Vincent il perdente


Vincent D'indy

A centocinquant’anni dalla nascita, Vincent d’Indy (1851 – 1931) non figura quasi più nei programmi dei concerti, neppure in Francia. Qualche cd abbastanza recente ne garantisce tutt’al più la presenza nel campo della musica sinfonica e da camera. Non è dunque tanto per i suoi 105 opus che la sua immagine resta oggi viva nella memoria musicale, ma per altri aspetti della sua personalità, in primo luogo quella Schola Cantorum da lui diretta per una trentina di anni, per l’appassionato coinvolgimento nella vita musicale del tempo e per le contrastanti reazioni che ha suscitato. Personalità tuttora difficile da valutare serenamente, attenendosi al solo piano musicale. Ricordiamo dunque prima di tutto la sua lunga vita di “combattente”.


Una vita intensa e senza compromessi

D’Indy discende da un’antica famiglia nobile di tradizione militare, i cui avi si erano stabiliti nelle Cévennes dal XVI secolo. Poiché la madre era morta di parto, Vincent venne allevato dall’autoritaria nonna paterna, che gli inculcò i più rigorosi principi monarchici e cattolici, vigenti nella famiglia. Il bambino ricevette un’accurata formazione musicale e i suoi primi maestri furono Marmontel, Diémer e Lavignac. Pur mantenendo un culto per Meyerbeer, d’Indy scopre presto Tannhäuser e Lohengrin. Attratto come i suoi antenati dall’esercito, si arruola durante la guerra del 1870 nella Guardia Nazionale, poi rifiuta di continuare a servire la Repubblica. Per compiacere la famiglia, intraprende degli studi di diritto, pur continuando a comporre e a frequentare gli ambienti musicali (Duparc, Saint-Saëns, Franck) e la giovane Società Nazionale di Musica. Dopo la morte della nonna si dedica sempre più alla composizione e completa la propria formazione entrando al Conservatorio nel 1873. Dotato di un patrimonio personale, abbandona infine il diritto e sposa una cugina; viaggia in Germania, dove riceve i consigli di Liszt, assiste nel 1876 all’apertura del teatro di Bayreuth (la rivelazione di Wagner lo segnerà profondamente) e dove tornerà tutti gli anni dal 1879 al 1884. Con il Chant de la cloche, ottiene il gran premio della città di Parigi e comincia a dirigere. È già considerato una delle promesse della giovane musica francese e provoca le dimissioni di Saint-Saëns dalla direzione della Società Nazionale, ufficialmente affidata al suo maestro Franck, ma di cui è ormai lui ad avere il controllo. Comincia a interessarsi alla musica popolare e fa costruire nelle Cévennes il castello dei Faugs, dove comporrà ogni estate. Rifiutando il posto di professore di composizione al Conservatorio, manifesta uno spirito d’indipendenza confermato da nette prese di posizione sulla stampa; dirige in Francia, Belgio, Olanda, Spagna. Nel 1894 viene chiamato da Charles Bordes alla Schola Cantorum, scuola nata al fine di "creare una musica moderna davvero degna della Chiesa" e inaugurata nel 1896. Si trattava allora di una modesta istituzione con una ventina d’allievi, la maggior parte dei quali ecclesiastici. D’Indy, diventandone presto l’unico leader, la trasformò in una Scuola superiore di musica, che venne sempre più a delinearsi come rivale del Conservatorio (320 allievi nel 1908, 600 nel 1921 con 80 professori) ed estese la propria influenza creando in Francia numerose succursali. A partire dal 1905 accese polemiche lo vedono in contrasto con alcuni giovani musicisti (tra cui Émile Vuillermoz), seguaci di Debussy, che criticano la sua estetica e il suo insegnamento. Ciononostante, Fauré lo chiama nel 1912 alla classe d’orchestra del Conservatorio, posto che occuperà fino al 1929. Il dopoguerra lo trova sempre più lontano dalle forze vive della nuova generazione. Al rientro da una tournée negli Stati Uniti, nel 1922, riassume così quello che ha ascoltato: "Schönberg, musica inutile; Prokof’ev, musica da circo", e il suo ultimo articolo attacca ancora i giovani musicisti "apostoli della bruttezza". Qualche mese prima della morte, nel 1931, la Repubblica, poco rancorosa, gli assegna la croce di grande ufficiale della Legione d’onore. La pubblicazione del suo Corso di composizione, iniziata nel 1903 da Auguste Sérieyx, venne terminata da Guy de Lioncourt solo nel 1950 (4 vol.)


Un apostolo fervente e intollerante

La personalità di d’Indy è in perfetta coerenza con una dottrina molto semplice: per lui la fede nell’arte e la fede in Dio sono una cosa sola e inscindibile. "Il principio di ogni arte è d’ordine puramente religioso", è scritto nel suo Corso di composizione musicale. Bisogna dunque ricorrere al Medioevo per riscoprire la tradizione; l’Antichità non esiste; le tendenze del Rinascimento sono "piene di pretese e di vana personalità" e confuse con quelle della Riforma. Già nel 1902, Romain Rolland rilevava con una certa indulgenza le contraddizioni generate da una dottrina artistica tanto semplicistica, che lo induceva tra l’altro, contro ogni evidenza, a fare del suo idolo – César Franck – un uomo a sua immagine e somiglianza, a santificarlo, a requisirlo a proprio profitto.
Per fortuna, d’Indy non ha spinto all’estremo questi principi nella vita reale. Resta familiare con musicisti lontani dalla sua estetica, come Chabrier, Fauré, Chausson e Dukas. Arriva persino a trascorrere un’intera giornata con lo scrittore occultista Péladan, associandosi alle stravaganze dei Rose-Croix. E non è forse stato tentato di fare un passo verso il movimento simbolista chiedendo a Maeterlinck di riservargli la sua Princesse Maleine? Negli ultimi anni sconcerta tutti scrivendo una commedia musicale sul genere dell’operetta. Nei confronti di Debussy, non solo non mostra alcuna ostilità ma dirige più volte il suo Prélude à l’après-midi d’un faune e apre addirittura le porte della Schola Cantorum per accogliere – horresco referens – le Chansons de Bilitis, cantate da Lucienne Bréval in una cappella sconsacrata! Forse ritiene che i Nocturnes manchino di forza e lo stesso pensa probabilmente di Pelléas et Mélisande, pur recensendolo su “L’Occident” con un favore che stupì molti dei suoi amici. E la sua vita è piena di altre contraddizioni sorprendenti: quest’uomo, che i suoi seguaci hanno descritto tanto buono e semplice, si batté in duello alla pistola con Jules Bois a causa di una polemica su Gluck!
Ma il lato più oscuro del personaggio resta il suo antisemitismo militante. Fin dall’inizio dell’affaire Dreyfus, fu membro della Lega della Patria francese, che raggruppava i più risoluti anti-dreyfusardi, e scrisse articoli sferzanti su riviste come “L’Occident” di Mithouard e “Action française”, il giornale reazionario di Maurras. Per lui l’impegno politico era tutt’uno con l’azione musicale e l’insegnamento alla Schola. Anche il suo Corso di composizione è ingombro di considerazioni razziste, in cui il giudaismo è accusato di mancanza di senso morale, alla pari del protestantesimo, indicato come responsabile di tutti gli eccessi dell’individualismo. Johann Sebastian Bach è riconosciuto come un modello "malgrado lo spirito dogmatico e inaridente della Riforma". Nei suoi scritti e nelle lettere si trovano spesso allusioni alla "nauseabonda influenza giudaico-dreyfusarda", le cui parole d’ordine sono Orgoglio, Godimento e Denaro, o al "giogo italo-giudaico-eclettico". Una delle rare illustrazioni contenute nel suo Corso riproduce un rotolo funerario del XII secolo in cui si vede Satana vomitare due ebrei! Ma il colmo è forse stato l’aver concepito un dramma sacro antisemita, cui lavorò per circa dieci anni (La légende de Saint Christophe, teoricamente tratto da Jacopo da Voragine), che fu rappresentato una sola volta e mai più ripreso; in esso d’Indy fustiga in musica tutto ciò che detesta: la Terza Repubblica, gli ebrei e i massoni, gli atei, i sedicenti dotti, i socialisti, ecc., utilizzando derisoriamente la scala tonale per schernire i seguaci di Debussy e Ravel. La guerra del 1914, che suscita il suo entusiasmo patriottico, è sentita dal “maestro” come occasione per "sbarazzarsi della cricca politica e fifona" e come una sorta di purificazione: finalmente si respira, la pace è negli animi – reazione che indigna il suo allievo e collaboratore Albert Roussel. Per completare il quadro, d’Indy diventerà dopo la guerra anti-sindacalista. La crisi economica che aveva sensibilmente ridotto la sua fortuna e le condizioni della vita musicale sempre più dure, lo portarono allora ad accettare più volentieri conferenze, concerti e articoli retribuiti.


Ossessionato dalla forma

Bisognerebbe poter giudicare la musica di d’Indy astraendosi completamente dal suo insegnamento e dalla sua ideologia, cosa che lui stesso ha reso più difficile imponendo molte delle proprie analisi nel suo Corso di composizione. Nel campo del teatro lirico, d’Indy segue l’esempio wagneriano e scrive i propri libretti: Fervaal (1897), detto talvolta “il Parsifal francese”, traspone un poema svedese in dramma delle Cévennes, in cui s’incrociano diversi temi conduttori, con una ricerca comunque del pittoresco e del colorito. L’influenza wagneriana è un po’ meno forte in L’Étranger (1903), altro adattamento di un soggetto scandinavo; l’opera è più breve e l’orchestra più leggera. Debussy, che la recensì con cautela, scrisse: “Si sarebbe dovuto liberare da quel bisogno di spiegare tutto, di sottolineare tutto, che appesantisce talvolta le scene più belle”. La sua musica da camera meriterebbe maggiore attenzione da parte dei musicisti. Se la sua unica Sonata per piano (1907) è piuttosto compatta e severa, il suo Quartetto con piano (1878) è un’opera giovanile strutturata meno rigidamente. I tre Quartetti d’archi (1890, 1897, 1928) – il primo dei quali giudicato "stupendo" da Chabrier – rivelano una perfetta maestria della scrittura contrappuntistica incessantemente ripetuta e degli svolgimenti animati da un’intensa vita ritmica.Ma la più interessante è l’opera sinfonica, non solo per la lungamente popolare Symphonie sur un chant montagnard, nota anche come Symphonie cévenole (1886), costruita su un tema molto allegro del Vivarais, variato in mille modi, con cambiamenti di tempo sorprendenti e un’orchestra cristallina da cui il piano si stacca in maniera originale senza essere propriamente concertante. Va ricordato anche Jour d’été à la montagne (1905), trittico sinfonico lisztiano, quasi romantico nella sua raffigurazione della natura, in cui il canto piano si mescola ai canti popolari con un’orchestra brillante o limpida. Le influenze subite da d’Indy sono molto forti e dichiarate: Wagner, Beethoven, Franck. È chiaro che il musicista vedeva nella forma ciclica la chiave di ogni composizione e basava la propria scrittura sulla trasformazione tematica e la variazione. La posterità ha preso le distanze da questo "lavoro da mandarino", questa "musica inguainata", per riprendere le espressioni di Debussy. Estrapolate dal loro contesto temporale, alcune di queste opere possono oggi attirare con più serenità chi apprezza principalmente la maestria della scrittura.


Discepoli fedeli e infedeli

La qualità dell’insegnamento di d’Indy va chiaramente valutata in base ai risultati degli allievi. La domanda è se il maestro abbia favorito il fiorire di personalità di rilievo o abbia semplicemente generato dei continuatori, degli epigoni. Alcuni esempi possono aiutarci a trovare una risposta.
I più vicini al maestro furono Albéric Magnard e Déodat de Séverac, che hanno conosciuto in questi ultimi tempi un ritorno di notorietà, in particolare grazie a edizioni discografiche: il primo ha conservato maggiormente i caratteri formali e un po’ austeri della scuola, mentre il secondo, apprezzato da Debussy, ha saputo assimilare l’uso del folklore elaborando un linguaggio più personale. Albert Roussel, che doveva diventare professore alla Schola, ci mise un po’ di tempo a distaccarsene, ma nel dopoguerra aderì al neoclassicismo, a un’"arte breve" e incisiva, con influenze orientali. L’allievo più anomalo – la “pecora nera” – resta Erik Satie, che, stanco di apparire un dilettante, s’iscrisse alla Schola, dove si diplomò nel 1908, mantenendo comunque la propria personalità. Con Louis Laloy, la Schola ospitò un critico destinato a diventare uno dei più feroci avversari del d’Indysmo. Rimarcando che non vi s’insegnava l’armonia, questi formulò sulla scuola un giudizio definitivo: "Tutti i musicisti usciti dalla Schola, anche quelli che si sono fatti un nome, soffrono di una goffaggine caratteristica nella concatenazione degli accordi e nella modulazione". Quanto a Edgar Varèse, anche lui stranamente allievo della Schola, ecco qual era la sua opinione sul maestro: "Il suo orgoglio non poteva permettere che si manifestasse il minimo segno di originalità né un pensiero personale"!
Restano i numerosi stranieri che, fin da prima della guerra del 1914, bussarono alla porta della Schola, testimonianza del prestigio acquisito da d’Indy fuori dalla Francia. Tra i rumeni, alcuni, come Stan Golestan e D.G. Kiriac, sono entrati nella tradizione in patria, mentre Marcel Mihailovici, dichiaratosi "d’Indysta dissidente", si guadagnò tra le due guerre una posizione molto personale in seno alla “scuola di Parigi”. Coloro che più fecero onore al maestro furono probabilmente gli spagnoli, in quanto Isaac Albéniz, Joaquin Nin e Joaquin Turina – i "barbaros", come li definì un giorno scherzosamente d’Indy – furono tra gli allievi di rue St-Jacques.
Il bilancio è dunque molto contrastato e andrebbe paragonato a quello del Conservatorio ufficiale, ma quel che pare evidente è che i più predisposti all’asservimento restavano schiacciati, mentre i più forti riuscivano a far propri solo gli elementi positivi.


Il propagatore della musica antica

L’apporto più innovatore di d’Indy nell’evoluzione del gusto musicale dell’epoca concerne la sua azione in favore della musica antica. Non dimentichiamo che per lui la storia era il fondamento dell’insegnamento musicale. Nel concerto quanto nell’edizione, la Schola ha aperto la via al movimento oggi trionfante del neobarocco, benché l’”autenticità” non fosse il suo vero obiettivo. Charles Bordes aveva fin dagli inizi della Schola ripreso il lavoro dei Benedettini di Solesmes e favorito un “gruppo gregoriano” che moltiplicò le audizioni. Anche la musica del Rinascimento fu rimessa in repertorio grazie ai Cantori di Saint-Gervais (1893-1902). Per quanto riguarda il XVII e XVIII secolo, Marc-Antoine Charpentier fu letteralmente riscoperto (Le reniement de Saint Pierre), così come numerose opere di Johann Sebastian Bach (la Messa in si minore, le Passioni secondo Giovanni e secondo Matteo e le Cantate) che fino ad allora erano state praticamente dimenticate. Jean Philippe Rameau fu un’altra delle riscoperte di d’Indy con La guirlande, che entusiasmò Debussy, Castore e Polluce, Zoroastre, e la sua partecipazione all’edizione delle Opere complete del musicista. Infine, nel 1904 vi fu la prima mondiale (in forma di oratorio) dell’Orfeo di Monteverdi, seguito l’anno dopo da L’incoronazione di Poppea, due opere di cui curò anche l’edizione, con indicazioni pratiche per l’esecuzione. Ovviamente le due opere erano date in edizione francese con dei tagli (in particolare gli atti I e V dell’Orfeo), ma per d’Indy si trattava di un gesto artistico e non filologico. Diffidava del resto dei musicologi, tanto che nel 1903, durante la stesura di un libro su Beethoven, non esitò a scrivere a uno di essi (Julien Tiersot): "Voglio sentirmi libero di metterli a tacere ogni volta che mi sarà possibile".
Nel 1913 si lasciò impelagare in una polemica sul compositore tedesco F.W. Rust (XVIII secolo), ostinandosi contro ogni evidenza e in base alle mistificazioni del nipote, a vantarne il carattere preromantico. Quanto alla “scuola di Mannheim”, la considerava un’invenzione dei musicologi. Quando si trovò a fare lui stesso opera di musicografo, non esitò a modellare la verità a suo modo, trasformando per esempio César Franck in pater seraphicus, o, all’età di 80 anni, abborracciando una piccola opera su Richard Wagner e la sua influenza sull’arte musicale (pretesto per tornare ancora una volta sull’influenza giudaica e denunciare l’impotenza dei giovani musicisti del 1930). Non per questo gli va comunque tolto il ruolo pioniere nel ritorno ai migliori valori della musica del passato, riconosciuto tanto da Romain Rolland che da Debussy.


Riabilitare quest’uomo?

È dunque possibile, in occasione di questo anniversario, riabilitare d’Indy? Per un uomo politicamente scorretto e musicalmente troppo corretto, la nostra epoca non è particolarmente adatta, a meno che la corrente post-moderna non lo recuperi un giorno come un valore ingiustamente misconosciuto. Non possiamo tuttavia non riconoscergli di aver segnato il suo tempo e, benché i suoi cattivi allievi siano sopravvissuti meglio dei buoni, di aver nutrito due generazioni con un ideale di rigore che ha lasciato delle tracce, non tutte negative.

François Lesure
traduzione dal francese di Annamaria Ferrero