Mario Bortolotto

VERDI

La sua arte ruggiva sull'Italia contadina. Il compositore si spense un secolo fa, La musica che aveva scritto era già entrata nella mitologia popolare,


Giusto un secolo fa, nell'albergo milanese scelto come definitiva abitazione (le strade circostanti erano state coperte di paglia perché i veicoli non turbassero l'agonia), si spegneva, a ottantotto anni, Giuseppe Verdi: una vecchiezza così salda da indurre persino un illustre clinico a discettarne come di fenomeno fisiologico eccezionale: otto anni avanti, in effetti, egli si era presentato al pubblico d'opera per l'ultima volta, ottenendone un successo di stima. Il «Falstaff» era stato subito ripreso a Roma, e in quella circostanza una delegazione di autorevoli signori si era recata dal maestro - o glorioso vegliardo, come si diceva - per ossequiare appunto il «grande musicista». Ma l'interessato, carattere notoriamente non facile, si era concesso un paradosso: non compositore, sibbene uomo di teatro. Forse non sapeva, dicendolo, che una definizione similare sarebbe spettata al supposto rivale: ma si dovette attendere assai, prima di leggere in un musicologo insigne, Carl Dahlhaus, la schiacciante definizione: Wagner era «un manierista e un teatrante». Il detto di Verdi appare ben fondato: ignaro certo della saggistica wagneriana, ma non della poetica, Verdi coincideva con quella su alcuni assunti capitali: esigendo, per sé, nella surrealtà ariostesca delle trame, rispetto assoluto delle convenzioni realiste, sì da convergere, oltre Wagner, con Musorgskij: postulando, di conseguenza, una continuità che abbia, come obbiettivo formale, non l'aria o il numero chiuso, ma la scena e, possibilmente, l'atto stesso; apprezzando l'idea di orchestra invisibile (anche se poi si sarebbe concesso qualche impertinenza al riguardo, scrivendo a Boito il 10 settembre 1891: «se ora si mettono le orchestre in cantina, perché non si potrebbe mettere un violino nel solajo!?»); l'orchestra deve ruggire, «rugge piano»; osservando peraltro che, ove fondando la drammaturgia, e di conseguenza la scrittura, sulla tipologia vocale, e abolendo pertanto ogni traccia di belcanto, sino ad ammettere «una voce dolorosa, sorda, ventriloca»: «basta che finiscano la frase diminuendo morendo, e qui siano anche stonati»; puntando dunque su una emissione anomala, la parola scenica che vada al di là delle stesse norme vocali: si pensi solo all'invettiva di Amonasro: «Dei faraoni tu sei la schiava», ove non si dà baritono che, per le due ultime sillabe almeno, non lasci le note, pur scritte, per adottare qualcosa che ricorda molto da vicino lo Sprechgesang.


E tuttavia, non si può certo sostenere che il cammino di Verdi miri a qualcosa di analogo al Musikdrama: ogni «evoluzione creatrice» parendoci, più che questionabile, risibile affatto. Le si oppone, proprio fino al «Falstaff», la costante, non sradicabile presenza di un nucleo musicale che, ad ogni temperie «oltremontana», come si diceva, risulta irriferibile, ed anzi con essa incompatibile affatto. È un dato stilistico, su cui hanno nutrito dubbi già molti contemporanei, e che sembrava, proprio agli albori del secolo, insostenibile, inverecondo. Eppure, esso è, nella mente di Verdi, qualcosa come un manifesto, e magari un vessillo: un no fermissimo, anzitutto, a «quello spirito di demolizione, che caratterizza la nostra epoca» (cielo! era il 1886). È «quel nostro fare sicuro spontaneo sensibile abbagliante di luce»: infine, il linguaggio dell'opera che restò la prediletta, e che tale resta per molti, il Trovatore. Non siamo fra quelli, pur ammirandone l'«atmosfera equinoziale», che poi ci par piuttosto solstiziale, canicolare: ma lo diciamo sommessamente, giacché abbiamo pur letto, nella «Battaglia di Legnano»: «Non può questa gioia / Comprender appieno / Chi lombardo non è». Pertanto, respingiamo ogni parternità: padri della patria come padri personali, men che mai come prescelti. Quel «fare» non è di facile definizione, e ancor meno agevole è stabilirne la genesi. Eppure, proprio esso (la «musica vermiglia» del «Trovatore» appunto) spiega, oltre «il nostro cuore di credenti» (secondo Bruno Barilli) anche quell'improvviso ritorno a Verdi, scoppiato negli anni Venti, e noto (in omaggio ad alcuni studiosi tedeschi che lo patrocinarono con eloquenza) come Verdi-Renaissance. Non si trattava affatto di un rifarsi a visuali perente.


La dipartita di Verdi era stata l'occasione per allestire un mito. Spettò anzitutto come prevedibile, all'alta rettorica dannunziana. Nella canzone «Per la morte di Giuseppe Verdi», accolta nel 1904 in «Elettra», sono tutte le ragioni di quella mitologia popolare: universalismo: «Pianse ed amò per tutti»; terrestrità: «ci nutrimmo di lui come del pane»; sapore terragno: «nato dalla zolla, / dalla madre dei buoi / forti»; patriottismo: «La melodia suprema della patria», oracolo minaccioso: «congiunto / in terra avea con la virtù de' suoni / tutti gli spirti per la santa guerra». Chi accoglieva lo scomparso - e qui si tocca lo zenit - erano poi Dante, Leonardo, Michelangelo. Non si intende la compagnia, ma, certo, non si può far di peggio, e più sonoramente. Quando invece, vent'anni dopo, il musicista cade nelle mani della Ronda, è tutt'altra musica. I «fratelli antichi» si sono dileguati: resta, in primo piano, l'«atavica semplicità», l'«effetto esagerato e fulmineo» attribuito anzitutto ad un interprete, e sempre in Barilli, e ormai celebratissimo, il «sano odor di cipolla». È questo quel residuo elementare, che percorre l'opera verdiana, fino alla fine che, più tardi Alberto Moravia tentò di enucleare come «volgarità»: affrettandosi ad aggiungere ch' essa altro non è se non la permanenza, in quel contesto nazionale e sociale, di valori vetusti, di stabili codici morali, che si possono far risalire addirittura al Rinascimento.


Potremmo precisare che in effetti sopravvive, in questa drammaturgia, una accolta di fedi profonde, radicate nel cuore italiano, che risultano ignare, più che estranee, non solo ad ogni linea di décadence, ma alla stessa idea di modernità. Tali sono anzitutto i rapporti familiari, la tensione di padre e figlio di cui il libro di Gilles de Van ci sciorina la completa tipologia. Sopravvivono certo, in quel melodramma, ereditari convincimenti, inappellabili certezze, basti il rapporto fra i sessi: l'indiscussa sacertà della vergine, che è, del pari, «angelo» e «rosa»: di essa quel corpus offre una doviziosa schiera: sono creature celesti da venerare, anche se Seid, nel Corsaro, sostiene di averne sprezzate ben cento. Ora, è indubbio che valori arcaico-contadini siano defluiti in Verdi con naturalezza biologica. Costituiscono, essi, la radice quarto stato su cui ha discorso, da par suo, Fedele d'Amico; sono essi a determinare l'«impossibilità tanto di guardare a realtà ambivalenti, a identità in crisi, quanto di giudicare il mondo e le passioni altrimenti che da un punto di vista di categorie morali nettamente definite». Quel sistema, ormai diffuso in tutta l'Europa musicale, salve talune zone periferiche, «supera la possibilità del linguaggio verdiano; al punto che Verdi è costretto a dissolverlo, per poter eliminare, ogni volta, uno dei termini». Trattandosi di un canone universale, è ovvio che anche i libertini teoricamente almeno lo riconoscano: di Gilda, l'"angiol caro», dice il duca: «Colei sì pura, al cui modesto sguardo / Quasi spinto a virtù talor mi credo!». Qui la distanza dal cosmopolita Wagner non potrebbe essere maggiore: e si ricordi che Wagner non ammetteva altro che donne già ricche d' esperienza, gli angeli non potendo soffrire. Noi non abbiamo dubbi sulla esattezza della formulazione riferita: vi è di certo un rapporto con la classe che si cominciava a definire proletariato. Ma quante cose, da quella premessa, potrebbero, e poterono esser dedotte: il semplice nome può evocare anche il famigerato Pellizza da Volpedo, dal quale l'arte di Verdi è quasi all'antipodo. L'osservanza dell'impegno realista (quasi generale nel secolo) e i legami di consanguineità col dato popolare (la musica liturgica tradizionale ascoltata bambino dagli asmatici organi di parrocchia, la banda in piazza, le processioni, i balli campestri) non ostacolano di certo quella invenzione del vero su cui l'entusiastica riscoperta pur si fondava, ed essa accoglie un dato, che ci par centrale, e che, con la tradizione rurale cattolica, è sempre in qualche modo convissuto. È stato Marcel Moré a ricordarci l'improperio del Verdi adolescente rivolto al sacerdote stizzito, che parve andare a segno, giacché quel poveretto morì poco dopo. Non ne garantiremmo l'esattezza cronistica, ma certo la 'saeva superstitio' compare in momenti cruciali: sia la maledizione lanciata a Rigoletto, che avrebbe dovuto fornire titolo all'opera (il Belli ne inorridiva,


professionalmente almeno, vale a dire come censore pontificio), sia la lettura della mano d'Ulrica, che azzecca una previsione impensabile, sia l'altra di Preziosilla, anch'essa veridica affatto. Non si tratta di curiosi accidenti, sibbene di momenti chiave, in cui sotto la variegatura dei casi arruffati si cela il segreto del mondo: l'onnipotenza dell'occulto. Ma non è certo Shakespeare, semmai Dumas père, che avrebbe dovuto scrivergli un libretto. Questi ancestrali terrori, sopravvissuti attraverso le generazioni, divengono, con la Ronda, divertito estetismo. Si stabilisce una sorta d'equazione destinata a lunga vita, Barilli sta a Verdi come Baldini all'Ariosto: che, fra l'altro, Verdi prediligeva. E tuttavia, non possiamo tacere come la giustificazione di quell'elemento autoctono, o popolare, della cabaletta infine, non sempre sia in termini di musica ammissibile. Non s' intende, no davvero, preferire e ammettere soltanto il Verdi più scarno e difficile (quello ad esempio delle ore segnate nel «Falstaff» con stupefacente giro armonico), ma discernere, in quella distesa di vastità padana, gli intoppi, le lacune, le assenze. Verdi stesso ammetteva come fra l'altro, l'Alzira fosse «proprio brutta» e, a ben diverso livello, il Simon Boccanegra restasse tavolino nato zoppo, non correggibile: e chi accosterebbe infatti l'aria di Amelia, «Vieni a mirar», e quel quasi comico sfondo marinaro, con la scena nel Palazzo degli Abati, o la morte del protagonista? In realtà, i due poli di quell'invenzione (quello che tende alla supremazia del declamato melodico, e l'altro che continua a fondarsi su forme o schemi precostituiti), ammettono entrambi riuscite di suprema efficacia: nelle tre opere fra ' 51 e ' 53, la bipolarità si fa più che mai evidente, acquisisce qualcosa di persino spiritato; e se, da un canto, la breve scena fra Rigoletto e Sparafucile, con la primazia invadente di un cello e un contrabbasso, tutta si costruisce su una possibilità di melodia in minime cellule intervallari (ma Verdi ci avrebbe ricordato che «questa non è melodia né armonia: è la parola declamata giusta vera; ed è musica...»), l'atto toccherà subito dopo l'altro polo nel duetto amoroso, che sicuramente non cede al precedente. Altra volta, potrà essere un dato compositivo, un parametro, a reggere l'intera situazione, e nessun esempio potremmo citare più entusiasmante che l'intero primo atto della «Traviata»: retto da cima a fondo - con interposizioni che sono, come nello Schumann di «Carnaval», e d' altre cose, «intermezzi» - da un ritmo di valzer che assume le forme della passione, e le vorticose premesse del destino. Violetta lo ascolta, ma non può scorgere nell'abbandono all'istante, all'ebrietudine festosa, la predizione di altro travolgimento. Continua nel musicista rimase l'attitudine alla rapidità, della vicenda scenica come della composizione: in poco più di mezz'ora, Alfredo è stato accolto, il barone già lo ha giudicato antipatico, la malattia che sta minando l'eroina si è manifestata col tipico fra i sintomi, essa ci ha comunicato la sua volontà di stordirsi, ha scherzato con lo spasimante ma ha finito col dargli un appuntamento per il giorno dopo: infine, un record di densità, e di velocità. Del pari, il primo, e insuperato, atto nella Forza del destino e nel Ballo in maschera. Bisogna non indugiare troppo, pensava il Maestro. Emilio Cecchi racconta quanto ricordava Pascarella, di un banchetto romano. Erano di fronte Boito, Verdi e lui. «Sapete», mormorò il terribile ospite, «all'arte, poi, non bisogna chiedere troppo. Quando una cosa è fatta... Se no, si fa come quello lì».