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La scommessa di Raimundo Panikkar sulla mistica
Ritratto di un filosofo
all'incrocio
tra cristianesimo, buddhismo
e hinduismo.
Per la Jaca Book esce una summa
del suo pensiero intitolata L'esperienza
della vita,
in cui la posta
in palio
è la capacità
di generare un'esperienza integrale delle cose, fedele alla loro intrinseca caducità
PAULO BARONE
Ènoto come uno dei temi cruciali di riflessione, non
solo filosofica, di questi ultimi anni sia divenuto quello secco e senza
mezzi termini della vita. È la vita, per esempio, ad occupare il centro delle
preoccupazioni dell'ultimo Foucault - nelle nozioni così fortunate di «biopolitica»
e di «tecnologie del sé» - a risuonare nell'espressione «nuda vita» di Agamben,
nel termine di «immunizzazione» di Esposito o in quelli di «auto-immunità»
e «sopravvivenza» di Derrida. L'elenco potrebbe continuare. In uno degli
ultimi scritti di Deleuze, poi, questo stesso tema sembra condensare fulmineamente
i tratti più salienti del suo percorso speculativo. Una vita - scriverà
Deleuze - incarna «una pura coscienza a-soggettiva», una coscienza pre-riflessiva,
impersonale, senza oggetto né io. Una vita sicuramente indeterminata e nondimeno
inconfondibile, singolare, come quella di un moribondo o quella di un neonato.
Vite dotate di un certo grado di beatitudine al di là delle differenze individuali
sovra o sottostanti.
Al di là della geografia e della fede
Una simile cornice fornisce
la giusta ambientazione anche all'opera di Raimundo Panikkar. Infatti, è
precisamente il concetto di vita - di vita-mistica, in particolare - a prendere
il sopravvento e a balzare in primo piano nella sua opera, incontrando significativi
punti di contatto con il concetto di una vita
di Deleuze. Sarà, come sostiene Nancy in un altro contesto, che questa emergenza
del tema della vita esprime un avvicinamento a quel che resta quando «tutti
i sistemi di significato (metafisiche, umanesimi, visioni del mondo) sono
smontati» e deperiti? Quando ci ritroviamo stretti in un angolo con le spalle
al muro e scarnificati? Se così fosse il contributo di Panikkar confermerebbe
che si tratta di una condizione comune, che va al di là dei confini geografici:
Panikkar stesso ne incrocia molti, per formazione culturale, scelte esistenziali
ed eredità familiari. Figlio di madre spagnola e padre indiano, ha insegnato
e vissuto a lungo in Europa, Stati Uniti e India; ha fondato numerose riviste
e centri di studi interculturali; è da sempre promotore del dialogo interreligioso,
di cui testimonia in prima persona. I fili del suo discorso intrecciano infatti
fra loro cristianesimo, buddhismo e hinduismo, filosofia e teologia, cultura
umanistica e sapere scientifico. Si tratta insomma di un'autentica personalità
di bordo: sfuggente e marginale, se a prevalere sono, a torto o a ragione,
gli orientamenti centripeti e le forme consolidate (e solo un centro, come
sappiamo, può plausibilmente assicurare certe luci della ribalta). Cruciale
e decisiva, invece, quando ad imporsi sono gli smottamenti, le confluenze
indesiderate, i fenomeni di transizione ( e allora solo il «decentrato» può
custodire certe indispensabili versioni contro-luce delle cose).
Varianti e deformazioni della mistica
L'ironia della sorte
vuole che proprio l'Italia sia il luogo dove Panikkar e la sua opera stanno
ricevendo da qualche anno una attenzione crescente e probabilmente in anticipo
su quella altrui. Ultimo tassello, e piega decisiva, di questo complesso
mosaico è rappresentato, appunto, da una recente pubblicazione di Panikkar
uscita presso la Jaca Book, L'esperienza della vita,
dove si raccolgono riflessioni e considerazioni su un tema quantomai spinoso,
forse intrattabile e ciononostante presentatoci come assolutamente inaggirabile:
la mistica, una vita mistica.
Mistico è un termine che possiede una
lunghissima tradizione, molteplici punti di intersezione con vari ambiti
disciplinari, parentele più o meno sistematiche con tutte le religioni (che
sovente pretendono di averne l'esclusiva dottrinaria), significative utilizzazioni
da parte di alcuni autori moderni (anche in campo psicoanalitico: da Jung
a Bion, da Fachinelli a Eigen). Esso rimanda a un nucleo piuttosto rovente
della realtà, che eccede ogni contesto circoscritto, pur essendo implicato
in ciascuno di questi, non addomesticabile da dogmi, definizioni, teoremi,
rappresentazioni, regimi discorsivi ordinari. Privo insomma di criteri estrinseci
di verità con cui osservarlo e giudicarlo da fuori, come un oggetto qualsiasi.
In questo senso «ultimo», ineffabile, indicibile. Un simile livello è stato
così correlato alla divinità, all'amore, all' essere, al nulla, alla vacuità,
al bene, alla bellezza. Accedervi o no, tenerne conto o meno, sembra fare
una grande differenza. Ma che vuol dire, appunto, tenerne conto?
Secondo uno schema largamente diffuso l'esperienza mistica si presenta come
un fenomeno particolare, straordinario - patologico, paranormale o sovrannaturale
- in virtù del quale si «oltrepassa» il piano mondano, terra terra delle
cose per raggiungere certe vette insondabili e rarefatte, in ogni caso superiori
e perfette della realtà. Senza negare affatto l'esistenza di questo profilo,
né i rischi continui di precipitarvi dentro, Panikkar contesta risolutamente
la deformazione sentimentale e irrazionalistica del misticismo - gli stati
psicologici esaltati, gli effetti speciali, le apparizioni, le «cadute da
cavallo», i rapimenti, le illuminazioni improvvise e devastanti. Ma, nondimeno,
anche quelle sue varianti di stampo meramente intellettualistico, fredde
e anodine, letteralmente insensibili, in apparenza così distanti dal rosso
fuoco delle forme precedenti. Entrambi gli stili relegano, infatti, l'esperienza
mistica a essere patrimonio di pochi eletti, dominio di isolate facoltà mentali
e privilegio di momenti eccezionali. E presuppongono, parallelamente e più
o meno consapevolmente, una visione piramidale e ascendente della realtà,
di cui il «divino» costituirebbe il grado sommo e supremo, trascendente e
ultra-mondano: il solo, comunque, di autentica qualità. In un simile assetto
traspare con chiarezza la mano di un dispositivo di cui tutti portiamo i
segni: quello che disciplina il senso delle cose attraverso divaricazioni,
divisioni, dualismi - tra parole e cose, essenza e esistenza, eternità e
transitorietà, intellegibile e sensibile, sacro e profano e così via - che
invece di accrescerlo lo sviliscono. Di contro Panikkar scommette su di una
ben diversa funzione dell'elemento mistico. Tra le sue mani, mistica diviene
quell'immagine la cui posta in palio sia innanzitutto la capacità di generare
un'esperienza indivisa, piena, finalmente integrale
delle cose; ovvero un atteggiamento in grado di rimanenere fedele alla loro
intrinseca caducità, di soffermarsi su ciascun modo materiale di essere,
a cominciare da quelli insignificanti e dispersi, anonimi e fuori-casta,
generici e concreti. Il misticismo di Panikkar perciò implica innanzitutto
una drastica contrazione delle distanze metafisiche disumanizzanti e una
emancipazione dai condizionamenti trascendenti. Gioca in questa manovra un
certo squilibrio tra Oriente e Occidente (che non sono due blocchi ma una
combinazione presente in modo sfumato sia a Est che a Ovest).
La mente occidentale, sensibile alle differenze, valorizza ciò che, in ogni cosa, si distingue
da tutte le altre; e in questi elementi specifici e isolati pensa di identificare
le loro essenze. Così facendo essa produce automaticamente «trascendenza».
Per la mente orientale, al contrario, le cose sono quello che sono quanto
più evidenziano ciò che in esse è comune, condiviso, ovunque. L'orientale
valorizza il generico e produce immanenza. Occorre così innanzitutto
rinsaldare la linea sempre saccheggiata della nostra esistenza materiale:
il nucleo mistico non sta altrove, ma nel linguaggio, nella memoria, nell'interpretazione,
nella cultura, nella prassi, nello sguardo e nella voce di ognuno. A questo
ri-orientamento verso il basso non possiamo più sottrarci. C'è una «novità»,
infatti, maturata appieno in seno alla modernità (ma proveniente da tradizioni
primordiali) da cui non si può più prescindere e che scompagina abitudini
filosofiche e religiose consolidate. Essa impone - ripete di continuo Panikkar
- di considerare tutta la fragile momentaneità temporale delle cose, il saeculum,
come un elemento definitivo, innegoziabile e inaccantonabile. Qualunque «ragionamento»,
per essere oggi credibile, deve tenerlo in conto. La scena è cambiata. Non
possiamo più cavarcela pensando di trattare questa nostra vita fugace come,
ad esempio, la zattera dell'immagine buddhista, di cui ci si disfa una volta
raggiunta l'altra sponda. Il corpo temporale delle cose non è più disponibile
ad essere sacrificato in funzione di un fine.
Come rimane però questo
«corpo» dopo un simile cambio? Rimettere le cose a loro stesse, infatti,
non significa abbandonarle a quello che sono sempre state, e sancirne adesso
l'asservimento a fini mondani, storici, politici, economici o logici che
siano. Una volta prese solo
per come sono, esse non stanno più nella loro pelle. Una volta inghiottito,
il nucleo mistico provoca una sollecitazione e una «perforazione» dei loro
contorni usuali, delle maniere abituali di spiegarle, dirle e concepirle;
e dunque produce un'emancipazione anche dai nostri condizionamenti immanenti.
Né trascendente né semplicemente immanente, mistico diviene allora il punto
di contatto, la linea di combaciamento demistificante tra queste due
dimensioni. Sacra è la stessa secolarità. Non un terzo spazio, ma la semplice
soglia di coincidenza, di integrazione - di completamento sino all'esaurimento
ma non di annullamento - delle dicotomie ordinarie: divino e umano, stesso
e altro, sensibile e intellegibile, parole e cose, verticale e orizzontale,
eternità e tempo. Non la fusione indistinta in un monismo mero doppio del
dualismo, ma a-dualità, advaita, relatività. Non relativismo - cioè: relatività del «vero», di una presunta verità assoluta - ma verità del relativo.
Originarietà, immediatezza, primogenitura, inspiegabilità della relazione,
dell'inter-in-dipendenza fra tutte le cose e tutte le dimensioni. Di questa
soglia mistica non si può avere ragione ed essa stessa non ne garantisce
alcuna. Nessun disegno prestabilito, nessuna legge assoluta, nessun denominatore
comune del «tra», quanto piuttosto esautoramento continuo di quelli esistenti.
Tutto qui sperimenta una radicale interlocutorietà, la propria radicale contingenza. (Come non pensare, in questo clima, alla necessità di un confronto con Benjamin, Taubes, Wittgenstein sugli stessi temi?)
Divenendo «mistica», la linea delle cose non subisce alcun asservimento o
subordinazione, ma nemmeno nessuna conformazione definitiva, assodata una
volta per sempre. Essa piuttosto vibra, sussulta, dilaga dentro se stessa
grazie a dei contraccolpi che ne scardinano gli ordini e gli arroccamenti
precostituiti, verticali o orizzontali che siano. Costellazioni concettuali
e configurazioni religiose comprese. Anch'esse vanno a sperimentare un simile
singhiozzo, un simile balbettio. Essere in grado di «tenere» questo sconfinamento
in se stessi offre sicuri vantaggi: ci trattiene dalla nostalgia di tornare
al «paradiso perduto», apre indirettamente alle esperienze altrui e pone
le condizioni per una autentica tolleranza.
Riaccreditare il presente
Il Cristianesimo, il Buddhismo e
l'Hinduismo che circolano nel discorso di Panikkar ne sono un esempio. Se
i loro linguaggi si intrecciano è grazie alla compressione perforante cui
sono sottoposti, è in virtù della contingenza radicale cui sono elevati.
Essi non spartiscono la stessa esperienza, non ne hanno ciascuno una totalmente differente,
nemmeno sono analoghi rispetto a un quid equidistante: piuttosto vanno a
stringersi in un balbettamento corale. Scarnificati e decentrati per eccesso,
Cristianesimo, Buddhismo e Hinduismo formano un reticolo sottile con pochi
fili tematici di ognuno a disposizione. Panikkar comunque privilegia, ancora
una volta, quelli che, in ciascuna tradizione, mostrano di sapersi annodare
alla linea fugace delle cose, di saper aderire alla novità del linguaggio
secolare.
Le cose sono le cose: così Gesù lasciò che le pietre fossere
pietre e si rifiutò di trasformarle in pane, mentre nella decima vignetta
classica dello zen, il contadino torna al mercato, alla vita ordinaria. Nello
stesso senso è il presente il tempo da riaccreditare, da resuscitare. Passato
e futuro vi convergono in un'unica gigantesca esitazione, in un'inconcludenza cosmoteandrica.
Mentre i morti ancora influiscono su di noi e coloro che verranno già ci
influenzano, ogni nostra ora, così stretta e addensata, non si vede garantita
una seconda sopravvivenza dopo la morte o una ennesima reincarnazione - in
un'altra storia, in un domani, in un'altra vita - ma viene `sollevata', compressa
e curvata a un'eternità anch'essa non-perenne, intrinsecamente non-durevole.
Ogni istante tempiterno. Squisita pienezza di una vita fatta di momenti
unici e incomparabili. Pura coscienza immediata, involontaria, che sfila
senza io né oggetto, sazia già al minimo grado di espressione di sé, riflesso
di una vita priva di paura, lieta, che non fa tragedie (anche se esposta
al dolore). Prospettiva senz'altro ostica, ma non soltanto a causa della
miscela di affetti, abitudini e preconcetti negativi che ci portiamo appresso
e che ci dividono da lei. Ostica soprattutto perché i tratti liberatori che
la definiscono paiono letteralmente sovrapporsi a quelli esproprianti e assoggettanti
che caratterizzano la condizione, non meno ostica, del nostro tempo, in cui
la vita si perde. Prospettiva dunque doppiamente urgente per una questione
all'ordine del giorno, aperta, ma improcrastinabile, che avvolge uno scenario
privo ormai di nascondigli.
Tra una goccia e l'acqua
Una vita è ovunque (Deleuze) e nelle pieghe minuscole di ogni suo
stato - al risveglio da un sogno, da un incidente, dopo un qualsiasi smarrimento,
dice Panikkar - ciascuno sperimenta semplicemente il «sentirsi vivo»: ciascuno è,
spogliato di tutto, talenti e salute compresi, solo «vita». Chi si è scoperto
acqua e non goccia (anche se acqua racchiusa in una goccia) non teme di perdere
la sua individualità quando cade nel mare. «Tuttavia - scriveva Doghen -
pure stando così le cose, i fiori cadono proprio mentre per affetto li vorremmo
trattenere, le erbe crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo».
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