BENEDINO GEMELLI

LO STUDIO DELLE LINGUE
NELLA SVIZZERA ITALIANA:
VEICOLO O CULTURA?


27.4.2002

Mythos, logos, epos, verbum, appartengono alla terminologia di base della lingua e del pensiero europeo, dalle sue origini ad oggi. La necessità del mythologein, del costruire una articolata trama di segni per mezzo dei quali trasmettere le proprie ansie e le proprie esperienze, è una esigenza innata ed insopprimibile nel genere umano. Già nel mondo omerico le parole erano designate con un epiteto assai efficace per rendere la loro velocità nella comunicazione: parole alate (epea pteroenta). Il mythos si articola e si fa poi racconto, diviene strumento principe di una cultura essenzialmente orale, sia nella produzione che nella trasmissione dei testi, fino, ed oltre, l'invenzione della scrittura. Il mondo dei rapsodi e degli aedi esisterà ancora per parecchi secoli accanto al mondo che si va differenziando a seguito dell'invenzione dell'alfabeto. Ma la parola può divenire strumento professionale di determinate categorie: pensiamo alla tecnica retorica che sostanzia l'ambito forense e politico; pensiamo agli agoni tragici e comici che animavano la vita sociale nell'antichità; pensiamo anche al passaggio dal mythos al logos, passaggio che segna l'inizio della speculazione filosofica. La parola è forse il primo segno certissimo dell'appartenenza alla comunità di chi si esprime secondo il medesimo discorso e le medesime regole: sappiamo quanto fossero esclusivi gli antichi greci nel considerare barbari coloro che non si esprimevano in un idioma ellenico, i Persiani innanzitutto. Da questo istintivo senso di superiorità della propria appartenenza linguistica nasce il desiderio di conoscere l'origine prima delle lingue, già a partire da civiltà ancora più antiche di quella greca, gli Egizi in questo caso. Consentitemi una estesa citazione, al proposito, da Erodoto [Storie lib. II cap. 2]:
Prima che Psammetico regnasse su di loro, gli Egiziani si ritenevano i più antichi di tutti gli uomini. Ma da quando Psammetico, divenuto re, volle sapere chi fossero i più antichi, da allora ritengono che i Frigi siano più antichi di loro e loro più antichi degli altri. Poiché Psammetico, pur facendo ricerche, non riusciva a scoprire nessun mezzo per sapere chi fossero i più antichi tra gli uomini, escogitò questo espediente: diede a un pastore due neonati, di gente presa a caso: doveva portarli presso il suo gregge e allevarli lì nel modo seguente: con l'ordine che davanti a loro nessuno pronunciasse mai una parola: che se ne stessero da soli in una capanna isolata: che al momento giusto il pastore portasse loro capre, li saziasse di latte e si occupasse del resto. Psammetico fece e ordinò così volendo ascoltare quale parola i bambini avrebbero emesso per prima, una volta abbandonati i confusi balbettii. E questo avvenne. Infatti, quando furono passati due anni da che il pastore si comportava così, mentre apriva la porta ed entrava, entrambi i bambini gli si gettarono ai piedi e pronunciarono bekós tendendo le mani. La prima volta che sentì questa parola, il pastore stette zitto: ma poiché spesso, quando andava e si occupava di loro, la parola ricorreva frequente, lo rivelò al padrone, e su ordine del padrone portò i bambini al suo cospetto. Ascoltatili anch'egli, Psammetico faceva ricerche su quali uomini chiamassero qualcosa bekós; facendo queste ricerche, scoprì che i Frigi chiamavano bekós il pane. [...].
Ma le lingue, al di là dei loro intrinseci meriti culturali, si sono affacciate sulla scena della storia anche grazie alla loro forza egemone. Abbiamo visto così crescere e tramontare diverse lingue, cresciute con lo sviluppo politico e militare del popolo che le parlava e tramontate col declino del medesimo: l'accadico, l'antico persiano, l'antico egizio, il greco, il latino. Ma anche ciò che scompare, spesso non scompare nel nulla e lascia dietro a sé testimonianze innegabili di ciò che fu e di ciò che può ripresentarsi sotto mutate sembianze. Da qui lo studio delle antiche civiltà, la cui porta di ingresso è data principalmente dalla loro lingua. Negare l'importanza di queste operazioni di recupero e confinarle nei ristretti ambiti degli specialismi significa costringere il presente a dimenticare la propria provenienza ed il proprio cammino. Se è vero, come affermava Leibniz, che il presente è gravido del futuro, allo stesso modo si può affermare che il presente è gravido del passato, purché accetti di esserne consapevole. Lo sapevano già gli antichi, secondo i quali il vero indovino e veggente conosceva allo stesso modo «il presente, il futuro ed il passato». Ogni lingua vive di un suo presente proiettato verso il futuro e di un suo presente proiettato verso il passato, che va dall'attimo al secolo, talora al millennio o più. È quest'ultimo segmento ciò che una lingua trasmette di sé al futuro ed alle future generazioni. In ogni lingua coesistono i due aspetti della comunicazione momentanea, mutevole, spontanea, pragmatica da un lato, della comunicazione organizzata in una trama testuale più esigente e più raffinata dall'altro lato. È quest'ultima a dare origine ai linguaggi specialistici in genere, letteratura inclusa. La lingua è dunque un Giano bifronte o, in un certo senso, è come negli emblemi si amava rappresentare la fortuna: «ab occipitio calva, a fronte capillata» («calva sulla nuca, chiomata sulla fronte»).
In ogni caso, sia nella comunicazione circoscritta ad un ambito temporale più ristretto, sia nella comunicazione epigraficamente fissata in un testo di «cultura», i requisiti sono sostanzialmente i medesimi: proprietà, precisione, rispetto delle norme. Guai ai tentativi di manipolazione e di mistificazione del linguaggio, guai a chi falsa ad arte i pesi del discorso. È pressoché garantito il rischio di ritornare ad una situazione di incontrollabile caos che non permette più al discorso di procedere secondo le consuete leggi; già di per sé la nostra condizione umana, in materia di linguaggio, risulta precaria, immaginiamoci poi se non riusciamo a controllare debitamente gli elementi del linguaggio stesso. Il linguaggio è di per sé un idolo che assedia la mente e ne condiziona necessariamente il funzionamento:
Vi sono anche idoli che dipendono per così dire da un contratto e dai reciproci contatti del genere umano: noi li chiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio degli uomini. Il collegamento tra gli uomini avviene per mezzo della favella, ma i nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del volgo, e basta questa informe e inadeguata attribuzione di nomi a sconvolgere in modo straordinario l'intelletto. [...]. [Fr. Bacon, Novum Organum Lib. I Aph. 43]
Educare al possesso dello strumento che non solo collabora con la mente, ma che può addirittura prendersene gioco al momento di elaborare i concetti, penso con voi che costituisca uno degli scopi fondamentali dell'educare ad apprendere. Possedere appieno la consapevolezza del segno linguistico costituisce il requisito indispensabile per dare espressione alle forme del pensiero, per sondarne ed acuirne la profondità, ciascuno secondo le proprie forze e le proprie possibilità. Ecco che il logos diviene parola ma anche misura dell'abissale profondità dell'animo: per quanto si scenda in profondità, notava Eraclito, non si potrà mai arrivare ai confini dell'animo, tanto profondo è il suo logos.
La lingua, nella sua compiutezza, è dunque lontana dall'essere un provvisorio strumento di facile acquisizione e di semplice ma inefficace scambio. Il processo di acquisizione della lingua richiede tempi lunghi e tenacia, non ammette trucchi né scorciatoie. La posta in gioco è alta, anche a livello sociale e civile. Le demogogie che sembrano riaffollare la vita delle nostre póleis hanno potuto ripresentarsi indisturbate proprio in quei momenti in cui è venuta meno anche la fiducia nella lingua e nel rispetto delle sue norme e delle sue finalità più decorose. Ecco che allora si può dare un lusinghiero nome di comodo a ciò che fino a poco prima si era convenuto come un valore da rifiutare, fino a che nessuno comprende più cosa sia la libertà e di quale tipo di libertà si possa realmente fruire senza esserne vittima.
La nuova lingua allora si trucca, va in scena, se non la comprendiamo più protesta perché, improvvisamente, non siamo capaci di ricevere il messaggio in tutta la sua novità; l'imposizione forzata diviene allora semplicemente «un problema comunicativo»; alla fine capiremo necessariamente, ci vorrà del tempo ma capiremo, ci assicurano i nuovi esperti, perché anche i simulacri di verità hanno le loro pretese ammantate, guarda caso, di parole. Ecco perché il primo fondamento di una consapevole educazione alla cittadinanza non può nascere dal solo apprendimento dei meccanismi tecnici della vita politica; l'educazione alla cittadinanza si modella innanzitutto sulla formazione della coscienza culturale e storica, sulla riflessione e sull'uso proprio della lingua, sullo studio dei classici della storiografia e del pensiero politico antico e moderno. Si rischia, altrimenti, una frustrante operazione cosmetica.
È dunque grande la responsabilità che abbiamo di fronte alla lingua ed al modo di trasmetterla; se è vero che in natura nulla si crea e nulla si distrugge, lo stesso principio deve valere anche per una lingua. Essa non è un organismo complesso nato dal nulla e privo di una sua lenta crescita ed evoluzione, ma ha una sua storia e dovrà avere una sua storia. La lingua non può essere osservata, per comprenderla, da una posizione di eterno presente. Ecco perché, almeno nel caso della lingua italiana (ma non solo di essa), è di fatto impossibile esplorarla compiutamente senza addentrarsi nel patrimonio delle lingue classiche. Sia il registro della comunicazione quotidiana, sia quello della specializzazione letteraria, speculativa e scientifica, si alimentano di terminologia e di concetti attinti alle lingue classiche, la greca innanzitutto. Non è questa certamente un'idea nuova, ma val la pena ribadirla visto che oggi si cerca con ogni mezzo di sfuggire all'evidenza di questo enunciato. Credo allora che sia comunque efficace riprendere quanto affermava al proposito G. Leopardi nel suo Zibaldone, nel marzo 1821:
Giacché in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d'intere scienze e dottrine, qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva, ancorché pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s'invoca una lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano. La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di nuove voci greche. La fisica, la chimica, la storia naturale, le matematiche, l'arte militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorché rinnovellate e diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci, ancorché nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina nuova, comincia dal trarre il suo nome dal greco.
Che Leopardi avesse perfettamente ragione lo dimostra, se non altro, proprio la denominazione di quella recentissima disciplina che apparentemente sembra agli antipodi della cultura greca, ma che si chiama 'cibernetica', ovvero 'arte del pilotare o del navigare' che dir si voglia, con un vocabolo mutuato appunto dalla lingua greca.
È dunque innegabile che l'uomo, per non divenire uno sprovveduto, ingenuo e stordito viaggiatore in un universo di segni che gli rimangono indecifrati ed indecifrabili, debba essere munito dello strumento cardinale per orientarsi e per comprendere: vale a dire la lingua in tutti i suoi aspetti e nelle sue variegate manifestazioni. Si intende, ovviamente, la lingua che gli consente di formulare e di articolare con innata ed acquisita naturalezza i propri pensieri e le proprie emozioni, si chiami essa lingua «madre» o «lingua del territorio». È una competenza tutt'altro che semplice e tutt'altro che da semplificare, ma le vie per acquisirla sono state indicate da secoli di esperienza e di crescita culturale. Le lingue "altre" sono poi indispensabili per ampliare gli orizzonti dell'etnia di appartenenza, per comprendere appieno quanto di simile e quanto, fortunatamente, di diverso appartiene ai popoli "altri da noi".
Sta a noi fermarci alle porte d'ingresso oppure penetrare, col loro consenso, nel cuore delle poleis straniere, nei loro templi, archivi, musei, biblioteche, piazze, case. In questo nostro progredire dal nostro centro alla circonferenza si è sempre cercato, finora, di procedere con molta prudenza, con gradualità, distinguendo fini e priorità. Su questi principi si è modellato nella scuola lo studio di quali e di quante lingue "altre", di come e di quando affrontarle, consapevoli del fatto che l'armonia dei modi, dei tempi e dei luoghi è la premessa indispensabile per non far ritornare l'uomo alla colpevole condizione dell'originaria Babele. E' fortissimo ora il rischio di calpestare e di bruciare luoghi ben coltivati per insediarvi il deserto o la monocultura. E' fortissimo il rischio di delegittimare l'aspetto armonico, geometrico ed estetico della lingua per limitarsi all'empirismo della comunicazione quotidiana, magari tra l'uomo e la macchina. La scuola sembra non avere più una propria autonomia decisionale e sembra ormai legittimata soltanto dalla propria funzionalità alle esigenze assolutamente pratiche e di politica economica.
L'orizzonte che si va delineando per le lingue nella nostra scuola è tutt'altro che «dalle dita rosate»: il francese rischia di essere estromesso a partire dalla terza media; latino e greco in pratica sono impossibilitati ad attivarsi e neppure Demostene e Cicerone oserebbero intraprenderne più lo studio in queste condizioni; il tedesco resta indebolito e solo un poco più forte del francese, per motivi economici, non certamente grazie a Goethe ed a Musil; l'inglese non sappiamo se, dove e quando riuscirà ancora a superare l'orizzonte del chat e del song, non sappiamo se e quanti saranno interessati a leggere Shakespeare, Joyce o Eliott; lo spagnolo, sinora, è stato tenuto a freno, ma la domanda è forte e, se in altri Cantoni ha soppiantato l'italiano, è facile immaginare cosa potrebbe soppiantare in Ticino. Eppure un'analisi scientifica di questi problemi si imporrebbe prima di procedere a riforme che sconvolgono o annullano una lunghissima tradizione ed i cui esiti potrebbero essere devastanti. E l'italiano? In questo scenario vale ancora la pena credere all'esistenza hic et nunc di un'isola dei beati?
I commerci a dimensione d'uomo ci hanno portato, al tempo dei Fenici, l'alfa-beto, sarebbe una nemesi storica tale da rasentare la beffa se la dimensione dei commerci d'oggi ci privasse della consapevolezza dell'alfabeto e, quindi, del suo possesso. Ricordiamo tuttavia che la nemesi ben difficilmente colpisce soggetti del tutto innocenti; il più delle volte i soggetti colpiti sono tracotanti o superficiali nell'interpretare gli ammonimenti.