LUIGI FORTE

PAESAGGIO EROICO E ANNI VENTI:
UNA PASSEGGIATA COL GIOVANE BRECHT
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Non sono purtroppo riuscito a rintracciare il prof. Luigi Forte per chiederGli il permesso di pubblicare questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005. Sono tuttavia convinto che, quando verrà a conoscenza della pubblicazione e del nobile scopo ad essa connesso, non avrà nulla da obiettare.

* Quest'articolo fa pane di un'ampia ricerca che l'autore sa conducendo sulla lirica del giovane B. Brecht. Si desidera qui ringraziare la Fondazione Alexander von Humboldt che tale ricerca ha reso possibile con una generosa borsa di studio.


1. Ogni genio che si rispetti programma di quando in quando la propria vita e, naturalmente, la propria attività: è legato a bilanci e prospettive o, secondo un'insinuazione da psicoanalisi, alle metamorfosi della propria immagine narcisistica.
Da questo punto di vista, i diari che Bertolt Brecht tenne fra il 1920 e il '22 riflettono la costruzione di un paradigma letterario e la sua ironizzazione, il trasfigurarsi dell'io individuale in personaggio, l'eccitante e febbrile invenzione di maschere e coperture. Di rado, nella letteratura moderna, annotazioni biografiche hanno raggiunto tale livello di stilizzazione: il soggetto sembra nietzschianamente riconoscersi nella sua incessante differenza, nel Narciso-scrittore che s'accomoda, senza troppi riguardi, fra le schiere del Parnaso o queste cerca di disorientare con i suoi giudizi perentori e paradossali, con la sua calcolata irriverenza.
Non sorprende quindi che nel 1926 - cioè in una stagione di imperiosa e fluida creatività - Brecht annoti di avere materiale sufficiente per "scrivere quelle quaranta opere che sono lecite e necessarie per costituire il repertorio di un teatro per un'intera generazione" [B. BRECHT, Diari 1920-1922. Appunti autobiografici 1920-1954, a cura di Herta Ramthun, trad. di Bianca Zagari, introd. di Luciano Zagari, Torino 1983, p. 203]. Il genio, come si vede, gode di solida e infallibile preveggenza, anche quando cerca di crearsi prematuramente un'immagine o si sente diventare - lo apprendiamo da un'altra giovanile riflessione sempre più un classico [Ibi, p. 134].
Classico Brecht lo è divenuto fino a perdere, ricordava molti anni fa Max Frisch, la sua efficacia: dunque un vero monumento a futura memoria e, probabilmente, a perenne oblio. Ma classico Brecht lo è stato, in senso assia diverso, già negli anni weimariani: uno scrittore anomalo, un bacino collettore di stili e tendenze, di motivi e proposte del passato e del presente. È sufficiente riprendere un esempio arcinoto: senza l'Opera da tre soldi gli anni Venti non sarebbero più tali e certo s'attenuerebbe quella "fantasmagoria della fantasia erotica" [TH. W. ADORNO, Jene zwanziger Jahre, in: Eingriffe. Neun kritische Modelle, Frankfurt a.M. 1968, p. 61], che Adorno considerava la loro vera caratteristica di fondo.
Lo scrittore di Augusta matura fin da quel tempo una particolare sintonia e sensibilità verso la propria epoca: non nel senso dell'adeguamento (siamo, anzi, agli antipodi!), ma piuttosto in quanto egli tende a trasformarla e risolverla in oggetto del suo rapporto artistico, della sua osservazione e analisi critiche al di là di ogni commento cronachistico o della semplice esegesi dell'attualità. I suoi diari ci consegnano non poche rivelazioni. Globalmente la loro struttura e proposta può essere interpretata come il bisogno di creare una distanza, di perseguire la costruzione di una prospettiva, e infine, la ricerca di un mito [ Cfr. l'interessante introduzione di L. Zagari ai diari brechtiani, op. cit., p. XI sgg.]. Tutto infatti nel giovane Brecht diviene autoriflessione, commento, discorso su se stesso. Il soggettivismo patetico degli espressionisti si obiettiva, decantandosi da ogni ingenuità e viscerale immediatezza nella misura in cui un io mimetizzato ( - lo scrittore in progress -), inafferrabile e pur sempre presente, elabora non il decalogo della propria impotenza e passività, ma la proposta di una mitologia del moderno. Walter Benjamin progettava, dal canto suo, una preistoria dell'epoca moderna, in cui, come ha rilevato P. Szondi [P. SZONDI, Nota a W. Benjamin, Immagini da città, Torino 1971, p. 104], speranza e disperazione si uniscono in paradossale connubio. Diversamente dall'amico Benjamin, Brecht non ha l'occhio rivolto al futuro come 'tempo perduto', come utopia infranta, ma assiste, corazzato dal suo personale mito, ai grandi squilibri del presente. La sua utopia, almeno in questa fase, è sempre una forma di difesa: cinismo e nichilismo la potenziano. La sua archeologia della modernità non mira all'attivazione della memoria, che Benjamin praticò nell'infanzia berlinese, ma alla forza e capacità di dimenticare come desiderio e premessa del nuovo, e in una concezione proteiforme del soggetto e dell'essere, che cela non poche parentele con lo Zarathustra nietzschiano e fa riflettere con nuove prospettive ermeneutiche su quel particolare documento della modernità che è la fin troppo nota lirica Del povero B.B.
Mai forse come in quest'epoca il soggetto si è sentito coinvolto nel proprio paesaggio e da esso profondamente minacciato. La cultura espressionista ha piegato in fogge e sagome allucinate, pronte alla totale deflagrazione, l'archetipo della metropoli-inferno, della città-Leviatano, nato fra le pagine di Baudelaire e Rimbaud [Non a caso il decadentismo francese è una delle linfe vitali di ogni riflessione dell'avanguardia tedesca. Nel 1919 la rivista Münchner Blätter für Dichtung und Graphik diretta da Renatus Kuno pubblicò un numero doppio interamente dedicato al grande poeta di Charleville con non poche irruzioni nel pianeta delle Illuminations, fra luciferine isole metropolitane]. La prospettiva hegeliana del libero soggetto che deve disancorarsi dallo strapotere della natura per affermare il proprio razionale dominio, si è ora capovolta nella subalternità dell'uomo all'organizzazione sociale. In un significativo articolo del 1912, Il funzionamento della metropoli, Hermann Bahr sottolinea questa forma di svuotamento dell'uomo nell'ambito urbano come mero strumento per scopi a lui stesso estranei. La città e i suoi meccanismi s'insinuano visceralmente in un soggetto ipnotizzato e abulico, il quale "riceve, imposti dal funzionamento, al cui esclusivo servizio ora si trova, sostanza, dimensioni e tempo, pensieri, sogni e sentimenti, il primo gusto, il piacere e il dolore, virtù e vizi" [H. BAHR, Der Der Betrieb der Gross Stadt, in: Die neue Rundschau, Mai 1912 Jg. XXIII, H. 5, p. 703]. Nulla di strano dunque se tale privazione della propria libertà genera i mostri dell'espressionismo, i demoni della città e le più grevi fantasie apocalittiche.
La cultura di Weimar e degli anni Venti, nonostante l'apparenza, riposa in parte su queste ossessioni, e il più completo affresco che tematizza la violenza degli chocs urbani e l'indifferenza della realtà sociale al destino del singolo, cioè il romanzo di Döblin, Berlin Alexanderplatz, uscito nell'anno del crollo della Borsa di New York, antologizza, sia pur con criteri narrativi e strutturali nuovi, sequenze lontane nel tempo, maturate già prima della guerra.
La voce del filosofo ci riporta in sintesi le questioni di fondo: "Il maggior problema della vita moderna - ricorda infatti Georg Simmel con anticipatorie intuizioni - deriva dall'esigenza da parte dell'individuo di mantenere l'autonomia e l'individualità della propria esistenza contro il sistema opprimente delle forze sociali, delle tradizioni storiche, della cultura esterna e dell'aspetto tecnologico dell'esistenza..." [G. SIMMELL, Metropoli e personalità, in: Città e analisi sociologica, a cura di G. Martinotti, Padova 1968, p. 215]; e poco oltre con sfumature che ben si applicano allo stesso programma brechtiano: "Un'investigazione che tenda ad indagare il significato più profondo della vita caratteristica dell'epoca moderna e dei suoi prodotti [...], dovrà cercare di risolvere l'equazione, stabilita da strutture quali la metropoli, tra l'individuo e i contenuti superindividuali propri dell'esistenza" [Ibi, p. 275].
Tale equazione, o meglio tale confronto e scontro, si riassumono in un'annotazione brechtiana del 1926: "Come paesaggio eroico ho scelto la città, come punto di vista la relatività, come situazione l'ingresso in massa del genere umano nella grandi città all'inizio del terzo millenio..." [BRECHT, op. cit., p. 203]. Più che un programma tali affermazioni circoscrivono ormai un bilancio: il percorso si snoda attraverso opere teatrali come Nella giungla delle città, Uomo è uomo, Mahagonny, un'innumerevole serie di abbozzi, di sceneggiature, di operette, di riviste; e, infine, una produzione lirica che, anche quando rivisita madre natura tanto nelle sue componenti eudemonistico-creative che distruttive, è percorsa dai balenii della metropoli o quest'ultima ha come indiretto referente.
Il paesaggio eroico è anch'esso frutto di esperienze procedenti: ci rimanda a Georg Heym - lettura non secondaria per il giovane Brecht -, alla sua omonima poesia e al problematico rapporto dello scrittore di Augusta con il movimento espressionista. Ma in Heym domina centrale l'archetipo nietzschiano della Endzeit: per il filosofo un concetto indispensabile alla sua critica della cultura, per il poeta il luogo allucinato e febbrile dell'inabissamento della moderna civiltà materiale. Il bilancio brechtiano, la fenomenologia della modernità, al contrario, mentre ricicla il discorso sulla decadenza - che, come Nietzsche ha predicato, è sempre sinonimo di fase aurorale, di nuovo principio -, partecipa e costruisce l'uomo del dopoguerra: è un'operazione eclettica ed epigonale (carattere, tra l'altro, che Adorno riconosce in blocco agli anni Venti), che stravolge però del tutto i propri modelli, e sa utilizzare le fobie, le esorcizzazioni della metropoli, i luoghi dell'esotismo e dell'escapismo romanticheggiante (per esempio, alla Hesse), per progettare un ideale antropologico capace di resistere agli incessanti, spericolati e violenti mutamenti dei meccanismi sociali.
Certo in quel periodo, come Brecht ricorda, "nessuno aveva dentro di sé abbastanza Ego per poter fare qualcosa. Si arrivava così al punto che uno stabiliva la propria dimora in se stesso e così la spaccatura si veniva a produrre in noi stessi" [Ibi, p. 207].
Ma se l'importanza degli intellettuali di Weimar sta, come si è sottolineato [C. CASES, Introduzione a P. Gay, La cattura di Weimar,, Bari 1978, p. 12], nell'aver scavato in lungo e in largo in contraddizioni di lunga durata, questo rintanarsi del soggetto rappresenta solo una strategia di autodifesa volta ad ampliare il fossato che sempre più separa l'epoca della Zivilisalion, della civiltà materiale, dalla affermazione umanistica del soggetto. Tale inconciliabilità, che segna tutta l'epoca moderna, diviene efficace e produttiva nel momento incui è praticata e vissuta come tale, e non rimossa o evasa. Anche la rinuncia, propria degli anni weimariani, all'individualità, alla complessa e storicamente stratificata dimensione dell'individuo, per la realtà semplice e fungibile del 'tipo', rientra in questo processo di riduzione dell'umano, in questa fase di emergenza in cui, secondo le parole di Rilke, sopravvivere è tutto.
Certo, la riduzione della personalità alla sua funzione sociale non è stata una scoperta brechtiana: ci aveva già pensato il naturalismo, così come Heinrich Mann o Carl Sternheim avevano descritto il meccanismo di adattamento alla società borghese in termini di trasformazione dell'io. Brecht, su queste e altre tracce, visualizza fin dai tempi del Baal la fine del concetto di individualità idealistico-borghese. Significativo ci pare in proposito soprattutto il suo progetto globale come espresso nella breve annotazione del 1926. Con lo scrittore di Augusta gli anni Venti e in particolare il loro mito non rappresentano secondo l'immagine di un loro esegeta (Hans Ostwald, per esattezza, nella sua Storia dei costumi dell'epoca dell'inflazione [H. OSTWALD, Sittengeschichte der Inflation. Ein Kulturdokument aus den Jahren des Marksturzes, Berlin, 1931, p. 7 sgg]) solo un'infernale carnevale, in cui convivono speculazioni, scandali, mania del gioco e vertigine del ballo, incertezza del futuro e sfrenata evasione... Essi sono piuttosto lo scenario in cui si preparano alchimie destinate a produrre nuovi soggetti e dove le suggestioni della decadenza e dell'apocalissi prebellica, tutto il corredo di inevitabili nichilismi, si riducono a topoi letterari, a stazioni di un progetto che tenta di sintetizzare la dinamica del momento storico, esorcizzandone la violenza con l'allegro e astuto disincanto della maschera letteraria.

2. C'è un legame indissolubile fra i primi eroi brechtiani e il loro autore. Che si tratti di Baal o di personaggi del Libro di devozioni domestiche, il salutare vitalismo plebeo che essi incarnano resta una metafora del rifiuto e paramenti della difficoltà di praticarlo con successo. Nei loro insaziabili appetiti essi non traducono una riscossa vittoriosa nei confronti di un mondo votato, come asseriva G. Benn, alla distruzione e dominato dal funzionalismo, ma anticipano piuttosto la disperata impossibilità di soddisfare tali pulsioni.
Recensendo Walter Mehring, Benjamin ha ricordato lapidarmente che con le canzoni di Brecht al decadenza comincia a diventare storica. E altrove ha sottolineato che queste prime figure - da Baal all'egoista Fatzer, a Macki Messer - non rappresentano solo tipi asociali in una società che nulla ha più di umano, ma dei virtuali rivoluzionari [W. BENJAMIN, Lirica d'uso? ma non così!, in: W.B., Critiche e recensioni, Torino 1979, p. 119; e anche: W. Benjamin, Beritolt Brecht, in: W.B., Gesammelte Schrifteen, hrsg. von R. Tiedemann/H. Schweppenhäuser, Bd. II, 2, Frankfurt a.M. 1977, p. 665]; proiezioni, vorremmo aggiungere, di una volontà antiborghese che nel loro autore si cala e manifesta in atteggiamenti plateali, in una concezione di vita che negli anni di Augusta si sforza di apparire l'esatto contrario della propria origine. Brecht anzi vive come personaggio e i suoi eroi rappresentano le molteplici maschere di cui egli si serve nel suo viaggio verso la metropoli alla scoperta dell'inumanità del capitalismo. Ma se si scorrono le lettere di quegli anni a Berlino (in occasione di due brevi soggiorni nel 1920 e '22) non è difficile cogliere qualcos'altro ancora: l'autoiniziazione ai misteri urbani, l'entusiasmo per ciò che è sorpresa e novità. Egli non vive il dramma del vuoto e deUa povertà dell'esperienza; sembra invece crogiolarsi nella ricezione della violenza e degli choc urbani, senza oppore difesa come Baudelaire a Parigi.
Nel suo racconto Avanguardia Marie Luise Fleisser ha offerto una descrizione assai poco imbellettata di quegli anni: "Com'era possibile conoscere qualcuno in una città come quella? Era una metropoli, abisso accanto ad abisso" [M. FLEISSER, Avantgarde, in: GS, Bd. III, Frankfurt a.M. 1972, p. 124]. Ma la scrittrice non ha difficoltà ad aggiungere parlando dell'amico B. Brecht: "Una volta assai che le grandi città bisogna sfruttarle...". L'avventura di Brecht a Berlino alla ricerca di un ruolo e di una definitiva affermazione come scrittore è omologabile fra le spedizioni di conquista: soggetto (in incessante metamorfosi) e luogo vengono così presentati con spessore mitico e in una dimensione di profonda stillizzatione. "Berlino è una faccenda meravigliosa - scrive nel febbraio del 1920 all'amico Caspar Neher - [...]. Per esempio: c'è la metropolitana e Wegener. Tutto è terribilmente strapieno di cose di cattivo gusto, ma a che livello, ragazzo mio!" [B. BRECHT, Briefe, hrsg. von G. Glaeser, Frankfurt a.M., p. 60]. È più o meno nello stesso periodo, scrivendo a Johst: "[...] mi piace qui. Più che altrove qui tutto è apparenza e inganno"; e anche: "La menzogna Berlino si distingue da tutte le altre menzogne per la sua spudorata grandiosità. [...] Amo Berlino, ma a responsabilità limitata" [ibi, p. 58 e 61].
Lettere e diari riportano annotazioni di ogni genere sulla capitale: inutili forse per la cronaca di quegli anni, ma essenziali per intendere quel processo di mitologizzazione dello spazio urbano come unica importante e decisiva arena dello scontro sociale. Mentre s'inizia alla metropoli, Brecht la oggettiva in sé e nel proprio lavoro. Leggiamo nei diari del 1921: "Nella Giungla c'è una cosa: la città. Che riacquista la sua ferocia, le sue tenebre e i suoi misteri. Così come Baal è il canto del paesaggio, il canto del cigno. Qui si coglie a fiuto una mitologia" [BRECHT, Diari 1920-1922, op. cit., p. 173 op. cit. p. 173]. La sua fondazione necessita però di una distanza che solo immagini di altre culture possono fornire: qui hanno le loro radici sia Berlino come fredda Chicago, sia la metafora dalla giungla notoriamente ripresa da Kipling. La spedizione nella capitale, come si vede, si trasforma in un viaggio intellettuale e libresco. Le immagini tratte dalla tradizione letteraria permettono al giovane scrittore di dominare la vasta fenomenologia urbana, di circoscriverla entro la trama delle metafore. Kipling offre a Brecht un punto di vista che significa anche autodifesa del soggetto: così l'insidia della metropoli diventa oggetto di analisi e di studio e s'innalza - grazie allo straniamento offerto dalla tradizione letteraria - a complessa e articolata proposta artistica. Un'annotazione del 1921 è esplicita in proposito: "[...] ho fatto la sensazionale scoperta che in realtà ancora nessuno ha descritto la grande città presentandola come una giungla. Dove sono i suoi eroi, i suoi colonizzatori, le sue vittime? L'ostilità della grande città, la sua malvagia consistenza pietrosa, la sua babelica confusione delle lingue, insomma la sua poesia non è stata ancora creata da nessuno" [ibi, p. 141]. Ciò che prima della guerra, fra le schiere espressioniste, era angoscia e patologica visionarietà, qui si trasforma in programma epico: non perdita o svuotamento del soggetto, ma lenta ricostruzione fra le pagine della tradizione letteraria. L'ultima battuta di Garga nella Giungla delle città può valere come consuntivo e disincantata prospettiva: "Il caos è finito. È stato il tempo migliore" [BRECHT, Nella giungla della città, in Teatro, vol. I, a cura di E. Castellani, Torino 1963, p. 180].

3. Negli anni Venti dunque Brecht, più di altri, trasforma Berlino in un mito letterario in cui si incrociano e giustappongono metafore e luoghi della tradizione, reclutamento di nuove proposte e idee culturali, come l'ampio capitolo sull'americanismo di Weimar e la necessità mai sottaciuta di un soggetto in grado di dominare il caos.
La temperie del disordine ha anche qui radici lontane; l'intellighenzia tedesca fu, già prima del conflitto mondiale, particolarmente sensibile, se si guarda alle istanze avanguardistiche, al detto nietzschiano secondo cui "il mondo non è affatto un organismo, ma caos" [F. NIETZSCHE, Aus dem Nachlass der Achtzigerjahre, in: Werke in drei Bänden, hrsg. von K. Schlechta, Bd. III, München 1977, p. 683]. Da esso la gioventù espressionsta attendeva la propria liberazione. Tale illusione portò, come ben sappiamo, a condividere incondizionatamente le ragioni della guerra contro cui si levarono poche e inascoltate voci. In tale clima di caotico rinnovamento si mescolavano apocalisse e furori bellici e si forgiava il topos letterario della distruzione, quella fine del mondo borghese che troviamo in opere così diverse e con finalità opposte come Gli ultimi giorni dell'umanità di Kraus o il filosofico Tramonto dell'occidente di Spengler che Brecht non mancò di leggere e che anzi collocò fra gli slogan dell'epoca.
L'Apocalisse di Giovanni ci' ricorda che questo tema è antico come il mondo. Un breve sguardo sull'espressionismo conferma che esso viene eloquentemente riattivato proprio all'inizio del secolo sulla scorta di un'appassionata lettura delle Illuminazioni rimbaudiane, il cui brano Infanzia (parte IV) tradotto già nel 1907 dal famoso K.L. Ammer e riproposto nel numero doppio dei Münchner Blätter dedicato al poeta francese, lo preannuncia con accenti di lirica stasi ("Que les oiseaux et les sources sont loin! Ce ne peut ètre que la fin du monde, en avançant") [A. RIMBAUD, Oeuvres complètes, Paris 1963, p. 178]. Del resto con Il battello ebbro Rimbaud aveva confezionato un'esplicita ed adeguata metafora del viaggio come inabissamento di tutta la civiltà occidentale in nome di un dionisiaco, liberatorio senso dell'esistenza. Qualunque valore e interpretazione si voglia assegnare al modo espressionistico di vivere la fine del mondo, come crisi di identità collettiva o come proiezione soggettiva della situazione dell'individuo in un denigrante processo storico, esso va inserito in ogni caso sulla scena della metropoli e rivisitato come problematico rapporto fra soggetto e organizzazione sociale. Nell'ambito di tale costellazione, che gli anni Venti riesumano attraverso le grandi metafore letterarie del decadentismo occidentale, si pone quel sentimento della catastrofe, quel "paesaggio da terremoto" attivato anche da Brecht con la particolare funzione di figura epocale, di immagine di instabilità circolante in quell'età weimariana che, per altri versi, il famoso critico Alfred Kerr ritenne di poter definire "periclea" [cit. in B.E. WERNER, Literatur und Theater in den Zwangiger Jahren, in: Die Zeit ohne Eigenschaften. Eine Bilanz der 20er Jahren, hrsg. von L. Reinitch, Stuttgart 1961, p. 52]. Ma gli anni Venti - lo sottolinea lui stesso - vivono nell'instabilità; in essi circola "la conoscenza del transitorio ed un sempre maggiore scetticismo nei confronti del duraturo, del saldo e definito, del classico tout court. La sensazione - egli aggiunge - che noi, a detta di Jaspers, viviamo in uno stato di "universale inganno", si fa strada ovunque [...]. Esperienza di fondo è divenuto il fluire, il fluttuare del tempo" [ibi, p. 57].
L'originalità di Brecht, secondo la proposta nietzschiana del "nichilista compiuto", consiste, in questo periodo, nel non avere inutilmente tentato di arginare tale inarrestabile processo, accettandolo invece in modo critico e utilizzandolo per fondare un ruolo nuovo per il soggetto della transitorietà. Nel paesaggio della catastrofe, che accompagna le sue riflessioni sulla città e l'epoca weimariana, si colloca, nel bel mezzo, la figura biblico-letteraria del diluvio. In questo caso Brecht guarda forse più attorno a sé che lontano fra i testi sacri, che costituiscono per altro, come è noto, una delle sue letture e fonti predilette. Egli s'infiamma qui per Rimbaud, che col brano d'apertura delle Illuminazioni, Dopo il diluvio, consegnò alla posterità un'immagine centrale e significativa: solo il diluvio come principio dinamico è in grando di distruggere la realtà reificata, rinnovando e restaurando l'immediatezza della vita [Rimbaud sembra in questo contesto anticipare temi e opposizioni che l'espressionsimo farà propri, come, ad es., noia/diluvio. Cfr. A. RIMBAUD, op. cit., p. 175-76]. E. Loewenson del Neuer Club berlinese ricorda quel periodo come "epoca diluviale", mentre lo stesso E. Toller si muove in Hinkemann fra la speranza del paradiso e la paura del diluvio. Per non dimenticare Barlach che nel 1924 dedica a questo tema un omonimo pezzo teatrale, o Klabund, buon amico di Brecht, che lo riprende nel suo romanzo storico-fantastico del 1918, Bracke.
Rileggendo i suoi primi drammi, anche a distanza di molti anni, Brecht si è soffermato su questo luogo epocale: "Presi insieme, tutti e cinque i lavori [...] mostrano senza compianto il diluvio che sta per sommergere il mondo borghese. Dapprima la terra è ancora in vista, ma con pozze che si fanno laghi e mari; poi, non rimane più che la cupa distesa delle acque, con isole che ben presto si disgregano" [BRECHT, Scritti teatrali, vol. III, Torino 1975, p. 8]. Il tempo, come si vede, non ha cancellato la centralità di quell'immagine, che investe anche l'Eduard "l'ultimo dinosauro che sente arrivare il diluvio" [BRECHT, Im Dickcht der Städte. Erstfassung und Materiälen, ed. von Geisela E. Bahr, Frankfurt a.M., p. 141]. Tra le pagine del giovane Brecht questo biblico topos, laconicamente racchiuso in un'omonima lirica e ampiamente illustrato nel frammento inedito Decadenza della città paradisiaca Miami, che prepara le atmosfere di Mahagonny, riassume non solo un clima di sostanziale precarietà ma, delineando la mitologia delle città distruttibili, riflette sul nichilismo e l'incerta stabilità del soggetto. I luoghi della distruzione preparano il terreno per quel nuovo tipo umano affidato alla completa transitorietà e che solo in essa trova lo spazio della propria durata. "È inutile stabilire rapporti con noi stessi - leggiamo in un frammento inedito -. Sa oggi il vento se domani ci troverà ancora? Come potrebbe spingersi ad amarci?" [BRECHT, Notizen, 1921, BBA 450/12].

4. Mentre i dorati anni Venti si stagliano sempre più su un orizzonte di tragedia e la città appare come il luogo delle segrete alchimie in cui la retorica dell'uomo nuovo e buono degli espressionisti è stata inquinata dai raffinati veleni della precarietà e dell'incertezza planetaria, e dove giganteggia lo slogan nietzschiano "vivere pericolosamente", il soggetto si appresta a trascorrere un lungo periodo di emergenza. Simmel non era andato molto lontano dal vero quando, ipotizzando e delineando il tipo metropolitano, aveva sottolineato che la sua più grande arma di difesa (giacché ormai si ragiona in termini di lotta!) era l'intelletto e svalutato in tal modo l'organo della sensibilità, quel cuore da cui era scaturita non poca letteratura tedesca. Al cuore, fra i moderni, s'erano affezionati gli espressionisti. "La vita metropolitana - osservava invece il filosofo - presuppone una consapevolezza eccezionale e la predominanza dell'intellettualità nell'individuo..." [G. SIMMEL, art. cit., p. 276]. Del resto anche per Spengler e il Kulturpessimismus l'uomo dei centri metropolitani è un "cerebrale". Ciò che ancora leggiamo, espresso am toni di riprovazione nel Tramonto dell'occidente sull'uomo nuovo: "È il moderno lettore di giornali [...] è l'antico ed occidentale uomo dei teatri e dei luoghi di divertimento, dello sport e della letteratura del giorno" [O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes, Bd. I, Munchen, 1923, p. 462], diventa nel disinvolto e cinico Brecht non il secolare punto d'arrivo di una degenerazione della razza, ma il punto di partenza per una nuova generazione. Abbiamo appreso che la complessa stratificazione umanistica della personalità è obbligata in un'epoca di schiaccianti catastrofi a cedere il passo alle semplificazioni del tipo, la Bildung è declassata per ragioni tattiche all'astuzia, all'oculatezza e non può ormai essere utilizzata come patrimonio culturale per un soggetto in cerca di emancipazione.
Tra gli abbozzi e gli appunti di Brecht troviamo parecchie raffigurazioni della civiltà moderna pome mondo aurorale e primitivo, nel quale si va ricostituendo l'umanità: non si sa se ci sia stata l'apocalisse, certo è che non mancano i motivi e i pretesti per progettare e plasmare un individuo che sappia resistere ai tempi. "Era sorta una nuova epoca con nuovi usi e custumi - leggiamo. Il nuovo tipo umano si chiamava neanderthaler" [BRECHT, Die Neanderthaler. Entwürfe um 1926, BBA 424/108]. Con un inatteso effetto di straniamento l'uomo della Berlino degli anni Venti è ridisceso alla soglia dell'umanità e sembra dover iniziare tutto da capo. La prospettiva palingenetica non è nuova; nuovo è invece il piacere che il giovane Brecht prova nell'essere e sentirsi esposto ai "pericoli": nulla lo scuote, l'iniziazione ai riti metropolitani come nella Canzone del sabato santo all'undicesima ora della notte prima di Pasqua, dove il tema della vittima viene con la parodia stranamente erotizzato e brutalmente secolarizzato, termina con la disponibilità a sopravvivere. Anzi: la via crucis metropolitana rende saldo e mobile il soggetto, lo ripulisce di ogni debolezza, lo rinfranca:

Più leggero dei venti
Invisibile! Leggero, animalesco, maestoso... [BRECHT, Libro di devozioni domestiche, trad. di R. Fertonani, Torino 1964, p. 68].

L'epoca della civiltà materiale non conosce solo fughe ed esili, vagheggiamenti dell'eterno idillico tedesco, ma anche il progetto di una nuova colonizzazione da parte di uomini che, come ricorda un frammento inedito, "negli anni della marea montante si sono mutati" - "questa è la più grande epoca che l'umanità abbia conosciuto (i tipi diventano più forti, più grandi, più tenebrosi, ridono...)" [BRECHT, Geschichte der Sintflut, BBA 214/17]. Non ci sono solo i Kamenzind o i Demian, non solo i fantasmi dell'inestinguibile biedermeier e i filistei amici del cuore, ma anche i poveri B.B., le maschere di Weimar, i tipi della sopravvivenza.
Già dal Libro di devozioni domestiche, costruito lungo gli anni Venti, sappiamo che il programma dello scrittore di Augusta consiste nel tracciare volto e caratteristiche del nuovo ideale antropologico. Ci pensa intanto nel 1922 il drammaturgo Feuchtwanger ad abbozzare talune linee di tendenza. Secondo lui i nuovi scrittori "hanno riconosciuto che l'uomo di oggi se ne sta senza tradizioni e senza legami interiori, e che il problema è di radicare in qualche modo quest'essere sospeso per aria, tecnicamente supercivilizzato e spiritualmente senza radici..." [FEUCHTWANGER, Bertolt Brecht, in: 100 Texte zu Brecht. Materialen aus der Weimarer Republik, München, 1980, hrsg. von M. Voigst, p. 422 ]. Ma Brecht riconosce anche che il terreno per le nuove colture è infido e che la città non è più luogo di rigenerazione, ma di ultimo, definitivo scontro, senza passato né memoria, nello sradicamento totale.
Contrario ad ogni sostanza utopistica e ad un qualsiasi rinnovamento del tipo borghese, agli stilizza e configura il suo ideale epicureo e plebeo - "l'uomo senza volto e dalla molta pelle" - nel Gummimensch, l'uomo elastico. È il prototipo di quest'epoca e delle sue ballate: un'immagine artificiale un modello didattico, che il mondo respinge, ma non riesce a distruggere. Il suo ritratto è racchiuso per citare un solo esempio, nella Ballata sui molti vascelli:

Egli conosce il suo mondo. L'ha visto.
Ha un desiderio in sé: di annegare.
Ed ha un desiderio: di non affondare [BRECHT, Libro di devozioni domestiche, op. cit., p. 78].

Questo prototipo anticristiano, antiidealistico, antikantiano, "bello come nobili animali", che sembra neitzschianamente annunciare che "il corpo, la totalità biologica dell'individuo, (è) la sede del pensiero reale ossia della corrente di interpretazioni e reazioni che costituiscono la vita" [MAGRIS, L'anello di Clarisse, Torino 1984, p. 124], rappresenta nella propria epoca l'antitesi ad ogni interiorità e debolezza sul fronte dello spirito.
Alla violenza dei tempi viene contrapposta, nella fase precedente la raccolta Dal libro di lettura per chi abita in città, l'agressività e la scattante e nervosa vitalità dell'animale. L'arena metropolitana ricorda il ring dove s'allineano vincitori e vinti, ma dove soprattutto la vita s'identifica nella lotta. Il confronto fra Garga e Shlink non è pensabile se non come impossibilità di un rapporto, in una dinamica coatta ed irrazionale in cui qualsiasi incontro si trasforma repentinamente in duello. La città e i suoi miti generano un modello umano che trae indicazioni dallo sport e in esso sembra acquietare le proprie sociali tensioni. [M. FLEISSER, Bruder des Blitzes. Der moderne Menschentyp», in: M. VOIGTS (Hrsg.), op. cit., p. 78. L'articolo è del 18.3.1928 (Hrsg.)] In questa direzione americanismo e nuova oggettività avranno ancora molto da proporre.
Prima che il soggetto venga illuminato sulla necessità di dileguarsi per non essere annichilito - cioè prima dell'abbecedario per l'individuo metropolitano offerto dal Libro di lettura, vero manuale per il soggetto minacciato - Brecht evoca maschere di vitalismo e di egocentrica attività. E la sua influenza si fa sentire, se anche una donna come la Fleisser, a lui assia vicina in quegli anni (e certo agli antipodi di ogni modello di fagocitante virago), ha espressioni, collegate alla realtà dello sport, che riflettono un latente nietzschianesimo: "Spingersi in prossimità del fulmine - leggiamo in un articolo apparso sul Berliner Börsen-Courier -, produrre in sé alta tensione è quella passione che caratterizza il tipo dell'uomo moderno [...]. La letteratura vive in una misconosciuta epoca di tedio della vita. Pesa su di noi la triste convinzione di essere una generazione scacciata dal caos. Un organismo non deve permettere che le sue energie vengano soffocate anche di fronte ad una realtà soverchiante [...]. Dobbiamo essere noi i primi ad ingrossare questo corpo che siamo".
Sono frasi che ben s'adattano ad un'esegesi del Baal. Ma anche il vitalismo ha il fiato corto: contro la violenza delle catastrofi il paesaggio eroico della metropoli genera un tipo che, anziché esiliarsi o soccombere, mostra l'arguta indifferenza dei grandi di fronte alle smorfie e alle rovine della storia. Benjamin non aveva torto a scorgere nei tipi asociali del giovane Brecht il germe rivoluzionario pronto a frantumare la superficie, il continuum della storia borghese. Nei sommovimenti e nei terremoti il soggetto scorge non solo la propria precarietà, ma - somma consolazione - quella della civiltà che lo minaccia. E qui, come è stato detto [ Cfr. l'interessante articolo di H.-TH. LEHMANN, Das Subjekt der 'Hauspostille'. Eine neue Lektüre des Gedichts 'Vom armen B.B.', in Brecht-Jahrbuch, p. 33], che si salda l'assenza di ogni prospettiva sul futuro con la gioia e il piacere: che anche ciò che pareva duraturo sia attraversato dal vento, è una garanzia che il male può aver fine e che il piacere più grande sia quello di ammirarne il tracollo con il sigaro in bocca ancora acceso fino alla fine dei tempi, e una mascella d'acciaio, come postillava Benjamin, intenta a svuotare la casa del mondo.