UMBERTO ARTIOLI

LA NOTTE, IL CERCHIO, L'ETERNO FANCIULLO

Umberto Artioli e Sergio Sablich in memoriam.


Ripubblicando nel 1910 l'Abbozzo di una nuova estetica della musica, Busoni vi appone in ex-ergo un frammento di Hofmannsthal, estratto dalla celebre Lettera di Lord Chandos. In particolare il frammento recita così: "Io sentii in quel momento, con una precisione che non andava del tutto disgiunta da un senso di dolore, che anche nel prossimo e nel seguente e in tutti gli anni di questa mia vita, io non avrei mai scritto alcun libro né inglese né latino... e ciò per l'unica ragione che la lingua, in cui a me sarebbe forse dato non solo scrivere ma anche pensare, non è la latina, ne l'inglese, né l'italiana o la spagnola, ma una lingua delle cui parole neppure una m'è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute e in cui forse mi giustificherò un giorno nella tomba davanti a un giudice sconosciuto" [Abbozzo, p. 39]. Che cosa, del testo di Hoflnannsthal, può aver colpito Busoni, che già aveva dedicato a Rilke, "musico della parola", l'edizione originaria dell'Abbozzo? Quale lingua è convocata con nostalgia, sul presupposto che nelle sue filigrane prenda voce quel che nell'universo creaturale è sprovvisto di eloquio? Intanto un punto su cui conviene meditare: la lettera che l'immaginario Lord scrive a Ruggero Bacone, comunicandogli la sua rinuncia all'attività letteraria, è un radicale attestato di sfiducia nel potere espressivo del Logos.
In un'epoca felice della propria esperienza creativa, il protagonista hofmannsthaliano aveva creduto di trovare una magica consonanza tra mondo interiore e universo oggettuale. Adunate in sapienti simmetrie, le parole danzavano sulla pagina come se la scrittura, fecondata da un alito divino, fosse l'incommensurabile scrigno dove a precipitare era il cosmo intero, tradotto in cifre quintessenziali. Ma cosa avviene quando il Meraviglioso del linguaggio, con i suoi simboli, i suoi geroglifici, la sua vertigine unitiva, scopre la facies demonica divenendo un arabesco vano, una trina che, per quanto sgargiante, esibisce il solo apparato delle ornamentazioni retoriche?
Di colpo la parola, che nessun nume abita, mostra la sua trivialità; lungi dall'essere portatori del soffio delle cose, i concetti sono gusci vuoti senza presa sul mondo; tradito dallo strumento che gli forniva l'illusione di una sintonia col cosmo, il pensiero rimbalza su se stesso in una solitudine incresciosa. Non che la sostanza pensante ammutolisca o la dovizia del mondo sia sparita: simile al supplizio di Tantalo, il tormento di Lord Chandos sta nell'anima affamata che continua a scorgere davanti a sè l'oggetto senza poterlo tradurre in alimento spirituale. Ad acuire lo stato di disagio sono gli istanti in cui la coscienza, per solito smarrita a causa dello sfaldamento delle antiche coordinate mentali, esce dalla sua estraneità ritrovando il calore della vita.
Quando un insetto, un topo, una murena, un melo intristito, un grillo vicino a morire, ossia presenze minime, esseri confinati nel grado più basso della gerarchia che in genere assicura allo spirito ben centrato la sua solidità, divengono veicoli d'incredibili estasi, il protagonista hofmannsthaliano vorrebbe esprimere la gioia per l'Oggetto ritrovato. Ma alla pienezza dell'anima riconciliata col mondo, alla beatitudine che afferra il soggetto finalmente addossato alle cose, non fa riscontro la luce della parola. Troppo intrisa di terrestrità o, che è lo stesso, troppo invischiata nell'astrazione del concetto, è l'attrezzeria verbale per dire l'armonia che, nei momenti di grazia, lega l'uomo alla natura.
Di questi istanti privilegiati dice Lord Chandos:

Io sento in me e intorno a me un gioco bilanciato, affascinante e infinito, e non c'è alcuna tra le materie che fluttuano una contro l'altra nel gioco, in cui io non mi possa trasfondere. E allora come se il mio corpo consistesse di pure cifre, che mi svelino ogni cosa. O come se noi potessimo entrare in una nuova relazione, piena di presentimento, con tutta l'esistenza, cominciando a pensare col cuore.

Ma se esiste una lingua che sgorghi direttamente dal Dentro senza passare per il diaframma dell'intelletto, una lingua che non sia mero segno, rapporto convenzionale tra un significante e un significato, una lingua che, proferendo l'ineffabile, restituisce fragranza alle fibre segrete del cosmo? Ritornando anni dopo sul tema nel suo rifacimento della Vita è sogno, Hofmannsthal reitererà il motivo cui fa cenno l'enigmatico frammento riportato da Busoni: la Engelsprache, la lingua angelica capace di "portare alla luce ciò che sgorga all'interno - come nell'albero intaccato che, proprio attraverso la sua ferita, libera una linfa balsamica" [La Torre], non è accessibile sul piano mondano. Se ad essa tendono gli sforzi della poesia, ogni poeta autentico sa che il proprio dettato, anche il più quintessenziale, il più prossimo alla sorgente segreta, è, rispetto alla Bocca d'Ombra, qualcosa di dimidiato. "Mio, maestro - dice Sigismondo nella Torre - perché parli con loro? Per quel che varrebbe la pena dire, la lingua è troppo spessa" [Il rapporto tra Engelsprache e silenzio, un silenzio che critica la pretesa della parola di esaurire il senso del mondo nella trama delle proprie simmetrie, erigendosi a Verità, è al centro della bella postfazione di Cacciari alla trad. Adelphi de La Torre (cfr. M. CACCIARI, Intransitabili utopie, in part. p. 211 e sgg.). Ispirate al Lord Chandos hofmannsthaliano, pagine straordinarie sul rapporto tra ispirazione poetica e universo della Notte (in un senso molto vicino all'accezione che il tòpos conosce in Busoni) si trovano in: M. BLANCHOT, Lo spazio letterario, Torino 1967, p. 157 e sgg.]. È così anche per Busoni o la forma espressiva sublime di cui Hofmannsthal lamentava l'assenza è, per lui, a portata dell'uomo? Per tutto un versante dell'Abbozzo, là dove l'autore del Faust concepisce la musica come soffio o pneuma, facendone l'equivalente della divina psyché, la lingua ignota, di cui Lord Chandos si augura di disporre davanti al giudice supremo a discolpa dei propri limiti di essenza incantata, sembra coincidere con l'espressione musicale. Incorporea, trasparente, "aria che vibra", la musica ha in comune con l'Angelo la quiddità del volo. Non vincolata al cerchio del concetto che, dotando la parola di un alone semantico più o meno precisato, sottopone la poesia alla legge di gravità, essa dice l'indicibile, inoltrandosi lungo le contrade dell'infinito:

La musica è nata libera e divenire libera è il suo destino. Diverrà la più perfetta delle interpretazioni della natura grazie alla libertà della sua immaterialità. Persino la parola poetica le è seconda nell'incorporeità: la musica può raccogliersi su se stessa e distendersi, può essere la calma più immobile e l'impeto più sfrenato; essa attinge i culmini più alti che siano immaginabili per gli uomini - quale arte può tanto? - e la sua sensibilità colpisce il cuore umano con quella intensità che è indipendente dal concetto. Essa ritrae un carattere senza descriverlo, con la mobilità dell'anima, con la vivacità dei momenti che si susseguono, laddove il pittore o lo scultore possono rappresentare solo un lato o un momento di una situazione e il poeta interpreta un temperamento e i suoi moti faticosamente, allineando parole [Abbozzo, p. 72]

La musica, dunque, è la più pura delle arti. Sciolta da ogni vincolo, "assoluta" per vocazione, non sopporta né l'opacità della materia né un involucro formale così stringente da incepparne il volo. Ma il privilegio che Busoni accorda allo specifico musicale, isolandolo dal novero degli altri generi artistici, auspicandone un rinnovamento che lo riaccosti all'essenza originaria, implica davvero che l'arte dei suoni possa coincidere con la superiore fluidità della Engelsprache?
Altri, in ambito Sturm, nel periodo più teso della stagione espressionista, affideranno alla phoné, depurata d'ogni incrostazione semantica, il compito di scandire il divino che è nell'uomo. Frugando nei recessi della coscienza alla ricerca dell' Ur-laut, il suono primigenio, la sillaba infusa al momento della Creazione, un Blumner o uno Schreyer vedranno nel teatro la fucina della comunità "adamitica" e nella "lingua angelica" il concerto delle anime redente dali colpa originaria [Sull'argomento si veda il nostro: U. Artioli, Il ritmo e la voce, Shakespeare and Company, Milano 1984, in particolare pp. 117-158. Al libro, dedicato alla teatralità primonovecentesca a fondamento rituale, in particolare espressionista e para-espressionista, si rinvia il lettore per i molti riferimenti al contesto culturale in cui opera Busoni].
Non così Busoni che distinguendo, come fa nell'Abbozzo, tra Musik e Tonkunst, (arte dei suoni), tra la musica come essenza e il suo precipitato mondano, allontana la prima in sfere attingibili dall'orecchio umano solo per folgoranti, ma limitati, barlumi. La Musik busoniana, presso cui "l'infinito vive completo e indiviso" [Abbozzo, p. 72], è, come il goethiano Regno delle Madri, la sorgente delle donne, il luogo dove ogni suono, pur conservando la propria specificità, si accorda con gli altri suoni in un'armonia che è il segno più vivo dell'unità del creato. Se di essa si può proferire che è il Tutto, la sua anteriorità rispetto a ogni creazione sonora coniata dall'uomo la fa designare altrettanto bene come il Nulla. Mentre qui ogni suono, essendo "centro di cerchi non misurabili" [Abbozzo, p. 71], rinvia all'illimitato, nella Tonkunst, anche la più ispirata, la più vicina al sottosuolo materno della Musik, l'indefinito deve definirsi, il cerchio chiudersi in una conformazione esatistiva.
"Ogni notazione - scrive Busoni - è già trascrizione di un'idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L'intenzione di fissare l'idea con la scrittura impone già la scelta della battuta e della tonalità. Il mezzo formale e sonoro - per il quale il compositore deve pure decidersi - determina sempre più vie e limiti" [Abbozzo, p. 52]. L'inanimata materialità da cui, rispetto alle altre arti, lo specifico musicale appariva in prima istanza immune, riaffiora non appena si ripercorra il sentiero genesico che dall'indeterminato della Musik conduce al piano tecnico, fabbrile, da cui non può prescindere la Tonkunst.
Fusionale, sinestetica, affrancata da ogni indice separatorio, la prima ha il volto fascinoso della Notte che Wagner contrapponeva, nel Tristano, al "fraudolento giorno"; la seconda è necessariamente un frammento, anche se in se stesso compiuto. Perciò, per Busoni, creare è "generare dal nulla" [Abbozzo, p. 59], reiterare il cammino a ritroso verso la sorgente divina. Il rifiuto della tradizione, che imprime a certi passaggi dell'Abbozzo un'allure nietzscheana, dipende dal fatto che ogni opera consacrata, anche la più grande, esplora solo una porzione infinitesimale dello sterminato serbatoio che è la Musik. In essa un frammento della Notte, divenuto giorno, ha chiarito i suoi contorni, si è depositato in una forma che, essendo organicamente legata all'impulso originario, acquista nell'imitatore passivo i tratti rigidi dello stereotipo.
Per questo il vero creatore non può non avere un sottofondo infantile, non possedere, dell'Eterno Fanciullo, la qualità più saliente: l'indeterminatezza, lo stato albale, di sospensione tra il nulla e l'essere. Addossato al grembo materno quel che basta a carpirne i succhi nutritizi, da questa stazione regressiva, che in realtà è "un vero e proprio passo in avanti" [Abbozzo, p. 61], trae la forza per procedere oltre inaugurando, con la perentorietà che è prerogativa dell'uomo ispirato, un nuovo cerchio. "Ogni sforzo - scrive Busoni - deve tendere a che sorga verginalmente un nuovo inizio" [Abbozzo, p. 61]. E altrove, in uno degli ultimi scritti: "Anche la cerchia entro cui il più formidabile gigante svolge la sua attività è necessariamente limitata... Nell'ambito di questa cerchia dominabile da un uomo solo, e assegnatagli dalle circostanze della sua nascita nello spazio e nel tempo, lo spirito individuale si sente più attratto verso certi luoghi e formazioni per una naturale simpatia, per la somiglianza della sua e della loro natura" [Dell'essenza della musica]. In una dichiarazione di poetica del '12, uno dei più grandi pittori dell'espressionismo, Oskar Kokoschka, aveva sostenuto posizioni affini postulando, contro l'impotenza creativa di cui è latrice la modernità, una sorta di regressus ad uterum. Quando la coscienza è inaridita, occorre discendere di grado, varcando la porta stretta che, al di là dell'io, introduce al vortice delle "visioni". Qui, dove il mondo è un turbinare d'icone che si mescolano e si scindono in un frenetico sabba, comincia il combattimento con l'Ombra con cui l'artista seleziona l'imago che più gli conviene, e questa immagine lavora per offrire, a sè e alla comunità, un alimento salvifico.
"Nessuno invidi il genio - scrive dal canto suo Busoni. A lui tocca la parte più ardua del compito e la maggiore responsabilità senza che egli possa mai abbreviare la distanza che ci separa dall'essenza della musica" . Sono parole che, tornando più o meno alla lettera nel libretto del Faust, riassumono il tormento del protagonista. Ma che l'opera sia un precipitato dell'intera poetica di Busoni, lo dimostra l'ossessivo accamparsi delle grandi figure della Notte, del Cerchio e dell'Eterno Fanciullo, di cui si è cercato di mostrare il rilievo teorico. Nell'atto di confrontarsi col mito faustiano, Busoni procede a sua volta per "naturale simpatia": seleziona dal tronco della tradizione ciò che gli è congeniale e lo rimaneggia sino a distillame qualcosa di profondamente suo.

Non è un mistero che Busoni, a proposito del genere operistico, abbia sempre teorizzato l'assoluta preminenza della parte musicale. Sottoposta al principio di "condensazione" [Abbozzo di un'introduzione alla partitura del "Dottor Faust"], la parola deve dissugarsi rinunciando al compito di delucidare, con la gamma di sfumature che le pertiene, il senso della vicenda. Ridotto a canovaccio, al libretto spetta esibire il nudo scheletro dell'azione, consentendo all'onda sonora la magia evocativa, la capacità di toccare i recessi dell'anima che sono la prerogativa del linguaggio dei suoni.
Lo stesso vale anche per la parte visiva. Poiché il teatro d'opera non è soltanto musica, ma anche spettacolo, la parola va congelata, divenendo, al limite, didascalia: un segnalatore di ciò che lo spazio, i costumi, il gioco delle cromie, l'intera attrezzeria della scena ha il compito di visibilizzare. Perciò un'analisi del libretto del Faust, svincolata dalla partitura musicale, può sembrare fuorviante. In realtà lo spartito verbale busoniano, indagato sotto il profilo dell'azione, mostra la perizia dell'autore nell'orchestrare la struttura dell'opera che, come è stato annotato, soggiace a "un modello architettonico di figura circolare" [SABLICH, Busoni, p. 229], costruito su un pressante reticolo di corrispondenze e simmetrie.
Già questa prima indicazione, che dilata il motivo del cerchio da momento tematico a macro-griglia formale, attesta che Busoni, di fronte ai materiali del Puppenspiel, non si limita a un mero ricalco. Opportunamente selezionati, sottoposti a un lavoro di decantazione the ne esalta i connotati simbolici, gli elementi cari alla tradizione popolare tedesca perdono i loro umori buffoneschi per intridersi delle cadenze rituali in cui Busoni ha intravisto l'elemento più tipico dell'opera seria: il suo essere una filiazione dell'antico Mysterium. Non può sorprendere, quindi, il procedimento iterativo che sta alla base dell'intera composizione. A parte il fatto che il testo comincia con un richiamo al Fanciullo per sfociare, in ideale circolarità, sull'immagine dell'adolescente rinato, un incessante fraseggio dal Buio alla Luce contrappunta i vari tempi del dramma.
Si interpelli l'apparato delle cromie. Nella didascalia iniziale, si assiste a un raddoppiamento del palcoscenico: si alza il sipario principale, dietro cui ne compare un altro di velluto nero, davanti a cui il Poeta, nelle sue qualità di custode della Notte, pronuncia la sua allocuzione. Il Prologo primo ha luogo di mattina, ma l'atmosfera di quotidianità, sancita dalla luce diurna, s'interrompe di colpo quando i tre Studenti di Cracovia, vestiti di nero, squarciano la quiete di Faust: sono i portatori dei mistici arredi che consentono l'evocazione diabolica. Il Prologo secondo avviene di mezzanotte, l'ora in cui il tempo è in bilico tra un giorno e un altro giorno, l'ora della trasmutazione. Nel buio balenano le fiamme degli spiriti che Faust interroga in rapida successione per sondarne la potenza. Arrivato al quinto si arresta deluso. Le forze della Notte, convocate per dotare l'umano d'una scintilla aggiuntiva, sono inferiori a ciò che è già infuso nelle creature mortali. Allora Faust esclama: "Che sia questo l'intero apparato infernale? Come sta più in alto lo spirito umano. In lui esiste un barlume divino. Come vi disprezzo, presuntuosi che dovevate recare luce e invece è buio fitto...".
Con l'apparizione del sesto spirito, Mefistofele, che indossa "un attillato abito nero"e, a differenza delle altre presenze dichiara d'essere veloce come il pensiero umano, si consuma l'episodio del patto. Quando Faust ha firmato, "la scena diventa sempre più luminosa. Dalle finestre e da tutte le fessure irrompono i raggi del sole mattutino", mentre il coro intona il Resurrexit. La metamorfosi è dunque riuscita. Il sogno di strappare alla Notte il suo segreto, dotando l'uomo di una forza di realizzazione pari al suo desiderio, è ormai alla portata di Faust, che può affrontare la luce diurna senza scorgere, nella fissità delle cose che stanno dove devono stare, il sigillo della propria impotenza.
Ma che si tratti di inganno lo dimostra la scena successiva, dove Busoni non rimaneggia i materiali del Puppenspiel ma inventa di proprio. "Sei contro un solo", esclama a un certo punto Mefistofele, travestito da monaco, provocando it fratello di Margherita che vorrebbe vendicarsi di Faust. Mentre d'incanto "si fa notte profonda", una pattuglia di soldati penetra nella chiesa dove nella fattispecie si svolge l'azione. Subito dopo il fratello di Margherita giace morto per terra, con un raggio di luna che indugia a lungo sulla figura irrigidita. Se si pensa che la scena precedente vedeva il protagonista alle prese con le sei presenze demoniche, non si fa fatica a intendere come Busoni, lavorando sull'artificio della simmetria, faccia del fratello un doppio di Faust.
Quel che l'eroe non sa, ma di cui risulta avvertito l'attento spettatore, è che l'ora della sua prima vittoria, coincidente con la liberazione da un rivale importuno, è un presagio di sconfitta. Si consulti l'epilogo del dramma: Faust giace per terra, mentre la lanterna di Mefistofele, travestito da Sentinella Notturna, gli illumina il viso. Il parallelismo con l'altra morte è flagrante: eguale la positura dei corpi, eguale la pallida intensità del flusso luminoso, eguale il tempo che curva verso l'epicentro della Notte.
L'analisi potrebbe continuare, visto che non una delle ulteriori sequenze che compongono l'azione risulta esente dalla funzione simbolica cui Busoni piega l'uso delle cromie: basti pensare all'incalzante successione giorno‑notte‑crepuscolo‑ancora giorno nella scena agita presso la Corte di Parma o alla polarità infanzia‑sera su cui si conclude la penultima stazione del dramma.
Ma quali sono le valenze simboliche che la diade Ombra‑Luce, nel suo vicendevole scambiarsi, inaugura in Busoni? Proprio negli anni della lunga gestazione del Faust, la drammaturgia espressionista è maestra nel confezionare inedite modalità d'impiego del flusso luminoso, che si oscura o si incendia in base al grado di autocoscienza toccato dal protagonista nel suo processo d'iniziazione. Ma per l'espressionismo la tenebra resta latenza dal senso, caduta, paralizzante cecità, e il suo accamparsi segnala l'incepparsi della peripezia, quando non addirittura il suo naufragare nell'irrimediabilità dello scacco.
Non è così per Busoni, il cui wagnerismo gli fa percepire la Notte, sempre contrapposta alla ferialità diurna, come l'epifania del Wunder, del Meraviglioso, issandola a perno di una grande costellazione analogica al cui interno cade, come già si è detto, la stessa musica. Poiché per lui l'iniziazione non è un movimento di distacco dalla tenebra in direzione del chiarore, ma un inoltrarsi lungo i sentieri dell'invisibile affinché il non formulato sciolga i suoi veli, e qualcosa della sua ricchezza illuda, magari per un attimo, il desiderio dei mortali, nel suo Faust il tòpos comincia a curvarsi verso quella che sarà la lezione surrealista. Lo stupefacente, l'inabituale, ciò the evoca le fluttuanti atmosfere del sogno è il portato della Bocca d'Ombra. Perciò il Faust di Busoni, nell'atto di dar vita alla serie di prodigi che, presso la Corte di Parma, conducono alla seduzione della Duchessa, comincia con quello da cui ogni magia procede quasi per germinazione spontanea: [Dell'essenza della musica]

Perdonate se agisco in modo inconsueto
il giorno è ostile al Meraviglioso
Luce, tu sia bandita
Metamorfosati in Notte..."

Petizioni analoghe non sono infrequenti del resto, nelle pagine che Busoni dedica alle sue predilezioni letterarie. In un delizioso scritto del 1914, ispirato a Hoffmann, dopo aver evidenziato, dell'autore dei Racconti fantastici, la capacità d'immergere il personaggio "in una luce indefinibile e inquietante... paragonabile a quel qualcosa che di notte ci fa apparire gli oggetti diversi da quelli noti", egli annota con finezza: "Ma per lo più le apparizioni e i giochi di prestigio finiscono con l'essere avvenimenti riferiti come li hanno visti o hanno creduto di vederli un sognatore, un ebbro, un febbricitante, un pazzo; e la mattina dopo, alla luce disincantata del giorno, ogni cosa sta al posto che le spetta, spariti gli aloni fantastici o soprannaturali, casalinga e banale" [Per i Racconti fantastici].
Il sipario di velluto nero; l'adozione di eguale cromia per quei personaggi, fatali o fatati, che sono nel dramma i corifei del Metafisico; l'incombere improvviso dell'oscurità tutte le volte in cui la situazione deraglia dallo spartito quotidiano: si tratta di cifre emblematiche anche per lo spettatore, chiamato, nell'atto di venire a teatro, a percepire dell'evento il lato visionario, di avventura negli abissi dell'anima. La polemica di Busoni contro la scena naturalistica, i cui eccessi mimetici scatenano nel pubblico un'emozione viscerale senza che i centri dello spirito vengano toccati, trova, nella rete di simboli che intarsia il suo palcoscenico, una conferma esemplare.
E tuttavia, sul piano scenico, ciò non è esente da ambiguità. Si confronti l'espediente del doppio sipario, in forza del quale il teatro maggiore ne contiene un altro, vergato di nero, col discorso the il Poeta, nell'incipit del dramma, rivolge agli astanti. Qui, dove Busoni reitera, anche se in maniera meno recisa, un passo dell'Abbozzo che eleva a spettatore ideale l"incredulo", risulta evidente la strategia dell'autore: se il secondo sipario è l'erigersi della Bocca d'Ombra, il primo, che lo contiene, è il limite frapposto all'immedesimazione dello spettatore, che durante l'intero evento deve essere cosciente di trovarsi a teatro.
Ma ciò mal s'amalgama con l"aspetto di cerimonia non quotidiana, semireligiosa, elevata" [Abbozzo, p. 22] che Busoni pretende dall'opera, riportandola alla tradizione sacrale dei "popoli antichi" e sul cui stampo modella il suo Faust. Ogni rito presuppone un credente, e non a caso chi - dagli Espressionisti ad Artaud - ha riaccostato il teatro alle sue origini culturali, ne ha evocato, anche, la magia contagiosa, il soverchiante potere d'affatturamento. Ma Busoni non ama lo spettatore affatturato. Preoccupato che un eccesso di partecipazione "umana" inquini il godimento estetico dell'opera d'arte, rilancia la celebre tesi diderottiana in base a cui l'artista "se vuole commuovere, non deve essere commosso lui stesso, pena la perdita immediata del controllo dei suoi mezzi" [[Abbozzo, p. 50]] formali, estendendo tale criterio anche alla partecipazione del pubblico.
Staccato dall'evento quel che basta a dominare il torbido intrico degli istinti, lo spettatore busoniano, lungi dal farsi afferrare dai simboli col ribollimento emotivo che, negli stessi anni, Rudolf Otto ascrive al potere, terrifico e affascinante insieme, del Numinoso [R. Otto, Il Sacro, trad. di E. Buonaiuti, Milano 1981, in particolare pp. 17-40. Il testo originale è dei 1917], dovrebbe, di fronte allo spettacolo, conservare uno sguardo "sereno".
In bilico tra una visione estetizzante dell'opera d'arte, con le sue propensioni. contemplative, e il carattere di Mysterium impresso al teatro - cosa che, imponendo un coinvolgimento rituale, esige il venir meno della "distanza socratica" - Busoni esita tra apollineo e dionisiaco, tra olimpicità dello sguardo e travolgente malia. O forse, scambiando l'orgiasmo di cui era latrice la componente più viva dell'Espressionismo con quel che un autore a lui vicino, Ernst Bloch, chiama, contrapponendole al nócciolo più riposto dell'io, "le nostre piccole emozioni..., la spessa coperta del corpo da cui siamo avvolti" [E. BLOCH, Lo spirito dell'utopia, Firenze 1980, p. 192. Il testo originale è dei 1918. La trad. ital., a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, è tratta dalla versione del 1923], vede nell'eccesso di immedesimazione un fisiologismo insopportabile. Ma Bloch, che al pari di Busoni concepisce il diurno come tenebra e la musica come l'unico modo per "nominare tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e mai trovato" [BLOCH, p. 178], sostiene anche che il moderno non è più il tempo della contemplazione. Mentre i classici vivevano sotto l'egida del visibile, perché il loro cielo rifrangeva certezze immutabili, cristalline evidenze, il nostro tempo, che ha perduto la quiete appagante della luce esteriore, è il tempo del viaggio nelle catacombe del Sè. Per questo la musica, voce d'un'altra sfera che parla dentro la palude del mondo, deve "struggere i cuori, muoverli e ferirli" [BLOCH, p. 169], sostituendo "il primato dell'accendersi al primato della contemplazione durato finora" [BLOCH, p. 184]. E se per Bloch il teatro, anche il più visionario, il più vicino al dionisiaco "della danza, delle maschere, dell'entusiasmo, della magia" [BLOCH, p. 178], risulta inferiore all'empito metafisico del linguaggio musicale, resta il fatto che, per lui, il palcoscenico vero è indissociabile dall'estasi.
Su questo crinale l'acceso espressionismo di Bloch impatta con l'atteggiamento pacato, fitto di resistenze classicheggianti, con cui Busoni vive, pur con squarci di straordinaria tensione, la febbre utopica dei primi due decenni del secolo.

Se la Notte, in quanto emblema dell'infinito, è la genesi profonda del cerchio, tra le due figure c'è antitesi, ma anche continuità. In quanto figlio della Notte il cerchio deve, per venire alla luce, separarsi dalla madre. Ma la memoria materna opera, nel figlio, come nostalgia: esattamente ciò che nella rilettura busoniana del mito di Faust spinge il protagonista a cercare nel limite l'illimitato, inseguendo il fantasma di Elena. L'abbacinante figura femminile che nel penultimo quadro del dramma di Busoni si offre all'occhio del protagonista per dissolversi non appena Faust tenta di afferrarla, non ha nulla a the fare con la cortigiana, lussuriosa e carnale, dell'Historia di Spies [J. SPIES, Storia dei dottor Faust, ben noto mago e negromante, trad. di M.E. D'Agostini, Milano 1980, p. 164. Il testo originale è del 1587. Per l'analisi della tradizione faustiana sino a Goethe, si veda il fondamentale: V. ERRANTE, Il mito di Faust, vol. I. Sansoni, Firenze 1951. Nella fattispecie, circa la figura di Elena, p. 78 e sgg.], poi rifluita nella tradizone dei Faustschauspiele.
Cerchio dei cerchi, idea platonica, arché, nel suo fulmineo comparire e sparire si compendia l'essenza della musica quale l'ha concepita Busoni: "Talvolta, in rari casi, un essere terreno ha intravvisto qualcosa di ultraterreno nell'essenza della musica; ma questo qualcosa, non appena vogliamo afferrarlo, si scioglie nelle nostre mani, non appena vogliamo trapiantarlo quaggiù avvizzisce, non appena vogliamo trascinarlo nelle tenebre della nostra mentalità si spegne; pure della sua origine divina tanto resta di riconoscibile da apparirci come quello che vi è di più alto, di più nobile, di più luminoso, fra ciò che di alto, di nobile, di luminoso palesemente ci circonda" [Dell'essenza della musica].
Fallace è l'andito di Faust alla perfezione. Come la Notte o la Musik, Elena non si lascia cogliere da chi, pur dotato di magici poteri, resta umano-troppo-umano: una creatura appartenente all'universo del Limite. Non è un caso che la parabola di Faust si delinei tra due mezzanotti ma anche, e forse soprattutto, tra una dinamica di uscita e di rientro nel cerchio. Nella tradizione faustiana, sia letteraria che spettacolare, il cerchio è una figura cabbalistica, un magico tracciato che tutela l'evocatore nell'atto di convocare la consorteria dei demoni. A tale tradizione sembra attenersi Busoni quando, in una didascalia del prologo secondo, il suo Faust "si toglie la cintura e forma con essa un cerchio sul pavimento: penetra nel cerchio con la chiave in mano".
Ma dopo l'evocazione del quinto spirito, il protagonista esce dal cerchio. È qui che il tòpos della circolarità, piegandosi alle coordinate dell'immaginario di Busoni, diventa la miseria del Limite, il perimetro che impedisce, con i suoi risibili contorni, l'accesso alla Notte. Mosso dall'andito verso il Cerchio dei Cerchi, la sfera che parla il linguaggio dell'incommensurabile, Faust si lascia sedurre solo, dall'ultimo spirito il quale gli dice: "Io sono veloce come il pensiero umano". Il pensiero umano: nella sua illusoria promessa dell "immagine perfetta / della bellezza più pura" è Mefistofele ad ingannare Faust, o è Faust ad auto-illudersi, scambiando per divino quel the appartiene soltanto a un'umanità potenziata? La domanda ne sottende un'altra di carattere filologico. Perché Busoni, che procede per senate corrispondenze simboliche, nulla lasciando al caso, nelle prime due edizioni dell'opera [Il libretto del Faust, i cui primi abbozzi di composizione risalgono al 1910, venne pubblicato per la prima volta da Busoni net 1918 sulla rivista "Die weissen Blätter" di René Schickele. Sul laborioso processo di stesura, l'apparato delle varianti e le varie edizioni del testo, si veda, oltre alla preziosa monografia di Sablich: A. BEAUMONT, Gedanken zu «Doktor Faust» von Ferruccio Busoni, Oper Frankfurt, Frankfurt, 1980 e il contributo di P. Op de Coul] propone sette presenze demoniche, per ridurle a sei nella versione definitiva?
È vero the nell'editio princeps dei Volksbücher faustiani, la già citata Historia di Spies, si parla di "una lingua di fuoco delle dimensioni di un uomo" che, ricadendo, forma "sei piccole faci"
[SPIES, p. 21]; ma è anche vero che Busoni interpella le fonti lasciando da parte quel che non gli è congeniale. A prima vista le indicazioni lasciate dall'autore scivolano sull'argomento, limitandosi a spiegare, dal punto di vista musicale, il crescendo su cui è costruita la scena: "Nel secondo prologo ho riunito le sei voci dei demoni in una serie di variazioni basata sul motivo "domanda e risposta". Al tempo stesso mi sono proposto di condurre gradatamente queste voci - ascendenti l'una dopo l'altra - dal registro basso all'acuto, da una trascinata lentezza a un moto crescente, così che l'ultima voce è riuscita la più acuta, e quindi la parte di Mefistofele una parte spiccatamente tenorile" [Sulla partitura del "Doktor Faust"].
Ma il tipo d'esplicazione consente un'ipotesi non azzardata. In un capitolo dello Spirito dell'utopia Bloch definisce incompatibile con l'età moderna - l'età della perdita della luce e del silenzio di Dio l'analogia, fiorita in Occidente con Pitagora e in Oriente coi Veda, tra musica e pianeti, di cui farebbe fede il numero sette, numero che abbraccia sia le note musicali the il computo dei corpi celesti noti all'antichità. Ripresa da Keplero, presso cui "persino i diversi registri delle voci devono corrispondere ai diversi pianeti", la teoria astronomica della musica tornerebbe a rifulgere in età romantica: "Per Schelling l'oro musicale è tutto sepolto nel numero sette e quando la sua filosofia dell'arte entra in rapporto con la musica trionfa completamente il pitagorismo kepleriano..." [BLOCH, p. 167].
Ma ricondurre la musica al creaturale, facendone un esempio di compiutezza cosmica, è, per Bloch, tradire l'essenza del linguaggio dei suoni, il cui compito è ricordare all'uomo, pellegrino lungo i sentieri della modernità, la patria assente, l'où topos, la non-dimora, ciò che "terrestremente non è realizzabile" [BLOCH, p. 178. Da notare che Bloch cita più volte Busoni come teorico dell'«opera seria», dell'opera che, come uno specchio magico, riflette la realtà trascendente, ultramondana, o, per usare il linguaggio dell'Autore, "utopica". In questa forma sublime di cerimonia teatrale, la parte squisitamente scenica dovrebbe, con la sua visionarietà, fungere da supporto all'avvento del flusso musicale, in modo the "l'impossibile della musica si riallacci all'impossibile e al visionario dell'azione ed entrambe divengano così possibili"]. Se si tien conto che la Musik busoniana cade sotto desinenze affini, non è improbabile che l'autore del Faust abbia rimaneggiato il libretto alla luce di tali indicazioni, abbassando il numero delle figure demoniche da sette a sei: dalla cifra che, esprimendo l'essenza dello spirituale, è il simbolo della perfezione, al numero per eccellenza umano, legato ancora allo spazio e alla materialità [Sul simbolismo del sei e del sette, si veda: E. BINDEL, Les éléments spitituels des nombres, trad. dal tedesco di D. Mazé, Paris 1960, p. 133 e sgg., che nella fattispecie attinge a motivi di Agrippa, Goethe e Rudolph Steiner. Il libro di Bindel riprende anche uno dei più discussi teosofi del '700, Louis-Claude de Saint-Martin, autore di un trattato, Des nombres, di forte impronta ermetica].
Del resto altri artisti o letterati dell'epoca, e non dei minori, avevano proceduto lungo lo stesso cammino. Pirandello, ad esempio, che nei suoi Sei personaggi in cerca d'autore, oppone alle sei creature sospese tra essere e non essere, tra il barlume di vita infuso in loro e il rifiuto dell'Artifex a colmare, grazie al cerchio perfetto dell'arte, la loro latenza, una settima, gloriosa, figura: "Così nasce Madame Pace tra i sei personaggi, e pare un miracolo, anzi un trucco su quel palcoscenico rappresentato realisticamente. Ma non è un trucco. La nascita è reale, il nuovo personaggio è vivo non perché fosse già vivo, ma perché felicemente nato..." [L. PIRANDELLO, Prefazione a Sei personaggi in cerca d'autore, Milano 1962, pp. 16-17]. Oppure Kandinskij che nel Suono giallo, autentica cerimonia di prefigurazione dell'uomo nuovo nel senso dello Spirituale caro al Blaue Reiter, propone sei stazioni lasciando vacante la settima, quella che, dopo la stagione dell'Annuncio, dovrebbe scandire la gioia del Compimento [Sul simbolismo numerico nel Suono giallo di Kandinsky si veda: F. BARTOLI, Kandinsky tra apocalissi e astrazione, Appendice a: U. ARTIOLI, Il ritmo e la voce, cit., in particolare le pp. 269-70].
Se questo è vero, il rimaneggiamento busoniano del testo a favore del sei, comportando una riduzione della potenza di Mefistofele, sancirebbe in anticipo lo scacco di Faust.

"Dammi il genio
ed anche i suoi dolori
perché sia felice come nessun altro",

chiede il protagonista al suo interlocutore demonico. Ma il genio in accezione busoniana resta creatura del Limite: se può accedere per barlumi alla Notte, mai può prosciugarla. Perciò il destino di Faust risulta iscritto nella figura del cerchio: esattamente la figura che ricompare nell'epilogo del dramma, quando il protagonista torna a slacciarsi la cintura, ricollocandosi dentro il tracciato che aveva osato infrangere al momento dell'evocazione di Mefistofele. Fallimentare, allora, la
parabola di Faust; peccaminoso l'andito all'oltrepassamento che induce l'eroe a firmare il patto diabolico? Nell'opera di Busoni il protagonista muore all'ora prefissata, come il più comune dei mortali, senza che l'attrezzeria infera, col suo tradizionale apparato di fiamme e di arnesi da tortura, si affanni a reclamarne l'anima. Una morte serena, propria di chi, nell'atto di chiudere gli occhi, ha ancora lo sguardo fisso in avanti, verso un avvenire pieno di speranza. "Solo chi guarda in avanti, vede in modo sereno", aveva detto Faust agli Studenti nel penultimo quadro dell'azione, mentre il tempo, curvando verso la sera, lo metteva di fronte al passato.
Ma come far solidarizzare passato e speranza in chi sente il proprio cerchio vicino a concludersi, senza che nessuna certezza, se non l'ineluttabilità del morire, abbia fecondato il proprio itinerario terreno? Nel finale del Faust di Busoni le ore scandiscono, come in Marlowe e nella tradizione del Puppenspiel, l'approssimarsi della mezzanotte, senza che il protagonista sappia cavare, dall'intimo della coscienza lacerata, una parola di pentimento. La porta della chiesa, che d'improvviso si illumina all'interno, è sbarrata dallo spettro del fratello di Margherita; il crocifisso che sta all'esterno del luogo sacro si tramuta nell'immagine menzognera di Elena. Proiezioni dell'io, queste icone minacciose o ammalianti sviano dal pentimento; e se nel tentativo di pregare al Faust di Busoni mancano le parole, che "danzano nel cervello come formule magiche", è perché il protagonista non riconosce il proprio peccato.
La colpa, per lui, è altrove: nel doversi accettare come forma finita, nel non saper consentire al desiderio d'incommensurabile una continuità futura. L'andito non si può spegnere. Il tòpos dell'Eterno Fanciullo, sicuramente l'innesto più inventivo dell'intero libretto, circoscrive questo snodo cruciale. Non che la tradizione faustiana manchi di riferimenti in merito, se già nella Historia di Spies si parla di Justus Faustus, il bambino nato dal rapporto tra Faust e Elena nell'ultimo anno di vita del diabolico Dottore [SPIES, p. 164]. Ma per la figura del puer aeternus, coi suoi risvolti salvifici, è più plausibile che Busoni abbia attinto al Faust di Goethe, là dove, nel Prologo a Teatro, si distingue tra il lato kindisch, scioccamente infantile, della senilità, e il wahres Kind, l'autentico fanciullo ["Das Alter macht nicht kindisch, wie man spricht / Es findet una nur noch als wahre Kinder" (Cfr. J.W. GOETHE, Faust, Wilhelm Goldmann Verlag, Munchen 1978, p. 154)], che dorme nel vecchio poeta.
A riscontro si prenda il penultimo quadro del dramma, quando il protagonista, giunto al crepuscolo della vita, dice:

Nulla è fatto
tutto è da ricominciare

sento di nuovo prossima l'infanzia

mescolando, quasi in un ossimoro, fanciullezza e vecchiaia. Tre volte la Duchessa offre a Faust, col figlio, il pegno della speranza: la prima mettendolo alla luce; la seconda per mezzo di Mefistofele che, nella taverna di Wittenberg, depone ai piedi di Faust un "neonato morto"; la terza comparendo di persona, poco prima della mezzanotte fatale, col bambino morto in braccio.
Ma anche gli Studenti di Cracovia sono, nel testo, in numero di tre. Contrapponendo cifra a cifra, in un simbolico bilanciamento delle forze in gioco, Faust ricusa la magia, distruggendo gli arredi dell'evocazione diabolica, quando un'altra magia, nata all'interno di se stesso, si sovrappone alle entità infernali. Nella scena conclusiva il protagonista, dopo essere rientrato nel cerchio, fissa il bambino che giace immoto per terra, poi comincia ad animarlo col potere magnetico della parola:

Sangue del mio sangue
corpo del mio corpo
che giaci addormentato
spiritualmente puro
ancora fuori d'ogni cerchio
eppure in questo a me intimamente congiunto

ti dono la mia vita...
Che io torni ad operare in te
e il tuo procreare
seppellisca profondamente
sempre più profondamente
la traccia del mio essere
sino alla fine dell'impulso.
Correggi
ciò che ho rovinato
realizza
ciò che ho trascurato
così che posto
al di là d'ogni regola
mescolato
all'ultima stirpe
abbracci in uno
tutte le epoche
io, Faust
un'eterna volontà.

Che la palingensi abbia effetto, lo dimostra l'epilogo del dramma: mentre Faust muore, nel luogo dove giaceva il bambino morto, "sta un giovane adolescente nudo, con un ramoscello fiorito nella mano destra, che incede a braccia aperte sulla neve nel cuore della notte e della città".
Si noti, tra i molti emblemi di rinascita, il gioco tra oscurità e candore, testimoniato dalla presenza della neve, quasi Busoni volesse trasferire nell'icasticità d'un simbolo visivo la pagina dell'Abbozzo che esige dal vero creatore un nuovo, verginale, inizio. Finale certo espressionista, non a caso ispirato da Rubiner, con cui l'autore ebbe frequenti contatti e che in Denke! sviluppa un tema affine [*]. Ma, soprattutto, finale che condensa, in una sintesi vertiginosa, le cadenze più fonde dell'immaginario di Busoni. Ancora fuori dal Limite e tuttavia già iscritto nella sua perimetralità, il Fanciullo, intercapedine tra il Cerchio e la Notte, è, come Faust morente, in bilico tra essere e non essere. Figura dell'origine, eterno indeterminato, ha in sè ciò che il protagonista, nel crepuscolo dell'esistere, sente con maggiore nostalgia: la promessa (e l'incognita) del divenire.

Sta nel fanciullo, come nelle virtualità del seme
l'intero impulso alle future forme

aveva detto il Poeta all'inizio della cerimonia teatrale. Il Cerchio dei Cerchi, l'Uno-Tutto, che Faust credeva di cogliere grazie all'impura magia di Mefistofele, rivive intatto in chi non è ancora entrato nella corrente della vita. Non importa se, congelandosi in un punto, l'oscura linfa della Notte un giorno avrà un nome, se l'indefinitezza del possibile si placherà in un cerchio più o meno limitato. L'importante è che, tramite il Fanciullo, l'anelito non muoia, che l'Eterno Ritorno presieda al gioco del suo apparire: ritorno eterno non delle stesse forme, ma della forza procreatrice, sempre eguale a se stessa nelle molteplici, anche se finite, epifanie.
Per questo il Fanciullo di Busoni, con cui il cerchio, divenuto sequenza di anelli, catena, sembra consentire all'avvicendarsi delle generazioni quel che non si dà nel limitato giro d'una vita umana, se da un lato rinvia a Nietzsche, dall'altro implica quanto Kerényi, nella sua finissima analisi del mitologema, ascrive agli stati di trapasso. Ciò che gli antichi esprimevano, facendo solidarizzare nel Fanciullo la culla e la tomba, "non era soltanto l'oscillante equilibrio dei due vettori di questa condizione - l'oscillazione dei bambini e dei morenti tra esistenza e non-esistenza - ma anche il sicuro ritorno in su della direzione che porta in giù... il farsi avanti del più forte dal più debole di tutti" [K. KERENYI, Il fanciullo divino. In: C.G. JUNG e K. KERENYI, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. di A. Brelich, Torino 1972, pp. 105-106]. Anche nel Faust di Busoni i due ritmi si sposano, e il protagonista si accinge al ritorno nell'indifferenziato mentre il suo Doppio vi emerge, intriso di umori materni. Ma se il declinante dona la vita a chi, dopo di lui ma non senza di lui, rappresenterà l'essere, è perché nell'eterna vicenda cosmica la morte concerne l'individuo, non il pozzo profondo della natura naturans.

[*] Tra le molte indicazioni proposte in Gedanken zu "Dottor Faust" (cit.), Beaumont, oltre a richiamare un frammento - non messo in musica da Jarnach - che attesterebbe l'influenza di Nietzsche sul finale proposto da Busoni, sostiene anche che la soluzione mistica dell'epilogo è stata suggerita da Ludwig Rubiner, uno dei nomi più noti dell'Espressionismo. A convalida di tale affermazione, aggiungiamo che una delle composizioni di Rubiner, Denke! (Pensa!) anticipa nitidamente lo schema busoniano. Dell'opera scrive Mittuer: "Denke! [è] la rappresentazione del rivoluzionario che l'indomani sarà fucilato e pure dorme tranquillo nella sua cella, perché il suo pensiero e la sua volontà si sono trasmessi a tutti i compagni di prigionia, ai compagni di tutto il mondo, si sono trasmessi anche all'enorme, tetro edificio di pietra che vibra dalla sua appassionata e lucida volontà". (L. MITTNER, Storia della letteratura tedesca, III, tomo secondo, Torino 1971, p. 1229).