E così il 3 gennaio 1915 partì improvvisamente e precipitosamente [8] con tutta la famiglia per Genova, nutrendo la speranza che la crisi venisse presto superata per poter condurre di nuovo, non appena fosse passata, «una vita più consona alle sue inclinazioni e al dovere verso se stesso.» [9] Fu costretto a far tappa a Zurigo. Questa sosta forzata [10] durante la quale mi è difficile immaginare che non abbia preso contatto con colui che diventerà la figura più importante del suo esilio, Volkmar Andreae, è come un segno del destino, un seme che germoglierà nell’autunno successivo, quando la scelta di un luogo dove stabilirsi, di «una piccola isola per salvarsi dal diluvio universale» [11] sarà urgente e improrogabile.
Dall’America scrive agli amici europei lettere intrise di nostalgia, [12] delusione, [13] amarezza, [14] dubbi, [15] ma anche di fermi propositi di portare a compimento i suoi progetti artistici. [16]. «Questi progetti» - scrive a Petri dalla nave (nº 185, p. 271) - «mi sostengono di fronte a un prossimo futuro alquanto incerto. Sì! - perché, quando ci incontreremo di nuovo? Questa impossibilità di fare piani dopo 10 anni di regolato lavoro costruttivo, al culmine delle mie energie vitali, è un colpo durissimo!»
Compone nella primavera del ‘15 il Rondò arlecchinesco, [17] dopo aver terminato i concerti e la seconda parte del Clavicembalo ben temperato di Bach e la Fantasia Indiana. [18] Scrive un libretto per Louis Grünberg. [19] L’impossibilità di allestire Arlecchino a New York lo induce alla decisione di lasciare al più presto l’America. [20]
L’idea di stabilirsi in Svizzera comicia ad allettarlo alla fine di giugno del ‘15: «Sto pensando seriamente di andare in Svizzera passando per l’Italia. (Darei 100 Stati Uniti in cambio di un vecchio angolino europeo).» [21] L’entrata in guerra dell’Italia nel maggio del ‘15 aveva infatti complicato ulteriormente la sua situazione: «Complication morale et pratique», scrive a Philipp. [22]
Ma un mese dopo è ancora in preda all’incertezza:

Sono ancor sempre incerto su quel che farò. Ne soffro molto e trovo vergognoso restar qui al riparo, in una vile sicurezza, aspettando che si proclami la pace. Sono europeo e (Dio sia lodato) più uomo tra gli uomini che virtuoso di professione. [Lettera ad Harriet Lanier, 18.07.1915, nº 198.]

Intanto nei giornali italiani e tedeschi si critica aspramente la sua scelta di abbandonare l’Europa. [23] È di questo periodo la lettera aperta alla «Vossische Zeitung».
All'inizio di agosto prende infine la decisione irrevocabile di tornare in Europa e di stabilirsi temporaneamente in Svizzera. [24] Il soggiorno americano gli era talmente insopportabile che lo definì in una missiva a Edith Andreae «esilio detestato». [25] Il bilancio negativo non riguardava solo la sua quinta e ultima tournée, bensì tutte le precedenti quattro. [26]
Busoni lasciò definitivamente gli Stati Uniti ai primi di settembre del 1915, imbarcandosi con la moglie Gerda e il secondogenito Raffaello [27] su un piroscafo italiano: «Un disgusto insormontabile», interpretato dal Dent come «nausea intellettuale e morale», [28] lo fece «fuggire e tornare - nonostante tutto - in Europa». [29]

Durante l'estate il profondo disgusto nei confronti degli Stati Uniti gli fece prendere una decisione irrevocabile: tornare in Europa e stabilirsi in Svizzera, in terra d'asilo quindi.
È opinione corrente che si sia trattato di esilio volontario. Ma il problema è più complesso di quel che possa apparire a prima impressione. Busoni fu definito da Paul Bekker una «Grenznatur», ossia un uomo e un artista di frontiera, al confine non soltanto tra esecuzione (l'attività di pianista e di direttore d'orchestra) e creazione (l'attività compositiva), tra il culto della tradizione (Bach, Mozart, Liszt, Verdi…) e l'anelito verso il nuovo (la politonalità, l'atonalità, i terzi di tono...), ma anche e soprattutto tra la cultura germanica e quella latina: la profonda assimilazione di queste due culture in ogni ambito (musicale, letterario, pittorico, architettonico...) non determinò, almeno in apparenza e fino allo scoppio della guerra, dissidi o lacerazioni interiori né sul piano umano, né su quello artistico; anzi, come acutamente rilevò Willi Schuh,

die Spannung zwischen romanischem und germanischem Wesen wurde in ihm ebenso fruchtbar wie die zwischen klassischer und romantischer Geistigkeit und wie manch andere noch, die dem an Widersprüchen reichen Bild seiner Persönlichkeit das Sprühend-Lebendige, das im Geistigen gleichsam Vibrierende geben.

Tuttavia, sebbene dichiarasse spesso, senza esitazioni e con orgoglio, di sentirsi latino nell'animo e fosse sempre intenso, anche se tormentato e contradditorio, il legame con l'Italia e le sue istituzioni musicali, Busoni aveva maggiore familiarità con la lingua, la cultura e la forma mentis germaniche. La padronanza del tedesco (da lui stesso definita «eine Sprache in der ich mich sicherer bewege» ), in particolare del registro aulico-letterario e dei sottocodici artistico-estetici, era superiore a quella dell'italiano e delle altre due lingue, francese e inglese, di cui pure aveva un'ottima conoscenza: egli scrisse infatti i saggi teorici, i libretti d'opera e gran parte delle lettere in tedesco e non prese mai seriamente in considerazione la possibilità di tradurre in italiano i testi che avrebbe poi musicato, proprio perché la sua limitata competenza nell'ambito del linguaggio poetico non gli consentiva di raggiungere risultati esteticamente soddisfacenti.
Se il tedesco (lingua e tradizione letteraria) stava alla base della sua creatività, non altrettanto riconoscibile era la sua patria, poiché amava definirsi cittadino del mondo o, più spesso, d'Europa. Inoltre, seppure in maniera diversa rispetto all'amico Rilke, se non altro perché il viaggio (la tournée) era una delle componenti essenziali della sua professione di pianista, Busoni era un viandante inquieto, tormentato, incapace o non disposto a mettere radici in una patria istituzionale. Come Rilke, riteneva che il luogo della nostra nascita fosse di fatto provvisorio e che il vero luogo della nostra origine spirituale non si potesse ridurre a formule etniche, poiché esso si compone in noi a poco a poco, grazie all'esperienza di vita, alla formazione, alla cultura ma soprattutto all'arte.
Egli, tuttavia, in tempi in cui la profetica «gefahrdrohende Miene» manniana si era trasformata in violenza bruta, non poteva non tener conto del contesto storico in cui viveva ed era anche per lui inevitabile una "scelta di campo". Nella drammatica situazione provocata dalla guerra, il concetto di patria non gli era quindi estraneo ed è indubbio che la quella d'elezione (la Germania) avesse per lui una rilevanza maggiore rispetto a quella istituzionale (l'Italia). Ciò non significa ovviamente riproporre la «consunta storia di una sua germanofilia»: significa soltanto affermare che egli, in quel periodo storico, non avrebbe potuto vivere stabilmente in Italia, sia per l'arretratezza culturale del suo paese, sia per il modo col quale venivano gestite le istituzioni musicali, sia per i gusti musicali del pubblico italiano, «mal educato alla purezza, ed incapace di riconoscere in essa la grandiosità e la perfezione», sia infine perché ciò avrebbe compromesso irreparabilmente i suoi rapporti futuri con la Germania, con Berlino in particolare.
Questa consapevolezza, unita all'intima convinzione che «l'esilio [...] non è penoso come vivere soli in patria», non soltanto lo indusse, ma lo costrinse a stabilirsi in un paese non belligerante, equidistante dalle due nazioni che ormai lo consideravano con ostilità e dalle quali era contemporaneamente respinto, come persona non grata. Se è esagerato definire coatto il suo esilio, non mi sembra d'altra parte plausibile considerarlo del tutto volontario: nel caso di Busoni, queste due componenti, benché antitetiche, paradossalmente coesistono. Dipendente dalla sua volontà fu semmai la scelta del luogo in cui trascorrere gli anni della guerra. Ed egli scelse la Svizzera perché essa si trova nella "sua" Europa e non era martoriata dalla guerra: infatti, fedele alla sua tradizione secolare, «aveva notificato agli Stati belligeranti la ferma decisione di rimanere neutrale».

Busoni lascia definitivamente gli Stati Uniti ai primi di settembre del 1915 insieme alla moglie Gerda e al secondogenito Raffaello. Sbarca a Genova il 10 settembre esausto e ammalato; si reca poi a Milano dove resta due settimane in attesa del passaporto per poter uscire dall'Italia. Nel frattempo il Conte di San Martino, presidente dell'Accademia di Santa Cecilia, gli offre la nomina di professore di pianoforte a Roma. Busoni decide di non accettarla, dichiarando di non essere adatto per una tale mansione, ma anche di ritenerla non sufficientemente prestigiosa. In realtà, tali motivazioni sono secondarie se confrontate con quelle, in parte inconfessabili, elencate in precedenza. Ottenuto il passaporto, parte per Losanna dove Émile Blanchet, pianista e compositore, suo ex allievo, lo ospita. Ne informa subito la baronessa Jella Oppenheimer:

Ora sono qui, convalescente; sto riacquistando le forze per prendere delle decisioni. Per il momento poco posso decidere, così poco come tutti gli altri. Quanto va perso! Ma tento di fare quello che posso e a New York sono riuscito a fare alcune cose che non sono del tutto da buttar via! Infatti: che cosa, se non l'arte, sopravvive a tutte le guerre?

Avverte acutamente in questo periodo la mancanza di una patria. In una lettera scritta qualche giorno dopo da Zurigo, Busoni confida alla baronessa: «Ella dice che non ho segnato confini angusti alla mia patria, ma in realtà il risultato è che non ho alcuna patria (ne vado prendendo coscienza qui). Così soffro doppiamente.» Tuttavia, dopo poche righe, si nota che il suo stato d'animo, incupito dalle incertezze, comincia a rasserenarsi:

Sono stato accolto qui con grandissimo affetto e ho trovato degli amici in persone da cui non me lo sarei aspettato, di modo che la mia mancanza di una patria appare alleviata in un paese, in cui non avevo posto grandi speranze. [...] La mia vecchia anima, quasi scomparsa in America, vibra in me come nei tempi andati. Prendiamo questo momento come un nuovo inizio. Questa volta proprio definitivo.

Anche ad Arrigo Serato esprime sorpresa per il modo con cui è stato accolto: «La piccola Svizzera, a cui mi credevo perfettamente estraneo, fece a gara per rendermi omaggio, appena mi seppe soggiornante dentro i suoi confini; ne sono sorpreso e riconoscente.» Questa calorosa accoglienza e la consapevolezza che la Svizzera, il primo paese in cui trovava «un atteggiamento di assoluta incomprensione di fronte alla guerra», gli avrebbe offerto tranquillità e lavoro, lo indussero a restare.

I primi mesi a Zurigo
Ai primi di ottobre si trasferì a Zurigo, dove affittò un appartamento in Scheuchzerstrasse 36.
Perché non rimase a Losanna? Perché la scelta cadde su Zurigo e non su Basilea (dove abitava l'amico musicista Hans Huber), su Ginevra (dove insegnava un altro grande amico, José Vianna Da Motta), su Berna (dove conosceva il compositore e direttore d'orchestra Fritz Brun) o su altre città svizzere? La risposta è contenuta in una lettera inedita all'amico parigino Isidor Philipp: «J'ai choisi Zurich pour mon séjour, la ville étant au présent la plus international de la Suisse, et parce qu'elle m'offrait plusieurs occasions artistiques.» In effetti Zurigo, dopo lo scoppio della guerra, «era uscita dal suo silenzio ed era diventata da un momento all'altro la più importante città europea, centro di tutte le correnti intellettuali.» Lo scrittore franco-tedesco Yvan Goll, definì «aufregende Jahre» e «eine grosse bedeutende Zeit» il periodo della Grande Guerra sulle rive della Limmat, mirabilmente rievocato da insigni testimoni, quali lo stesso Goll, Stefan Zweig, Leonhard Frank, Hans Richter, Hugo Ball, Elias Canetti e Otto Luening. Se sono ben note le efficaci e commoventi pagine che Zweig, amico di Busoni, dedicò a Zurigo, meno conosciute sono le testimonianze degli altri artisti citati. Tutti mettono in rilievo la relativa, ma per quei tempi eccezionale e quindi molto apprezzata, libertà di parola e di azione di cui l'artista godeva in questa città. Scrisse per esempio Leonhard Frank:

Hier schien selbst in der Luft etwas zu sein, das es in Deutschland nicht gab, die Menschen in den Strassen hatten eine andere Haltung und blickten anders, und der Gesichtsausdruck war ruhig. Es schien, als hielten sie das Grundrecht, zu leben und zu sein, wie sie waren, für eine Selbstverständlichkeit. War es Freiheit? Auch die würgende Armut, die den Rücken krümmt und das Auge trübt, schien es hier nicht zu geben, auch der Trambahnschaffner hatte eine gesunde Gesichtsfarbe und ein klares Auge. War hier die Verteilung der Güter vernünftiger? Jedenfalls schienen hier, in der demokratischen Schweiz, die Menschen frei zu atmen. [...] Auch aus Frankreich und Deutschland trafen mehr und mehr Kriegsgegner ein, die glaubten, in der Schweiz wirksamer gegen den Krieg arbeiten zu können. Die fremden Vögel, aus den verschiedensten Gründen durch den Krieg in die Schweiz gespült, hatten das Strassenbild, besonders in der eleganten Bahnhofstrasse, verändert und mit Unruhe durchsetzt. Hotels und Cafes waren überfüllt.

Yvan Goll, più di trent'anni dopo rievoca commosso la magica atmosfera che si creava in uno dei locali pubblici frequentati da intellettuali e artisti:

Gerade in dieser Rotunde des Café Terrasse schienen mir von allen Ecken liebe Schatten herüberzuwinken mit denen wir die aufregenden Jahre von 1914 bis 1918 durchlitten und durchlebten. Am linken Ecktisch die Else Lasker-Schüler, die ich vom Café des Westens in Berlin noch kannte, wo ich zur Schar und zum Gefolge des Prinzen von Theben gehörte: ein paar Wochen lang war ich ihr Favorit gewesen. Nicht fern von ihr der schöne prophetische Ludwig Rubiner, der Seiten aus seinem «Mensch in der Mitte» vorlas - am Abend, in der Hadlaubstr. Als unser Nachbar, gab er seine Anmerkungen in privatestem Kreise. Am Nebentisch, im Terrasse, war der gewittrige Leonhard Frank aufgestanden, dessen Buchtitel «Der Mensch ist gut» die züricher Literatenwelt verblüffte. Kam da nicht Albert Ehrenstein, seinem provisorischen Irrenhaus entsprungen, in dem er vor allen Kriegspflichten geschützt war? Hugo Ball und Emmy Hennings schauten flüchtig herein. Aber Tristan Tzara, der drüben in der Schifflände wohnte, lancierte mit sicherem Blick seine Dada-Bewegung. Wilhelm Lehmbruck liess sich selten blicken und Elisabeth Bergner erlebte, nicht hier, aber im nahen Stadttheater, ihre ersten Erfolge. Ich wundere mich immer, warum noch niemand über diese Zeit geschrieben hat.

Non solo l'inusitato aspetto internazionale della città convinse Busoni a stabilirsi sulle rive della Limmat: anche la presenza di Volkmar Andreae, insigne musicista e dinamico operatore culturale, che il grande pianista conosceva superficialmente e con cui era in contatto per motivi di lavoro dal 1907, influì non poco sulla sua decisione. Infatti la citata lettera a Philipp così continua: «[Zurich] m'offrait plusieurs occasions artistiques, par exemple la direction de la seconde moitié des Concerts d'Abonnements, pendant laquelle le chef d'orchestre regulier est appelé à son service militaire. (Le Dr. Andreae est commandeur de Bataillon.)»
Questo colto e lungimirante musicista, figlio di madre italiana ma di solida cultura germanica era «temperamentally attracted towards Busoni's Italian character» e divenne subito, dall'ottobre del '15, un insostituibile punto di riferimento nella città del rifugio non solo sul piano artistico e professionale, ma anche su quello umano. «Dispregiatore di ogni meschina vanità personale», come lo definì Guido Guerrini, capì immediatamente quale importante ruolo culturale avrebbe potuto svolgere Busoni sulle rive della Limmat e, senza esitazione, si adoperò affinché l'esule fosse integrato nella vita musicale cittadina e messo nelle condizioni migliori per svolgere tutte le sue molteplici attività culturali e artistiche:

Wenn ich an Ferruccio Busoni zurückdenke, erinnere ich mich vor allem [...] an den Besuch Busonis im Jahre 1915, wo er erklärte, dass er sich entschlossen habe in die Schweiz überzusiedeln, und uns Schweizer bat, ihm Obdach zu gewähren. Vorher hatte ich Busoni nur als Künstler und geistvollen Menschen gekannt. Hier kam er als Mensch, der, von den Kriegswirren gehetzt, tränenden Auges um Hilfe bat. Noch selten hat mich ein Ereignis so ergriffen und zugleich erfreut: ergriffen durch die Unbeholfenheit dieses grossen Mannes, erfreut, Busoni nunmehr den Unsrigen nennen zu können.

Volkmar Andreae fu una sorta di tenace ma discreto e paziente regista dell'attività di Busoni a Zurigo. Dopo poche settimane, grazie al suo carisma, non ebbe difficoltà a convincere l'orchestra della Tonhalle, di cui era direttore stabile, a eseguire informalmente una composizione che Busoni si era portato dall'America, per permettergli di affinarne l'orchestrazione. Egli diresse regolarmente e con convinzione i più importanti pezzi sinfonici dell'esule, tra cui due prime assolute; gli agevolò i contatti con la Tonhalle e intervenne in prima persona quando si presentavano problemi legati alle date dei suoi recital o al suo onorario. I frequenti incontri in Scheuchzerstasse 36, nella villa dello stesso Andreae, nei ritrovi pubblici della città e alla Tonhalle, la leale collaborazione artistica e la stima reciproca fecero nascere un profondo rapporto di amicizia che le divergenze di opinione su questioni musicali non riuscirono mai a incrinare. «Andavamo d'accordo, penso» - gli scrisse Busoni nel 1923 - «e, in fondo, abbiamo vissuto cinque anni in un'unione spirituale, che non si può cancellare dalle nostre biografie!»
Forse Andreae si mise in contatto con Busoni mentre questi si trovava ancora a Losanna proponendogli attività concertistiche e direttoriali piuttosto allettanti, artisticamente e finanziariamente, in tempo di guerra:

Mi hanno offerto un ciclo di quattro serate di pianoforte a Zurigo, e lo stesso a Basilea. Altro ciclo di quattro concerti sinfonici a Zurigo come direttore d'orchestra, più tre scritture regolari come solista a Zurigo, Basilea e Berna: tutte in un fascio e formando una concatenazione di mie esecuzioni musicali. E quel che vale assai: il tutto fu risolto nel corso d'una mezz'ora! Queste quindici serate comprenderebbero uno spazio di tempo dal 15 gennaio al 4 d'aprile. Io ho accettato in massima, riservandomi la libertà di ritirarmi, qualora i progetti di Roma si rivelassero più importanti.

In questo periodo non soltanto sembra attribuire maggiore importanza a impegni concertisti in Italia, ma riaffiora anche il desiderio di stabilirsi nella sua patria se gli venisse offerto un incarico prestigioso, come risulta da questa lettera a Serato: «Capirai che io non verrei a Roma per far ivi una parte secondaria e che sarebbe peccato di sopprimere le mie capacità e possibilità artistiche, che ora si trovano nel loro pieno sviluppo.» La risposta dell'amico violinista, pur sfumata, lascia però adito a poche speranze: «L'ambiente musicale che qua si va formando, lo credo abbastanza buono ma si riuscirà a dare vita a tutte le buone intenzioni?» Dall'Italia Busoni si attendeva, con trepidazione, un segno di riconoscimento del suo ruolo nell'ambito del rinnovamento della musica italiana. Anche questa speranza si sarebbe ben presto rivelata un'illusione:

Mi addolora di esser tenuto lontano da un movimento di cui, per le mie massime musicali, dovrei trovarmi alla testa, mi addolora di vedere abbreviarsi di ora in ora il tempo, che la mia vita mi lascia a disposizione per un tal compito, e temo che si faccia tardi. [...] Ma l'Italia, teme essa di compromettersi, quando si accinge a rendermi un po' di giustizia, così in parentesi?

Sulla base dei documenti citati in precedenza, non si può escludere che Busoni, nel suo intimo, fosse consapevole del fatto che, dopo la negativa esperienza bolognese, i suoi tentativi di riavvicinamento all'Italia per svolgervi un ruolo musicale di primo piano, si sarebbero rivelati vani poiché i tempi non erano ancora maturi: «le pesanti barriere delle diffidenze, degli equivoci nazionalistici» - osserva Michele Porzio - «riducevano Busoni a un alfiere appena mascerato della cultura tedesca.» Dalle lettere di questo periodo si ricava inoltre l'impressione che avanzasse richieste difficilmente accettabili, come se desiderasse inconsciamente che fossero rifiutate.
Definitivamente accantonato il progetto di stabilirsi a Roma, torna a concentrare i suoi sforzi nell'organizzazione dell'attività concertistica per la primavera del '16. Il 19 novembre può finalmente comunicare a Serato di essere riuscito «a distribuire le date in modo da non mancare a nessun invito».

I primi mesi dell'esilio in terra elvetica si snodano quindi nello sforzo di abbattere la parete di solitudine, di isolamento e di dolore che la nuova situazione ha innalzato. Il musicista è proteso verso il futuro e aperto al mondo circostante: egli si sforza di ricreare una nuova rete di relazioni, approfondendo da una parte la conoscenza con persone che prima della guerra non appartenevano al suo Freundeskreis (V. Andreae, H. Huber e J. Vianna Da Motta), dall'altra instaurando nuovi legami di amicizia, in particolare con il Marchese Silvio della Valle di Casanova e il musicista franco-spagnolo Philipp Jarnach.
Busoni conobbe il Marchese a Zurigo ai primi di dicembre. Diversi i motivi che lo indussero a entrare in contatto con questo poliedrico Kulturmensch: la sua raffinata cultura germanica, il fatto che fosse pianista, allievo di Liszt a Weimar, e che possedesse una cospicua collezione di autografi lisztiani, tra i quali la prima versione della Danse macabre, di cui Busoni voleva curare l'edizione. Da questo breve incontro zurighese nacque una solida e profonda amicizia, fondata sulla reciproca stima, che si consolidò ulteriormente durante la permanza di Busoni a Pallanza nel giugno del 1916, nonostante le divergenze in ambito estetico.
Saputo da Carl Flesch che l'insigne pianista si trovava a Zurigo, Philipp Jarnach gli scrisse una lettera l'8 dicembre, manifestandogli il grande desiderio di conoscerlo personalmente: «Ich hege den grossen Wunsch, Sie persönlich kennenzulernen, und würde mich unendlich freuen wenn Sie mir gestatten, Sie zu besuchen.» L'incontro avvenne sicuramente nel corso dello stesso mese e fu molto importante per la vita di entrambi i musicisti, sia sul piano umano, sia su quello artistico. Jarnach divenne ben presto, nonostante la giovane età (nel 1915 aveva 23 anni) non solo un prezioso assistente del compositore, ma anche una sorta di alter ego del maestro, sostituendo in questo ruolo il pianista Egon Petri, che abitava troppo lontano da Zurigo in quel periodo. Busoni fu subito colpito dall'intelligenza del suo giovane assistente e dalla facilità con cui si destreggiava nei meandri delle sue composizioni. Ne fece un efficace ritratto in una lettera a Vianna Da Motta nel giugno 1917, dopo più di un anno di amicizia e collaborazione:

È spagnolo di nascita, educato a Parigi e di mentalità tedesca, ha un'intelligenza che a una grande rapidità unisce una grande chiarezza nell'afferrare e ordinare le idee. Mi è stato di aiuto, ha fatto la riduzione per canto e pianoforte delle due opere e le insegnerà anche ai cantanti; infatti, su mia proposta, è stato assunto dal Teatro municipale di Zurigo. [...] Inoltre gli piace molto la 'teoria', e spesso spiega a me i miei lavori. Parla un francese perfetto e un tedesco da persona colta. - Voilà Philippe! (È un ottimo pianista).

Qualche mese dopo, Jarnach inviò al maestro una lettera che documenta l'importanza del loro incontro e della loro conseguente amicizia:

Ich vergegenwärtige mir genau wie es war, als ich das erste Mal zu Ihnen kam: sie traten im entscheidenden Moment in mein künstlerischen Leben, im Augenblick wo ich, im Besitze einer gewissen Kompositionstechnik gelangt, ziemlich ratlos im Chaos jüngsten Überlieferungen hin und her schwankte. Sie lehrten mich vor allem das Eine: die unabänderdlichen Wertmesser der Kunst zu erkennen. Das hätte mir aber kein Andere schenken können.

Alla fine del 1915, nonostante l'imponente mole di lavoro che aveva svolto e le nuove amicizie che aveva allacciato, Busoni fece un bilancio amaro del primo anno di esilio. Scrisse infatti a Petri il giorno di Santo Stefano: «Dal tuo angolino tranquillo, non puoi capire che cosa significhi essere scaraventato di qua e di là! Essere privati di tutte le nostre care, belle abitudini, interrompere quello che si era felicemente iniziato. E ancora è andata in modo relativamente tollerabile.» E il giorno di San Silvestro a Edith Andreae: «[...] ho trascorso ormai un anno ininterrottamente lontano dalla Sua città. Se anche non significasse altre che la rinuncia a una cara abitudine, sarebbe già molto. Ma è di più. Spero che la Sua vita non ne sia stata altrettanto sconvolta.»
[8] Cfr. le lettere del 3 gennaio 1915 al grafico Struck: «[...] ich muss, noch heute, reisen...» [Archivio L. Rodoni, Biasca] e a Edith Andreae, nº 184, p. 270. SU

[
9] Ibidem. SU

[
10] Ne fa allusione in una lettera a Egon Petri del 10 gennaio, scritta dalla nave. Nella stessa si augura, a partire dal momento del suo ritorno di «proseguire soltanto in linea retta». [nº 186, p. 271] Cfr. il titolo del mio saggio sull'esilio zurighese: Die gerade Linie ist unterbrochen. SU

[
11] Lettera del 29 marzo 1915 a Egon Petri, nº 189, p. 277. SU

[
12] «[...] non riesco a vincere la sensazione di perdere qualcosa di insostituibile, e la Sua descrizione dello splendore di Berlino mi rende insopportabile il mio detestato esilio.» (A Edith Andreae, 23 giugno 1915, nº 196, p. 285); «In questo momento a Berlino è sera, tra le 9 e le 10. La vedo girare l’angolo del Nollendorfplatz e mi rammarico (tanto!) di non poterLa incontrare» [a Hugo Leichtentritt, 15 agosto 1915, nº 202, p. 294]; «Je souffre de ne pouvoir revoir mon habitation, qui contient tout ce que j’ai ramassé pendant 20 ans de séjour à Berlin; de voir interrompre l’execution de projets bien initiées, qui représentaient le fruit d’un temps aussi longue, on peut dire le résultat d’une vie. [...] Je sens le faux de ma situation et j’éprouve un invincible besoin d’émotions d’un autre ordre. J’espère donc fortement de revenir en Europe pour y trouver ce que mon âme cherche [a Isidor Philipp, 27 maggio 1915]. SU

[
13] «Non può immaginare quanto limitato e limitativo sia questo paese. Dover trovare sempre e soltanto in se stessi ogni stimolo, ogni bellezza, ogni umanità, produce una rabbia dolorosa, tutto quel che ne vien fuori è grigio, non dissimile dalla ‘teoria’, senza vita e senza scopo» [a E. Andreae, nº 196, p. 285]. SU

[
14] «Quando non si è più padroni dei propri movimenti, la vita non è più nulla. Non importa se ciò sia dovuto a malattia, età, carcere o... ai mezzi gloriosi dei tempi presenti.» (Ibidem); «Sono tanto solo e isolato.» [A Harriet Lanier, 2 luglio 1915, nº 197, p. 287.] «Oui, j’ai travaillé et je travaille. Je ne peux pas en faire moins, et au même temps ce continuel travail abstrait, ‘à l’azur’ (comme on dit en italien) m’exaspère. » [A Isidor Philipp, 27 maggio 1915] SU

[
15] «Per quanto tempo dovrò continuare a condurre questa triste esistenza? È molto dura.» [A Egon Petri, 12 aprile 1915, nº 190, p. 278]. In una lettera a Isidor Philipp del 15 maggio 1915 parla di «indécision orageuse et opprimante pour tous ceux qui sentent et pensent». SU

[
16] «Cerco di lavorare, ma il lavoro rifugge da me. Ho però progetti ben fermi» [a Emile Blanchet, 17 marzo 1915, nº 188, p. 275]; «Non sono ancora abbastanza vecchio per rinunciare, non più abbastanza giovane per perdere le occasioni. Non mi rassegnerò mai a questa criminale amputazione della mia vita» [a Edith Andreae, nº 196, p. 286]; «Néammoins je ne desespère pas. Votre grand David a passé par toutes les formes d’inquiétude sociale et a sû toujours travailler. créer; pour les Rois, les Empereurs, les Consules! En prison, en exil! C’est curieux à voir, et même surprenant, comment l’art ne se laisse abattre, et comment, seule, elle survit les époques historiques, qui, d’elles, prendent leurs noms. Ainsi la Renaissance et l’Empire. - Et l’amitié, et l’amour et l’avenir perpetuel - voilà qui ne cesse jamais» [a Isidor Philipp, 15 maggio 1915]; «Je continue à travailler, (je mêne la vie d’un savant) mais cette application m’obsède...» [allo stesso, 5 luglio 1915]. SU

[
17] «Et j’ai presque terminé un ‘Rondeau harlequinesque’ pour orchestre, morceau qu’on pourrait appeler ‘caricature sérieuse’ comme l’est Don Quijotte ou sont les compositions de Goya. J’ai vu une fois en Italie et sur la scène un acteur représenter le personnage d’Arlecchino, qui m’a laissé une grande impression, pour la force presque tragique (au moins héroïque) du caractère. Sur ce souvenir et avec l’aide de ma petite filosofie personnelle, j’ai bâti un ‘libretto’ en un acte, dont ce morceau d’orchestre est une espèce de Résumé» [ibidem]. Lo terminerà l’8 giugno (cfr. la lettera a Frederick Stock scritta quel giorno, nº 194, p. 282). SU

[
18] Uno dei motivi per cui trascorre l’estate in America è proprio la stampa di quest’opera, col quale credeva «di aver concluso il lavoro della sua vita su Bach» [a Hugo Leichtentritt, nº 202, p. 294]. Nella stessa lettera scrive infatti: «Che non La [H. Leichtentritt] possa incontrare dipende in parte da questo ‘blessed’ Bach, che non potevo abbandonare qui incompiuto: per causa sua ho mancato ‘il’ momento del ritorno... » Cfr. anche la lettera a Isidor Philipp del 27 maggio 1915: «Fantaisie indienne, Goldberg, Clavecin sont tous prêts. SU

[
19] «Die Götterbraut» [cfr. la lettera a Egon Petri del 16 maggio 1915, nº 195, p. 284]. SU

[
20] «Ho proposto al sig. Schirmer un progetto comune riguardo la mia commedia in un atto, ma egli ha reagito con tanto evidente riserbo che ho ritirato la proposta. Mi aveva spinto l'idea di avere un obiettivo preciso che mi aiutasse a passare l'estate, se fossi costretto a trascorrerla in America. Ma questa, e altre delusioni, mi hanno convinto a rimanere fermo nel mio proposito di lasciare il Suo paese. [...] la partenza, quando avverrà, sarà definitiva» [ad Harriet Lanier, 17 maggio 1915, nº 192, p. 281). «Ainsi je ne pense qu’à revenir en Europe, pour travailler aux fortification artistiques, autant qu’il m’est donné de le faire» [a Isidor Philipp]. SU

[
21] Lettera a Edith Andreae, 23 giugno 1915, nº 196. Cfr. anche la lettera inedita a Isidor Philipp del 5 luglio 1915: «Je crois que je ‘filerai’ et en passant pour l’Italie, je me rendrai en Suisse.» SU

[
22] Cfr. la lettera del 6 agosto 1915 ad H. Lanier, nº 200, p. 291. Nei primi tempi forse sperava di tornare in Germania, ma dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel maggio 1915, la sua situazione si complicò a tal punto che dovette scartare questa possibilità. Tamara Levitz, autorevole studiosa di Busoni, sostiene che le autorità tedesche gli proibirono di rientrare a Berlino. «He had hoped to return to Germany, but when Italy entered the war in 1915 German authorities had prohibited him from returning. Parodoxically, the Italian authorities also began to view him with distrust because he had spent most of his adult life as a resident of Germany. Thus Busoni had settled in Zurich, where, despite the war, international culture had continued to thrive among a large emigre community of artists, musicians and writers. Busoni enjoyed great artistic success, a comfortable lifestyle, and a close circle of friends while in Zurich, yet always felt limited by the Swiss environment.»
Il 15 agosto del ‘15 scrive al Leichtentritt: «Che io possa restare in America ora è escluso e anche, come temo, che possa rientrare a Berlino.» SU

[23] Lettera a Isidor Philipp, New York, giugno 1915. Quell’aggettivo «pratique» potrebbe avallare l’ipotesi della Levitz, non suffragata da documenti, secondo cui le autorità tedesche gli avrebbero proibito di rientrare in Germania (cfr. nota precedente). SU

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24] «Ho letto oggi che a Roma mi si accusa di non esserci andato quando mi si aspettava. Hanno perfettamente ragione, non ci sono scuse. Può essere scusabile in tempo di pace, quando si può essere facilmente sostituiti; è quasi imperdonabile in tempo di guerra, quando un paese (il proprio paese) soffre privazioni, a cui persino le mie deboli forze possono portar sollievo. È comprensibile che nessun artista tedesco e austriaco vada a Roma (ed è triste che glielo si vieti), ma un italiano! -- D'altra parte un giornale berlinese mi accusa (anch'esso pubblicamente) d'essermi fatto vedere al Metropolitan in compagnia del sig. Saint-Saëns! È ridicolo. E pensi che la notizia di tanto importante incidente è stata trasmessa per cablogramma! - Ecco che sia i tedeschi che gli italiani sono arrabbiati con me. - Almeno in qualche cosa vanno d'accordo» [ad Harriet Lanier, 18 luglio 1915, nº 198]. Paradossalmente anche l’Italia era diffidente nei suoi confronti, poiché aveva trascorso molti, troppi anni in Germania. Del resto, dopo la negativa esperienza come direttore del Liceo Musicale di Bologna, Busoni non era certo smanioso di soggiornare in una nazione che riteneva culturalmente arretrata, nella quale, come già scrisse a Petri nel 1912, «è difficile concentrarsi sul futuro» poiché «deve ancora raggiungere il presente». SU

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25] Nel testo originale: «verhasstes Exil». SU

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26] «Ognuna delle cinque visite è stata una delusione, e ogni volta sono tornato con fede e aspettative rinnovate. Ho cercato di dare il meglio di me, ma l'hanno rifiutato pretendendo la mediocrità. Il risultato (e non poteva essere altrimenti) è stato insoddisfacente per ambedue le parti. [...] Tutte le mie più dure fatiche e quel che ho compiuto durante una vita intera non hanno nessun valore per i managers americani e per il pubblico di questo paese. Coloro che mi hanno ascoltato o che mi hanno conosciuto di persona mi hanno apprezzato (e ne sono loro grato); ma l'eco dei miei sforzi rimane limitata a questo pugno di persone. [...] ho tentato, al costo di lunghe e profonde riflessioni e di molte sofferenze, di perfezionare le mie vedute umane e filosofiche sull’umanità, sulla morale e sulle credenze, e trovo che qui non sono compreso, che vengo soffocato e risospinto indietro su posizioni che ho già felicemente superato e scartato. Questo è un atteggiamento dei vostri cittadini, di cui non ci si accorge o di cui non si prende nota se si è un visitatore occasionale, che attraversa il paese di volata, spinto dagli obblighi di un contratto: ma si comincia a sentirselo pesare addosso se si vive sotto le vostre leggi, che sono nominalmente libere ma vengono interpretate con una crudele ristrettezza mentale e una severità senza misericordia. E, per finire, l'eterno argomento danaro e ‘pagamenti’ e successo finanziario [...] mi deprime; dato che questo argomento viene messo in tavola a ogni passo e per ogni quisquilia, finisce coll'assumere un carattere maniacale. [...] la tendenza a produrre velocemente, a buon mercato e in grandi quantità, mi disgusta. Il risultato è la distruzione dell'individualità, che è (o era?) una delle qualità più preziose degli uomini — e anche degli oggetti. (Ad H. Lanier, 6 agosto 1915, nº 200, pp. 291-292.) Cfr. inoltre la lettera successiva alla stessa (nº 203, in particolare la p. 297). SU

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27] Il primogenito Benvenuto è invece rimasto negli Stati Uniti (essendo nato a Boston - nel 1892 - aveva anche la nazionalità americana); raggiungerà la famiglia a Zurigo nel settembre del 1919. SU

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28] «He had been driven out of America by an overwhelming sense of disgust - dégôut is the word he used, and the French word used in a German sentence might perhaps be better translated 'intellectual and moral nausea'.» (DENT, p. 227) Cfr. anche la lettera a Isidor Philipp del 19 settembre 1915 (nº 204, p. 299): «Mi son dovuto strappare dall’America che mi uccideva.» SU

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29] Lettera a J. Oppenheimer, 27 settembre 1915, nº 205, p. 300. SU

**Le lettere citate con pagine e numero sono tratte da LETTERE... Sui destinatari ci sono brevi cenni biografici in fondo al volume. La data di morte di Emilio Anzoletti è errata. Questo grande amico di Busoni non morì infatti nel 1950, ma, come gentilmente mi ha comunicato il figlio Antonio, il 7 Agosto 1951. SU