ENZO COLLOTTI

POLITICA E CULTURA NEGLI ANNI DI WEIMAR:
ASPETTI DI UN RAPPORTO CONFLITTUALE

Il curatore di questa Website ringrazia di cuore il prof. Enzo Collotti per il generoso permesso di pubblicazione di questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005.


1. Il passare del tempo ci ha consegnato una serie di immagini sulla cultura o sulle "culture" di Weimar [Ci riferiamo all'art. di P. CHIARINI, Le culture di Weimar, in «Critica marxista», 1979, 2, pp. 83-98, con le cui osservazioni in gran parte concordiamo] che attendono ancora una valutazione critica lontana dall'ottimismo degli anni cinquanta, allorché l'èra Adenauer ricercava nel mito degli "aurei anni Venti" la fonte di legittimazione, se non addirittura il modello, sul quale costruire la nuova democrazia della Repubblica federale, come dal pessimismo della metà degli anni Settanta, quando, in mezzo alle tensioni politiche e sociali che scuotevano l'immagine tutta di un pezzo del "modello Germania", divenne di moda richiamare come esempio negativo il comportamento degli intellettuali della repubblica di Weimar, assunti come esponenti, sui versanti degli opposti estremismi, all'estrema sinistra e all'estrema destra, di un ideale arco costituzionale weimariano, dello spirito e delle forze che avrebbero strangolato la repubblica democratica [Sotto questi la sostanza e lo spirito del libro di W. LAQUEUR, La repubblica di Weimar. Vita e morte di una società permissiva, Milano 1977, a proposito della cui edizione italiana non ripeteremo quanto abbiamo già scritto nella nostra nota critica Italia e Weimar: aspetti di una polemica e limiti di certe analogie, in «Italia contemporanea», n. 131, aprile-giugno 1978, pp. 5-18, in particolare a p. 8].
La ricerca storiografica e lo stesso livello raggiunto dalla riflessione poltica dovrebbero consentirci ormai di superare una dicotomia così rigida e tentare una lettura degli anni di Weimar non al di fuori ma attraverso le sue antinomie, cercando di riempire il campo visivo di quel "caleidoscopio", o di quella "repubblica delle contraddizioni" della quale parla il Sontheimer
[Indipendentemente da altri lavori dello stesso A. ci riferimano al saggio di K. SONTHEIMER, Weimar - ein deutsches Kaleideskop, che apre il volume a cura di W. ROTHE, Die deutsche Literatur in der Weimarer Republik, Stuttgart 1974, pp. 9-18], dei referenti reali di espressioni e comportamenti culturali che non possono mai essere separati dal contesto politico-sociale e istituzionale all'interno del quale essi si manifestano. Di fronte alla tendenza ricorrente negli ultimi dieci anni a vedere nella cultura weimariana di sinistra la protagonista dello smantellamento della democrazia, spesso non facendo neppure grazia della buona fede agli inguaribili sognatori dell'utopia visti di fatto come i guastatori della democrazia, nella versione rozza fatta propria dal Laqueur ma anche in quella più prudente dell'opera più recente del Bracher [Cfr. K. D. BRACHER, Il Novecento secolo delle ideologie, ed. it. Bari 1984, in particolare pp. 187-188, in cui riprende anche testualmente il giudizio del Laqueur sugli intellettuali di sinistra], pare opportuno riportare l'attenzione su alcuni momenti costitutivi del rapporto politica-cultura quale si è caratterizzato allora, piuttosto che inseguire o tentare di correggere spunti interpretativi - penso al pur equilibrato di Peter Gay sulla cultura di Weimar come prodotto di outsiders [P. GAY, La cultura di Weimar, The Outsider as Insider, Intr. di C. Cases. Bari 1978] - nei quali la fin troppo evidente tendenza definitoria rischia di assumere un carattere di categoricità tali da escludere la comprensione di un momento culturale che si caratterizza proprio per le sue contraddizioni e per la forza delle tensioni che in queste si rovesciano.
Ritengo comunque che sia più fecondo allargare l'angolo visuale sui tempi lunghi, con un duplice obiettivo: da una parte, valutare se e quale processo di trasformazione il rapportro politica-cultura vive nel passaggio dall'impero alla repubblica; dall'altra, considerare se e quali dei freni politico-istituzionali che si scontrarono con le tendenze nuove della vita culturale weimariana non fossero in realtà che anticipazioni della repressione culturale che sarebbe stata realizzata a partire dal 1933 dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo. Ciò permetterebbe di individuare anche nel campo culturale la persistenza di quelle linee di continuità che indubbiamente sopravvissero alla rivoluzione di novembre del 1918 e, attraversando il corpo della repubblica, si collegarono direttamente al Terzo Reich. Rovesciando la crociana tesi dal fascismo come parentesi, potremmo ipotizzare, ben consapevoli di tutti i limiti che hanno operazioni di questo genere, che nel caso della Germania la parentesi fu rappresentata piuttosto, rispetto alla persistenza della tradizione autoritaria, per usare un'espressione certamente semplificatrice ma comunque sufficientemente indicativa, dall'esperienza democratica weimariana. Un'esperienza sufficiente a superare la cornice istituzionale dell'impero guglielmino, ma non a radicare le nuove istituzioni e ad ancorarle saldamente in luogo di un potere reale che rimase sostanzialmente estraneo alla repubblica e che fu il vero elemento di mediazione e di trasmissione della continuità nei confronti del Reich nazista.
Dal punto di vista del processo di democratizzazione l'esperienza weimariana vive una duplice contraddizione. La prima, che potrebbe essere definita anche la contraddizione principale, consiste nella frattura profonda che si manifesta tra le tendenze alla democratizzazione e i fermenti rinnovatori all'interno della società e la riforma spesso puramente formale degli apparati istituzionali. La seconda contraddizione è rappresentata dalla frattura che si evidenziò ben presto tra riforme istituzionali e condizioni strutturali: in breve la mancata riforma della struttura economico-sociale, che era stata alla base della formazione, del reclutamento e della persistenza al potere della classe dirigente del Secondo Reich, condizionò in maniera determinante anche lo sviluppo e il modo di essere delle nuove istituzioni, sino ad appannarne totalmente il carattere innovatore.
Il riferimento ai due momenti di contraddizione non è casuale. Ciò che tende a unificarli sotto un minimo denominatore comune è lo iato profondo che si crea tra lo stato e le forze che spingono e si battono per un rinnovamento degli istituti, normative, costumi nella società. L'ambito della società è l'ambito privilegiato nel quale muovono tendenze, forze e aspirazioni che, già compresse sotto l'autoritarismo guglielmino, escono dalla guerra rafforzate nella loro ispirazione emancipatrice, egualitaria, democratica: basti pensare al movimento per l'emancipazione femminile, ai movimenti per l'affermazione della libertà sessuale, ai movimenti in difesa dei diritti civili e allo stesso movimento pacifista. Abbiamo citato movimenti che attraversano o passano al di sopra della divisione dei partiti non perché questi movimenti non fossero attraversati anch'essi da forti dibattiti e contrasti interni, ma perché in essi il conflitto con il momento istituzionale del nuovo assetto repubblicano era più acuto e più evidente di quanto non fosse il caso per i partiti politici, naturalmente entrati, se si eccettua il partito comunista tedesco, a far parte del nuovo sistema istituzionale.
Scisse dalla società, le istituzioni persero rapidamente la linfa animatrice delle istanze di rinnovamento. Il compromesso politico di fondo, che fu alla base dello status quo sociale della repubblica di Weimar fino al momento in cui le forze economico-sociali determinanti non avvertirono di essere tornate nel pieno possesso del loro peso politico e sociale e di essere quindi in grado di mettere in mora i partners del compromesso della fine del 1918, ebbe conseguenze ben al di là probabilmente di quanto avessero immaginato gli stessi socialdemocratici maggioritari che a cavallo tra il 1918 e il 1919 fecero l'opzione determinante in favore del ritorno all'ordine con l'appoggio delle forze sociali e istituzioni tradizionali, forze armate e forze confessionali comprese. La Costituzione di Weimar rappresentò il coronamento del compromesso politico e sociale tra socialdemocrazia maggioritaria, partito cattolico del Centro e partito democratico, espressione del liberalismo progressista, i tre partiti della cosiddetta "coalizione di Weimar". Ma la stessa Costituzione di Weimar, all'epoca in cui fu elaborata la più avanzata tra le costituzioni esistenti, risultò di fatto svuotata dal compromesso politico e sociale che ne era alla base: l'immobilismo delle riforme paralizzò e sclerotizzò anche i meccanismi istituzionali.
Per usare il linguaggio dei giuristi, alla Costituzione formale ebbe a sostituirsi con sempre maggiore forza una costituzione materiale, che rappresentava di fatto lo svuotamento del quadro defflocratico formale offerto dal dettato costituzionale. È vero che alcuni degli strumenti che avrebbero consentito lo svuotamento delle garanzie costituzionali e l'affossamento del sistema parlamentare erano stati iscritti nella stessa carta costituzionale (l'elezione plebiscitaria del presidente della Repubblica e l'attribuzione ad esso dei poteri di cui all'art. 48 della Costituzione), ma questi meccanismi istituzionali poterono entrare in funzione in senso marcatamente antidemocratico perché i limiti della trasformazione istituzionale, ossia il sostanziale fallimento della rivoluzione del 1918, consentirono assai presto, una volta passata la fase più incerta della transizione dalla monarchia alla repubblica, sedate le spinte rivoluzionarie più insidiose e riconquistata la sicurezza di parte delle forze borghesi e dei ceti medi duramente colpiti nel loro status sociale oltre che nella loro condizione economica dalla guerra e dalle sue conseguenze, il ristabilimento di rapporti di forze favorevoli alle colonne della società tradizionale - basterebbe, per individuarle, dare uno sguardo all'acre ritratto del volto della classe dominante che risulta dalla graffiante grafica di Grosz, per citare solo il più radicale esponente della tendenza sozialkritisch nelle arti figurative. Quando nell'aprile del 1925 il vecchio maresciallo Hindenburg fu eletto presidente della repubblica, l'inversione di tendenza era ormai un fatto compiuto.
Ad onta della Costituzione democratica, la presenza di Hindenburg alla testa dello stato repubblicato significava la rivalutazione dei valori militaristici e combattentistici che la sconfitta aveva umiliato ma non liquidato; la copertura al vertice supremo dei tentativi di riarmo segreto e delle più aperte rivendicazioni nazionaliste; il consolidamento della sicurezza dei ceti borghesi e dei loro legami di classe, soprattutto la garanzia che l'etica e le garanzie sociali implicite nell'ordinamento esistente avrebbero trovato un baluardo al più alto livello. Nel triplice legame tradizionale tra aristocrazia terriera, casta militare e chiesa evangelica, che si esprimeva nella persona di Hindenburg, la Germania ritrovava, al di là della Costituzione formale, le radici di una identità politica e culturale che si contrapponeva al processo di rinnovamento avviato alla fine del 1918. Dalla tendenza a darsi una fisionomia democratico-repubblicana lo stato weimeriano ritornava a specchiarsi nei valori di una tradizione essenzialmente nazionalconservatrice.
La stabilizzazione dopo gli anni della crisi postbellica e dell'inflazione non giovò se non in apparenza al consolidamento della democrazia: essa servì soprattutto a garantire la ripresa delle forze tradizionali. A partire da questo momento la divaricazione tra i comportamenti istituzionali ispirati all'ancien régime e le tensioni innovatrici espresse nella società fu convalidata dal carattere quasi programmatico e certamento simbolico che ebbe la presenza al vertice della repubblica di uno dei più rappresentativi esponenti di una mentalità e di una cultura politica estranea allo spirito della repubblica democratica. I giudici, i militari, i pubblici funzionari, i maestri di scuola o i professori d'università, dei quali il trapasso istituzionale non aveva modificato il ruolo sociale e istituzionale, avvertirono di potere concedere al nuovo vertice dello stato quella solidarietà che avevano negato al presidente socialdemocratico Ebert, non perché fosse un presidente rivoluzionario ma perché incarnava una tradizione anche solo di carattere democratico che non rispondeva alla loro educazione e vocazione autoritaria.

2. Il panorama culturale della repubblica di Weimar viene generalmente identificato con quello della sua capitale, Berlino. Ma prima ancora che la sede reale di un complesso di attività, di iniziative, di istituzioni, Berlino è una metafora: è il simbolo della metropoli, della cultura urbana e dell'intreccio di stridenti contrasti dei quali essa si compone, il luogo anche della massima concentrazione delle sue contraddizioni. Una città che in meno di mezzo secolo aveva visto raddoppiare il numero dei suoi abitanti, che a differenza di altre capitali europee (penso a Vienna) dopo la prima guerra mondiale continuò a vivere, ad onta delle spaventose difficoltà economiche, un ragguardevole processo di crescita, perché nella grande città comunque chiunque avrebbe finito per arrangiarsi a sopravvivere, ma soprattutto perché la grande città era l'incarnazione della modernità, di un modo di vivere più libero, di costumi meno inibiti. Anche da questo punto di vista la guerra mondiale sottolinea la sua importanza epocale. Nulla può rimanere esattamento come prima. L'invettiva di Carl Sternheim che nel 1920 individuava nel juste milieu berlinese soltanto il protagonista di un grande processo trasformistico rifletteva la reazione immedita alla sconfitta della rivoluzione. Il trasformismo di una parte della classe dirigente non poté nascondere né escludere il ribollire di fermenti e manifestazioni nuove della vita sociale, né le tendenze a fare tabula rasa con vecchie scale di valori e di gerarchie.
È vero che questa cultura urbana, come è stato giustamente sottolineato dal Willett, tendeva ad essere una cultura diffusa, non limitata alla sola Berlino
[Di J. WILLETT sono da vedere le due opere The New Sobriety. Art and Politics in the Weimar Period, London (ed. it. Roma 1983) e Gli anni di Weimar. Una cultura troncata, Milano 1984 (una sorta di commento illustrato della cultura del periodo)]. Per molti aspetti possiamo parlare di un policentrismo nel processo di rinnovamento culturale che pervade la Germania e che è indissociabile dalla svolta del 1918-19. L'intenso lavoro critico degli ultimi decenni e la pubblicazione di un numero ragguardevole di autobiografie di intellettuali ci consentono oggi di misurare in maniera sufficientemente equilibrata la collocazione di Berlino rispetto alla periferia del Reich.
Berlino è certamente la sede di tutti i movimenti d'avanguardia, ma non è la sola. Non solo sopravvivono centri di grande tradizione musciale come Lipsia, ma esistono scuole d'arte come Dresda che danno un contributo di primo piano alle nuove tendenze sozialkritisch: Otto Dix, Grosz, C. Felixmüller vengono da questa scuola. Francoforte diventerà un polo di riferimento importante. È una delle capitali della stampa, ma diventerà anche uno dei poli dell'edilizia residenziale con il lavoro di Ernst May, assessore all'urbanistica, e la rivista "Das neue Frankfurt". Il soggiorno francofortese di Max Beckmann segna una scuola d'arte e ne fa un punto d'attrazione nel cammino solitario di questo artista, che, unico tra i suoi contemporanei, ha attraversato quasi tutte le tendenze dell'epoca senza cadere nell'eclettismo, fondendole anzi nel suo personale e originalissimo stile. A Francoforte nascerà il celebre istituto di ricerche sociali destinato a incidere sullo sviluppo di sociologia, filosofia, politologia, storiografia. Gli esempi potrebbero continuare. La Renania e l'area della Ruhr non sono estranee a suggestioni fortemente polemiche. Colonia diventa uno dei centri periferici ma non secondari del movimento dada, un centro di irradiazione dell'opera di Max Ernst; Dusseldorf, raccoglie intorno a Heinrich Hoerle l'interessante circolo degli "artisti progressivi": una grande mostra recentissima ha rivalutato il peso e la varietà delle esperienze della cosiddetta "Giovane Renania" degli anni Venti e Trenta
[Cfr. il catalogo della mostra di Düsseldort Am Anfang: Das Junge Rheinland. Zur Kunst- und Zeitgeschichte einer Region 1918-1945, München 1984], così come, nei quarant'anni dalla Macktergreifung, il Lehmbruck-Museum di Duisburg aveva rievocato, attraverso la memoria degli artisti perseguitati dal nazismo, l'ampiezza della diffusione che le correnti più impegnate e più innovative degli anni Venti avevano conosciuto tra Ruhr e Reno: diffusione periferica di un'arte non provinciale [Verboten. Verfolgt Kunstdiktatur im 3 Reich, Wilhelm-Lehmbruck, Museum der Stadt Duisburg 1983]. E in quello straordinario e personalissimo documento the sono le sue memorie, Hans Mayer, il grande storico della letteratura e della cultura, sottolinea l'importanza della presenza a Colonia di Otto Klemperer [H. MAYER, Ein Deutscher auf Wideruf. Erinnerungen, Frankfurt 1982, parte I].
Il panorama così abbozzato è tutt'altro che esauriente. Non si possono dimenticare né il Bauhaus, che nasce in provincia tra Weimar e Dessau; né Stoccarda, legata tra l'altro all'opera di Oskar Schlemmer e di Friedrich Wolf, né i molti fermenti che dal nord al sud del Reich mettono in evidenza una circolazione di idee e di conoscenze molto più capillare nella società urbana di quanto non risulti da un'immagine stereotipa del caleidoscopio o dell'universo berlinese.
E tuttavia è anche possibile individuare quello che in senso negativo si potrebbe definire il polo alternativo di Berlino, vale a dire Monaco di Baviera. La storia si è presa la sua rivincita e dopo il 1945 Monaco è diventata per molti aspetti la capitale culturale della Germania dopo il nazismo, ma negli anni Venti Monaco, quasi a risarcirsi delle avanguardie prebelliche, è rimasta essenzialmente la capitale del tradizionalismo locale e dell'etica Biedermeier
[Un risultato che si è potuto leggere chiaramente da ultimo nella grande mostra allestita nel 1979 dal Münchner Stadt-Museum Die Zwanziger Jahre in München e nell'omonimo ricco catalogo a cura di Christoph Stölz]. Lo choc non riassorbito dei moti consiliari e sovietisti dei primi mesi del 1919, non attribuibili solo come superficialmente talvolta si è tentato di fare ai rivoluzionari da strapazzo e alla bohème di Schwabing, che vide in primo piano spesso come politici improvvisati intellettuali di talento, da Kurt Eisner a Toller, da Landauer a Otto Neurath, da Ernst Niekisch a Eugen Leviné, restò certamente tra i motivi delle chiusure dei circoli dominanti monacensi nei confronti delle tendenze innovatrici, considerate eversive, momenti di rottura nei confronti di un esasperato senso e nostalgia di ordine. La spiegazione di questo carattere della Baviera come isola tradizionalista nella Germania di Weimar sarebbe comunque più complessa: chiama in causa fattori culturali e sociali di più lontana ascendenza; la tradizione cattolico-agraria, una urbanizzazione limitata e concentrata in soli tre veri centri urbani (Monaco, Norimberga, Augsburg), con una compenetrazione molto scarsa rispetto alla campagna circostante. Il moderatismo convenzionale e tradizionale bavarese avrebbe fatto da argine a qualsiasi foratura dall'esterno; le campagne furono impermeabili alla ventata di rinnovamento del 1918-19 come in parte lo sarebbero state al nazismo. Sconfitta la rivoluzione, in Baviera la reazione scaturì dall'ambiente urbano, fortemente influenzato ancora dalla mentalità più timida, più prudente della campagna. Particolarismo e provincialismo sono il terreno su cui si alimenterà anche la penetrazione nazista, con la sua parvenza di rivincita contro il Reich. Un referente insostituibile per rendersi conto delle componenti che allora più che mai rendevano la Baviera chiusa e isolata rispetto ai cambiamenti che investivano il Reich rimane sul terreno letterario il grande romanzo Erfolg di Lion Feuchtwanger.
Il policentrismo al quale facevamo riferimento prima non può escludere la consapevolezza del ruolo insostituibile che spettava a Berlino. Città di rapida urbanizzazione e di grande capacità integratrice di molteplici correnti migratorie interne ed esterne, Berlino non fu soltanto il centro politico del Reich dopo l'unificazione. Non fu la presenza soltanto del Reichstag e del governo centrale a fare di Berlino una delle capitali del grande giornalismo e in generale della carta stampata. Per certi aspetti appare più chiaro oggi che la vecchia Berlino non esiste più, e che una componente così determinante della sua cultura come quella ebraica è stata fisicamente estirpata, rendersi conto della funzione di crocevia della Germania e dell'Europa tra est ed ovest che Berlino ha esercitato nei decenni dalla fine dell'ottocento all'avvento del nazismo. L'intreccio confronto Paris-Berlin della grande mostra del Pompidou del 1978 può essere letto infatti anche come lo spostamento negli anni Venti del centro di gravità delle innovazioni nella cultura da Parigi, la capitale europea delle arti nell'ottocento e nel primo novecento, a Berlino
[Cfr. Paris-Berlin 1900-1933. Rapports et contrastes France-Allemagne, Centre Georges Pompidou, Paris, 1978]. Paradossalmente, la Germania doveva essere sconfitta per liberare le energie creative che lo stato autoritario non aveva potuto soffocare sul nascere ma solo comprimere. Quando nacque la repubblica, le avanguardie storiche avevano già esaurito il loro ciclo nel campo dell'arte: molti fenomeni apparentemente nuovi furono manifestazioni di epigoni, anche se non si può ridurre tutta la cultura di Weimar a cultura di epigoni. Ma la guerra aveva accelerato anche processi di diversificazione sociale che preludendo alla razionalizzazione e alla "americanizzazione" della metà degli anni Venti contribuirono a rendere più complessa e più articolata la stratificazione sociale del contesto urbano e di Berlino in particolare. Basti alludere all'importanza della immissione della componente femminile nel mercato del lavoro o alla terziarizzazione che produsse il cosiddetto "nuovo ceto medio" e diede vita e più sicura personalità alla figura sociale dell'impiegato, per avere alcuni elementi non secondari del tipo di trasformazione materiale e culturale che si stava operando nell'ambito della società tedesca.
L'allargamento di una società che già prima della guerra era una società di massa, le cui manifestazioni venivano ora enfatizzate e ingigantite da specifiche condizioni sociali. La proiezione urbana rendeva più evidenti anche gli aspetti degenerativi di fenomeni generali che dappertutto nel paese si accompagnavano alla miseria e al disordine politico, sociale e morale legato alla sconfitta e alla ricerca di un nuovo ordinamento: la disoccupazione, la prostituzione, la corruzione derivante dal dilagare dell'arricchimento da inflazione da una parte e dai profitti di guerra dall'altra, la fame, l'esibizione delle ferite della guerra fisicamente scolpite nelle maschere tragiche di reduci e invalidi che popolano la pittura, la grafica, la narrativa e la drammaturgia di quel periodo, prima di ritrovare nel clima della cosiddetta stabilizzazione una compostezza di linee e una ricerca quasi fotografica della realtà, che non avrebbero tuttavia mai cancellato le inquietudini persistenti di un Beckmann, di un Grosz, di Otto Dix e di tanti altri.
Tutti fenomeni che avevano una precisa radice anche al di là della urbanizzazione di per sé. Il dilagare del pauperismo come conseguenza di una accelerata industrializzazione e di un altrettanto tumultuoso inurbamento era stato un fenomeno di decenni anteriori. Le radici delle nuove tensioni sociali risiedevano piuttosto nello scatenamento degli imperialismi e nelle conseguenze della guerra. Questo dimenticavano o fingevano di dimenticare i fautori della polemica contro la Verstädterung, contro la città moderna, presentata come la matrice e l'origine di tutti i vizi, non sulla base della critica a un modo di produzione, ma sulla base di motivazioni ora romantiche, ora di chiara origine biologica, ora ancora legate alle teorie sulla popolazione che stavano dietro la politica di potenza e le spinte imperialistiche. Il dibattito estetico e politico sulla contrapposizione tra Dichtertum e Schriftstellertum, che investì tra il 1926 e il 1930 l'Accademia prussiana della arti, come antitesi tra un modo di rappresentazione del mondo völlkisch e un modo unvöllkisch, tra naturalità universale e spontaneità personale, tra eternità e contingenza, tra emotività e razionalità, su cui sono state portate di recente nuove testimonianze
[La riesumazione recente di questa polemica nel saggio di W. HERDEN, Kontroversen zum Literaturbegriff. Zu den Richtungskämpfen in der Sektion für Dichtkunst der Prussischen Akademie der Künste, nei "Weimarer Beiträge", 1984, 12, pp. 1942-1957], è una ulteriore conferma dell'importanza che rivestiva il conflitto tra la nuova cultura urbana e il retaggio nazionalconservatore del tradizionalismo e del misticismo nostalgico dei valori "eterni" di una cultura nazionale, di un'arte specificamente tedesca, intesa in senso fondamentalmente razziale e provinciale. Come anticipazione, insomma, dell'estetica del Blut und Boden. Alla critica socialista o borghese-radicale della metropoli, la destra politica e culturale opponeva la demonizzazione pura e semplice della grande città e il vagheggiamento di un ritorno anacronistico all'idillio contadino o piccolo borghese.
Il nazismo riuscirà successivamente a fondere nel razzismo queste diverse motivazioni e a unificare nella lotta contro l'«arte degenerata» la condanna di tutte le manifestazioni e le espressioni delle correnti moderne. Anche sotto questo profilo la posizione di Berlino divenne centrale. Poiché a Berlino era stato possibile realizzare sperimentazioni che altrove non avevano trovato ricezione; perché Berlino possedeva la sperimentazione teatrale e musicale più avanzata che nel resto della Germania; possedeva i migliori giornalisti - se si eccettua la "Frankfurter Zeitung" - e il pubblicismo democratico più impegnato - il richiamo alla "Weltbuhne" appare ovvio; era la capitale di quel tipo di spettacolo sconosciuto in altri contesti europei come il cabaret politico, in cui tradizione musicale e tradizione letteraria si fondevano in modo originale diventando non fatto snobistico, ma componente organica e non come genere, per così dire minore, della vita culturale (il richiamo all'influenza che esso ebbe sul binomio Brecht-Weill è anche troppo ovvio); possedeva alcuni dei capolavori della nuova architettura prodotta dalla lezione del Werkbund da una parte e dell'espressionismo dall'altra; era inoltre il centro della nuova industria cinematografica e dello sperimentalismo radiofonico, nel quale sarà impegnato fra gli altri, acuto interprete e protagonista, lo stesso Kurt Weill.
Berlino divenne il luogo deputato del romanzo della "Nuova Oggettività" - da Döblin dell'Alexanderplatz al Kästner di Fabian, ai romanzi apparentemente "leggeri" di Irmgard Keun, alle avventure della piccola borghesia di Fallada - e del romanzo operaio degli anni della grande crisi. Divenne in un certo senso anche un mito. Lo stereotipo della Weltstadtsinfonie, preso in prestito dal film di Ruttmann, esaltazione del dinamismo e del tumulto della metropoli, si è tramandato sino ad oggi
[Cfr. Weltstadtsinfonie Berliner Realismus 1900-1950. Hrgg. v. E. Roters, W. J. Stock, München Kunstverein 1984]. Le autobiografie intellettuali, da quella di Klaus Mann alla più recente di Axel Eggebrecht, un testimone importante della scena degli anni di Wemnar, riflettono il mito e la realtà, lo snobismo, l'estetismo e il magnetismo che attiravano a Berlino le intelligenze più vive e più aperte, gli amanti dell'avventura facile, i più sofisticati cacciatori di novità, ma anche i più acuti interpreti dello sperimentalismo. Nessuna testimonianza tuttavia può appiattire lo stridore di ambienti e di situazioni che si scontravano a Berlino, l'incrocio di vecchio e nuovo, di conformismo e di anticonformismo, né celare la grande tragedia che covava sotto l'apparente facciata della gioia di vivere, anche nei suoi aspetti più esteriori, che esibiva la capitale del Reich.

3. Nuovi mezzi di comunicazione di massa e nuova stratificazione sociale rappresentano due momenti fondamentali del nuovo panorama culturale degli anni di Weimar, sia dal punto di vista degli strumenti della diffusione culturale, sia dal punto di vista dei loro destinatari. L'uno e l'altro fattore spingevano verso una maggiore fruizione della produzione culturale e all'esplicitazione di nuovi bisogni culturali. E spinsero anche a quelle molteplici forme di associazionismo culturale, nei campi più diversi, che misero in evidenza il cambiamento del ruolo di intellettuali e lavoratori della cultura rispetto all'èra guglielmina [Sulle nuove forme dell'associazionismo e della produzione culturale degli anni weimariani sono fondamentali per la ricchezza di materiali e di prospettive le due opere collettive: Weimarer Republik. Herausgegeben vom Kunstamt Kreuzberg und dem Institut für Theaterwissenschaft der Universität Köln, Berlin (West) - Hamburg 1977; e Neue Gesellschaft für Bildende Kunst Wem gehört die Welt, Kunst und Gesellschaft in der Weimarer Republik, Katalog, Berlin 1977].
Non ci interessa in questo momento differenziare il tipo di produzione che il nuovo pubblico richiedeva o che i nuovi mezzi consentivano. Il discorso è più generale ed è anche a monte di questi problemi.
In teoria, la repubblica aveva fatto cadere vincoli normativi, amministrativi e politici che nel Secondo Reich avevano colpito o limitato la libertà di espressione, nel senso più ampio della parola
[Tra le opere che attestano l'interesse più recente della storiografia fu la collocazione di arte e scienza nell'era guglielmina ci limitiamo a citare in particolare: P. MAST, Künstlerische und wissennschaftliche Freiheit in Deutschen Reich 1890-1910, Rheinfelden 1980; P. PARET, Die Berliner Secession. Moderne Kunst und ihre Feinde in Kaiserlichen Deutschland, Berlin 1981]. La tradizione della giustizia politica da Bismarck a Guglielmo II aveva infierito principalmente nei confronti dei due settori suscettibili di istigare l'insubordinazione dei sudditi: i reati legati all'antimilitarismo e alla contestazione del potere militare; e l'istigazione all'odio di classe, come residuo della bismarkiana legislazione antisocialista e strumento per impone la scala di valori esistente attraverso la rigida difesa dell'ordinamento sociale senza indulgenza per nessun tipo di trasgressione, fosse attinente al costume privato o alla morale pubblica. Spesso, fra l'altro, su questi terreni il potere dello stato aveva trovato l'alleanza delle confessioni religiose, soprattutto di quella evangelica come braccio confessionale del potere prussiano.
Oltre che sotto il profilo politico generale, la Costituzione di Weimar offriva garanzie particolarmente rigorose contro una tradizione di arbitrio del potere esecutivo proprio nel campo dei diritti civili e politici. In particolare, dal punto di vista della libertà di espressione, il diniego di ogni discriminazione era garantito dall'art. 118. Tuttavia, lo stesso articolo conteneva, nel momento stesso in cui affermava l'inesistenza della censura e quindi di fatto l'abolizione delle forme di censura adottate nell'impero, un principio di deroga che avrebbe aperto negli anni successivi spazio alla creazione di strumenti "legali" per la repressione culturale.
Si legge infatti al secondo comma dell'art. 118:

Non è ammessa alcuna censura. Possono tuttavia stabilirsi, con legge, deroghe per gli spettacoli cinematografici. Sono altresì ammissibili misure legislative per la repressione della letteratura immorale e pornografica e per la protezione della gioventù nei riguardi degli spettacoli e rappresentazioni pubbliche.

All'art. 122 tornava il richiamo alla protezione della gioventù:

La gioventù deve essere tutelata dallo sfruttamento e dall'abbandono morale, spirituale e corporeo. Lo stato e i comuni devono creare le istituzioni a ciò necessarie.

L'art. 142, infine, proclamava un principio generale del seguente tenore:

L'arte, la scienza ed i loro rispettivi insegnamenti sono liberi. Lo stato ne protegge la libera esplicazione e contribuisce al loro sviluppo.

Le deroge previste dalla Costituzione ebbero di fatto applicazione. La legge sulla censura cinematografica entrò in vigore ii 12 maggio 1920 [Se ne può vedere il testo riprodotto nel vol. Weimarer Republik, cit., pp. 448-451]. La legge "per la repressione della letteratura immorale e pornografica", la cd. Schund- und Schmutz-Gesetz ebbe un iter più travagliato. Fu bensì approvata dal Reichstag il 17 maggio 1927, ma non entrò mai in vigore per le obiezioni finanziarie sollevate dai Länder: il suo significato è stato ampiamente illustrato in uno studio recente dal Peukert [Cfr. D. PEUKERT, Der Schund- und Schmutz-Kampf als "Sozialpolitik der Seele". Eine Vorgeschichte der Bücherverbrennung, nel volume edito dalla Akademie der Künste di Berlino (ovest) "Da, war ein Vorspiel mir..." Bücherverbrennung Deutschland 1933. Voraussetzungen und Folgen, Berlin 1983, pp. 51-63]. La sua vicenda assume carattere esemplare a conferma del peso politico che ebbe come freno alla libertà della cultura il partito cattolico del Centro, così come era stata l'opposizione congiunta di cattolici e protestanti a impedire la riforma della scuola e la sua completa laicizzazione, come abbiamo illustrato in altra sede [Cfr. E. COLLOTTI, Politica culturale nella repubblica di Weimar: la posizione dei partiti operai, in "Rivista di storia contemporanea", 1981, 2, pp. 169-198, in particolare alla p. 113].
Tuttavia, come in altri casi attinenti alla sfera della libertà sessuale e della letteratura pornografica, anche in assenza di specifiche leggi continuavano ad operare i principii del vecchio codice penale
[Una interessante proiezione parziale di questo problema è offerta dalle vicende della lotta per la riforma dell'art. 175 del codice penale rievocate nel contributo di M. BAUMGARDT, Das Institut für Sexualwissenschaft und die Homosexuellenbewegung in der Weimarer Republik, nel volume-catalogo, Eldorado. Homosexuelle Frauen und Männer in Berlin 1850-1950. Geschichte, Alltag, Kultur, Berlin, 1984, pp. 31-41]. L'attuazione cioè del principio costituzionale era comunque soggetto a un potere interpretativa discrezionale capace di svuotarlo completamente.
La giustizia politica, anche a detta della storiografia liberale che non la definisce per quello che fu, ossia giustizia di classe, fu uno dei tarli roditori della democrazia weimeriana. La lapidaria affermazione del Neumann secondo la quale "la giustizia politica fu la pagina più nera nella vita della repubblica tedesca"
[F. NEUMANN, Behmoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano 1977 (intr. E. Collotti), p. 44] non ha bisogno di ulteriori commenti. Quello che interessa qui è cercare di vedere come essa fu applicata nei confronti di manifestazioni artistiche e letterarie, in spregio al dettato costituzionale ma in omaggio e in virtù della continuità rispetto ad apparati istituzionali e a sistemi di valori della tradizione monarchica e prerepubblicana. Si rende cioè particolarmente evidente sotto questo angolo visuale il conflitto tra la tensione al rinnovamento e alla totale emancipazione della funzione critica delle espressioni culturali e il rifiuto del potere esecutivo di riconoscere la piena libertà di espressione ogni qualvolta questa potesse mettere in discussione l'ordine costituito tramandato dal Secondo Reich, quale che fosse la sfera che ne venisse coinvolta. L'unica precisazione da aggiungere è che non ci occuperemo dei molti casi intellettuali processati e condannati per la loro partecipazione ai moti rivoluzionari del 1919, soprattutto per quanto riguarda la rivoluzione bavarese, da Toller a Mühsam, a Niekisch, per non menzionare coloro che furono vittime di pure e semplici esecuzioni sommarie, trattandosi degli episodi più noti ed in un certo senso più chiari. Del resto, è questa una materia che è stata ben presto affrontata da uno degli intellettuali democratici più impegnati nella difesa della repubblica contro la controrivoluzione, Emil Gumbel, il quale non a caso sarebbe stato costretto a lasciare l'università di Heidelberg prima ancora dell'avvento al potere del nazismo [Di E. J. GUMBEL vanno ricordate fra le altre le puntuali denunce contro l'accanimento dalla giustizia weimariana verso la sinistra e la sua politica assolutoria verso gli assassinii dell'estrema destra sin dai primissimi scritti Zwei Jahre Mord (1921); Vier Jahre politischer Mord (1922) e Verschwörer, Beiträge und Soziologie der nationalistischen Geheimbünde seit 1918 (1924)].
Cercheremo viceversa di esemplificare il conflitto tra la cultura e il potere esecutivo, che è una costante nella vita della repubblica, attraverso alcuni casi in cui viene direttamente colpita la libertà dell'arte e la possibilità per l'intellettuale di esercitare una funzione critica nei confronti del potere. In definitiva, ciò che si voleva scoraggiare era l'impegno politico e sociale di artisti, intellettuali, pubblicisti. Il barometro forse più sensibile per misurare le violazioni della libertà di espressione è rappresentato, ancora una volta, da quella rivista della sinistra intellettuale "Die Weltbühne", il cui direttore, Carl von Ossietsky, sarebbe finito a sua volta nelle carceri della repubblica e successivamente nei campi di concentramento del Terzo Reich
[Per questi aspetti della presenza della "Weltbübne" riteniamo di poter fare sempre riferimento al nostro saggio Carl von Ossietsky, e la «Weltbühne» nella lotta politica in Germania alla vigilia dell'avvento nazista, in "Belfagor", mano 1965, pp. 149-187]. Tutti i casi che citeremo dimostrano come la censura nel senso più lato, abolita dalla Costituzione democratica, di fatto veniva riesumata facendo appello ad altre normative, a principii di ordine pubblico, di tutela della morale comune o di rispetto per la religione, che venivano pertanto ripristinati, in una ideale scala di valori, al vertice della gerarchia. Evidente apparirà soprattutto che l'ispirazione repressiva in buona parte dei casi proveniva dal vecchio ambiente militare, interessato a salvare il mito del militarismo tedesco e in questo modo anche la disponibilità del popolo tedesco a condividerne le scelte di rivincita per il futuro.
La magistratura usò duramente il codice penale ma anche la legge per la difesa della repubblica, che aveva tratto origine dall'uccisione di Rathenau ad opera dell'estrema destra, contro l'attività pubblicistica e letteraria di scrittori e giornalisti della sinistra, così come avrebbe fatto nel caso della legge contro la pornografia. Non era una tradizione nuova nella vita della repubblica: il processo per blasfemia contro Carl Einstein del 1921 (per il suo dramma Die schlimme Botschaft) non fu che il primo di una serie, che si sarebbe accelerata e intensificata dopo il 1925. Da Kurt Kläber ad Erich Mühsam, molti furono gli scrittori che finirono vittime di quello che fu definito il nuovo concetto dell"alto tradimento letterario", il literarischer Hochverrat. Esso colpì scrittori, ma anche librai, tipografi e distributori di stampa dell'estrema sinistra. Il caso più clamoroso in questo ambito fu forse quello the coinvolse una delle figure più note della vita letteraria weimeriana, Johannes R. Becher, già incriminato con imputazioni varie (dall'alto tradimento all'oltraggio nei confronti delle istituzioni repubblicane) per un complesso di opere poetiche e letterarie, arrestato e poi amnistiato dopo l'elezione di Hindenburg. Ma quando all'inizio del 1926 egli diede alle stampe il suo nuovo romanzo antimilitarista (Der einzig gerechte Krieg), fondato fra l'altro sulla condanna della guerra futura come guerra chimica, fu nuovamente incriminato per tentativo di sovversione dell'ordine repubblicano e per alto tradimento contro le istituzioni dello stato. Subì il sequestro del libro e vide il processo interrotto nel 1928 soltanto per la mobilitazione di opinione pubblica che il suo come tanti altri casi riuscirono a suscitare
[Cfr. su tutto ciò il capitolo Literarischer Hochverrat nel volume a cura di K. KREILER, Tradition deutscher Justiz: Grosse politische Prozesse der Weimarer Zeit, Berlin (ovest) 1978; in precedenza una informazione più generale era stata fornita nel capitolo Justiz gegen Literatur und Kunst nel libro a suo tempo peraltro quasi pionieristico di H. und E. HANNOVER, Politische Justiz 1918-1933, Frankfurt a. M. 1966 (con introduzione di K. D. Bracher)].
In ogni circostanza analoga, più dell'eventuale condanna, ciò che colpiva gli interessati e l'opinione pubblica in generale era soprattutto la funzione di intimidazione, una intimidazione continuata data la lunghezza dei procedimenti istruttori, che l'intervento della magistratura esercitava. Tra i vari casi che vorrei richiamare a titolo, ripeto, puramente esemplificativo, particolarmente significativo si presenta il caso della censura cinematografica, questa volta come censura per l'appunto in senso tecnico. II 24 mano 1926 l'autorità di controllo (la Prüfstelle) cinematografica di Berlino proibiva la pubblica programmazione sul suolo tedesco della Corazzata Potemkin. Senza preoccuparsi di valutare se incriminabili o meno fossero singole scene, l'ufficio giudicava nel complesso the "il film è suscettibile di pregiudicare in modo duraturo l'ordine pubblico e la sicurezza". Il 10 aprile 1926 l'istanza di appello rivedeva la decisione del divieto, ammettendo il film alla pubblica circolazione a condizione che venissero operati un serie di tagli e che comunque dalla proiezione venissero esclusi i minori di età. I tagli riguardavano quasi tutti scene di violenza, interpretabili talvolta come forme di insubordinazione nei confronti di superiori gerarchichi. Quello che forse è il più significativo dei tagli riguarda il sottotitolo seguente: "O signore! Piega la disobbedienza e riporta alla ragione i peccatori!", interpretabile nel senso che non si dovesse neppure alludere alla possibilità della disobbedienza o come una forma di eccessiva tolleranza e indulgenza nei confronti di chi aveva disobbedito.
Dalle motivazioni del giudizio di appello risulta anzitutto che parere contrario alla circolazione del film era stato espresso da esperti del commissariato per la sorveglianza dell'ordine pubblico e del ministero della Reichs wehr, i quali avevano argomentato entrambi la sussistenza di pericoli per l'ordine pubblico, come "parte della catena della propaganda disgregatrice bolscevica che il partito comunista russo e l'internazionale conducono con la parola e con l'immagine per la rivoluzione mondiale"; inoltre, il film si presentava come pregiudizievole per l'autorità dello stato in quanto capace di minare l'esercito, la marina, la polizia, l'apparato burocratico. La sua proibizione - aveva detto l'esperto del ministero della Reichswehr - si imponeva nell'interesse della disciplina militare.
L'istanza di appello per giungere alla revisione della decisione ricondusse i fatti alla loro proporzione e valutò che non vi era necessariamente una concatenazione causale tra l'insurrezione del 1905, quale veniva mostrata nel film, e la rivoluzione del 1917. Da sottolineare sono comunque altre due circostanze: lo stesso 10 aprile 1926 il ministro della Reichswehr (con lettera e firma di von Seeckt) faceva appello al ministro degli interni del Reich perché impedisse "con ogni possibile mezzo", magari invocando la suprema autorità giudiziaria, la circolazione del film. Il 15 aprile lo stesso ministro della Reichswehr vietava ai militari delle forze armate di frequentare i cinematografi nei quali si proietasse la Corazzata Potemkin. Nel giugno successivo i governi regionali del Württemberg e della Turingia, seguiti da quelli del Macklemburg, della Baviera e dell'Assia, chiesero all'istanza di appello del controllo cinematografico di revocare l'autorizzazione a fare circolare il film, rappresentando esso "uno spiccato pericolo per la pace interna e addirittura per la sicurezza dello stato", addirittura un tentativo di strangolamento dello stato. Il 12 luglio 1926 la stessa istanza che in un primo tempo aveva riconosciuto l'ammissibilità del film revocava la decisione: e dava per accertato che, pur non essendo pregiudicato l'ordine, pregiudicata risultava la sicurezza pubblica. Alla fine di luglio, sottoposta a nuovi tagli per complessivi 100 metri, la pellicola era definitivamente ammessa alla circolazione pubblica, con eccezione dei minori, il cui sviluppo intellettuale poteva risultare influenzato negativamente
[Tutta la documentazione del caso Potemkin si trova nell'opera a ra di G. KÜHN.-K. TUMMLER-W. WIMMER, Film und revolutionäre Arbeiter-Bewegung in Deutschland 1918-1932, Berlin 1975 (a cura della Hochschule für Film und Fernsehen des DDR), Band 1, pp. 323-369].
Abbiamo portato con un minimo di dettagli l'esempio della sorte toccata al film di Eisenstein. Ma altri casi clamorosi si potrebbero ricordare: alla fine del 1930 il divieto in Im Westen Nichts Neues dal noto romanzo di Remarque, per le pressioni congiunte di militari e nazionalsocialisti. Il divieto, forse ancora più clamoroso, il 31 marzo 1932 di Kuhle Wampe, con una decisione molto dettagliata dalla Prüfstelle berlinese che imputava al film, oltre a molti altri capi d'accusa, di compromettere la pubblica sicurezza, l'ordine e interessi vitali dello stato, per il solo fatto di voler suscitare nel pubblico l'impressione che "lo stato nella sua forma attuale non vuole e non è capace di porre rimedio alla miseria e ai bisogni di grandi masse e che solo dalla solidarietà del popolo e dall'eliminazione dello stato attuale in favore di una rivoluzione mondiale comunista si potrà attendere un miglioramento"
[Film und revolutionäre Arbeiter-Bewegung in Deutschland 1918-1932, cit. Band 2, pp. 128-183]. Un critico dell'autorità di Rudolf Arnheim scrisse allora seccamente sulla "Weltbühne" che "si fa sempre più chiaro che l'intenzione è quella di proibire ogni e qualsiasi film libero e progressista, a qualsiasi costo. Il divieto non deriva dalle argomentazioni ma perché bisogna proibire" [Cfr. R. ARNHEIM, Zensur ohne Hemmung, in "Die Weltbühne", 5 aprile 1932, pp. 530-531]. Un mese dopo il film fu ammesso alla circolazione, restando vietato ai minori, in una versione già espurgata dai produttori e con l'aggiunta di altri tagli imposti dalla censura.
Anche alla censura cinematografica si può estendere quanto Tucholsky ebbe a scrivere nella sua intransigente campagna contro lo Schund- und Schmutzgesetz: sotto ogni forma di censura, quale che ne dovesse essere l'oggetto, si annidava in realtà una censura politica, contro la quale non vi era nessuna, proprio nessuna forma di tutela
[Cfr. I. WROBEL, (Tucholsky), Fort mit Schundgesetz, in "Die Weltbühne", 2 novembre 1926, p. 704].
Quanto fosse labile la tutela della libertà dell'arte, o anche solo della libertà di parola, potrebbe essere confermato dall'imperversare della censura nelle forme più diverse: chi ad esempio sfogliasse il quotidiano comunista "Die Rote Fahne" riscontrerebbe facilmente le interruzioni imposte, sotto forme di giornate di interdizione, dall'autorità di polizia. Il fatto che la lotta politica di quegli anni non fosse certo idillica e che il linguaggio della "Rote Fahne" non fosse particolarmente tenero sono circostanze troppo ovvie per essere richiamate ancora una volta, ma sono anche circostanze che rischiano di essere irrilevanti dal punto di vista generale. Via via infatti che la lotta politica weimariana si inaspriva, che la sinistra divisa veniva affrontata da una estrema destra sempre più aggressiva, non più soltanto nella versione tedesco-nazionale ma anche in quella nazionalsocialista, la pressione della reazione culturale si faceva più virulenta e scoperta e il richiamo ai principi e ai valori tradizionali contro il democratismo weimariano tornava ad assurgere a baluardo di quella costituzione materiale che la Costituzione formale non aveva mai veramente intaccato.
Senza dilungarci eccessivamente sui tanti casi particolari in cui si evidenziò il conflitto tra la rivendicazione della libertà della cultura e dell'arte e la ritorsione del potere esecutivo e giudiziario, che colpì inesorabilmente soprattutto le manifestazioni di antimilitarismo, mi limiterò a richiamare soltanto due dei casi più clamorosi di processi, quelli che videro come protagonisti Georges Grosz e il medico e drammaturgo Friedrich Wolf. Il caso più noto è certamente quello di Grosz che tra il 1920 e il 1931 ebbe modo di sperimentare largamente i comportamenti delle autorità censorie. Cominciò con il 1920, in occasione della prima esposizione dadaista. Il primo processo intentato contro la cartella "Gott mit uns" pubblicata da Weiland Henfelde presso il Malik-Verlag si concluse con una pena pecuniaria. Più tardi lo stesso Herzfelde rievocò lo scandalo suscitato da quella prima esposizione dadaista che aveva richiamato l'intervento dei militaii, e che ebbe come capro espiatorio la cartella di Grosz
[Cfr. Deutsche Akademie der Künste zu Berlin ([ex] DDR), Der Malik-Verlag 1916-1947, Ausstlellungskatalog, Berlin 1967, p. 37].
Nel 1924 Grosz fu imputato per la diffusione di immagini oscene, dopo la pubblicazione della cartella "Ecce homo": anche questo processo si concluse con una pena pecuniaria.
Il più complesso fu certamente il terzo processo, quello avviato nel 1928 con l'imputazione di blasfemia (Gotteslästerung) contro la cartella "Hintergrund", contenente 17 dei disegni preparati da Grosz per la messa in scena del "buon soldato Schwejk" per la regia di Piscator. La prima decisione del tribunale penale di Berlino-Moabit riconobbe la violazione dell'art. 166 del codice penale, relativo all'oltraggio nei confronti di riti e costumi religiosi, ordinò il sequestro di tre dei disegni (tra di essi il n. 10, quello raffigurante il celebre Cristo con la maschera antigas e la scritta "Maul halten und weiter dienen") e la distruzione delle piastre originali. Il giudizio di appello della corte di Charlottenburg del 10 dicembre 1928 ribadì l'imputazione di blasfemia riconosciuta dalla istanza precedente. Comminò una pena pecuniaria di 2.000 marchi a carico di Grosz e Herzfelde in luogo della pena detentiva di due mesi e precedette al sequestro del solo disegno n. 10, ordinando ancora una volta che le piastre venissero rese inutilizzabili. Il 10 aprile del 1929 la sentenza dell'ottobre del 1928 venne annullata e venne respinto il ricorso del procuratore berlinese, il quale a questo punto avanzò istanze di revisione presso la Corte suprema del Reich di Lipsia. Il 27 febbraio del 1930 il Reichsgericht di Lipsia annullò la sentenza del 10 aprile del 1929 e rinviò la causa alla istanza precedente per un nuovo giudicato. Questo fu pronunciato il 3 dicembre 1930 e per la prima volta fu un verdetto di assoluzione, dopo che nel frattempo la persecuzione continuata contro Grosz aveva mobilitato un largo schieramento intellettuale. Ma la vicenda non era finita, perché si ebbe un nuovo ricorso della procura berlinese e un nuovo processo di revisione presso la Corte suprema del Reich, che il 5 novembre 1931 modificò la sentenza di assoluzione, ordinando che comunque il disegno n. 10, quello maggiormente incriminato, fosse reso inutilizzabile con tutte le piastre necessarie per la stampa
[Si veda la documentaiione dei processi contro Grosz nel volume-catalogo Staatliche Kunsthalle Berlin und Neue Gesellschaft für bildende Kunst, 1933 - Wege zur Diktatur, Ergänzungsband, Berlin 1983, pp. 70-124].
Non è necessario soffermarsi sulle argomentazioni con le quali fu sostenuta la tesi incriminatoria. I documenti della vicenda oggi sono accessibili a tutti e presumibilmente noti. Ciò che comunque è degno di menzione è il fatto che la Corte suprema non fece propria l'intenzione satirica di Grosz, che voleva mostrare il Cristo crocifisso ancora una volta, costretto a subire la maschera antigas e l'ubbidienza cieca ed assoluta, quale sarebbe stato ridotto da un clero che aveva tradito gli ideali cristiani se, fedele al suo insegnamento di pace, avesse fatto l'obiettore di coscienza. In altri termini, nella presa di posizione della Corte suprema è ancora una volta difficile distinguere in quale misura si volevano tutelare i simboli della religione e in quale misura evitare che fosse attaccata e messa in dubbio la validità dell'etica militare, del militarismo. L'ipotesi più plausibile è che l'oltraggio alla religione ravvisato dalla Corte servisse di fatto a coprire anche, se non soprattutto, l'onore militare.
Il secondo caso sul quale intendo soffermarmi, quello relativo a Friedrich Wolf, è particolarmente significativo dell'intreccio tra libertà dell'arte e impegno civile dell'intellettuale. In misura forse anche maggiore dei casi citati in precedenza esso investì direttamente la responsabilità sociale dell'intellettuale, come scrittore e come professionista, di fronte ad una situazione di grande disagio e di larga risonanza sociale. Il 6 settembre 1929 aveva luogo al Lessingtheater di Berlino la prima esecuzione assoluta del dramma Cjankali (cianuro), che ben presto divenne lo strumento polemico più agguerito, anche nella sua contrastata versione cinematografica, che incappò anche essa in divieti di programmazione, nel quadro della campagna contro l'art. 218 del codice penale, che proibiva l'aborto. Il riaccendersi della polemica e poi il suo inasprirsi negli anni della crisi era la conseguenza del fallimento della campagna per la depenalizzazione dell'aborto che invano il movimento femminile e i gruppi della sinistra, con diversità di impegno, avevano sviluppato negli anni precedenti, senza ottenere dal Reichstag null'altro the una più vaga discrezionalità del giudice nella fissazione della pena detentiva prevista per la donna che abortisse. Non entro qui nei dettagli di questa campagna, che va vista comunque nel quadro della riflessione portata avanti da diversi settori del movimento operaio e della borghesia democratica per una nuova morale sessuale e per la maggiore dignità personale della donna, offesa tra l'altro dal flagello degli aborti clandestini
[Un primo bilancio critico del problema si trova nella dissertazione di laurea di M. ASPMAIR, Aspetti della società weimariana: condizione femminile e dibattito sull'aborto, discussa, discussa presso il Corso di laurea in storia della Facoltà di Lettere e filosofia di Bologna, nell'anno acc. 1978-79 (rel. E. Collotti), di cui sarebbe auspicabile la rielaborazione ai fini della pubblicazione]. E di un caso di aborto clandestino si tratta infatti in Cyankali.
Autore ne era appunto Friedrich Wolf, medico e scrittore, animatore della vita culturale di Stoccarda, il quale nel 1928 si era iscritto al partito comunista tedesco
[L'intera vicenda è ora rievocata nell'ampia documentazione raccolta, insieme alla ristampa del lavoro teatrale omonimo, nel bel volume a cura di E. WOLF e K. HAMMER, Cyankali von Friedrich Wolf. Eine Dokumentation, Berlin-Weimar, 1978. Sulla figura del medico-intellettuale protagonista anche il più recente volume Friedrich Wolf in Stuttgart, Stuttgart 1983 (nel quadro del più ampio progetto Stuttgart im Dritten Reich)]. Il dramma sollevò, insieme a molti consensi, un'ondata di proteste nell'ambiente nazionalista e nazionalsocialista nonché nei circoli ecclesiastici. In alcune località fu proibito o i teatri ne rifiutarono la recita. Wolf divenne forse l'oratore più popolare nella lotta in favore dell'aborto. Il 19 febbraio 1931 egli fu arrestato sotto l'accusa di avere esercitato "professionalmente l'aborto". Una accusa che Wolf, il quale poté dimostrare fra l'altro di avere ben poco lucrato dai suoi interventi, ritenne infamante e diffamatoria per la sua persona e per quella della sua collega, anch'essa tratta in arresto, la dottoressa Else Kienle, che gestiva l'unico consultorio di igiene sessuale di Stoccarda, così come Wolf era stato l'unico medico di Stoccarda a sostenere pubblicamente la necessità della regolamentazione delle nascite. Wolf non negò di avere operato aborti, andando con ciò contro le prescrizioni dell'art. 218, che aveva mantenuto inalterate le prescrizioni penali contro gli autori materiali dell'aborto. Wolf riprese a sua difesa uno degli argomenti che erano stati ripetutamente invocati per allargare le maglie della legge ma che la giurisprudenza non aveva mai accettato; vale a dire che non si potesse ammettere l'aborto soltanto nei casi estremi in cui fosse richiesto dalla salute della gestante, ma anche nel caso in cui le condizioni sociali della stessa non consentissero condizioni di vita dignitose per l'interessata e per il nascituro. Le pressioni popolari e parlamentari spinsero alla scarcerazione di Wolf, che avvenne il 28 febbraio; egli si adoperò nelle settimane seguenti per ottenere il rilascio anche della dottoressa Kienle, che fu liberata soltanto un mese dopo, il 29 marzo, al termine di un lungo sciopero della fame. Il procedimento giudiziario non ebbe seguito.
Il significato politico della vicenda fu colto pienamente dalla "Weltbühne", il cui direttore Ossietzky denunciò l'errore commesso dai giudici di Stoccarda, i quali non avevano capito che l'art. 218 poteva sopravvivere solo se essi avessero colpito il sottobosco dei cosiddetti "guaritori" e non un medico qualificato come Wolf.

Il movimento contro l'art. 218 - ebbe a scrivere Ossietzsky - non è una novità, ma gli era mancata finora una forza centrale; negli ultimi anni, da quando se ne è impossessato il teatro, ha assunto un carattere fortemente letterario, senza estendersi in profondità. Ora l'eccesso di zelo di un procuratore gli dà ciò che gli era finora mancato: l'alfiere, il rappresentante integro dell'idea messo sotto accusa e in prigione; la figura centrale, il simbolo. Sinora questo articolo era un che di pericoloso alquanto distante; ora lo abbiamo in vicinanza tangibile, ora possiamo finalmente toccare con mano [Cfr. C. V. OSSIETZKY, Zum Falle Friedrich Wolf, in "Die Weltbühne", 3 marzo 1931, pp. 301-303].

4. Non vorrei trarre conclusioni unilateriali o eccessivamente categoriche sulla base di una ricostruzione così sommaria e forzatamente parziale. Certo si è che, se guardiamo alla fine della repubblica di Weimar e al suo cruento affossamento nel nazismo, non possiamo non riflettere sul fatto che quella che definiamo la cultura di Weimar non è un concetto univoco che si possa identificare unicamente con le espressioni di una cultura democratica, socialisteggiante o rivoluzionaria, a seconda delle diverse tendenze. Dietro gli interventi del potere esecutivo (non sempre necessariamente coincidente con i temporanei detentori del potere politico) persisteva la cultura che aveva permeato l'epoca guglielmina e che aveva trovato anch'essa, nell'esperienza della guerra, una linfa di rinnovamente nei campi più diversi, da Spengler a Carl Schmitt, ai cultori del tradizionalismo pittorico, architettonico e musicale, per finire nel Kampfbund für deutsche Kultur di Alfred Rosenberg, battistrada della reazione nazista.
Due osservazioni mi paiono tuttavia pertinenti a completamento di quanto sappiamo sul declino della democrazia weimariana. La prima è che il rigoglio culturale degli anni di Weimar rappresenta solo una parte della cultura tedesca; essa finirà per soccombere perché le forze autenticamente democratiche e repubblicane rappresentano una minoranza e perché queste stesse forze, sol che si guardi alla guerra civile all'interno del movimento operaio, sono e rimarranno divise. Non esiste solo una reazione culturale che ha largo seguito, esistono anche sedi istituzionali che vengono solo parzialmente coinvolte dall'ondata di rinnovamento: la collocazione dell'università tedesca nei suoi corpi docenti ma anche, allora, nella sua componente studentesca, non fu nella sua maggioranza, dalla parte della democrazia, ma da quella della reazione.
La seconda è che, indipendentemente da questa prima grossa frattura di tendenze che contrappone le diverse componenti della cultura tedesca, una seconda linea di frattura attraversa la società tedesca. Proprio perché abbiamo sottolineato il carattere prevalentemente urbano delle tendenze innovatrici, non possiamo nasconderci l'esistenza di due contesti culturali e sociali non omogenei ed anzi tendenzialmente antagonisti. Non a caso la conquista della Germania da parte del nazismo è cominciata nella campagna e non a caso ha rappresentato il trionfo nella cultura tedesca dei suoi elementi più provinciali.