INEDITI
A un mese dalla morte, pubblichiamo un intervento del grande filosofo francese davanti ai giovani di Taizé
Ricoeur: vi spiego
cos’è la felicità
«La
religione ha a che fare con la bontà: il bene è più profondo del male e quel
che vedo qui mi ricorda un movimento fondamentale rivolto verso la bontà»
Di Paul Ricoeur
Cosa vengo a cercare a Taizé? Direi una sorta di prova di quello in cui credo
in modo più profondo, ovvero che ciò che comunemente chiamiamo "religione"
ha a che fare con la bontà. Questo è un po’ dimenticato, in particolare in
molte tradizioni del cristianesimo, dove c’è una specie di restrizione, di
chiusura sulla colpevolezza e sul male. Non che io sottovaluti questo problema,
del quale mi sono molto occupato per molti decenni. Ma quello che ho bisogno
di verificare è che per quanto radicale sia il male, esso non è così profondo
come la bontà. E se la religione, o le religioni, hanno un senso è quello
di liberare il fondo della bontà degli uomini, di andare a cercarlo là dove
esso è completamente nascosto. Ora, qui a Taizé vedo l’irruzione della bontà
nella fraternità tra i fratelli, nella loro ospitalità tranquilla e discreta,
nella preghiera, dove vedo migliaia di giovani che non hanno l’articolazione
concettuale del bene e del male, di Dio, della grazia o di Gesù Cristo, ma
che hanno un movimento fondamentale verso la bontà.
Il linguaggio della liturgia Siamo oppressi dai discorsi, dalle
polemiche, dall’assalto del virtuale che crea una zona opaca. E sorge questa
certezza profonda che è necessario liberare: la bontà è più profonda del
male più profondo. Non bisogna solo sentirla, questa certezza, ma anche darle
un linguaggio, e il linguaggio che le viene donato qui a Taizé non è quello
della filosofia né della teologia, ma quello della liturgia. E per me la
liturgia non è semplicemente un’azione, ma è un pensiero. C’è una teologia
nascosta e discreta nella liturgia, che si riassume in questa idea: «la
legge della preghiera è la legge della fede».
Dalla protesta all’attestazione La domanda sul peccato è stata rimpiazzata
dal centro delle discussioni attuali da un’altra domanda, in un certo senso
forse più grave, che è la questione del senso e del non senso, dell’assurdo.
(…) Noi apparteniamo alla civilizzazione che effettivamente ha ucciso Dio,
ovvero che ha fatto prevalere l’assurdo e il non senso sul senso. Questo
però provoca una profonda protesta; e utilizzo questa parola - "protesta"
- molto vicina ad un’altra, "attestazione", perché l’attestazione procede
dalla protesta che il niente, l’assurdo, la morte non sono l’ultima parola.
Questa considerazione riprende la mia domanda sulla bontà perché la bontà
non è solo la risposta al male, ma è anche la risposta al non senso. In "protesta"
sono comprese le parole teste e testimone; si "pro-testa", prima di poter
"at-testare". A Taizé si fa il cammino dalla protesta all’attestazione, e
questo cammino passa attraverso quello che ho appena detto: la legge della
preghiera, la legge della fede. Infatti la protesta è ancora nel campo del
negativo: si dice no al no. E invece bisognare dire sì al sì. C’è dunque
un movimento pendolare dalla protesta all’attestazione. E credo che questo
avvenga con la preghiera. Sono stato molto toccato questa mattina dai canti
e dalle preghiere nella forma vocativa: «O Cristo…». Qui non siamo nel campo
del descrittivo né in quello prescrittivo, ma in quello esortativo e nell’acclamazione!
E penso che acclamare la bontà sia l’inno fondamentale.
«Chi ci insegnerà la felicità?» Io amo molto la parola felicità.
Tempo fa ho pensato che era troppo facile o troppo difficile parlare della
felicità. Ma poi ho superato questo pudore. O piuttosto l’ho approfondito,
questo pudore, di fronte alla parola felicità. La considero in tutta la varietà
dei suoi significati, compreso quello delle Beatitudini. La formula della
felicità è questa: «Beati coloro che …». Saluto la felicità giustamente
come una "ri-conoscenza", nei tre sensi del termine: la riconosco come mia,
la approvo negli altri e sono grato per ciò che ne ho conosciuto in queste
piccole felicità, tra le quali ci sono quelle della memoria, che mi guariscono
dalle grandi infelicità dell’oblio. In questo caso procedo al contempo come
filosofo, nutrito dei Greci, e come lettore della Bibbia e del Vangelo,
dove possiamo seguire il percorso della parola felicità, ma in due registri.
Questo perché il meglio della filosofia greca rappresenta una riflessione
sulla felicità, cioè la parola greca eudemonia (si parla dell’eudemonismo
filosofico in Platone e Aristotele). Ma io mi ritrovo molto d’accordo con
la Bibbia: penso all’inizio del salmo 4: «Chi ci farà vedere il bene?». È
un domanda un po’ retorica, ma che ha la sua risposta nelle Beatitudini.
Esse sono l’orizzonte della felicità di una vita sotto il segno delle benevolenza,
perché la felicità non è semplicemente ciò che non ho e che io spero di avere,
ma anche ciò che ho gustato.
Tre immagini di felicità Ho riflettuto di recente sulle immagini
di felicità nella mia vita. A proposito della creazione, di fronte a un
bel paesaggio, la felicità è l’ammirazione. Nei confronti degli altri, nella
riconoscenza verso di loro, sul modello nuziale del Cantico dei Cantici,
la felicità è il giubilo. E - terza figura - rivolta verso il futuro, la
felicità è l’aspettativa: io mi aspetto ancora qualcosa dalla vita. Spero
di avere il coraggio davanti al dolore che non conosco, ma mi attendo ancora
felicità. Uso la parola "aspettativa"; potrei usarne un’altra che mi viene
dalla Prima lettera di Paolo ai Corinzi, nel capitolo precedente al famoso
capitolo 13 sulla carità che «comprende tutto, scusa tutto», etc. Il capitolo
precedente inizia così: «Aspirate ai carismi più grandi». «Aspirate, aspirate».
La felicità dell’aspettativa completa la felicità del giubilo e dell’ammirazione.
Un servizio gioioso Quello che anzitutto mi colpisce qui, in tutti
i piccoli servizi quotidiani della liturgia, negli incontri di tutti i tipi,
nei pasti e nelle conversazioni, è l’assenza completa di relazioni di dominio.
Ho qualche volta l’impressione che, in questa sorte di accuratezza paziente
e silenziosa di tutti gli atti dei membri della comunità, ognuno obbedisce
senza che nessuno comandi. Da questo risulta un’impressione d i servizio
gioioso, potrei dire di obbedienza amante, sì, di un’obbedienza che ama,
che è dunque tutto il contrario della sottomissione e del vagabondare. Questa
strada, generalmente stretta, tra quello che ho appena chiamato sottomissione
e vagabondare qui è largamente indicata dalla vita comunitaria. È di questo
che noi, i partecipanti - non quelli che assistono, ma che partecipano, come
io credo di essere stato e di essere qui - beneficiamo. Godiamo di questa
obbedienza amante che abbiamo proprio verso l’esempio che ci è dato. La comunità
non impone una sorta di modello intimidatorio, ma, direi, una specie di esortazione
amichevole. Mi piace questa parola, "esortazione", poiché non siamo nell’ordine
del comando e ancora meno dell’obbligo, ma neppure siamo nell’ordine della
diffidenza e dell’esitazione, che oggi è l’andamento della vita nelle professioni,
nella vita urbana, nel lavoro e nel divertimento. Questa tranquillità condivisa
rappresenta per me la felicità della vita presso la comunità di Taizé.
(traduzione di Lorenzo Fazzini)
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