Mario Bortolotto

COSÌ BEETHOVEN PORTÒ
L'ULTIMA SFIDA ALL'ASSOLUTO

'Filosofia della musica' di Adorno raccoglie appunti scritti nell'arco di trent'anni I puntigliosi giudizi possono confliggere o cambiare nel tempo. Lo studioso, non afflitto da timore reverenziale, stronca anche Furtwängler. Una sorta di promemoria dalle frasi brevi e talvolta enigmatiche. [La Repubblica 06-01-02]


Con un eloquente intervallo (il consueto dopo la scomparsa degli autori) Einaudi, cui si deve il maggior numero di traduzioni di Theodor W. Adorno, ha ora licenziato l'Opus postumum tanto atteso, uscito nel 1993 presso Suhrkamp per le cure, appassionate e competentissime, di Rolf Tiedemann. Nell'edizione italiana il titolo suona Beethoven - «Filosofia della musica», purtroppo fedelissimo al testo. La traduzione, assai esatta, è dovuta a Luca Lamberti. Com'era ben noto, non si tratta di un libro compiuto, ma d'una serie di appunti, schemi, propositi che il grande filosofo ha raccolto durante trent'anni: sarebbe dovuta essere, questa, la sua summa musicologica: di lì il sottotitolo un poco imperativo. Alcune sezioni sembrano assai vicine alla versione ne varietur, in primo luogo il capitolo dedicato alla «Missa solemnis» che poi, col titolo «Straniamento di un capolavoro», fu edito in Italia nel volume «Dissonanze»; del pari l'altro studio «Sullo stile tardo di Beethoven», incluso negli splendidi «Moments musicaux» di cui si attende ancora la comparsa italiana. Adorno puntava tutto su questa monografia dedicata alla musica prediletta, «la più alta che esista», e chiamava scherzosamente le pagine pubblicate «pagamenti rateali»: ovviamente, di un debito che egli, come nessuno, sapeva inesauribile. Quello che oggi abbiamo in mano è una sorta di promemoria, che in alcuni casi sfiora il mero idioletto: soltanto l'autore avrebbe inteso il significato di certe brevi frasi appuntate di volta in volta, magari sotto l' influsso di una esecuzione, ritenuta eccellente o financo definitiva - è il caso di Rudolf Kolisch - , ovvero respinta senza troppi timori reverenziali: così per un' interpretazione della Quarta Sinfonia, «troppo lenta e sentimentale», dovuta, pensate un po' , a Furtwängler. La lunga serie di anni cui questo zibaldone è legato spiega qualche contraddizione, talune modificazioni del giudizio. Ma più grave, irreparabile anzi è la mancata scrittura, sempre balenante di aforismi, d'incomparabile stile, ove celebra un ultimo trionfo la lingua della filosofia, e della musica, nel punto di convergenza di esse «almeno in Germania»: momento di Hegel e Hölderlin: simbiosi di densità metafisica, che colse Leopardi per mera divinazione: lingua «certo infinitamente varia, immensa, fecondissima, liberissima, onnipotente, come la greca»: la lingua infine in cui è scritto il sublime «Mahler».


Nella supposta scrittura certo sarebbero state occultate asprezze e puntigli cui Adorno ufficialmente non rinunziò mai, ma che spiacciono ben più quando vengono enunciati senza mezzi termini. Così, si rimane perplessi - anche se la cosa era risaputa - ove si legge, in un frammento centrale, la tesi di fondo che innumerevoli luoghi, qui e altrove, schivano o almeno sfumano: essa manifesta una sorta di sordità didattica: «Un' opera d'arte è grande quando il suo fallimento contrassegna antinomie oggettive. [...] Questa teoria rappresenta la legge formale che determina il passaggio dal Beethoven 'classico' a quello tardo, e in modo tale che il fallimento insito oggettivamente in quello viene scoperto da questo, elevato ad autocoscienza, purificato dall'apparenza della riuscita e proprio in tal modo elevato a riuscita filosofica». Non si può essere, hegelianamente, più dannatamente chiari. Il frammento si apriva con una variazione anche più sprezzante: «Le opere d' arte di rango più elevato si differenziano dalle altre non per la riuscita - che cosa è mai riuscito? - bensì per la modalità della loro mancata riuscita». In termini di Scolastica, si sarebbe tentati di osservare che la musica è così intensa quale ancilla philosophiae; ma alla domanda gonfia di sufficienza è giocoforza rispondere: molte, molte cose, per grazia celeste: l'«Ottetto» di Schubert, diciamo, la «Humoreske» di Schumann, l' Italiana di Mendelssohn e, quasi, gli omnia di Chopin. (La lista, s' intende, potrebbe gareggiare con quella di Leporello, e con contributi desunti, anche, da saggi adorniani). E tuttavia, come sempre, riteniamo possibile prescindere da quell'assunto, quasi un incipit di manuale, se non di catechismo, per l' apprendista di dialettica, e considerare, matita alla mano, il ricchissimo apporto critico del libro. Le difficoltà sono, peraltro, incalcolabili, e in qualche momento insuperabili per eccesso di cripticità, di scrittura privata, probabilmente momentanea: l'equiparazione del lavoro tematico, dello sviluppo, con la hegeliana fatica del concetto è al massimo una brillante trouvaille storiografica: difficile mantenerla, quando si tenga conto della storica precedenza, il lavoro dello sviluppo quando esso «per così dire si lancia oltre i limiti della forma come occasionalmente in Mozart». Tanto più che qui si trova poi il riconoscimento più solenne: «I rapporti musicali in Mozart non hanno mai il carattere del lavoro».


E ancora, toccando il cuore della questione: «Dal punto di vista della filosofia della storia la cosa straordinaria in Mozart è il fatto che l'essenza cerimonialecortese, 'assolutistica' della musica si trova in accordo con la soggettività borghese; ciò costituisce probabilmente la riuscita mozartiana». Riuscita che, con successive esemplificazioni - proprio fino all'adorato Berg, e oltre - permetterebbe tutt'altra visione di quella storia: una successione giubilante di innodie, ognuna delle quali è un «magnificat», secondo una citazione da Helmut Kuhn, all'inizio della più minuta opera teoretica di Adorno, «Teoria estetica». Naturalmente, tutto ciò potrebbe essere tacciato di estetismo, o, in Italia, richiamare Croce: ma ecco, nella stessa opera: «Il merito di Croce fu di far piazza pulita, con spirito dialettico, di ogni misura estrinseca alla sostanza delle opere; Hegel ne fu impedito dal suo classicismo». La musica beethoveniana, alla quale del resto Adorno rivolge anche critiche mordaci, e tutt'altro che rare (se arriva a considerare le ouvertures «Coriolan» ed «Egmont» come «movimenti sinfonici per bambini», manifestazioni di un «trionfo senza conflitto», a dubitare pesantemente su adagio e finale della Quinta Sinfonia, a ritrovare finanche negli ultimi quartetti, incluso l'intoccabile in do diesis minore, passaggi che «hanno sempre qualcosa dell' orco», per tacere della Messa in do - «nessuno potrebbe indovinare che è di Beethoven» - ), viene colta, proprio empiricamente, in una serie di flashes di incomparabile acume: incredibilmente, svelando inimmaginabili affinità con le Conversations di Strawinskij . Il lettore attento (che deve però essere musicista, o sarebbe perduto) le elencherà con il maggior profitto: esse parlano di musica, non della musicologia «che sino ad oggi si è dimostrata più interessata a questioni storiche e a questioni biografiche che alla cosa stessa». Capitali ci suonano: l'introduzione, accanto alla classica dicotomia di bellobrutto, di categorie quali l'intelligente, il dilettevole, il galante, la cui vittoria sull'erudito è il «presupposto di tutta la classicità»; il carattere di paradossalità dei grandi finali beethoveniani, come soluzione al problema della conduzione, forse perché «la musica, nel mondo antagonistico, non ha mai potuto finire», e della chiusa che nei casi migliori ripiega sul Lied «come se tornasse nel mondo infantile»; la definizione del Romanticismo: «storia della disgregazione del linguaggio musicale e della sua sostituzione con il 'materiale'»: diagnosi che è esatta quanto partigiana di un futuro viennese per Adorno pressoché insorpassabile.


Inspiegabile rimane, o almeno assai curioso da notare, che salve schegge preziose come pepite, auree disseminate in tutti i libri, e taluni profili perfetti, Adorno non abbia affrontato mai in extenso il problema della Romantik. È assai facile sostenere che Beethoven la contenga tutta, doppiandola con una immanente critica; anche se chiunque si può accorgere di quanto Schubert (ad esempio nel Gran Duo qui citato) debba a Beethoven; quanto Mendelssohn all' op. 79; quanto Schumann, in cui il finale dell' op. 31 n. 2 diviene l'«Arabeske», e l' op. 101 esercita una 'hantise' ardua da scuotere. Tutto ciò Adorno annota, nulla sfugge al suo sguardo, e talvolta la familiarità con quelle musiche è tale, da indurlo a citazioni indirette, financo ammicchi: se, accennando a Schumann, e alla capricciosità di taluni momenti, li denomina grilli («Grillen»), è perché vuole così ricordare l' omonima composizione dei «Phantasiestücke» op. 12. Il libro, nonostante il profluvio di annotazioni che si aprono proprio con le composizioni prime, e in particolare con le sonate per pianoforte e violino dell'op. 12, vuole essere celebrazione del tardo stile: a superare l' invisa idea di classicità, o com' egli dice il pathos dell' «Empire». E giustamente osserva come, di quel terzo stile, tanto celebrato fin nei compendi, si sia in realtà precisato assai poco carattere e natura, essenza. La nozione di carattere è fra le più originali, anche se si riallaccia a una sorta di disamina non benevolissima ma estremamente equa, dovuta a Grillparzer: «Non volevo neppure dare motivo a Beethoven di avvicinarsi ulteriormente ai più estremi confini della musica, che comunque già erano presenti, minacciosi come dirupi, indotti da una materia quasi diabolica»: è la giustificazione del poeta, in tutto analoga all' impressione ricevuta da un ammiratore pur caldo come Spohr, per aver rifiutato al musicista un libretto. Rientrano in questa caratterizzazione la scarsità del materiale, già evidente in Haydn, «quasi una buona povertà borghese» (e invero molt' altro!); la dialettica di fregio e struttura («per poter esser nel modo più puro la cosa stessa, 'classicamente' senza fronzoli, la classicità si spacca riducendosi in frammenti»); l' eliminazione della stessa elaborazione tematica («anche categorie come la 'durchbrochene Arbeit', essenzialmente lo sviluppo sotto lo sguardo saturnino, acquistano qualcosa di decorativo, di superfluo e vengono eliminate»); il rifiuto della soggettività («la musica parla il linguaggio dell'arcaismo, dei bambini, dei selvaggi e di Dio ma non quello dell' individuo. Tutte le categorie dell'ultimo Beethoven sono sfide all' idealismo - quasi allo 'spirito'»); il «venir meno della fede nell' armonia» (che risorge letteralmente con Schubert, e si inciela con Chopin); il «passo indietro», proprio adorniano («Spesso sembra che la sua fantasia non giochi affatto sul piano dell' immediatezza, dell'ispirazione, bensì su quello del 'concetto' - una fantasia di un secondo ordine»); infine, la «separazione dei fulcri armonici dai fulcri ritmici»: prima crepa nel materiale non unitario, che può includere apporti addirittura adolescenziali, persino di opere a loro tempo inedite.


Da quando Wilhelm V. Lenz pubblicò (1855) il suo saggio sui tre stili di Beethoven (che Liszt avrebbe definito: il fanciullo, l' uomo, il dio), l'indagine stilistica si è condotta su basi cronologiche; Adorno le riporta a precise indagini di linguaggio, osserva premesse nello stile di mezzo e anche in composizioni precedenti; ma, soprattutto, ne esclude opere e movimenti che, secondo mere considerazioni temporali, dovrebbero appartenervi: leggiamo così, con stupore felice, esclusi primo e secondo tempo della Nona Sinfonia e, naturalmente, la «Missa solemnis», ma poi, ed è la più straordinaria aggressione critica di testi mitici, finale dell'op. 131 e, «in certa misura», dell'op. 132, «che non mostrano affatto quelle tendenze alla dissociazione e allo straniamento che io ritengo costitutive dello stile tardo». Tali rigorose esclusioni consentono, in effetti, per la prima volta, di coglieare il fine ultimo della poetica beethoveniana. Vi è - era - una domanda se mai altre ardua: «Come è possibile disfarsi dell'illusione della totalità (in quanto quintessenza dell' eroismo classico) senza però cadere nell'empirismo, nella contingenza, nella psicologia»? e si conclude: «L' ultimo Beethoven è la risposta oggettiva a questa domanda oggettiva». Aveva scritto: «L' opera tarda di Beethoven segna la rivolta di uno dei più formidabili artisti classicisti contro l' imbroglio contenuto nel principio su cui si fondava». Di tale imbroglio peraltro il musicista in agguato che è sempre pronto a intervenire nella diatriba filosofico-sociologica mostra i traguardi splendenti: fra molti, «l'esuberante leggerezza alla fine del rondò» nel Quinto Concerto in cui «non c' è più nessuna paura»: la 'promesse de bonheur' che rappresenta, nell' opera di Adorno, la voce di Utopia, talvolta e, più fondatamente, «l'immagine della speranza senza la menzogna della religione». Quelle minute analisi, le avvertite anticipazioni, sono il meglio di questo saggio in germe. Come è sua abitudine, Adorno dà i riferimenti secondo il numero delle battute, e niente più: gli esempi musicali sono praticamente aboliti. Il cortese lettore interessato a questa perlustrazione - senza dubbio la più acuminata che sia toccata a un compositore innegabilmente sommo - farà bene a tenerne sott'occhio l' opera tutta, pazientemente verificando di volta in volta i taglienti asserti.