CLAIRE GOLL

– La poursuite du vent –

 

Antonello Piana


Presentazione

La scrittrice e poetessa ebreo-tedesca Claire Goll ha partecipato come pochi altri alla vita culturale europea della prima metà del ventesimo secolo. Grazie soprattutto al compagno e poi marito Yvan Goll, un ottimo poeta espressionista oggi a torto trascurato, in seguito compagno di strada dei movimenti dadaista e surrealista nonché editore di volumi e riviste letterarie e antifasciste, Claire Goll ha vissuto da insider le maggiori avanguardie europee occidentali fino al secondo dopoguerra.
L'elenco dei grandi artisti di cui l'autrice fornisce un ritratto personale e diretto è sensazionale. Ordinando cronologicamente solo i principali: Werfel, Jouve, Rolland, Joyce, Arp, Tzara, Lasker-Schüler, Ball, Richter, C. G. Jung, Rilke, Einstein, Picasso, France, Malraux, Léger, Satie, Breton, Picabia, Marinetti, Artaud, Huidobro, Gertrude Stein, Gide, Clifford Barney, Dalí, Aragon, Chagall, Kokoschka, Cocteau, Majakovskij, Grosz, Mondrian, Alma Mahler, Richard Wright, Saint-John Perse, Henry Miller.

Claire Studer cresce in una famiglia della buona borghesia ebraica di Monaco di Baviera. Suo padre è console argentino nella città bavarese, sua madre viene descritta nel dettaglio come una tiranna di inaudita severità. Vive un'infanzia difficile, suo fratello Alfred arriva ad uccidersi per i dissidi con la madre, lei stessa approfitta di una maternità accidentale per sposarsi e scappar via di casa. Il suo matrimonio fallisce ben presto, ma grazie alla relazione extraconiugale con l'editore espressionista Kurt Wolff entra in contatto con esponenti di rilievo dell'avanguardia letteraria. Allo scoppio della prima guerra mondiale ripara in Svizzera per sfuggire al soffocante clima militarista, ed entra cosí in contatto col giovane poeta alsaziano Yvan Goll, in bilico tra le culture francese e tedesca, a cui resterà strettamente legata fino alla morte di lui.
Con l'immigrazione di intellettuali francesi e tedeschi antimilitaristi, la Svizzera durante la prima guerra mondiale diventa il fulcro delle avanguardie della nuova generazione. A Zurigo sorge col Café Voltaire il movimento dadaista, mentre nel cantone di Ascona, già sede in altri tempi della comunità anarchica di Erich Mühsam, rifugiano artisti e intellettuali privi di mezzi attirati anche dal favorevole costo della vita.
A guerra finita, Claire lascia Yvan Goll e parte per Monaco, dove inizierà una relazione con R. M. Rilke. La donna è combattuta tra la parnassiana, fascinosa ma anche egocentrica chiusura poetica di Rilke e l'impegno civile dell'intellettuale progressista Yvan Goll. Quest'ultimo avrà infine la meglio, ma la coppia vivrà in modo eccezionalmente libero per tutta la sua esistenza, con tradimenti ripetuti ma anche dolorosi da parte di entrambi. Ancora piú del sentimento, è l'identità di vedute e di intenti che salda la relazione col poeta alsaziano.
Claire e Yvan si trasferiscono nel 1919 a Parigi, dove entrambi consolidano una carriera pubblicistica e letteraria avviata in Svizzera. Sono anni di privazioni economiche, ma anche di inebrianti esperienze culturali e mondane a Montparnasse e nel Quartier Latin: i gruppi dadaisti e surrealisti, gli emigré russi e la colonia americana alla "Rotonde" o al "Select", pittori, poeti e intellettuali, Claire Goll entra in contatto - sfruttando spesso il suo ruolo di musa, una via di mezzo tra ”Femme de lettres” e ”Femme fatale” -, praticamente con chiunque abbia un nome in quegli anni a Parigi: Joyce viene descritto come un insopportabile egocentrico, Picasso le risulta sinistro, Breton dispotico e privo di humour. Con l'invasione tedesca, buona parte della bohème parigina si trasferisce in America e i coniugi Goll non fanno eccezione. Pochi anni dopo il ritorno in Francia, a guerra finita, Yvan Goll si ammala e muore di leucemia. Con l'affermarsi dell'esistenzialismo la vedova Goll perde contatto con l'avanguardia letteraria francese.
Tra i ritratti di artisti famosi la dimenticanza piú macroscopica - ma indubbiamente anche perciò emblematica -, è quella del poeta ebreo di lingua tedesca Paul Celan, il quale nei tardi anni quaranta - giovane e sconosciuto - entrò in contatto con il moribondo Yvan Goll, ispirandogli un'ultima serie di poesie che entrarono a far parte della raccolta postuma ”Traumkraut”. Negli anni Sessanta Claire Goll promosse uno scandalo letterario di grosse proporzioni accusando l'ormai celebre Celan di aver plagiato il marito. L'accusa a uno sguardo approfondito si rivela infondata e decreta l'isolamento culturale dell‘autrice nell'ultima stagione della sua esistenza.
Presentiamo per la prima volta al lettore italiano alcuni estratti rappresentativi dalle memorie della scrittrice. Il giudizio nel merito sull'opera di questo o quell'artista è spesso soggettivo e talvolta isterico, influenzato dalle circostanze personali o dalla contingenza storica, ma sempre originale, brillante ed estremamente godibile. Uno dei punti di forza di questo libro risiede non da ultimo proprio nel fatto che Claire Goll faccia piazza pulita di molti cliché biografici e storici.

Nella mia vita ho conosciuto grandi uomini, perfino dei geni: Joyce, Malraux, Saint-John Perse, Einstein, Henry Miller, Picasso, Chagall, Majakovskij, Rilke, Montherlant, Cocteau, Dali, C. G. Jung, Artaud, Lehmbruck, Brancusi ... le loro caratteristiche dominanti erano il fanatismo e una ferrea chiusura. In Satie stesso, malgrado la sua povertà e la sua dolcezza, esisteva un contrasto tra il suo calore e la sua ironia. Restò chiuso fin dentro la corsia dell'Hospital Saint-Joseph, dove nel letto di morte sbraitava e urlava: "La lettera... dov'è finita la lettera?" Colui che in tutta la sua vita non aveva mai aperto una busta, ora respingeva la coperta e rovesciava le flebo per mettere mano a quella misteriosa missiva. In tal modo girò per l'ultima volta la chiave che avrebbe definitivamente sbarrato ogni possibilità di comprensione.
Tra i grandi, nessuno era cosí inarrivabile come James Joyce. Un pesce esotico? Un incrocio tra un gambero e un'ostrica? Io l'ho detestato, ma senza degnarlo dello stesso grado di ripugnanza riservato a mia madre, che ho continuato a odiare perfino al di là della sua miserabile fine in un campo di concentramento.
Ho amato alcuni uomini, e molti di piú hanno amato me; nondimeno ho avuto il primo orgasmo a settantasei anni. A dispetto di tutte le avventure e gli amori, ho dovuto aspettare quell'età perché un ventenne mi insegnasse che una donna può vivere l'atto d'amore anche senza lasciarsi sottomettere.

Claire Goll e la mamma
Nemmeno la scuola offriva possibilità di scampo. Mia madre aveva misurato a passi svelti il tempo necessario per assolvere il tragitto fino a casa. Era assolutamente vietato perdere tempo per strada, dovevo tornare il prima possibile alla mia torturatrice, le cui minacce mi assediavano finanche in bagno: "Ti percuoto con l'ortica, ti strappo le orecchie, ti appendo per i capelli, ti rinchiudo al buio". La sua scorta di insulti era infinita: "mascalzona, fannullona, snaturata, bugiarda, ladra, pettegola, scellerata commediante, isterica sciagurata"...
Possedeva una collezione di scudisci, randelli e frustini da cavallerizzo, e a seconda del tipo di castigo che aveva scelto, ponderava a lungo quale utilizzare. Seguiva un panegirico sulle qualità dell'uno o dell'altro strumento di tortura che mi dimenava sotto il naso: "Questo scudiscio ha corregge molto fini e solidamente intrecciate... non risparmia neanche un millimetro di pelle. Per fortuna esistono ancora artigiani scrupolosi che mettono il cuore nel loro lavoro, e non confondono uno scudiscio con uno straccio per pavimenti... ma forse per la tua sfrontatezza è piú adatto un frustino da cavallerizzo... il vimine al centro sferza come si deve... forse oggi li proverò entrambi, per vedere con quale strilli di piú..."
Se mia madre non fosse stata pazza, sarebbe stata una donna fuori dall'ordinario. Mi dispiaceva solo che io fossi sua figlia. Per una scrittrice come me sarebbe stata una fonte di ispirazione, tuttavia non sono mai riuscita a raggiungere la freddezza e la distanza necessarie ad analizzarla obiettivamente.
La piú grande privazione della mia infanzia è stata l'assenza di Dio. Mia madre proibiva perfino che se ne nominasse la parola.
" Ad eccezione di tuo zio Max, quell'eccentrico neofita, abbiamo sempre fatto a meno di Dio", diceva. Lo zio Max era il filosofo Max Scheler, il quale trascorreva la sua vita cambiando donne e religioni.
Se mi fosse stato impartito un Dio nell'età in cui si avverte il bisogno del soprannaturale, allora da grande sarei diventata atea molto piú facilmente. Per colpa di mia madre invece ho cercato per tutta la vita di raggiungere l'assoluto, pur senza credere in alcun modo a un'entità superiore. Dio è il tentativo di umanizzazione piú ridicolo intrapreso dall'umanità. Nel corso dei miliardi di anni di vita della terra, Dio si sarebbe manifestato solo quattromila anni fa agli Ebrei e duemila anni fa ai Cristiani, con evidente preferenza per la razza bianca e a discapito di neri, gialli e pellirosse? A queste favole posso rinunciare senza sforzo.
Mia madre negava l'esistenza di Dio perché non ammetteva che si potesse rendere conto ad altri oltre che a lei. Se non si condivideva il suo ateismo, si sentiva offesa personalmente e perciò respingeva senza fare eccezioni i rappresentanti di qualunque religione, fossero essi pastori evangelici, preti cattolici o rabbini.

La nostra casa era ammobiliata in Jugendstil, quell'orribile "nuova arte" germanica. La bruttezza di ogni singolo arredo spaventava perfino gli uccelli che si avvicinavano troppo alle finestre. Per fortuna anche quell'orrore non esiste piú. Le case in cui ho abitato in Germania sono state ripulite dalle bombe in modo cosí scrupoloso che non ne è avanzato niente.
Nel soggiorno troneggiava un enorme tavolo ovale ricoperto da una tovaglia di pizzo. Qualunque cosa mia madre scegliesse superava la misura. Accanto al tavolo si trovava la sedia a dondolo di mio padre e al centro della sala una stufa a fuoco continuo.
" Apri un po' la finestra per cambiare l‘aria", ordinava mia madre ogni mattina "ma senza raffreddare la sala. Aggiungi poi un secchio di carbone, e che duri fino a domani". Il soggiorno era l'unica stanza ad essere riscaldata, oltre a quella di mia madre. Nella mia camera invece una sontuosa stufa di maiolica a tre piani serviva solo per fini decorativi. Quando il giorno del mio matrimonio ebbi l'arditezza di accenderla per asciugarmi i capelli, mia madre si precipitò nella stanza come una furia:
" Sei diventata pazza? Ci vuoi ancora rovinare, prima di andartene via?" gridò, "spegni subito il fuoco! Finché sei a casa mia, sei tenuta a fare quello che dico io!"

James Joyce e il resto del mondo
Goll conosceva una quantità infinita di persone e aveva un talento quasi magico per sciogliere la riservatezza dei suoi interlocutori. La sua vitalità e socievolezza vinsero gradualmente anche la mia inclinazione alla misantropia. Una delle prime personalità di rilievo che ebbi modo di conoscere per suo tramite fu James Joyce, che incontrammo a Zurigo nel 1918.
Joyce abitava insieme alla sua famiglia in un appartamento ammobiliato con un cattivo gusto piccolo-borghese. I suoi bambini, di dieci e dodici anni, strusciavano sul pavimento da una stanza all'altra. Fuori dalla cucina alla moglie non veniva concessa alcuna attenzione. La casa era ordinata e pulita, ma dava l'impressione di una sistemazione di ripiego in cui Joyce si muovesse a disagio. Aveva lasciato Trieste quando apparteneva ancora ancora all'impero austro-ungarico per evitare di essere internato come straniero ostile. Prima della sua partenza le autorità gli avevano imposto di sottoscrivere una dichiarazione giurata, con la quale si impegnava a non prendere parte alle ostilità. Dal tono burlesco con cui raccontava l'episodio, avrei detto che avrebbe giurato qualunque cosa, pur di non essere coinvolto in una bazzecola di nessuna importanza come una guerra mondiale con milioni di morti.
" Non ho nessuna voglia di farmi sforacchiare dalle pallottole dum-dum", diceva "Se tutte le persone fossero come me, non ci sarebbero piú guerre. Io sono un individualista pacifista."
Sua moglie assentiva e aspettava che suo marito si levasse di torno per apparecchiare la tavola.
" Io ho le mie battaglie da combattere", aggiungeva misteriosamente.
Joyce era contro le guerre come contro le tasse, i preti, i giudici, i re, il papa, l'imperatore, il proletariato e contro qualunque altra cosa che potesse disturbare la sua tranquillità. "La maledizione di Mosé ricade su entrambe le fazioni", aveva scritto in una poesia umoristica in cui a turno vestiva i panni del fanfarone, del saggio, dell'idiota o dello spirito superiore.
" Per quale motivo dovrei combattere per un mondo in cui i miei libri vengono bruciati?", affermava "Al contrario! Finché le parti si tengono in scacco a vicenda, io posso preparare il mio contrattacco! È quel che faccio dal maledetto giorno del 1912, in cui a Dublino un fiammifero appiccò fuoco al mio Stephen Dedalus."
Per allusioni molto vaghe accennava ad un testo a cui lavorava a quel tempo, ma di cui si rifiutava di definire sia la forma che i contenuti. Ne parlava sussurrando, come se ci fosse un nugolo di spioni in agguato per intercettare la novità. A volte si alzava improvvisamente e andava in un'altra stanza; quando ritornava, domandava a Goll l'origine di una certa parola tedesca o l'esatta formulazione di un modo di dire. Joyce era incredibilmente portato per le lingue; sapeva l'italiano, il tedesco, il francese, il turco, l'arabo, e anche, credo, lo svedese e il sanscrito... Collezionava parole, espressioni e improperi, di cui credo avesse già fatto abbondante incetta tramite suo padre, il quale aveva trascorso gran parte della sua esistenza al pub. Analizzava i termini, li spiegava storicamente, filologicamente, grammaticalmente e anche foneticamente. Joyce si interessava di tutto: teologia, diritto, biologia, filosofia, glottologia, mitologia, genealogia, araldica, musica, canto gregoriano e opera. A me sembrava però che di tutto egli facesse un gioco sterile. Chi lo ascoltava era indotto a credere che tutti gli sforzi dell'umanità avessero avuto come unico obiettivo quello di consentire a James Joyce un gioco di parole, un doppiosenso o una dotta citazione, che venivano sempre sottolineati da un cenno di assenso da parte dei presenti. Sua moglie era talmente suggestionata che non si permetteva mai nemmeno un applauso. Per tutta la sua esistenza non comprese una parola delle ingegnose battute del marito. Restò convinta fino alla fine dei suoi giorni di essere la moglie di un serioso insegnante di lingue, a cui di tanto in tanto passava per la testa di scrivere.
Joyce a Zurigo non se la passava male. Mrs. McCormick, la ricca ereditiera di un'omonima fabbrica di macchinari agricoli, lo sosteneva sontuosamente. Nondimeno prima di ricevere quei sussidi mensili aveva conosciuto la miseria. Sua figlia Lucia era nata nella sala parto per poveri di Trieste. Gli anni duri avevano trasformato la sua pelle già coriacea in un'autentica corazza. Goll era talmente affascinato da Joyce, che gli perdonava persino la sua indifferenza politica. Comprendeva perfettamente che ci si potesse rinchiudere in maniera assoluta nella stesura di un opera letteraria.

Hans Arp e il caso
Quella coppia aveva qualcosa di etereo, ricordava due formiche alate o due farfalle su un prato in fiore: lei graziosa, sorridente, serena; lui divertito e divertente, con le mani sempre occupate a forgiare, carezzare, comporre... l'assoluto contrario di quegli artisti che si torturavano per trovare sé stessi, o che si ritiravano dal mondo per non farsi contaminare. Arp e Sophie volevano restare permeabili a tutto, cancellare la loro essenza e le loro predilezioni per non offuscare le fonti della bellezza.
La sua rinuncia a una patetica esaltazione dell'io condusse Arp ad una delle piú significative scoperte del ventesimo secolo: il caso. Un giorno in cui era stato molto produttivo e si apprestava a distruggere alcuni dei fogli sui quali aveva appena disegnato, ne prese uno e lo strappò gettando senza cura i pezzi sul pavimento. Quando successivamente guardò per terra con piú attenzione, si accorse che i frammenti si erano raggruppati in una perfetta quanto accidentale armonia. Il caso aveva lavorato meglio dell'artista. Arp incollò i pezzi esattamente come li aveva trovati per terra e diede alla sua opera il titolo "Secondo le leggi del caso".
I dubbi sull'infallibilità dell'uomo e sulla supremazia della ragione erano già stati sollevati da Freud, e recepiti in modo particolare dagli espressionisti, i quali avevano valorizzato i disegni dei malati di mente per dare espressione a quel che sfuggiva ad una lucida coscienza. Ma siccome all'uomo non riesce di spazzare via un ordine senza sostituirlo con uno nuovo, non restava altra soluzione che di rimuovere la disciplina e lasciare tutto al caso.
Al medesimo tempo in cui Arp sperimentava con i suoi frammenti, Hans Richter decise di non dipingere piú prima dell'irruzione del buio, ovvero nel momento in cui è quasi impossibile distinguere i colori. In quel modo dipinse circa cento ritratti, che intitolò "Teste visionarie".
" Il momento attivo della creazione", spiegava Richter "non è il dipingere medesimo, né lo schizzo anteriore, bensí l'attimo in cui l'inconscio viene involontariamente alla superficie. La verità è quel che sfugge alla nostra volontà e al nostro controllo."

Franz Werfel e Alma Mahler
Anche Franz Werfel ci fece visita a Zurigo. Si mise in contatto con me non appena arrivò in città, ancora tutto preso dall'incontro con Alma Mahler, la vedova del compositore.
" Dovrei sposarla?" mi domandò senza troppi preamboli.
Dall'ultima volta che ci eravamo visti non era maturato per niente - sempre il solito giovincello ardente ed emotivo.
" Alma è meravigliosa, una donna fuori dal comune", assicurò "ha tutta Vienna ai suoi piedi."
Andammo insieme all'opera a sentire l'Aida. La musica eccitò ancor di piú i suoi nervi. Il suo viso splendeva, un fuoco tragico luceva nei suoi occhi. Quando squillarono le trombe, Werfel fu sul punto di saltare sulla sedia.
" Il Nilo, il Nilo!" gridò "Non senti il Nilo nelle trombe?"
Nell'estasi isterica si era aggrappato a me e ansimava.
" Franz, mi stai storcendo il braccio."
Non mi sentiva. I suoi gemiti e urli continuati disturbavano sia il resto del pubblico che i cantanti.
" Devo sposare Anna Mahler oppure no?"
Non era una domanda quella che mi pose all'uscita dall'opera, ma un appello che esigeva una decisione categorica e istantanea.
" Io la conosco solo per sentito dire", risposi.
" Cosa si dice di lei?" gridò in preda all'eccitazione.
" Che non è esattamente una vergine appena licenziata dal convento. Ma questo comunque ti è ben chiaro, spero."
" Da una donna non pretendo niente di simile!"
" Allora va bene", dissi io "E si intende pure di musica!"
" Sai delle cose su di lei che non mi vuoi dire?"
Mi afferrò per le spalle. I suoi occhi sbarrati scintillavano nella notte in modo sinistro.
" Franz, io non l'ho mai conosciuta personalmente, e non ho niente contro di lei, ma la sua cattiva fama è diffusa a Berlino, Monaco e senza dubbio anche a Vienna. Dapprima ha sposato un musicista, Gustav Mahler, il quale non ha avuto pace fino alla morte, ed è morto giusto in tempo perché potesse andare a letto col pittore Kokoschka... Ora che è sposata con l'architetto Gropius, forse alla sua collezione le manca uno scrittore... evidentemente si tratta di una musa alquanto versatile!"
" Questo non prova proprio niente", urlò Werfel.
" Io non la conosco e non la posso giudicare."
" Sí o no", mi ordinò, "matrimonio oppure non-matrimonio - dimmi la tua opinione."
" Non ho da decidere io sul tuo destino."
Ciononostante dovetti ascoltare per strada un monologo di piú di un'ora sulla necessità di quel matrimonio e poi di nuovo sulla sua impossibilità.
" Cosa faresti tu al mio posto?" domandò infine.
" Franz, non sei piú un bambino. Sei tu che devi sapere quello che vuoi davvero."
" Ma lei è molto piú vecchia di me!"
" Questo non conta", dissi io "visto che tu sei cosí straordinariamente maturo."
" Allora pensi che dovrei sposarla?"
" Sposala", dissi io, estenuata dal combattimento. "Poi si vedrà quel che accade. Del resto, c'è sempre la possibilità di separarsi."
" No", affermò lui solennemente, "dopo è troppo tardi."
Non sapeva ancora quanto avesse ragione.

André Breton e il Surrealismo
La nostra strada correva parallela con quella dei surrealisti. Ci incontravamo spesso con Louis Aragon e Charles Vildrac, e stringemmo amicizia con Eluard, Soupault, René Crevel, André Masson, Antonin Artaud e piú tardi anche con Salvador Dalí.
Per quel che riguarda invece André Breton, ben presto scoccarono scintille che condussero a un'esplosione. Il taglio definitivo si consumò nel 1924 al "Theatre des Champs-Elysées". Come nei drammi antichi c'era di mezzo una donna, Valeska Gert, una ballerina tedesca che aveva partecipato ai fulgori del DADA berlinese. Siccome voleva esibirsi nelle sue folli danze a Parigi, pregò Yvan Goll di farsi garante dei suoi trascorsi. Goll accettò di buon grado, e cosí Valeska Gert fece tappezzare tutti i muri di Parigi con un manifesto che annunciava "una serata di danza surrealista".
Non appena Valeska Gert calcò il palcoscenico, i surrealisti lo subissarono di fischi e uova marce. In sala scoppiò un trambusto indescrivibile. Breton montò su una seggiola e ad alta voce avocò a se il diritto esclusivo di utilizzare la parola "Surrealismo".
Non era piú un poeta a gesticolare, ma solo il titolare di un marchio di fabbrica.
" Breton", affermò Goll, "abbia almeno la compiacenza di lasciar danzare Valeska Gert!"
A quel rimprovero André Breton cadde quasi dalla seggiola.
" E Voi, signori", continuò Goll, "imparate un po' di buona creanza..."
I fedeli di Breton si scagliarono su Goll brandendo i loro randelli, con lo stesso Breton alla testa degli aggressori. Senza essere consapevole di accingermi all'azione piú coraggiosa della mia vita, e pur terrorizzata dall'idea che una sbarra di ferro potesse demolirmi la dentiera, mi gettai tra i due contendenti, i quali, tenendosi reciprocamente per il bavero, mi trascinarono avanti e indietro per la sala. A un certo punto il pugno di Goll schioccò accidentalmente in piena faccia di Breton. Valeska Gert, che fino a quel momento aveva coscienziosamente continuato a danzare come se non stese accadendo nulla, restò pietrificata come una statua di sale all'udire l'urlo di dolore che giunse fino al palcoscenico.
Il pubblico si affollò intorno a Breton, il cui occhio si gonfiò alla velocità del vento realizzando un gioco di colori dal rosso al violetto, fino a un profondo e definitivo blu notte. Breton vacillò, si assicurò che ci fossero abbastanza persone per afferrarlo, e si lasciò cadere all'indietro con le braccia incrociate. Le sue urla avevano fatto in tempo ad allarmare la polizia, che in breve fece irruzione nella sala. Alla sua vista Breton si riassettò, fece un passo fuori dalla folla e con espressione solenne affermò:
" Signori, la questione non vi riguarda."
Tuttavia tra Breton e Goll la guerra era stata ormai dichiarata. Al principio di scontro pugilistico fece seguito un duello letterario. Ancor prima che Breton pubblicasse la sua rivista "Le Surréalisme au service de la Révolution", Goll diede vita ad una sua rivista dal sobrio titolo "Surréalisme", a cui collaboravano René Crevel, Marcel Arland, Reverdy, Delauney e Jean Painlevé.
Breton considerava quell'iniziativa come un affronto personale. Pretendeva da chiunque obbedienza e sottomissione. Il fatto che Goll agisse secondo discrezione personale lo mandava su tutte le furie. Come Jacques Maritain, di cui avevamo appena fatto la conoscenza, anche André Breton si sentiva incaricato di una missione superiore. Maritain voleva far trionfare la verità celeste nelle teste dei suoi contemporanei, e sognava in particolar modo di riportare sulla retta via omosessuali e bestemmiatori. Breton per contro si era autonominato rappresentante della modernità, e usava i gomiti per portarsi alla testa di coloro che propagavano le nuove idee.
A parte un paio di compagni di sbronze, Breton non disponeva tuttavia di truppe proprie da mandare in battaglia. A tal scopo cercò di influenzare chiunque gli capitasse a tiro, stipulò patti di non belligeranza con Gide e Valéry, e alleanze strategiche con Tzara e Picabia. Agli uni prospettò sostegno e sovvenzioni, agli altri un seguito di giovani fedeli e devoti. Dissipava quasi tutto il suo tempo e le sue energie in trattative, telefonate e incontri segreti.
Breton era quel che io definisco uno scrittore-stratega. Fino al 1924 non aveva pubblicato che tre opuscoli, uno dei quali insieme a Soupault. Con quel misero bagaglio non poteva impressionare nessuno, a parte forse un burocrate. Indubbiamente conscio dei propri limiti, Breton, invece di coltivare il suo talento, si concentrò sulla manipolazione delle persone. In tutte le epoche è possibile incontrare simili scrittori, i quali, con il pretesto di valorizzare teoricamente le idee di una generazione, sostituiscono la produzione di un'opera propria con il controllo di quella degli altri.
Breton pubblicò quindi il Manifesto del Surrealismo, che riprendeva idee già espresse da altri in modo analogo a Berlino, Mosca o Parigi. Quel manifesto gli serví da tribuna, sulla quale egli montò lestamente per autoproclamarsi direttore della scuola. Sfruttando la proverbiale inettitudine di poeti e pittori in faccende pratiche, si incaricò dell'organizzazione di mostre e pubblicazioni, cosí come della redazione di volantini e manifesti. Arrivò ad aprire una o due gallerie che vennero riservate ai suoi seguaci, e per le quali, al fine di consolidare il suo dominio, egli si riservava il diritto di scrivere raccomandazioni.
Il pungolo interiore di Breton non era il denaro. Per quasi tutta la vita dovette fronteggiare preoccupazioni economiche e privazioni. Solo a sessanta anni entrò in possesso di una somma di denaro degna di nota, grazie alla vendita di un quadro di Mondrian al Museo d'Arte Moderna di Stoccolma. Breton era assetato di potere alla sua mistica maniera. Intendo dire che non aspirava né al potere del politico che guida le sorti di un paese, né a quello derivante da un'opera letteraria come quella di Goethe o di Victor Hugo. Breton aspirava piuttosto ad un potere sulla vita interiore delle persone. In qualità di fondatore di una religione, ne faceva derivare morale, comportamento e orientamento politico. Assurse cosí a capo di stato o gran sacerdote, in grado di disporre di una polizia e di un apparato di spionaggio propri.
Grazie alla sua intelligenza affascinò Max Ernst, Miró, Aragon, Eluard, ma non credo che nella storia della cultura esista un esempio analogo di esercizio dittatoriale del potere, a parte forse l'Académie Française, che ai suoi albori scomunicò Molière e Corneille. Breton timonava il suo Surrealismo con i metodi dell'Inquisizione e sorvegliava i suoi amici fin nel dettaglio. Se lo si incontrava al "Certa" mentre sorbiva un curaçao al mandarino, ci voleva coraggio, ma cosa dico, ardimento per ordinare un bicchiere di vino o una birra.
Siccome detestava gli omosessuali, allontanò dalla cerchia surrealista tutti coloro che mostravano simili tendenze, che egli definiva contronatura. Solo Crevel incontrò grazia ai suoi occhi perché era bisessuale e talvolta aveva rapporti anche con le donne.
" Breton parla continuamente di umorismo", notò Goll "ma io non conosco nessuno che ne possieda meno."
A quel tempo erano all'ordine del giorno le burle surrealiste. Soupault per esempio suonava a tutti i portoni di una determinata strada, domandando alle concierges se nel palazzo abitasse monsieur Soupault. Michel Leiris si introduceva di soppiatto nei vespasiani pubblici e da dietro le spalle arpionava col manico arrotondato del bastone tra le gambe degli utenti, i quali inevitabilmente si aspergevano di urina le mani e i pantaloni. Contro il papa dei surrealisti tuttavia nessuno si poteva permettere alcun genere di burla. Dalí era l'unico a realizzare coerentemente le sue beffe senza guardare in faccia nessuno, nemmeno Breton.
" Perché vi lasciate dominare cosí da Breton?" domandò Goll una volta a Max Ernst e Masson.
" Oh, sa, noi siamo pittori... A noi può raccontare quello che vuole, il nostro lavoro non ne viene influenzato."
Goll pose la stessa domanda a Desnos e Eluard.
" Oh, sa, noi siamo poeti... Noi abbiamo il nostro lavoro e andiamo per la nostra strada. Breton terrorizza principalmente i pittori."
Tutti respingevano l'accusa di essere succubi. André Breton da parte sua continuò imperterrito a sognare della sua piccola cerchia esclusiva, prescelta da lui e dal destino per la salvezza del mondo.

Picasso e Kokoschka
Ho posato da modello per molti artisti: Chagall, Delauney, Archipenko, Léger... solo con Picasso sono incappata in una brutta giornata.
Una volta ci eravamo incontrati per strada, e lui come al solito aveva mostrato impetuosamente la sua gioia.
" Perché non viene mai a trovarmi?", urlò "Lei ha una testa che mi piace. Vorrei disegnarla. Passi pure a trovarmi, per Lei ci sono sempre."
Qualche tempo dopo suonai alla sua porta in Rue La Boétie. Sua moglie Olga aprí e bruscamente domandò:
" Desidera?"
" Sí, è... mi è stato detto... cioè, Picasso ha detto che sarei dovuta passare..."
" A quale scopo?"
" Voleva ritrarmi."
" Ah, davvero?"
Olga non possedeva una punta di amabilità, tuttavia sarebbe stato umiliante andarsene via solo per quell'accoglienza villana.
" Per favore, dica al signor Picasso che madame Claire Goll è alla porta", dissi affettatamente.
" Impossibile. Non può essere disturbato per nessun motivo. Neanch'io posso entrare nel suo atelier."
Anche in quelle manovre diversive Picasso era un maestro. Quando era di buon umore usciva, distribuiva inviti a destra e a manca, pianificava feste e ricevimenti e non so che altro. Ma non appena riprendeva in mano il pennello, sbarrava la porta e dava sfogo alla sua furia pittorica. In quel momento non aveva piú amici, né manteneva gli impegni presi. Lo stesso Henri Michaux doveva essere stato vittima degli umori del maestro, poiché lo chiamava nientemeno che "quell'idiota di un catalano" oppure "il deficiente andaluso".
Con Oskar Kokoschka, il piú grande pittore tedesco del suo tempo, ebbi maggior fortuna. Fummo presentati a Parigi nel 1927. Kokoschka mi pregò subito di posare per lui. Abitava in un quartiere povero dalle parti di Porte de Vanves.
" Fa la fame", mi raccontò in confidenza un amico, "ma si guardi bene dal portargli qualcosa. È in grado di metterla alla porta e di lanciarle dietro le sue offerte."
Kokoschka era davvero una personalità che incuteva terrore, un selvaggio che si scagliava sulla tela e vi scaricava le sue energie - per poi magari distruggere il quadro, strappare i disegni o calpestare il suo lavoro. Era cosí invasato che ogni volta che tornavo a casa da una seduta di posa, il mio gatto siamese Mandalay, regalatomi da Jacques Villon, mi girava intorno annusandomi e digrignando i denti col pelo ritto. Dovevo certo odorare di tigre o di lupo.
Kokoschka mi apriva la porta sempre in maniche di camicia e con gli strumenti per dipingere in mano. Il suo atelier, arredato unicamente di povertà e disperazione espressionista, emanava un'atmosfera angosciante. Le lenzuola del suo materasso per terra erano nascoste da una coperta; un divano per i modelli giaceva in un angolo, e l'unico lusso, oltre al cavalletto, era uno sgabello che gli serviva anche da tavolo.
" Si metta in posa e non si muova", ordinava Kokoschka.
In quanto pioniere della sua generazione era stato costretto alla fuga dagli studenti fascisti che avevano cominciato a bruciare i suoi quadri. Era riparato in Francia nella convinzione di trovarvi un'accoglienza favorevole. Ma la sua fama smagliante conquistata dopo anni di sforzi a Berlino e Vienna non travalicò mai il confine francese. Nessuno a Parigi conosceva il suo nome o sapeva solo pronunciarlo. Kokoschka doveva sempre ripeterlo almeno tre volte, e anche successivamente le persone non erano sicure che si trattasse davvero di un nome o piuttosto di un diminutivo.
" Kokoschka? Ancora una nuova droga?" si informò Picasso, quando sentí il suo nome per la prima volta.
Non un collega andò mai a visitarlo, figurarsi poi un mercante d'arte che volesse comprargli un quadro o proporgli una mostra. Io non sapevo proprio come aiutarlo. Non avevo il coraggio di invitarlo in un ristorante, e ancora meno di portargli un piatto cucinato da me. Per raggirarlo decisi una volta di presentarmi da lui con due dolci alla fragola.
Dopo due ore di seduta era solito preparare il té. Al posto delle tazze c'erano solo due latte di conserva vuote che Kokoschka aveva ornato di teschi. Macabro. Io cominciai a mangiare una delle paste nella speranza che volesse imitarmi. Lui però per tutto il tempo non guardò le mie mani né il piatto, bensí mi fissò negli occhi. Subito dopo si rimise al lavoro.
Ero già sulle scale quando la sua porta si riaprí. Kokoschka apparve sulla soglia con il dolce in mano.
" Ha dimenticato qualcosa!" disse.
" Devo proprio portarmela dietro con questo caldo?" replicai piccata.
Sono sicura che non la toccò neppure in seguito.
Kokoschka non riuscí mai a perdonare a Parigi quelle umiliazioni. A lungo, ben al di là del suo ottantesimo compleanno, rifiutò di esporre in Francia. Siccome Parigi lo aveva ignorato, anche lui ignorò Parigi.


a cura e traduzione di Antonello Piana





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