GIACOMO MANZONI

IL DUPLICE VOLTO DI FAUSTUS

Il curatore di questa Website ringrazia di cuore il prof. Giacomo Manzoni per il generoso permesso di pubblicazione di questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005.


Consentitemi di iniziare questa breve relazione con una rapida escursione alle origini della figura, per non dire del mito, di Faust. Servirà probabilmente a chiarire alcune cose, anche a chi non è privo di dimestichezza col nostro personaggio. Dico questo perché si ha la netta sensazione che la risalita alle sue origini non vada in genere oltre le prime testimonianze letterarie che ce ne rimangono. Il che del resto è comprensibile, perché la stessa storia letteraria appunto di Faust ci indica che gli autori, da Marlowe a Busoni di cui ci si occupa qui, conoscevano tutt'al più quello che possiamo chiamare il capostipite della letteratura faustiana, il cosiddetto Volksbuch Historia von D. Johann Fausten, anonimo, pubblicato nel 1587 da Johann Spies a Francoforte. Credo che tra gli scrittori, i drammaturghi, i musicisti, i cineasti che hanno trattato questa figura ben pochi si siano preoccupati di scrutarne le origini storiche; nemmeno Goethe, anche perché dei 9 documenti che ci rimangono solo 3 erano stati pubblicati prima della stesura del suo poema, il che non significa d'altronde che egli li conoscesse, dispersi com'erano in opere e manuali sepolti ormai da secoli in biblioteche di improbabile frequentazione.
Ma torniamo al tema, e vediamo che cosa sta concretamente, storicamente all'origine della leggenda di Faust: divenuta tale solo dopo, perché a differenza dei miti veri, di origine sostanzialmente fantasiosa, Faust visse realmente, nacque a Knittlingen nel Baden, vicino a Stuttart, verso il 1480, e morì verso il 1540 a Staugen. Abbiamo suggerito come tema di queste pagine - e il suggerimento è stato accolto - "Il duplice volto di Faust": non l'ultimo dei motivi che hanno determinato questa scelta è stata proprio la costatazione che tale, cioè bifronte, il personaggio appariva già nel corso della sua vita reale. Non, intendiamoci, perché si vedesse in lui quello che secoli dopo ci hanno visto Lessing, Goethe, Lenau e via elencando, ma anche solo per il semplice fatto, molto terra terra, che a taluni contemporanei egli appariva un dotto e capace studioso, ad altri un avventuriero privo di scrupoli. I 9 documenti storici di cui parlavo sono in verità poca cosa, messi insieme non raggiungono probabilmente le tre paginette a stampa. Il dotto abate Johannes Trithemius, con una lettera al matematico e astrologo della corte di Heidelberg Johann Virdung, lo qualifica nel 1507 (Faust non aveva ancora trent'anni) come un cialtrone, un venditore di fumo che si vantava di poter fare gli stessi miracoli di Cristo, di conoscere a memoria tutte le opere di Platone e Aristotele e via di questo passo, accusandolo altresì di pedofilia (si noti che nel 1532 un'ordinanza comunale di Norimberga definisce Faust "il grande sodomita e negromante"). Invece il vescovo di Bamberga Giorgio III lo riceve nel 1520, si fa fare l'oroscopo, lo tratta con tutti i riguardi e gli vena un profumato compenso. Il famoso umanista Mutianus Rufus, condiscepolo di Erasmo e grande animatore culturale, lo liquida come un innocuo millantatore un po' matto, ma Philipp von Hutten, consigliere di Carlo V e cugino del più celebre umanista e riformatore Ulrich, gli rilascia nel 1540, scrivendo nel Venezuela (dove si en recato a capo di una spedizione dei Welser di Augsburg, che dall'imperatore avevano ricevuto l'autorizzazione di sfruttare e colonizzare quella parte del Sudamerica), un bell'attestato di stima, dichiarando al fratello Moritz, vescovo di Eichstätt, che Faust gli aveva pronosticato quasi per filo e per segno le sventure venezuelane della spedizione bavarese. Era l'anno presumibile della morte di Faust, ma già aveva inizio la sua leggenda, e intanto penino Martin Luther lo aveva citato in due riprese negli anni '30, nelle Conversazioni a tavola, come uno dei tanti imbonitori e astrologhi che a quel tempo, a quanto pare, pullulavano per l'Europa ad onta delle persecuzioni della chiesa e dei roghi della Santa Inquisizione.
Con tutta la buona volontà non appare dunque possibile individuare nel Faust storico nessuno degli elementi che nella sua figura sono stati successivamente immessi dalla letteratura. In fin dei conti si trattava, nel migliore dei casi, di un astrologo girovago che cercava di guadagnarsi il pane in modi più o meno leciti, o più probabilmente di un ciarlatano un po' dozzinale, forse dotato di una buona dose di forza di convinzione sui grulli, e totalmente privo delle aspirazioni all'eterna giovinezza nonché degli addentellati demoniaci che ci sono ormai familiari.
Sta di fatto che, non si sa per quale meccanismo di amplificazione popolare, o forse anche in base a fatti realmente avvenuti sui quali non ci è pervenuto alcun riscontro storico, Faust diventò nel giro di pochi decenni quel che sappiamo: il simbolo dell'incontro degli opposti, se così mi posso esprimere, del bene e del male, dello spirito e della materia, dell'abiezione e del riscatto (ma teniamo presente che solo a metà '700, in Lessing, si profila il tema della sua salvazione), della mortalità e dell'immortalità, dell'irrequietezza intellettuale e dell'appagamento supremo.
Ma non intendo ripercorrere le tappe della sua storia-trasformazione in letteratura, in musica o in altre sedi, poiché perlustrerei con ben scarsa competenza un terreno peraltro ben noto, e che qui nemmeno ci interessa in modo specifico. Il richiamo alle origini vere di Faust ci sarà però servito per comprendere a fondo sino a che punto la mente umana vive la necessità di idealizzare, di simbolizzare appunto, di proiettare in dimensioni immaginarie e ideali anche figure che, esaminate da vicino, si rivelano, ancorché bifronti, quanto mai banali per non dire - come potrebbe essere il caso del nostro - addirittura meschine. Ancor oggi Faust è in ogni caso all'ordine del giorno: la seconda metà del secolo non si è voluta staccare da lui, e ricordo solo the appena due mesi fa si è avuto notizia di una nuova opera su di lui, varata con un certo successo all'Opéra di Parigi e firmata dal compositore tedesco-olandese Georg Böhmer. Veniamo dunque all'oggi, all'attualità di un progetto, un ennesimo progetto, che riguarda chi vi parla e sui cui eventuali rapporti con il Faust busoniano potremo poi eventualmente discutere.
È probabilmente opportuno, prima di esaminare le ragioni di questa scelta, rivedere brevemente le tappe di un'esperienza teatrale che si è iniziata un quarto di secolo fa e che approderà col Dr. Faustus al suo quarto tentativo. I suoi inizi furono esteriormente di carattere quasi tradizionale. Si trattò di un'opera in un atto, intitolata La sentenza, che prendeva le mosse da un episodio realmente avvenuto in Cina durante la resistenza partigiana contro gli invasori giapponesi nell'ultima guerra, e che coinvolgeva profonde, quasi insondabili problematiche etico-politiche. Nel suo complesso l'opera appariva estremamente mirata sui protagonisti, sulle loro passioni, sui rapporti interpersonali. Il taglio del testo era di ascendenza brechtiana, l'azione era datata, localizzata, inserita in un contesto sociale (la classe contadina) assai preciso (curiosamente anche una precedente, assai giovanile e sinora medita esperienza teatrale in un atto si muoveva in ambiente contadino: essa risale al 1955). Non che questo tipo di teatro apparisse del tutto soddisfacente, e certo avvertivo la necessità di esperienze nuove, con spazi, concezioni, assunti diversi da quelli. Ma era il momento di una determinante "resa dei conti" con un rinnovato linguaggio musicale, che aveva le sue radici prima nella scuola di Vienna e poi in un certo filone dello strutturalismo darmstadtiano, per cui parve opportuno non affrontare anche la questione spinosa del rinnovamento complessivo degli aspetti teatrali, per concentrarsi sulla grossa problematica circa la possibilità di applicazione di quel linguaggio musicale a un assunto teatrale, persino operistico in senso quasi tradizionale.
L'operazione non fu vana, e aprì decisamente la via a nuovi pensieri, nuove ipotesi, diede più coraggio alla sperimentazione e a un rinnovamento che coinvolgesse tutta la sfera dell'ideazione teatrale, e non solo di quella musicale. Nacque così, a soli cinque anni di distanza dalla prima, la seconda esperienza di teatro: Atomtod, rappresentata nel 1965. L'ambientazione, il carattere, l'atmosfera complessiva di questi "due tempi" non potrebbero essere più diversi rispetto all'atta unico precedente. Innanzi tutto lo spazio teatrale è sfruttato in ogni sua dimensione, possibilità e caratteristica, con proiezioni, molteplici piani simultanei orizzontali e verticali, macchine teatrali varie, impiego strutturale alla musica dell'illuminazione scenica. Da parte sua la musica si avvale per la prima volta anche di nastro magnetico, sia autonomo sia integrato alla partitura strumentale, ma anche dal punto di vista della concezione stessa del discorso abbandona il rigore de La sentenza aprendosi ad aspetti schiettamente materici, a un uso multiforme del medium vocale, a un sincretismo, persino, - funzionale a determinate scene - di diversi "caratteri" musicali, oltre a quelli accennati, quali l'allusione al jazz, all'opera buffa tradizionale e simili. E, soprattutto, i personaggi non sono più tali: sono larve, simboli di categorie, persino di classi sociali, che hanno una vita autonoma solo nella misura in cui questa giovi alla comprensione di un atteggiamento più generale, di classe o di categoria appunto. Un lavoro teatrale che potrei proprio definire "per simboli" e per personaggi emblematici, che vede l'umanità scissa in due atteggiamenti antitetici di fronte alla minaccia dello sterminio atomico: due atteggiamenti che non sembrano essere mutati, se ci guardiamo intorno, fino ad oggi, e se osserviamo la criminale leggerezza con cui una parte dell'umanità - assai piccola, fortunatamente, ma disgraziatamente quella che detiene i poteri decisionali - si pone di fronte a questo tragico problema del nostro tempo.
Altri dieci anni trascorsero dopo quest'esperienza prima che si giungesse alla terza tappa dell'itinerario che stiamo descrivendo: le scene musicali Per Massimiliano Robespierre, del 1975. Di strada ne era stata nuovamente percorsa molta, e anche dal punto di vista della perlustrazione di nuove possibilità strumentali e soprattutto vocali il catalogo delle composizioni era venuto ampliandosi notevolmente. Ma se questo sviluppo determinò certamente il tipo di scrittura di queste scene musicali, al grande tema che le anima si giunse per altre vie: l'esplosione di una coscienza politica che era divenuta di massa, e non solo nel nostro paese, a partire dalla fine degli "anni '60", l'essere posti quasi quotidianamente di fronte a nuove ipotesi, programmi ideali e sociali che trascendevano i tradizionali schieramenti e andavano ricercando un modo nuovo e avanzato per risolvere i problemi che la società industrializzata di massa andava ponendo con urgenza sempre più drammatica. Non si può immaginare forse un ambiente più propizio al riaffacciarsi alla mente dell'autore di un'antichissima passione, non solo di studi, ma di veri e propri coinvolgimenti affettivi, per la rivoluzione francese e soprattutto, al suo interno, per la figura e l'opera di Robespierre. Non ripercorrerò qui questo itinerario del resto affatto personale, e dirò solo che le idee, le azioni, le scelte di Robespierre mi sembravano ancora, e proprio in quel momento di febbrile discussione e dibattito, piene di stimoli validi, ricche di prospettiva, le sue idee in parte ancora attuali (pochi sanno forse che molti dei suoi progetti di riforma sociale non sono stati interamente attuati fino ad oggi, a quasi 200 anni dalla sua scomparsa!), vive, non meritevoli di cadere sotto la troppo generica e superficiale, quanto frequente, condanna senza appello dell'illuminismo politico. Per farla breve, si configurò letteralmente un lavoro teatrale "di idee", per non dire ideologico. Certo, la figura di Robespierre affascinava anche per il suo vissuto, per la sua biografia, il suo difficile, tormentato carattere umano. E tuttavia prevalse in quel momento senza esitazioni la scelta di trascurare questo aspetto per puntare tutto, come si diceva, sulle sue idee, sulle grandi lotte da lui condotte contro i nemici della rivoluzione, sulla sua guerra senza quartiere all'ipocrisia, alla corruzione e alla falsità, infine sulle sue utopie aperte al futuro, da rileggersi ancor oggi con stupore. Per questo, ripeto, un'opera di idee, strutturata senza quasi personaggi reali, sospesa tra grandi scene corali, rapidi flash di rievocazione storica, momenti di riflessione solistica (ma, si badi, non di tipo psicologico‑individualistica).
Si concludeva così una parabola lungo la quale era stato visitato il teatro musicale in alcuni aspetti estremamente caratteristici: la cui reciproca differenziazione, che sembra assai netta al di là del giudizio di merito, si profilò alla coscienza dell'autore solo a posteriori, senza che essa rispondesse a un programma precedente o a un percorso predisposto.
E, oggi, si profila un Dr. Faustus. Non mi si chieda una collocazione ideale o programmatica che, come si è visto in precedenza, potrà probabilmente essere individuata solo a cose fatte. Posso dire intanto che anche qui, come nel caso delle scene musicali Per Massimiliano Robespierre, alle origini c'è innanzi tutto una ormai antica confidenza con il personaggio di Adrian Leverkühn (perché di un'opera tratta dal romanzo di Thomas Mann si tratta); ma c'è anche, suppongo, il desiderio di affrontare, dopo le esperienze fatte, anche il tema dell'individuo, inteso peraltro come portatore di istanze che trascendono la sfera ristretta del singolo. La figura del moderno Faustus, com'è impersonata da Leverkühn, appare in tal senso persino paradigmatica, mentre quanto mai fuori luogo sarebbe la ricerca di addentellati precisi con il Faust della storia e della leggenda. Ma veniamo per il momento, e in attesa che la realtà musicale di questo Faustus acquisti consistenza, ad alcune considerazioni su Mann e il suo romanzo: forse aiuteranno, aiuteranno anche chi vi parla, a vedere più chiaro in questa scelta.
Com'è noto l'interesse per la musica si manifesta in Mann non soltanto nel romanzo faustiano, ma percorre tutta la sua opera, da La morte a Venezia ai grandi saggi su Wagner. Violinista dilettante, assiduo frequentatore di concerti e del teatro d'opera oltre che amico personale di molti musicisti (da Bruno Walter a Stravinskij a Schönberg), egli tenne durante la vita diari minuziosissimi, in cui andava annotando le occupazioni e le attività quotidiane letteralmente ora per ora, e che - sia detto per inciso - costituiscono una testimonianza monumentale di cronaca culturale e letteraria. Ora, è ben vero the Mann distrusse i diari che andavano dal 1922 al '33, ed è anche vero che la loro pubblicazione si è arrestata al 1943, né si sa quando potrà esser ripresa (si tratta comunque di 5 ponderosi volumi per complessivamente 15 anni di vita); ma rimane pur sempre curioso che su Busoni vi si trovi solo un'annotazione del tutto marginale del 1934 (a proposito di alcune sue lettere pubblicate dalla "Neue Rundschau"), laddove non trascorre praticamente pagina senza che Mann citi personaggi di ogni sorta - scrittori, politici, scienziati, artisti, musicisti - che in modo anche estremamente mediato entrassero nella sua ottica anche la più superficiale e passeggera. Nemmeno nella sua opera saggistica, nemmeno nelle lettere che da un quarto di secolo si vengono pubblicando e di cui si conoscono ormai qualche migliaio, vi è mai traccia di qualche interessamento alla figura e all'opera del compositore empolese. E persino nel Romanzo di un romanzo, dov'è descritto con estrema accuratezza il percorso che lo ha portato a sostanziare musicalmente il personaggio di Faustus, di quasi tutti i maggiori compositori del tempo si trova menzione salvo che di Ferruccio Busoni. Insomma, non si va certamente lontano dal vero se si afferma che per la figura musicale e intellettuale del compositore italo-tedesco non esisteva da pane di Mann nessun interesse. Egli era altresì curioso di ciò che sulla musica si pubblicava dal punto di vista teorico-estetico: eppure, proprio tenendo ancora d'occhio il vasto lavoro di preparazione e documentazione che aveva preceduto il romanzo faustiano, sembrerebbe che l'Abbozzo di una nuova estetica della musica di Busoni gli fosse ignoto; il che può essere spiegato con l'estrema distanza che separava il giovane Mann (l'Estetica di Busoni usciva nel 1907) da ogni problematica musicale innovativa (cosa che non si può evidentemente sostenere per la sua evoluzione successiva). Del resto basta confrontare i Faust dei due autori per aver conferma del fatto che gli interessi e le finalità dello scrittore divergevano da quelli del musicista. Mi guarderò bene dal tediarvi con un'analisi dei due testi, che sarebbe qui del tutto fuori luogo. Rileverò solo che per quanto riguarda il Faust di Busoni la derivazione della materia dal Puppenspiel del '600 è espressamente rivendicata dall'autore con un rinvio a quanto di popolarescamente fantasioso, magico, irreale quella narrazione contiene. Cito dalla presentazione dell'opera intitolata "Davanti al sipario":

Mi sono guardato da vicino le semplici immagini;
divenute più belle col crescere dell'età
le ho verniciate e dorate
(il tempo aveva anche lasciato le sue crepe)
ho ravvivato delle linee,, altre ho ammorbidito,
e dalla larva ha preso il volo la farfalla:
nella vecchia trama ho intessuto nuovi fili,
ma sarete sorpresi di ritrovare il motivo antico.
Ben vivo si presenta certo il mio racconto
ma risulterà chiaro a tutti
che la commedia di marionette
rimane alla sua origine.

L'assunto dell'autore non poteva essere spiegato meglio. Sarà poi soprattutto la musica che schiuderà quella dimensione di proiezione verso l'assoluto che esiste nel suo Faust anche se non nell'antico Puppenspiel. Il Dr. Faustus di Thomas Mann è invece l'antitesi di questo, in quanto il romanzo è quasi il luogo deputato per la costruzione intellettuale, analitica e "scientifica" della alterità, della duplicità, della genialità demoniaca del personaggio. L'operazione che in esso si compie è per così dire razionalizzata in ogni suo particolare, e la sua necessità è spiegata dialetticamente da Satana ad Adrian Leverkühn, nel famoso cap. XXV, col fitto che solo l'aiuto del demonio rende possibile oggi in arte di tenere il passo coi tempi, di tener testa alle difficoltà colossali che sono poste dal livello complessivo della cultura del tempo e delle sue profonde implicazioni. Per non parlare del contagio venereo di cui Faustus-Adrian è vittima e che provoca modifiche alla struttura cellulare del cervello, intervenendo così come qualcosa di addirittura biologico, tutt'altro che inimmaginabile nella realtà, nella genesi stessa dei processi mentali del protagonista. Mentre il personaggio di Busoni guarda alla libertà, al genio, alla sapienza assoluta (non per esempio, come quello di Goethe, all'immortalità), Leverkühn riceve solo un po' di tempo per realizzare appieno la sua genialità musicale, e il prezzo è non soltanto di cedere l'anima al demonio, ma anche di non poter amare nessun essere umano per il resto della vita. Una doppia condanna, che a differenza del Faust tradizionale quello di Mann accetta d'altronde obtorto collo: il danno, grazie al contagio voluto dalle forze del male, ma non ricercato - si badi bene - da Adrian, è già fatto, e nella gelida sala di Palestrina al giovane compositore non resta che prendere atto delle condizioni di un rapporto cui è d'uopo piegarsi (anche in questo si appalesa la distanza dallo stesso Faust di Goethe). Ma quello che più avvince nel Faustus manniano, di là da queste distinzioni rispetto a quello busoniano su cui pure si potrebbe continuare a lungo, è il suo proiettarsi verso la dimensione intellettuale, culturale, sperimentale della sua arte e del suo tempo.
E questo dà l'aggancio per alcune considerazioni finali. Pochi anni fa, prefazionando una nuova edizione italiana del romanzo, osservavo che Thomas Mann, profondamente radicato nella cultura tradizionale, aveva tuttavia scelto a eroe della sua ultima grande fatica la figura di un compositore d'avanguardia. Egli, che ancora pochi mesi prima di morire aveva dichiarato a chi vi parla la sua ammirazione immensa per la musica romantica e la sua scarsa capacità a cogliere i contenuti, il senso profondo della ricerca musicale più recente, faceva i conti qui con questa parte di se stesso, e finiva con l'ammettere la possibilità, anzi la necessità, di un rinnovamento radicale, di una rivoluzione penino del linguaggio della musica. Certo si trattava di una posizione non istintiva, ma intellettuale, sentita quasi solo come imperativo culturale e morale a cospetto della generale trasformazione dei valori artistici nel nostro secolo. L'inserimento del demoniaco, del patto con Satana, salva Mann dal dilemma tra il rimanere se stesso e il riconoscere quella necessità rivoluzionaria contraddicendo così una scelta e una sensibilità radicate nella sua stessa natura. Mann è come se facesse, così, scrivevo, "un estremo tentativo di difesa, compiuto da un uomo sin troppo conscio del fatto che, come si legge nel romanzo, 'l'arte ha un bisogno vitale di progresso rivoluzionario e di novità' (sono parole pronunciate da Wendell Kretzschmar, organista al villaggio natale di Leverkühn e primo maestro di musica di questi); è come se portasse a segno, scrivevo ancora, "la vendetta che egli, autore de I Buddenbrook, interprete sommo della decadenza borghese e della fine di un intero periodo storico, artistico, culturale, si prende nei confronti di ciò che deve ormai, suo malgrado, essere".
Di qui quella che chiamavo la nuova, la sottile ambiguità del moderno Faustus. Nella musica che egli scrive, e in cui imperversano complessi temi cromatici, i glissandi furiosi dei tromboni, i più sorprendenti effetti timbrici, i cachinni e le urla dei cori divenuti per così dire materiale di costruzione, le più complesse costruzioni matematico-musicali, Mann - dopo ciò che si è detto - non poteva che adombrare una presenza demónica, avversa a ogni pacato rispetto della tradizione. Ma l"indemoniato" Leverkuhn, visto dall'esterno, collegato con quello che è stato ed è lo sviluppo reale della musica, è un autentico portatore di nuovo, di sperimentazione entusiastica, di risultati sconosciuti in musica prima di lui: è cioè protagonista autentico, nel bene e nel male, dei problemi della cultura nel nostro tempo. Egli si addossa compiti immensi, che vanno oltre i desiderata contingenti del suo io, e diviene un autentico eroe del nostro tempo. In questo ancora egli si distacca recisamente dall'idea del Faust busoniano, e compito non invidiabile di chi affronterà in musica questa spinosa tematica sarà anche di evidenziare questo duplice ruolo. Certo, dal Faust imbonitore e un po' truffaldino che abbiamo incontrato all'inizio, fino alla nuovissima concezione di Mann non solo sono passati tanti secoli, ma pare addirittura di essere di fronte a personaggi diversi. Quel qualcosa che noi troviamo nei documenti della sua vita e che pure esisteva, forse, in lui, o che soltanto ha coagulato sulla sua figura gli spiriti nuovi, scientifici del tempo in cui visse, dove l'uomo sempre più prepotentemente si veniva ponendo al centro dell'universo conosciuto, quell'imponderabile o invisibile qualcosa ha tuttavia germinato incessantemente nei tempi, e ancor oggi ci pone davanti a una realtà intellettuale ed esistenziale viva e necessaria pci l'essenza stessa dell'uomo: il conflitto tra passato e presente, la lotta per superare il risaputo, l'accademico, l'ovvio, il bisogno di rinnovarsi incessantemente per conquistare nuove realtà dell'invenzione, della creatività umana. E allora possiamo star certi che Faust continuerà ad accompagnare nel suo cammino, con la sua irresistibile forza di simbolo, l'uomo, finché egli avrà una mente per pensare e la curiosità di sondare orizzonti sempre più lontani e sconosciuti.