Come interpreti il motto busoniano: «Attingere da se stessi tutto quanto si può, deve rimanere il vero adempimento della vita»?
Riuscire come studente a emanciparsi dal proprio professore, trovare i propri stimoli in se stesso per andare avanti e continuare il proprio approfondimento. Ognuno di noi ha dentro di sé tantissime risorse. Bisogna riuscire a valorizzarle per dare significato alle nostre idee, alle nostre convinzioni, partendo dal background che si è formato in lunghi anni di studio. Se penso inoltre alla mole di pubblicità di nuovi prodotti, di nuovi bisogni creati artificialmente che mi bersaglia quotidianamente attraverso ogni media e le mode che la società tende ad impormi, mi salta al cuore l'importanza che acquista un certo senso critico per non essere completamente in balìa di questa manipolazione. È troppo facile lasciarsi andare ad attingere fuori da noi stessi: la tentazione è latente ad ogni momento...
E l'ipotetica continuazione di Thomas Bernhard «pur non cessando mai la consapevolezza che ogni fare è sempre e soltanto un fare insensato»? Bernhard aveva una visione molto cupa della vita. La lettura di testi per così dire nichilisti come i suoi non aiuta forse a esplorare gli abissi nerissimi della condizione umana che si possono incontrare anche ascoltando molta musica del Novecento, penso a Berg, a Schnittke, a Mahler, per esempio.
Io vivo questo lato drammatico ogni volta che interpreto questo genere di musica molto intensamente fino a sconvolgermi sul piano emotivo. È importantissimo per me vivere queste emozioni. Però queste esperienze artistiche e interpretative si pongono su una base di serenità, la mia serenità interiore a cui io per carattere tendo. Questa serenità non viene per nulla messa in discussione da queste esplorazioni nel negativo, anzi hanno quasi sempre su di me un effetto catartico. È questo il bello dell'arte: essa ti porta emozionalmente per mano in territori del tutto estranei alla tua realtà, ti può accompagnare nei meandri più riposti della tua psiche che magari non percorri quotidianamente.