CARLO MIGLIACCIO

RIPETIZIONE E CAMBIAMENTO IN MUSICA

"Quanto ha a che fare con il suono
deve risuonare in modo sempre nuovo"

Ernst Bloch

 

Per affrontare il problema della ripetizione in musica è opportuno preliminarmente chiedersi: "è possibile in musica ripetere?". La domanda acquista il suo spessore problematico in relazione alla sua ovvietà e all'ovvietà delle sue possibili risposte: certo, semmai in musica non è possibile non ripetere: si ha musica soltanto quando qualcosa si ripete, anche se è solo il battito di due suoni differenti, o solo il gesto e il modo di attacco dell'esecutore, o la puntualità del segno grafico sulla partitura. Così in qualsiasi tipo di composizione riusciremmo facilmente a scovare elementi ripetuti, dei quali, una volta venuti alla luce, sia riconosciuto un loro ruolo decisivo e imprescindibile nel costituire una stabile struttura musicale. Risposta opposta: la ripetizione è un'illusione, perché, pur volendo insistentemente ribattere una nota, un accordo o riprodurre una melodia, il ripetuto sarà pur sempre, in quanto tale, diverso, anche solo per la pura constatazione aritmetica che esso ci appare una seconda volta, diversa quindi dalla prima. Come nella vita, anche nella musica ripetere vuol dire compiere un atto sempre diverso e nuovo, vuol dire andare avanti, quindi essere sempre soggetti allo scacco di non poter mai rivivere in maniera identica lo stesso istante, di non poter immergersi due volte nello stesso fiume.

Queste due estreme posizioni - che per semplicità chiamiamo strutturalista la prima e psicologista la seconda - hanno in comune il fatto di adottare inconsciamente il punto di vista opposto. Infatti, per affermare che tutto si ripete, la prima deve collocare il ripetuto in una dimensione temporale fluente che esclude di per se stessa ogni possibilità di ripetizione. Mentre per negare la ripetizione è necessario alla seconda teoria ammettere l'oggettività del ripetuto. La loro dialettica interna ne inficia quindi la validità assoluta e la pretesa unilateralità. Una corretta impostazione del problema, che ci consenta di proporre una provvisoria teoria della ripetizione in musica, dovrebbe allora non tanto scartare queste due posizioni, quanto tenerle metodologicamente presenti e utilizzarle opportunamente allo scopo di muoversi agevolmente nel loro ambito intermedio, lasciato vuoto da una polarizzazione troppo dogmatica.

La questione se in musica vi sia o no ripetizione appare allora alquanto fuorviante, e perciò andrebbe aggirata opponendovi altre più sensate domande, come: "che cosa nella musica viene ripetuto?", "quando e perché qualcosa viene ripetuto?"; o ancora: "che cosa succede quando qualcosa viene ripetuto?", "qual è l'effetto prodotto da una ripetizione?". In questa maniera la ripetizione viene considerata come una datità già acquisita, che si presenta incontestabilmente alla concreta esperienza percettiva, prima di essere affermata o negata dalle due opposte teorie. Per far emergere la complessità e la natura irriducibile del problema occorrerà allora riferirsi a ciò che concretamente avviene nella realtà musicale e nella correlata esperienza uditiva. Si noterà così che la ripetizione non è qualcosa di secondario o di accessorio, poichè produce delle conseguenze nella forma e nell'ascolto, senza le quali la musica mancherebbe di effettività. In tal modo, di essa dovrà esser posto in rilievo non tanto la mera fattualità, quanto il senso, relativo al suo valore specifico acquisito all'interno della musica come articolazione formale e temporale. E ci si accorgerà che l'ascoltatore è "circondato" da ripetizioni più di quanto possa sembrare, e soprattutto più di quanto ci faccia credere una concezione puramente temporalista della musica; ma per converso si potrà meglio verificare che le caratteristiche qualitative e temporali sono più pregnanti e significative di quanto non possa credere una concezione staticista. Nei suoi diversi livelli e nelle sue figure, la ripetizione può allora divenire uno dei fondamentali nodi problematici della dialettica tra staticità e dinamismo musicali, prima che un pregiudizio teorico ponga la sua petitio principii. Ridotta fenomenologicamente la portata del problema, si potrà di conseguenza affrontare in modo più agevole la cruciale questione del rapporto con il cambiamento, che concerne più in generale il senso della struttura musicale come temporalità.

Le figure della ripetizione

Chiedendoci che cosa in musica può essere ripetuto affinché sia prodotto uno spessore emotivo, o una qualità espressiva musicale, possiamo individuare una schematica tipizzazione delle modalità ripetitive, focalizzandone quattro, in ordine decrescente di ampiezza temporale: 1. REPLICA; 2. RITORNELLO; 3. RIPRESA; 4. DUPLICAZIONE.

1. Definiamo replica la ripetizione di un'intera composizione. Se nelle altre arti la ripetizione di una rappresentazione può essere quasi irrilevante esteticamente, in musica invece sembra avere un buon grado di pregnanza espressiva. Leggere un libro, una poesia, guardare un film, un quadro, assistere a una tragedia, entrare in una cattedrale per una sola volta possono anche esaurire il senso estetico che queste opere provocano nello spettatore. Le ulteriori repliche di queste esperienze possono servire eventualmente ad approfondirne i contenuti o a cogliere aspetti che prima erano rimasti in ombra o sfuggiti per fretta o distrazione. Ma in generale esse sono ininfluenti, se non in senso pedagogico o filologico.

In musica invece tra la prima e le successive repliche c'è una relazione molto più rilevante e stringente. E' infatti molto plausibile che si ascolti più volte la Quinta Sinfonia di Beethoven piuttosto che si legga più volte l' Ulisse di Joyce o la Recherche di Proust, per quanto questi romanzi propongano una polisemia e una stratificazione linguistica tali da giustificarne varie riletture. Ma in musica il rapporto tra informazioni fornite di primo acchito e quelle che emergono in seguito viene moltiplicato, poiché il primo ascolto dà molto di meno, in rapporto ai successivi, di quanto non dia la prima lettura di un testo rispetto alle successive, o la prima visita a un museo o a una chiesa.

Il rilievo che la replica di un pezzo musicale assume ci fa notare allora una peculiarità rispetto alle altre arti, che merita di essere indagata. A un livello medio di competenza musicale la replica è quasi necessaria alla comprensione. Serve innanzitutto a familiarizzare l'ascoltatore, il quale inevitabilmente - anche per musiche di facile comprensione - è preso da un senso di smarrimento al primo ascolto. Ma non si tratta solo di questo. Tutti noi possiamo sperimentare che quando risentiamo una sinfonia proviamo delle emozioni che il primo ascolto ci aveva quasi precluso. E addirittura quelli successivi sembrano far lievitare lo spessore espressivo della musica in forme anche imprevedibili e, forse, inesauribili. E ciò è dovuto necessariamente alla relazione tra i diversi ascolti, tanto che quello immediato assume la valenza di preludio ai ripetuti, come se fosse una promessa delle emozioni che ci verranno somministrate solo successivamente, quando verrà attivata la memoria dei precedenti. Anche a distanza di tempo, riascoltare un pezzo che la prima volta ci era apparso insignificante, la seconda volta, pur senza conservarne un preciso ricordo, può rivelarsi una scoperta, una sorpresa, quasi che il primo ascolto avesse sedimentato nel nostro inconscio uno strato di sensazioni che attendevano solo un'ulteriore esperienza per ridestarsi. Si pensi a un interprete, un direttore d'orchestra, che esegue e riesegue, sente e risente chissà quante volte uno stesso brano, una stessa opera, senza per questo rimanerne mai annoiato, anzi vivendo un'esecuzione come se fosse sempre la prima assoluta.

Ma anche considerando livelli molto elementari di fruizione, si può notare quanto siano consci gli operatori culturali del valore della replica: ad esempio gli organizzatori del Festival di Sanremo quando, prima di procedere alle votazioni, fanno riascoltare alle giurie ogni canzone, o almeno il refrain. E di questo sono ancora più consapevoli i produttori discografici, che sanno di riscuotere molto più successo di vendite pubblicando una nuova edizione delle Quattro stagioni di Vivaldi piuttosto che un inedito debussiano. La commercializzazione dell'arte sa quindi sfruttare in pieno la ripetizione trasformandola in riproducibilità tecnica, che, come affermava Benjamin, ha anche la valenza di una maggiore socializzazione della cultura.

Per quanto concerne la musica, l'esigenza della ripetitività si sottrae al mero consumo tipico dell'arte di massa, esprimendo un'eccedenza particolare rispetto all'effimero dell' "usa e getta", e facendo emergere il suo valore d'uso al di là dell'interesse immediato, della moda e delle ideologie storicamente determinate.

2. A un altro livello troviamo la ripetizione di un brano delimitato di una composizione, o ritornello. Anche qui può valere l'esigenza di familiarizzazione, come per la replica. Ma in tal caso ci troviamo già all'interno della forma musicale, e perciò la ripetizione acquisisce un significato strutturale più cogente.

Prendiamo ad esempio il caso in cui il ritornello è determinante dal punto di vista formale, ossia nel minuetto o nello scherzo. Queste forme ammettono la ripetizione delle due sezioni di cui sono composte solamente la prima volta, escludendola nel da capo successivo al trio. Grazie a questa rigida prescrizione il minuetto assume la sua tipica forma triadica temporalmente decrescente, che viene sconvolta quando un esecutore frettoloso evita di eseguire le dovute ripetizioni, sovrapponendo surrettiziamente alla durata musicale le esigenze del tempo esterno.

 

A

A'

B

B'

C

C'

D

D'

A

B

 

Il ritornello dell'esposizione sonatistica è indubbiamente meno interessante; ma anche in questo caso il suo valore emozionale va sottolineato. Prima di essere condotti nelle elucubrazioni dello sviluppo è necessario familiarizzarsi il più possibile con il tema, sì che il contrasto con lo spaesamento dell'elaborazione tematica e delle modulazioni possa risultare più marcato ed efficace.

Talora le esposizioni sono già sufficientemente lunghe e ripetitive per assolvere a questa funzione. La necessità del ritornello riguarda allora il senso di attesa dello sviluppo che si forma nell'ascoltatore alla fine dell'esposizione. Ripetere quest'ultima serve a disilludere per una volta quell'attesa, quasi facendoci assaporare il brivido della modulazione e la vertigine della novità di quel terreno che lo sviluppo sta per sondare. Procrastinando l'inizio dello sviluppo si mantiene alto, anche in questo caso, il valore della promessa, essendo in fondo l'esposizione nient'altro che un preludio al vero centro della sonata, che è per l'appunto lo sviluppo.

3. Se il ritornello è ripetizione immediata di un brano, la ripresa è ripetizione inframmezzata da un brano diverso rispetto a quello ripetuto. In tal senso il da capo del minuetto è interpretabile come una ripresa, poiché in mezzo si è udita l'esecuzione del trio. Il minuetto viene ripetuto identico, senza la minima variazione che non sia l'eliminazione del ritornello (regola spesso trasgredita da Beethoven), il cui effetto è, come abbiamo visto, solo formale. Inoltre va notato che il trio è un brano di carattere totalmente diverso dal minuetto stesso, costituendo una netta soluzione di continuità delle sue tre ripetizioni.

I problemi si complicano allorché, nella sonata, la ripetizione avviene dopo lo sviluppo, certo, anch'esso diverso nel carattere dall'esposizione, ma all'interno del quale si elabora il medesimo materiale tematico e lo si trasforma nei differenti piani armonici e ritmici, cosa che non avviene nel minuetto. Lo sviluppo non è più una soluzione di continuità, pur presentando una drammaticità opposta alla pacatezza dell'esposizione. Il senso della ripetizione si chiarisce quindi in funzione non del ripetuto ma di ciò che si interpone tra esso e l'originale.

Se la soluzione di continuità del trio rinforzava l'identità della ripresa del minuetto, il continuismo sonatistico fa sì che la ripresa dell'esposizione non sia una vera ripetizione. Dopo tutto ciò che è accaduto nello sviluppo, riascoltare il tema nella sua forma e nella sua verginità originarie, produce un particolare e paradossale effetto di straniamento: il tema è identico e nel contempo differente. Si ha il sentore che qualcosa sia mutato, ma non lo si può ravvisare oggettivamente. Il tema appare come caricato da un alone creatosi in virtù della storia appena trascorsa, dalle stratificazioni accumulatesi nella memoria, che ora fanno sentire la loro postuma influenza. Prima semplice, persino banale, esso acquista ora un nuovo spessore, una inedita dignità per l'ascoltatore.

Anche alla percezione visiva un medesimo oggetto si configura in modi diversi se guardato da due soggetti diversi, uno ingenuo, che lo scorge per la prima volta con animo aperto e stupito, l'altro esperto, scaltrito dall'esperienza, che vi ritrova un vissuto personale o una serie di reminiscenze che arricchiscono il suo punto di vista particolare. O avviene anche che uno stesso soggetto, in situazioni diverse, può scorgere aspetti inediti e insperati in un oggetto anche quotidiano e di uso comune, ritrovandovi magari un candore che sembrava perduto: "Chi di domenica va a fare una passeggiata - dice Vladimir Jankélévitch - ammira un monumento dinanzi al quale passa e ripassa tutti i giorni per andare a lavorare, non facendogli mai la grazia di uno sguardo... Ma quel giorno è un giorno di vacanza, e chi passeggia gli tributa il proprio sguardo festivo, ed è il più nuovo di tutti gli sguardi (...). E' uno sguardo nuovo, e tuttavia rivolto a qualcosa di antico. Questa seconda vista, letteralmente, non vede nient'altro che le forme e i colori percepiti dalla prima, ma li vede 'altrimenti'" [1] Similmente le trasformazioni temporali della musica comportano un continuo mutamento delle modalità percettive con cui vengono concepiti gli oggetti sonori.

Se ora concentriamo l'attenzione su ciò che avviene nel seguito della ripresa, ci accorgiamo che non tutto torna identico. Innanzitutto vi è un'istanza formale di ristabilimento della simmetria tonale: se l'esposizione faceva tendere il tema verso la dominante, ora deve prevalere il senso armonico della conclusione, di quel "ritorno a casa", nella "patria tonale" - come dice Ernst Bloch [2] - dopo le peregrinazioni delle modulazioni. Ciò che comincia a valere, nella ripresa, è il senso della fine: ripetendo ricapitoliamo il vissuto per prepararci a morire; e perciò il ripetuto appare in una luce nuova, talora più vittoriosa ed entusiastica, talaltra più sbiadita e intrisa di un certo senso di angoscia, diversa da quella atmosfera gioiosa dell'esposizione, in cui la tensione alla dominante era interpretabile come impulso vitale, come ottimistica apertura alla vita.

Nei casi estremi, come in Debussy per esempio, riprendere il tema, alla fine, un'ottava più in alto e a mezza voce, vuol dire conferirgli l'aspetto di traccia mnestica che riaffiora nell'animo del morente prima dell'attimo fatale. Quando l'immediato interesse alla vita e all'azione si va esaurendo, quindi di fronte alla morte - nota Bergson in Matière et mémoire -, siamo portati dalla memoria a ripresentarci coagulato e compresso tutto il nostro passato, prima dimenticato. Si veda Bruyères del secondo volume dei Préludes, in cui l'incipit di un tema gioiosamente e serenamente svolto in tutto il preludio riappare alla fine velato da un'abissale malinconia.

citazione da Debussy

Così come, nella parte centrale, la ripetizione della variazione (gioiosamente) viene fatta riascoltare con un abbassamento del sesto grado. Questo espediente armonico, che è l'alterazione discendente di una delle formule conclusive più usate, la cadenza plagale, accentua il senso di rimpianto e di disillusione, che a poco a poco deve pervaderci in un pezzo apparentemente sereno e primaverile.

esempio da Debussy

E osservate come Bach fa riascoltare il gaio soggetto della Fuga n. 2 del Primo volume del Clavicembalo ben temperato, nella coda, quando il pezzo si è praticamente concluso e si ode già la nota conclusiva al basso: è come se a sipario ormai calato, a festa ormai finita, qualcuno facesse rinvenire un ricordo nostalgico della felicità trascorsa. E basta quell'indolente ritardo sulla terza e quel momentaneo, ma stupefacente accordo di settima di sensibile - che è interpretabile come la radicalizzazione del sesto grado abbassato della cadenza plagale - per dare a questa estrema apparizione del tema una struggente sfumatura di mortalità, di prossimità all'oblio.

Esempio da Bach

4. Procedendo oltre e analizzando casi più specifici, ci imbattiamo in un tipo di ripetizione che chiameremmo infraformale, distinguendola dalle ripetizioni formale di ritornello e ripresa ed extraformale della replica: si tratta di una ripetizione - non mediata da soluzioni di continuità - di elementi ristretti e immediatamente riconoscibili, come temi, frasi, semifrasi, incisi, singole note, singoli accordi, singoli moduli ritmici. Ci riferiamo alla cosiddetta duplicazione, mutuando il termine dal famoso saggio di Nicolas Ruwet, [3] e ampliandone il significato fino a far comprendere tutti i tipici procedimenti compositivi della tecnica contrappuntistica tradizionale e seriale: imitazione, canone, aumentazione, diminuzione, variazione, inversione, ecc.

Ma l'esempio basilare di duplicazione è la progressione, ossia quel "procedimento compositivo per cui una stessa formula (melodica, armonica, contrappuntistica) viene ripetuta più volte partendo da note diverse". [4] Essenziale alla progressione è il procedimento per gradi, spesso modulanti, proprio perché non vengono ripetute precisamente delle note, bensì solo una formula, riducibile persino a un intervallo del basso. Generalmente essa è solo un espediente che serve da semplice riempitivo, talora pleonastico, e che funge da mediazione tra sezioni più importanti: così avviene in quella parte della fuga che si chiama divertimento. In tal senso la progressione è considerabile un misto di ripetitività e di varietà. Schönberg la definisce "una sorta di ripetizione atta a generare continuità" [5]. Se ben impiegata ed "evitando l'uso eccessivo", essa svolge il compito di assicurare "la continuazione e la coerenza delle parti". Per Schönberg infatti, mentre la varietà produce "molteplicità", la ripetizione assicura "coerenza, significato e ordine" [6 ]. La progressione è equilibrio tra i due estremi, e in tal modo "facilita la comprensione" di elementi che potevano, la prima volta, sfuggire alla nostra attenzione.

Si rivela allora una peculiare caratteristica dell'orecchio musicale, ossia una duplice tensione: 1) alla ripetizione, per cercare conferme, ordinare i dati e soddisfare determinate aspettative; 2) alla varietà, per esercitare il pensiero musicale a trovare nuove strade e persino a trasgredire determinate attese. L'ascolto musicale consiste nell'equilibrio tra queste due tendenze, determinato dalla necessità di controllare e afferrare un oggetto che tende a sfuggire alla percezione. A differenza dell'immagine visiva, l'oggetto uditivo, per la sua inevitabile unicità temporale, sembra eludere gli sforzi intellettivi che possano collocarlo in una struttura percettiva stabile e determinata. A questa difficoltà la ripetizione sembra invece porre rimedio. Essa offre una chance, una prova d'appello di fronte all'irreversibilità della vita e del tempo musicale. E la vera formazione dell'oggetto sonoro si ha verosimilmente quando esso viene confermato tramite la ripetizione, che vuol dire quindi chiarificazione, stabilizzazione, dissipazione di ogni equivoco.

Nella sua funzionalità strutturale la duplicazione, e segnatamente la progressione, dà luogo a un tipo particolare di componimento che può essere ricondotto al genere dell'arabesco.

Come nelle arti figurative, l'arabesco è solo una decorazione autonoma e autoreferenziale, che non prevede quindi connotazioni figurali concrete: è tipico infatti dell'arte religiosa islamica, nella sua rigorosa osservanza del divieto coranico di riprodurre il volto di Allah. In musica ciò va tradotto non tanto nella preclusione di ogni riferimento descrittivo, quanto soprattutto nell'elusione di ogni configurazione melodica riconoscibile. E' per questo che l'arabesco si riduce spesso a una pura formula d'accompagnamento, a un arpeggio senza melodia. Arabesco è il preludio di Bach, per esempio il primo del Primo volume, che Gounod sentì la necessità di 'completare' appiccicandovi sopra una patetica melodia.

Così come arabesco è il disegno arpeggiato dell'Improvviso op. 90 n. 4 di Schubert, in cui per quasi un terzo del pezzo non compare alcuna configurazione melodica (a parte i frammenti di corale inframmezzati); solo alla battuta 47 affiora al basso il vero e proprio tema della composizione, che riconduce l'arabesco al suo ruolo subordinato.

da Schubert

 

Al pari di ogni buona formula d'accompagnamento - e di ogni buona decorazione - l'arabesco necessariamente contiene al suo interno delle regolarità, principalmente di ordine ritmico. Un arpeggio irregolare e incoerente non può infatti essere considerato "arabesco". Ma il modello ripetitivo che, anche negli esempi citati, si riscontra è prevalentemente basato su un principio duale, sia semplice sia ricorrente nei multipli di due. Nell'esempio di Bach troviamo una duplice duplicazione sovrapposta. In Schubert una duplicazione dell'arpeggio discendente, bloccato la seconda volta nell'accordo di dominante. Ma è in un esempio particolarmente significativo che possiamo trovare un'autentica apoteosi della duplicazione. Si tratta della Première Arabesque, per l'appunto, di Claude Debussy.

Qui la duplicazione diviene quasi un'ossessione e si riproduce anche a diversi livelli strutturali di ripetizione.


Si può ottenere una realizzazione midi della

Première Arabesque

alla sede principale dei Classical MIDI Archives oppure ad uno dei suoi mirrors

Nel pezzo debussiano non viene certo elusa la figurazione melodica; tuttavia essa viene creata a partire dall'armonia, tanto che spesso si parla di "melodie di armonie" in Debussy. [7] L'esempio proposto è anche significativo della ricerca di continuità che si attua attraverso lo sfruttamento della ripetizione. Arabesque è un pezzo fortemente ripetitivo, ma nel contempo estremamente fluido e non certo monotono, né ipnotico, come lo è per esempio Voiles, il singolare preludio del Primo volume, in cui, per l'appunto, non vi è variabilità armonica, essendo basato su un'unica scala, quella esatonale.

Quindi l'orecchio percepisce come monotona più un'armonia ripetuta, variando la melodia, che una melodia ripetuta, variando l'armonia. Lo dimostrano i preludi bachiani, in cui un'unica formula, melodica o ritmica, viene anche ossessivamente reiterata, ma con un'armonia sempre cangiante. Al contrario, lasciando immutata l'armonia, si può variare anche di molto la melodia senza evitare quella sensazione di staticità, o di circolarità, che è spesso ricercata deliberatamente dal compositore proprio ricorrendo alla fissità armonica, come avviene nel Bolero di Ravel.

In ogni caso, che sia armonico, melodico o ritmico, un effetto ossessivo, come per esempio l'ostinato, per essere tale, deve comportare la trasgressione di un modello di riferimento basilare, entro cui si possa situare una situazione musicale definibile "normale"; senza l'uscita da questo livello, qualsiasi effetto ab-norme, quindi ossessivo, non potrebbe avere alcuna efficacia. Diviene quindi necessario individuare dialetticamente la consistenza e i limiti di questo livello, con il suo relativo valore prescrittivo.

La regola del due

Da quanto detto emerge che la ripetizione produce all'interno della temporalità musicale un certo slancio, tale da costituire l'inizio di una struttura iterativa infinita. Se infatti ripresa e ritornello implicavano una struttura musicale chiusa, articolando cioè inizio e fine secondo criteri di simmetria e di compiutezza quasi architettonica, esaminando la duplicazione ci si accorge che il potere della ripetizione si amplifica e tende a divenire autogenerativo, creando una struttura potenzialmente aperta e senza limiti, in cui un modulo di partenza può venire di diritto iterato infinite volte. Di fatto, nella pratica musicale, il regressum ad infinitum, a cui condurrebbe il movimento per gradi innescato dalla progressione, viene interrotto, o con una modulazione o con un opportuno rientro nella tonica. Nell'impiego di questo procedimento viene infatti osservata una soglia di sopportazione, che in genere coincide con il numero due (o quattro, in quanto primo multiplo di due), oltre il quale si verifica la cosiddetta rosalia, [8] o quella certa ripetitività idiota che i francesi chiamano rabâchage (e che alcuni minimalisti contemporanei hanno fatto assurgere a dignità estetica). La percezione musicale richiede quindi la ripetizione, ma cerca tuttavia di evitare l'infinito e di ricomporre temporalmente delle strutture dotate di senso, in cui essa, per quanto accentuata, non superi un livello tale che si neutralizzi nell'indifferenza e nella saturazione. [9]

Similmente nei procedimenti autoreferenziali della matematica e della logica esistono certe soglie oltre le quali la ripetizione perde senso e valore: ad esempio moltiplicando una certa matrice per se stessa e poi quante volte si vuole per il risultato ottenuto si finisce per ottenere sempre lo stesso risultato. Il famoso paradosso del mentitore ha senso solo entro certi limiti, ovvero il motto sessantottesco "vietato vietare" salvaguarda il suo significato eversivo prima di venire coinvolto nell'accusa di contraddizione. Oppure: se esiste la disciplina "filosofia della storia", esisterà anche una "storia della filosofia della storia". Ma, esistendo la "storia della filosofia", si dovrà ammettere anche una "filosofia della storia della filosofia", così come una "storia della filosofia della storia della filosofia" e una "filosofia della storia della filosofia della storia". La piramide che così si crea però non può allargare la sua base all'infinito, senza che prima o poi si perda il senso delle successive moltiplicazioni, che si fermano a un determinato livello di interesse e di comprensibilità.

Se in logica questa soglia non può essere precisamente individuata (poiché ci si imbatterebbe nella nota aporia del "mucchio"), in musica invece essa sembra essere abbastanza precisa, e, generalmente, coincide con il numero due.

Viene allora alla luce un principio che può essere esteso anche alle altre forme di ripetizione. E' una regola non scritta, non codificata nei trattati, ma che è sempre più o meno sottintesa in ogni attività compositiva come un implicito memento, a cui il compositore sembra scrupolosamente obbedire. Si tratta di una regola che genericamente può essere così formulata: in assenza di più forti motivazioni esterne, alla seconda ripetizione bisogna operare un cambiamento. Essa viene osservata anche in casi di accentuata dilatazione formale e di trasgressione delle tradizionali regole armoniche, agendo a livello sovralinguistico e puramente compositivo. E' inoltre una regola sovraculturale, valendo in modo perssoché costante e similare anche in ambiti linguistici e sociali differenti, ossia nella musica colta come nella musica di consumo, nella musica sacra e nella musica popolare, nella musica occidentale e nelle musiche extraeuropee.

Se nel caso della replica il due agisce molto debolmente (per il fatto che essa si colloca a un livello extraformale), la regola vale anche per ripresa e ritornello, poiché è impensabile ripetere per più di due volte una medesima sezione di un brano senza sciuparne la pregnanza espressiva. Ma nel ritornello il due si irrigidisce in un numero chiuso. Nella duplicazione invece il due segna non solo la soglia di sopportazione della ripetizione fattuale, in cui gli elementi ripetuti rimangono identici, ma anche la necessità, o la spinta, verso una successiva ripetizione variata (come avviene per la ripresa, in particolare nella forma del rondò): il che può portare a differenziazioni e a frammentazioni formali anche molto accentuate, come nel paradigmatico esempio della "variazione infinita" di Jeux di Debussy, in cui il principio della duplicazione viene osservato fedelmente, in maniera non dissimile da Arabesque, pur producendo strutture e sezioni fortemente asimmetriche. [10]

Per ogni tipo di musica, considerata indipendentemente dalle sue determinazioni storiche, culturali e sociali, ci troviamo di fronte all'osservanza di uno schema così riassumibile:

ORIGINALE -- > RIPETIZIONE -- > CAMBIAMENTO

La ripetizione può o provocare il cambiamento o anche subirlo, nel senso che spesso la ripetizione prevede già in sé un cambiamento rispetto all'originale; ciò avviene quando la seconda apparizione di quest'ultimo contiene un effetto ripetitivo già molto forte (e questa forza può dipendere da fattori intrinseci al materiale usato): in tal caso 2) e 3) vengono a coincidere temporalmente, ma strutturalmente lo schema rimane valido. [11]

La dialettica ripetizione-cambiamento determina allora una struttura binaria della temporalità musicale, il cui modello può essere esemplificato nel tipico slancio con cui l'esecutore di musica jazz o rock suole dare inizio al pezzo: one, two - one, two, three, four. Lo slancio, che deve poi animare tutta la verve interpretativa del musicista, è fornito dalla duplicazione di one, two, che assomiglia all'ingranaggio di una macchina in moto, o all'arretramento che un atleta prevede alla partenza per rendere la sua corsa più efficace e potente. Inoltre, risultante da tale struttura è il conseguente rimando al nuovo, agli altri due numeri, che sembrano scaturire dai primi per una sorta di intrinseca energia cinetica.

Vi è insomma, all'interno delle determinazioni strutturali della musica, una peculiare potenza del due, derivante forse dalla stretta connessione esistente in origine tra quest'arte e la danza, cioè dalla necessità della musica di seguire fedelmente il tipico dualismo insito nei movimenti corporei e relativa anche a esigenze puramente spaziali e fisco-corporee: andata-ritorno, destra- sinistra, oppure bipolarità, sia pedestre che sessuale, dei danzatori.

Autonomizzatasi dalle sue determinanti corporee, la duplicazione diviene quindi una componente puramente strutturale, ponendosi in stretto rapporto dialettico con il cambiamento che essa contribuisce a provocare: di conseguenza essa non è né rigidamente chiusa né liberamente aperta all'infinito, poiché rinvia a un'ulteriore diversificazione dell'elemento ripetuto, a una triplicazione, o a una duplicazione variata. La regola è che, in presenza di ripetizioni, occorre cambiare strada: da un lato mantenendo saldo il carattere del ripetuto e dando quasi la parvenza della sua insistenza; il che rimane pur sempre una concessione alla necessità dell'orecchio di ricevere conferme; dall'altro cercando di soddisfare il desiderio di novità ed eludendo la monotonia che la stessa ripetizione può ingenerare.

I principi psicologici che sorreggono questa dinamica hanno valore indicativo, cioè sono solo il riflesso nell'ascoltatore di una struttura e di un senso musicale temporalmente determinato. Come in logica, anche in musica la ripetizione crea un livello via via superiore, potenzialmente reiterabile all'infinito; il fatto che esso tenda a coagularsi abbastanza stabilmente sul secondo spessore creatosi è dovuto a una serie di motivazioni che trascendono, pur comprendendola, la sfera psicologica: fattori sociali, culturali, persino economici e ambientali fanno sì che per esempio nelle musiche di tradizione orientale, in cui vige una concezione del tempo non costrittiva e non determinata da conflittualità economico-sociali, la struttura duale sia sensibilmente più debole, più libera e aperta: qui la ripetizione invariata "non rappresenta spreco ma accumulo" e sembra prevedere, a eventi posteriori, un "mutamento invisibile". [12] La ripetizione in tal caso, e conseguentemente la regola del due, tende a prodursi subito a livelli microformali, stentando a crearne di superiori. Per converso la musica occidentale, vincolata da esigenze esterne di efficacia e produttività, anche relative al puro impiego del tempo obiettivo (per esempio la precisa richiesta sociale che una sinfonia debba durare in media mezz'ora, o una canzonetta tre minuti circa), concentra a tal punto il principio duale da farlo riverberare a livelli formali superiori, finalizzati alla creazione di una costruzione il più possibile chiusa e strutturalmente esaustiva, pronta così a soddisfare gli interessi di un determinato pubblico. In tutti i casi, anche diversi da quelli citati e che qui non è possibile analizzare, la ripetizione, e soprattutto la duplicazione, svolge una funzione connettiva fondamentale nel catalizzare, in seno alla musica, il complesso intreccio delle istanze esterne che la determinano, siano esse psicologiche o culturali. Nella loro diversità, queste ultime influenzano solamente le modalità in cui la ripetizione si articola secondo livelli di semplicità o di complessità, non intaccando una tendenza che quindi sembra essere interna alla autonoma costituzione temporale della musica.

Come esempi paradigmatici di duplicazione, proponiamo da un lato un brano tratto dalla musica classica, l'esposizione del Walzer op. 54 n. 1 di Antonin Dvorak, che prevede una significativa stratificazione dei livelli di ripetizione. Rispettivamente con le lettere minuscole, maiuscole e in grassetto maiuscolo denotiamo i tre diversi livelli individuati, mentre l'apice indica un elemento che subisce una pur minima variazione.

dvorak1

Dvorak2

dvorak3

Dvorak, Walzer op. 54 n. 1 - file midi (3K)

 

A

A [ a a a(1/2) -- b ]

AI [ (a aI)I a(1/2) -- bI ] -- c

AI

A [ idem ]

AI [ idem ] -- CI

ecc. .....

 

D'altro lato l'esempio è di carattere e di matrice culturale totalmente diversi, ma che contiene un analogo, benché più semplice, procedimento strutturale. Si tratta di un canto somalo, intonato dai bambini quando il tempo preannuncia la pioggia. [13]

canto  di bambini somali

Le due 'fonti' della ripetizione

Gli esempi proposti dimostrano allora l'enorme potere della ripetizione, e il fatto che esso si eserciti indipendentemente da fattori linguistici e culturali: esso fa cambiare il volto della musica, la sua forma, le sue connotazioni espressive, persino il suo destino determinato dall'urgenza della sua temporalità verso la fine. La ripetizione è come un sasso gettato nello stagno: ogni volta che compare causa un sommovimento generale, un turbamento complessivo dell'armonia e dell'intera struttura. Ripetendo si viene a suscitare in musica una specie di galvanizzazione di un'energia latente, dovuta a una differenza di potenziale tra ripetizione e ripetuto e il cui valore è direttamente proporzionale alla loro distanza nel tempo; e il campo magnetico creatosi - proseguendo in questa metafora elettrodinamica - serve a far richiamare momenti lontani, come avviene quando, in un film o in un'opera letteraria, un'immagine, una frase o una situazione iniziale, se ripetuta, ci fa capire che l'opera sta volgendo alla fine.

La ripetizione ha quindi una potenzialità intrinseca, che si può facilmente avvertire, dialetticamente, quando, nello studio di un pezzo musicale, trascuriamo per brevità di eseguire una duplicazione o un ritornello previsti nella struttura compositiva: in tal caso proviamo uno scompenso quasi uguale a quello che proveremmo se sopprimessimo una parte o se ne aggiungessimo arbitrariamente un'altra; e facendo ciò non possiamo evitare il sentimento di una forzatura imposta alla forma, che frena surrettiziamente una interna tendenza temporale, un impulso da cui il materiale musicale sembra essere investito. Tale dinamismo temporale sembra quindi essere imprescindibilmente legato al potere della ripetizione.

In conseguenza di ciò sembrerebbe farsi strada la distinzione tra due tipi di ripetizione, una statica e l'altra dinamica. [14] La prima è puramente analitica, che non apporta alcun contributo innovativo al ripetuto e, nei casi estremi, conduce l'ascoltatore all'ottundimento delle sue facoltà critiche. Gli elementi di questa che chiameremmo ripetizione ripetente sono intercambiabili e la loro collocazione è in un tempo astratto e reversibile. Essa produce costanti e relazioni intertestuali, ma limitatamente a una rigida strutturazione formale. Il suo rapporto con la società è determinato dalle esigenze e dai ruoli che questa impone ai suoi membri e alle sue strutture, di delimitazione, di mantenimento della propria identità etnica e dei propri confini geografici, di salvaguardia dalle influenze esterne. Cultura e musica quindi si intrecciano con le direttive che, esplicitamente o implicitamente, il potere politico prescrive ai propri affiliati per mantenere saldi la coesione sociale, l'ordine costituito, attraverso tutte le più o meno occulte forme di dipendenza. Musica militare, religiosa e di consumo, nelle loro estreme espressioni di ripetitività e di staticità, ne sono esempi significativi: lampante ne è quello dei Carmina burana, sintesi di tutti gli aspetti, mistici e pedagogici, che nella Germania degli anni Trenta rappresentarono un perfetto appannaggio ideologico al più brutale dei totalitarismi.

La seconda è invece ripetizione sintetica, fungente e creativa, apportatrice di novità, che sfrutta il ripetuto per rivitalizzarlo e trasfigurarlo, collocandolo quindi in un tempo concreto e irreversibile, come è quello della musica. Il ripetuto viene situato nel momento più opportuno, nel giusto tempo, in base a una scelta libera e cosciente del compositore, la quale viene a coincidere sia con le aspettative dell'ascoltatore sia con le istanze concrete del materiale musicale.

La ripetizione rende così necessario ciò che appare contingente: essa ha il potere di irregimentare il flusso ininterrotto dei suoni, che ipoteticamente prosegue sempre in avanti e senza senso, in una forma che assume la valenza della necessità. E tale struttura non è determinata dall'esterno, ma si crea per una sorta di accomodamento tra le direzioni divergenti che la musica può assumere e che la ripetizione ha il compito di predisporre: questa infatti anticipa in sé il mutamento e la diversità, poiché si rivolge al passato, confermando il ripetuto, e al futuro, preparando la variazione.

Il formalismo della ripetizione dinamica è quindi un formalismo superiore rispetto a quello della ripetizione statica, poiché concerne sia le strutture determinate da quest'ultima sia la loro complessione a un diverso livello. E' in questo formalismo che agisce il compositore, che non sia solo un semplice meccanico dell'armonia. Infatti in musica non è sufficiente ripetere; bisogna saper ripetere, ossia sapere quando ripetere, in quale misura e fino a quando ripetere; così come al drammaturgo o al regista non è sufficiente scrivere una buona battuta o costruire una buona scena: deve saperla collocare al momento giusto nell'organizzazione temporale del dramma, rispondendo alle esigenze psicologiche e sociali dello spettatore nonché alle sue capacità critiche e immaginifiche. Né è tanto importante ciò che si ripete, quanto il fatto stesso di ripetere, poiché talora anche un elemento insignificante e privo di attrattiva, se ripetuto acquista senso, fascino e dignità estetica.

"L'effetto sorprendente che molti attribuiscono al genio naturale del compositore - diceva Beethoven - spesso si ottiene abbastanza facilmente con il giusto impiego e la risoluzione degli accordi di settima diminuita". [15] Che cosa c'è di più ripetuto e abusato in musica di un accordo di settima diminuita?

Così come di tanti altri accordi, idiomi ed espedienti formali? Ed è sufficiente, per far musica, riuscire ad applicare diligentemente le regole d'armonia, di orchestrazione o di forma? La musica in realtà sorge sia quando si ripete sia quando ci si libera dal vincolo dell'identico, dall'inerzia e dall'indolenza creativa, dalla pedissequa applicazione di norme e formule, nonché da ogni surrettizia mistificazione commerciale o ideologica.

"E' possibile allora ripetere?", ci chiedevamo all'inizio del nostro lavoro, e ora ci sentiamo di rispondere: "è necessario, in musica, ripetere!". Il compositore, se vuole far musica, è costretto a ripetere, tanto che l'arte musicale, dal contrappunto fiammingo allo spettralismo contemporaneo, può essere fatta coincidere con l'arte della ripetizione. Ma è anche costretto a cambiare se vuole ripetere. Nelle mani del compositore il ripetuto non è qualcosa di morto, di esaurito, di freddo, ma appare come caricato di forze e potenzialità fino ad allora inespresse, di un calore intrinseco che sta alla bravura del musicista saper pienamente sfruttare, così come sta alla bravura di un fabbro saper adeguatamente forgiare un ferro rovente. Ciò che distingue un buon artigiano è infatti la sua capacità a riprodurre un oggetto, ma usando le sue mani, le sue idee, non certo il calco e lo stampino.

Solo in tale dimensione di libertà e creatività il dato ripetuto appare dotato di una propria individualità, di una propria differenza specifica, conferitagli dalla sua peculiare posizione nel tempo musicale; è una qualità concreta, eccedente rispetto alla mera presenzialità acustica e alle pure e superficiali determinazioni oggettive della musica.


Carlo Migliaccio

 

Il presente saggio è il risultato di un seminario tenuto all'Università degli Studi di Milano nell'a.a. 1993-94, connesso al corso su "La ripetizione" del Prof. Giovanni Piana.

 

NOTE

[1] Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, trad. di C. A. Bonadies, Marietti, Genova 1987, p. 214.

[2] Secondo Ernst Bloch la ripresa del tema ci conduce in un ambito "estasiato" - tipico delle sinfonie mahleriane - in cui affiora una novità peculiare della ripetizione, pur essendo il tema fedelmente ripetuto. Ciò è dovuto alla natura utopica della musica, alla sua "extraterritorialità" rispetto alle fredde determinazioni oggettive. E tuttavia quest'impressione è limitata all'attimo della riapparizione del tema, che per Bloch assurge a "evento", momento di liberazione e di esplosione di un bagliore utopico di cui si avevano solo oscuri sentori temporanei durante i travagli dello sviluppo. V. Ernst Bloch, Spirito dell'utopia, a cura di F. Coppellotti e V. Bartolino, La Nuova Italia, Firenze 1992.

[3] Nicolas Ruwet, Nota sulle duplicazioni nell'opera di Claude Debussy, in N. Ruwet, Linguaggio, musica, poesia, Einaudi, Torino 1983, pp. 55-85, trad. di M. Bortolotto; v. anche Louise Hirbour Paquette, Quelques remarques sur la duplication chez Debussy, in Chatman- Eco-Klinkenberg, 1979, pp. 998 - 1002 e J. Van Ackere, Pelléas et Mélisande ou la rencontre miraculeuse d'une poésie et d'une musique, Edition de la librairie encyclopédique, Bruxelles,1966.

[4] voce "Progressione", in La Nuova Enciclopedia della Musica, Garzanti

[5] Arnold Schönberg, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, trad. di G. Manzoni, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 355 .

[6] ib., p. 151.

[7] v. François Gervais, La notion d'arabesque chez Debussy, in "Revue Musicale", 1958, pp. 3-22 .

[8] Dalla canzone popolare, molto ripetitiva, intitolata Rosalia mia cara.

[9] Il termine saturazione è usato da Leonard B. Meyer in Emozione e significato nella musica, il Mulino, Bologna 1992, pp. 183 sgg.

[10] Nota è l'avversione di Debussy per la variazione classica, da lui sprezzantemente considerata "un mezzo per fare molto con molto poco", avendo essa come oggetto solo i costrutti armonici e melodici più evidenti del tema, mentre la "variazione infinita" si rivolge a elementi microstrutturali, spesso accessori e poco riconoscibili.

[11] Sul rapporto ripetizione - cambiamento v. Henri Bergson, La perception du changement, in La pensée et le mouvant, in H. Bergson, Oeuvres, par A. Robinet, PUF, Paris, 1959, pp.1365-1392.

[12] Benjamin Lee Wohrf, Collected Papers on Metalinguistic, Departement of State, Washington, D. C., 1952, p. 39, cit. in Meyer, op. cit., p. 185 n.

[13] Tratto da Francesco Giannattasio, Il concetto di musica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1992, p. 98.

[14] Distinzione risalente al celebre modello bergsoniano, relativo a morale e religione, in H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, 1932, in Oeuvres, op. cit., pp. 979 sgg.

[15] V. Ernst Bloch, op. cit., pp. 162 sgg.


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