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il manifesto - 19 Giugno 2005 CULTURA pagina 12
indice cultura

pag.12

La scommessa di Raimundo Panikkar sulla mistica
PAULO BARONE
 
Una vita di ricerca fra tre continenti
 

pag.13

Quel che non disse Foucault
STEFANO CATUCCI
 
DIVINO
Le crociate e la verità in viaggio
FILIPPO GENTILONI
 
Lezioni mancate di storia sul genocidio in Libia
MAURIZIO MATTEUZZI
 
 

apertura

La scommessa di Raimundo Panikkar sulla mistica
Ritratto di un filosofo all'incrocio tra cristianesimo, buddhismo e hinduismo. Per la Jaca Book esce una summa del suo pensiero intitolata L'esperienza della vita, in cui la posta in palio è la capacità di generare un'esperienza integrale delle cose, fedele alla loro intrinseca caducità
PAULO BARONE
Ènoto come uno dei temi cruciali di riflessione, non solo filosofica, di questi ultimi anni sia divenuto quello secco e senza mezzi termini della vita. È la vita, per esempio, ad occupare il centro delle preoccupazioni dell'ultimo Foucault - nelle nozioni così fortunate di «biopolitica» e di «tecnologie del sé» - a risuonare nell'espressione «nuda vita» di Agamben, nel termine di «immunizzazione» di Esposito o in quelli di «auto-immunità» e «sopravvivenza» di Derrida. L'elenco potrebbe continuare. In uno degli ultimi scritti di Deleuze, poi, questo stesso tema sembra condensare fulmineamente i tratti più salienti del suo percorso speculativo. Una vita - scriverà Deleuze - incarna «una pura coscienza a-soggettiva», una coscienza pre-riflessiva, impersonale, senza oggetto né io. Una vita sicuramente indeterminata e nondimeno inconfondibile, singolare, come quella di un moribondo o quella di un neonato. Vite dotate di un certo grado di beatitudine al di là delle differenze individuali sovra o sottostanti.

Al di là della geografia e della fede

Una simile cornice fornisce la giusta ambientazione anche all'opera di Raimundo Panikkar. Infatti, è precisamente il concetto di vita - di vita-mistica, in particolare - a prendere il sopravvento e a balzare in primo piano nella sua opera, incontrando significativi punti di contatto con il concetto di una vita di Deleuze. Sarà, come sostiene Nancy in un altro contesto, che questa emergenza del tema della vita esprime un avvicinamento a quel che resta quando «tutti i sistemi di significato (metafisiche, umanesimi, visioni del mondo) sono smontati» e deperiti? Quando ci ritroviamo stretti in un angolo con le spalle al muro e scarnificati? Se così fosse il contributo di Panikkar confermerebbe che si tratta di una condizione comune, che va al di là dei confini geografici: Panikkar stesso ne incrocia molti, per formazione culturale, scelte esistenziali ed eredità familiari. Figlio di madre spagnola e padre indiano, ha insegnato e vissuto a lungo in Europa, Stati Uniti e India; ha fondato numerose riviste e centri di studi interculturali; è da sempre promotore del dialogo interreligioso, di cui testimonia in prima persona. I fili del suo discorso intrecciano infatti fra loro cristianesimo, buddhismo e hinduismo, filosofia e teologia, cultura umanistica e sapere scientifico. Si tratta insomma di un'autentica personalità di bordo: sfuggente e marginale, se a prevalere sono, a torto o a ragione, gli orientamenti centripeti e le forme consolidate (e solo un centro, come sappiamo, può plausibilmente assicurare certe luci della ribalta). Cruciale e decisiva, invece, quando ad imporsi sono gli smottamenti, le confluenze indesiderate, i fenomeni di transizione ( e allora solo il «decentrato» può custodire certe indispensabili versioni contro-luce delle cose).

Varianti e deformazioni della mistica

L'ironia della sorte vuole che proprio l'Italia sia il luogo dove Panikkar e la sua opera stanno ricevendo da qualche anno una attenzione crescente e probabilmente in anticipo su quella altrui. Ultimo tassello, e piega decisiva, di questo complesso mosaico è rappresentato, appunto, da una recente pubblicazione di Panikkar uscita presso la Jaca Book, L'esperienza della vita, dove si raccolgono riflessioni e considerazioni su un tema quantomai spinoso, forse intrattabile e ciononostante presentatoci come assolutamente inaggirabile: la mistica, una vita mistica.

Mistico è un termine che possiede una lunghissima tradizione, molteplici punti di intersezione con vari ambiti disciplinari, parentele più o meno sistematiche con tutte le religioni (che sovente pretendono di averne l'esclusiva dottrinaria), significative utilizzazioni da parte di alcuni autori moderni (anche in campo psicoanalitico: da Jung a Bion, da Fachinelli a Eigen). Esso rimanda a un nucleo piuttosto rovente della realtà, che eccede ogni contesto circoscritto, pur essendo implicato in ciascuno di questi, non addomesticabile da dogmi, definizioni, teoremi, rappresentazioni, regimi discorsivi ordinari. Privo insomma di criteri estrinseci di verità con cui osservarlo e giudicarlo da fuori, come un oggetto qualsiasi. In questo senso «ultimo», ineffabile, indicibile. Un simile livello è stato così correlato alla divinità, all'amore, all' essere, al nulla, alla vacuità, al bene, alla bellezza. Accedervi o no, tenerne conto o meno, sembra fare una grande differenza. Ma che vuol dire, appunto, tenerne conto?

Secondo uno schema largamente diffuso l'esperienza mistica si presenta come un fenomeno particolare, straordinario - patologico, paranormale o sovrannaturale - in virtù del quale si «oltrepassa» il piano mondano, terra terra delle cose per raggiungere certe vette insondabili e rarefatte, in ogni caso superiori e perfette della realtà. Senza negare affatto l'esistenza di questo profilo, né i rischi continui di precipitarvi dentro, Panikkar contesta risolutamente la deformazione sentimentale e irrazionalistica del misticismo - gli stati psicologici esaltati, gli effetti speciali, le apparizioni, le «cadute da cavallo», i rapimenti, le illuminazioni improvvise e devastanti. Ma, nondimeno, anche quelle sue varianti di stampo meramente intellettualistico, fredde e anodine, letteralmente insensibili, in apparenza così distanti dal rosso fuoco delle forme precedenti. Entrambi gli stili relegano, infatti, l'esperienza mistica a essere patrimonio di pochi eletti, dominio di isolate facoltà mentali e privilegio di momenti eccezionali. E presuppongono, parallelamente e più o meno consapevolmente, una visione piramidale e ascendente della realtà, di cui il «divino» costituirebbe il grado sommo e supremo, trascendente e ultra-mondano: il solo, comunque, di autentica qualità. In un simile assetto traspare con chiarezza la mano di un dispositivo di cui tutti portiamo i segni: quello che disciplina il senso delle cose attraverso divaricazioni, divisioni, dualismi - tra parole e cose, essenza e esistenza, eternità e transitorietà, intellegibile e sensibile, sacro e profano e così via - che invece di accrescerlo lo sviliscono. Di contro Panikkar scommette su di una ben diversa funzione dell'elemento mistico. Tra le sue mani, mistica diviene quell'immagine la cui posta in palio sia innanzitutto la capacità di generare un'esperienza indivisa, piena, finalmente integrale delle cose; ovvero un atteggiamento in grado di rimanenere fedele alla loro intrinseca caducità, di soffermarsi su ciascun modo materiale di essere, a cominciare da quelli insignificanti e dispersi, anonimi e fuori-casta, generici e concreti. Il misticismo di Panikkar perciò implica innanzitutto una drastica contrazione delle distanze metafisiche disumanizzanti e una emancipazione dai condizionamenti trascendenti. Gioca in questa manovra un certo squilibrio tra Oriente e Occidente (che non sono due blocchi ma una combinazione presente in modo sfumato sia a Est che a Ovest).

La mente occidentale, sensibile alle differenze, valorizza ciò che, in ogni cosa, si distingue da tutte le altre; e in questi elementi specifici e isolati pensa di identificare le loro essenze. Così facendo essa produce automaticamente «trascendenza». Per la mente orientale, al contrario, le cose sono quello che sono quanto più evidenziano ciò che in esse è comune, condiviso, ovunque. L'orientale valorizza il generico e produce immanenza. Occorre così innanzitutto rinsaldare la linea sempre saccheggiata della nostra esistenza materiale: il nucleo mistico non sta altrove, ma nel linguaggio, nella memoria, nell'interpretazione, nella cultura, nella prassi, nello sguardo e nella voce di ognuno. A questo ri-orientamento verso il basso non possiamo più sottrarci. C'è una «novità», infatti, maturata appieno in seno alla modernità (ma proveniente da tradizioni primordiali) da cui non si può più prescindere e che scompagina abitudini filosofiche e religiose consolidate. Essa impone - ripete di continuo Panikkar - di considerare tutta la fragile momentaneità temporale delle cose, il saeculum, come un elemento definitivo, innegoziabile e inaccantonabile. Qualunque «ragionamento», per essere oggi credibile, deve tenerlo in conto. La scena è cambiata. Non possiamo più cavarcela pensando di trattare questa nostra vita fugace come, ad esempio, la zattera dell'immagine buddhista, di cui ci si disfa una volta raggiunta l'altra sponda. Il corpo temporale delle cose non è più disponibile ad essere sacrificato in funzione di un fine.

Come rimane però questo «corpo» dopo un simile cambio? Rimettere le cose a loro stesse, infatti, non significa abbandonarle a quello che sono sempre state, e sancirne adesso l'asservimento a fini mondani, storici, politici, economici o logici che siano. Una volta prese solo per come sono, esse non stanno più nella loro pelle. Una volta inghiottito, il nucleo mistico provoca una sollecitazione e una «perforazione» dei loro contorni usuali, delle maniere abituali di spiegarle, dirle e concepirle; e dunque produce un'emancipazione anche dai nostri condizionamenti immanenti. Né trascendente né semplicemente immanente, mistico diviene allora il punto di contatto, la linea di combaciamento demistificante tra queste due dimensioni. Sacra è la stessa secolarità. Non un terzo spazio, ma la semplice soglia di coincidenza, di integrazione - di completamento sino all'esaurimento ma non di annullamento - delle dicotomie ordinarie: divino e umano, stesso e altro, sensibile e intellegibile, parole e cose, verticale e orizzontale, eternità e tempo. Non la fusione indistinta in un monismo mero doppio del dualismo, ma a-dualità, advaita, relatività. Non relativismo - cioè: relatività del «vero», di una presunta verità assoluta - ma verità del relativo.

Originarietà, immediatezza, primogenitura, inspiegabilità della relazione, dell'inter-in-dipendenza fra tutte le cose e tutte le dimensioni. Di questa soglia mistica non si può avere ragione ed essa stessa non ne garantisce alcuna. Nessun disegno prestabilito, nessuna legge assoluta, nessun denominatore comune del «tra», quanto piuttosto esautoramento continuo di quelli esistenti. Tutto qui sperimenta una radicale interlocutorietà, la propria radicale contingenza. (Come non pensare, in questo clima, alla necessità di un confronto con Benjamin, Taubes, Wittgenstein sugli stessi temi?)

Divenendo «mistica», la linea delle cose non subisce alcun asservimento o subordinazione, ma nemmeno nessuna conformazione definitiva, assodata una volta per sempre. Essa piuttosto vibra, sussulta, dilaga dentro se stessa grazie a dei contraccolpi che ne scardinano gli ordini e gli arroccamenti precostituiti, verticali o orizzontali che siano. Costellazioni concettuali e configurazioni religiose comprese. Anch'esse vanno a sperimentare un simile singhiozzo, un simile balbettio. Essere in grado di «tenere» questo sconfinamento in se stessi offre sicuri vantaggi: ci trattiene dalla nostalgia di tornare al «paradiso perduto», apre indirettamente alle esperienze altrui e pone le condizioni per una autentica tolleranza.

Riaccreditare il presente

Il Cristianesimo, il Buddhismo e l'Hinduismo che circolano nel discorso di Panikkar ne sono un esempio. Se i loro linguaggi si intrecciano è grazie alla compressione perforante cui sono sottoposti, è in virtù della contingenza radicale cui sono elevati. Essi non spartiscono la stessa esperienza, non ne hanno ciascuno una totalmente differente, nemmeno sono analoghi rispetto a un quid equidistante: piuttosto vanno a stringersi in un balbettamento corale. Scarnificati e decentrati per eccesso, Cristianesimo, Buddhismo e Hinduismo formano un reticolo sottile con pochi fili tematici di ognuno a disposizione. Panikkar comunque privilegia, ancora una volta, quelli che, in ciascuna tradizione, mostrano di sapersi annodare alla linea fugace delle cose, di saper aderire alla novità del linguaggio secolare.

Le cose sono le cose: così Gesù lasciò che le pietre fossere pietre e si rifiutò di trasformarle in pane, mentre nella decima vignetta classica dello zen, il contadino torna al mercato, alla vita ordinaria. Nello stesso senso è il presente il tempo da riaccreditare, da resuscitare. Passato e futuro vi convergono in un'unica gigantesca esitazione, in un'inconcludenza cosmoteandrica. Mentre i morti ancora influiscono su di noi e coloro che verranno già ci influenzano, ogni nostra ora, così stretta e addensata, non si vede garantita una seconda sopravvivenza dopo la morte o una ennesima reincarnazione - in un'altra storia, in un domani, in un'altra vita - ma viene `sollevata', compressa e curvata a un'eternità anch'essa non-perenne, intrinsecamente non-durevole. Ogni istante tempiterno. Squisita pienezza di una vita fatta di momenti unici e incomparabili. Pura coscienza immediata, involontaria, che sfila senza io né oggetto, sazia già al minimo grado di espressione di sé, riflesso di una vita priva di paura, lieta, che non fa tragedie (anche se esposta al dolore). Prospettiva senz'altro ostica, ma non soltanto a causa della miscela di affetti, abitudini e preconcetti negativi che ci portiamo appresso e che ci dividono da lei. Ostica soprattutto perché i tratti liberatori che la definiscono paiono letteralmente sovrapporsi a quelli esproprianti e assoggettanti che caratterizzano la condizione, non meno ostica, del nostro tempo, in cui la vita si perde. Prospettiva dunque doppiamente urgente per una questione all'ordine del giorno, aperta, ma improcrastinabile, che avvolge uno scenario privo ormai di nascondigli.

Tra una goccia e l'acqua

Una vita è ovunque (Deleuze) e nelle pieghe minuscole di ogni suo stato - al risveglio da un sogno, da un incidente, dopo un qualsiasi smarrimento, dice Panikkar - ciascuno sperimenta semplicemente il «sentirsi vivo»: ciascuno è, spogliato di tutto, talenti e salute compresi, solo «vita». Chi si è scoperto acqua e non goccia (anche se acqua racchiusa in una goccia) non teme di perdere la sua individualità quando cade nel mare. «Tuttavia - scriveva Doghen - pure stando così le cose, i fiori cadono proprio mentre per affetto li vorremmo trattenere, le erbe crescono proprio mentre noi con disgusto le rifiutiamo».




 
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