FERRUCCIO MASINI

METAPOLITICA DELLA GUERRA
IN ERNST JÜNGER


Ferruccio Masini e Sergio Sablich in memoriam.


"Estasi patriottica" sono le parole con cui Ferruccio Busoni polemizzava apertamente, nell'agosto del 1916, con il "Corriere", che dando l'annuncio della scomparsa di Boccioni richiamato sotto le armi così pomposamente recitava: "La sua [di U.B.] vita, tra queste due milizie, quella della patria e quella dell'arte aveva raggiunto la sua perfetta unità. La morte l'ha colto a trentaquattro anni in questo bellissimo fervore del suo spirito." "Estasi patriottica" ovvero estasi della guerra: è fin troppo evidente come l'espressione sarcastica impiegata da Busoni rimandi ad un preciso orizzonte teorico e a quei dispositivi di pensiero e di trasfigurazione mitica che sono alla base della Kriegsideologie in Germania prima e dopo la guerra del '14. Proprio la parola "estasi" contiene in sé gli elementi di astrazione e di ipostatizzazione metapolitica che sono propri di un atteggiamento largamente presente nelle generazioni inghiottite o sopravvissute allo spaventoso conflitto. È mio proposito mostrare, in questa relazione, la dinamica intellettuale di siffatto processo.

L'ideologia e la legittimazione della guerra da parte della Kulturopposition di segno conservatore nel periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale s'inscrivono in una progressiva radicalizzazione dei teoremi culturali che avevano caratterizzato la critica alla realtà sociale nell'età guglielmina (antimodernismo, anticapitalismo romantico, idealismo dell'interiorità etc.). Questi temi hanno già una chiara destinazione antiborghese e già si muovono nel solco di una critica della Nützlichkeitskultur di una 'civiltà dell'utile', ma via via che ci si avvicina al fatale agosto 1914 diventa sempre più evidente la parabola "decisionistica" alla quale si richiamano e nella quale raggiungono il loro massimo grado di cupa incandescenza. In questo senso la posizione di Ernst Jünger acquista sul corso degli anni Venti un valore nettamente paradigmatico. "La decisione - così scriveva nella prima stesura di Das abenteuerliche Herz - è la virtù per eccellenza posta dal nostro tempo al di sopra di ogni altra. Conta poter volere e credere in modo del tutto indipendente dai contenuti che questo volere e credere si dà" [E. JÜNGER, Das abenteurliche Herz, in Werke (Erste Fassung) (d'ora innanzi W.), 10 voll., Stuttgart 1960-1965, p. 128]. Assenza di contenuti è dunque l'argomento forte di una critica radicale alla 'civiltà dell'utile' e della Zweckmässigkeit: ma il problema nuovo è ora quello di integrare nello stile antropologico di un Kulturrnensch foggiato dal decisionismo il Techniker, così da superare la dicotomia a cui restava inchiodata, con la vecchia Kultur germanica, l'inimicizia borghese verso la tecnica.
Si trattava pertanto di assicurare alla Kultur una base concreta di dominio mettendo al servizio di queste le tecnologie connesse a quel processo di "meccanizzazione del mondo" di cui parlava Rathenau: d'altro canto, proprio il processo tecnologico come tale si presentava necessariamente asincrono rispetto alle soprastrutture ideologiche di una borghesia capitalista incapace di assicurare la stabilità di un ordinamento sociale minacciato dalle contraddizioni immanenti alla stessa razionalizzazione. In Jünger si compie il rovesciamento della meccanizzazione dell'organico nella demonizzazione della tecnica, ma questo rovesciamento non potrà perfezionarsi e assicurare un saldo punto d'appoggio alla ristrutturazione del quadro ideologico nell'età dell'imperialismo se non verrà fondato sulle rovine delle formazioni economico-sociali anteiori all'assetto monopolistico-imperialistico del capitalismo e conseguentemente di una concezione della guerra ancora legata al codice eroico-cavalleresco. Nella sua recensione all'antologia Krieg und Krieger apparsa nel 1930 a cura di E. Jünger, Walter Benjamin sottolineava l'irreversibilità di questo trapasso per quanto riguarda appunto la natura della guerra moderna. "Questi autori non si sono detti in alcun luogo - così scriveva - che la battaglia di materiali, in cui alcuni di loro scorgono la suprema rivelazione dell'esistenza, mette fuori corso gli striminziti emblemi dell'eroismo che qua e là sopravvissero alla guerra mondiale. La battaglia con i gas, per la quale i collaboratori di questo libro hanno evidentemente scarso interesse, promette di dare alla guerra ventura un volto che congeda definitivamente le categorie soldatesche a favore di quelle sportive, sottrae alle azioni ogni caratteristica militare e le pone tutte nell'ottica del record" [W. BENJAMIN, Teorie del fascismo tedesco, in Critiche e recensioni, trad. it. di A. Marietti Solmi, Torino 1979, p. 151].
Ma Junger è ben consapevole di tutto questo: solo che per lui proprio da questo stesso tramonto delle virtù eroiche doveva nascere una nuova prospettiva per la quale fosse possibile ancorare al nomos della terra le figure crudeli e barbariche emerse in questo devastato paesaggio della 'battaglia di materiali'. "Non possiamo alla lunga appagarci -scriveva nel 1927 - del fatto che siamo noi stessi a porci in un'epoca di impoverimento dell'anima, sebbene lo si sia dovuto fare per prendere coscienza dei grandi pericoli che ci minacciano. La guerra, tuttavia, ha disposto nuovi collegamenti e ci ha dimostrato che l'intero apparato della civilizzazione può essere subordinato a processi di elevato rango spirituale" [JÜNGER, Totem, in «Arminius, 8 (1927), 27, p. 9]. Alla radice di questi processi sta la sublimazione 'concreta' della tecnica all'interno dell'esperienza della guerra. Solo in questa guisa sarà possibile realizzare una sincronia di spirito e techne. La costellazione del Kriegserlebnis e la sua trasvalutazione metafisico-simbolica porterà appunto per questo il segno dell'irrazionale. Questo irrazionale non va inteso in alcun modo come quell'altro dalla ragione classica o pragmatico-strumentale suscettibile di essere dialettizzato nell'orizzonte di una più vasta ragionalità e neppure come quella ulteriorità, non categorizzabile in termini razionali, che pur tuttavia costituisce ancora un'articolazione della stessa ragione, una non-ragione ricompresa nell'astuzia della ragione stessa. Nel caso di Jünger siamo invece di fronte ad una variante "terroristica" di un'apologia reazionara dell'esistente. Questo irrazionalismo coincide con l'accezione nichilistica della ratio poiché laddove la ratio tecnologica appare nella sua cifra trasfigurata - come nella guerra - essa svolge il suo contenuto distruttivo fino alle estreme conseguenze. Nell'alternativa tra "conquista dell'irrazionale" e "perdita del razionale" la posizione nichilista-decisionista di Jünger s'inscrive nettamente in questo secondo corno del dilemma. Scriveva Hermann Broch nella sua Massenpsychologie: "I valori irrazionali possono essere introdotti quali meri valori narrativi rispetto a un sistema razionale in atto, senza che questo ne sia alterato, oppure possono mandare all'aria l'integrità del sistema, in altre parole obbligare, per amor loro, alla rinuncia un parte del sistema razionale medesimo: nel primo caso si può parlare di una 'conquista dell'irrazionale', nel secondo di una 'perdita del razionale' [...]. Dipende dal livello di razionalità nel quale un individuo viene a trovarsi il fatto che costui 'ascenda' ovvero 'discenda' un'esperienza di ordine irrazionale; per il primitivo, il mito del sangue può significare una conquista dell'irrazionale, per un popolo civile, il quale abbia già fatto propri i doveri dell'umanitarismo, un mito del genere equivale a una perdita del razionale" [BROCH, Massenpsychologie, in Schriften aus dem Nachlass, Zürich, I, 1959, p. 81].
In Jünger questa "perdita del razionale" costituisce la motivazione nichilista della persistente ambiguità di quell'oscillazione tra radicalismo-decisionismo e decadenza che costituisce, per altro verso, la forte carica suggestiva della sua scrittura. Il decisionismo jüngeriano - com'è noto - si riconduce al superamento della nozione di 'scopo': la lotta è vissuta come fine a se stessa, come Selbstzweck: la decisione per la lotta non scaturisce da alcuna istanza di valore e non presuppone quindi una autodeterminazione propriamente umana: "Contraddice allo spirito eroico - scrive Jünger - cercare l'immagine della guerra in uno strato che possa essere determinato dall'agire umano" [JÜNGER, Die Totale Mobilmachung, in W., p. 125]. Se un'istanza superiore esiste, questa non potrà essere se non quella stessa, distruttiva, della vita che dissolve ogni norma: è la rivendicazione della vita ad agire attraverso lo spirito contro lo spirito stesso: "La migliore risposta all'alto tradimento dello spirito contro la vita - nota Junger - è l'alto tradimento dello spirito contro lo spirito" [JÜNGER, Der Arbeiter, in W., 6, p. 48]. Ma questo "alto tradimento" si consuma appunto nella glorificazione di quella "perdita del razionale" che ha in Junger una spiccata connotazione decadente: emerge a questo punto quella Kultur des Rausches che vede nella conoscenza, nella lotta, nel sogno, nelle droghe, le forme di un trascendimento dell'umano e quindi i tramiti d'accesso a quella 'avventurosa' e sconfinata esperienza dell'elementare in cui la perdita del razionale, di cui prima si parlava, vale come cancellazione della sicurezza e come trasgressione mitica. "Le sorgenti dell'elementare - noterà Jünger nell'Arbeiter - sono di duplice natura. Ora esse si trovano in quel mondo che è sempre rischioso, così come il mare anche durante la più profonda quiete del vento, nasconde in sé il pericolo, ora sono risposte nel cuore umano che agogna giochi e avventure, odio e amore, trionfi e inabissamenti, che sente di avere altrettanto bisogno del pericolo quanto della sicurezza e al quale una condizione di fondamentale sicurezza appare a giusta ragione come uno stato più imperfetto" [Ibi, p. 58].
È dunque evidente che appartiene all'«elementare» un attributo di potenza intesa come catastrofe o come possibilità di svolgere catastroficamente un corso di eventi: kata-strophein. La decisione "per" la lotta discende quindi da questa immersione in un nuovo universo segnato dalla cecità-chiarovveggenza di un destino che è nomos, nomos della catastrofe. La catastrofe può essere considerata appunto l'aprirsi di un pensiero attraversato da una radicale metamorfosi, vale a dire da un pensiero che pensa l'elementare in quanto è esso stesso una modalità dell'elementare. La "mobilitazione totale del mondo" - come la chiama Jünger - trova qui il suo punto di partenza. Anche Jünger potrebbe dire, con Carl Schmitt, che la decisione, considerata da un punto di vista normativo, è nata dal nulla [C. SCHMITT, Politische Theologie, München und Leipzig 1934, p. 42], ma questo 'nulla' è precisamente, per Jünger, l'elementare e la sua potenza. L'oscillazione tra decisionismo e decadenza si rivela, a questo punto, come un intreccio inestricabie, come interdipendenza strutturale. In questo senso l'elementare può essere visto come la trascendenza di una catastrofe permanente, di una permanente possibilità di "catastrofe", nella quale la condizione di pericolo si presenta come un dato ineliminabile. L'idoleggiamento decadente della morte che è una componente fondamentale dell'estetizzazione della guerra trova così la sua connessione con l'apriori della catastrofe, in cui è deciso una volta per sempre il senso della 'lotta' concepita come una modalità fondamentale di quel non-senso che è la vita. La vita è, nella sua stessa essenza, cata-strofica, ma concepire in tal guisa il suo non­senso è ancora una volta il risultato di un'astrazione che pone l'essenza della vita al di fuori della vita stessa. Come non ricordare la limpida definizione di Feuerbach? "Astrarre significa porre l'essenza della natura al di fuori della natura, l'essenza dell'uomo al di fuori dell'uomo, l'essenza del pensare al di fuori dell'atto di pensiero" [L. FEUERBACH, Vorläufige Thesen zur Reform der Philosophie, in Kleine philosophische Schriften (1842-1845), a cura di M.G. Lange, Leipzig, 1950, p. 59].
Proprio l'astrazione jüngeriana dell'elementare e quindi della lotta diventa, a questo punto, l'equivalente di quella "perdita del razionale" cui si riferiva Hermann Broch.
Ma nota acutamente Kracauer: "il pensiero moderno si trova dinanzi al problema se debba aprirsi alla ragione, oppure, chiuso ad essa, proseguire nella sua azione contro di quella. Non può valicare le leggi da esso stesso poste, senza che il sistema economico venga a trasformarsi nella sua sostanza, quel sistema che è la sua infrastruttura: la sua sopravvivenza porta con sé quella del pensiero stesso. Lo sviluppo ininterrotto del sistema capitalista condiziona dunque la crescita ininterrotta del pensiero astratto (oppure costringe il pensiero a sprofondare nella falsa concretezza). Quanto più si consolida l'astrattezza, tanto più l'uomo resta estraneo al dominio della ragione" [S. KRACAUER, Das Ornament der Masse. Essays, Frankfurt a.M., 1963, pp. 58-59].
Il problema della mobilitazione totale, che comprende la messa in opera di una potenza in cui si manifesta l'elementare, implica il superamento della scissione tra 'anima' e tecnica. "L'anima - diceva Karl Kraus - è espropriata dalla tecnica. Ciò ci ha resto deboli e bellicosi. In che modo facciamo guerra? Col rivolgere alla tecnica gli antichi sentimenti" [K. KRAUS, «Die Fackel», 445-453 (1917), p. 4]. E ancora: "La irrapresentabilità delle cose quotidianamente esperite, l'inconciliabilità della potenza e degli strumenti per metterla in atto, è questa la situazione, e l'avventura tecnoromantica, alla quale ci siamo abbandonati, porrà fine, comunque vadano le cose, a questa situazione" [KRAUS, Das technoromantische Abenteuer, ivi, 474-483 (1918), p. 45]. Così dicendo Kraus aveva messo in evidenza, con la consueta fulminante penetrazione, il rapporto tra l'evento delle guerre e quello della tecnica, nel senso che proprio l'espropriazione dell'anima operata dal progresso tecnico era destinata a trovare nella guerra un suo apparente rovesciamento. Paradossalmente la guerra 'convertirà' l'anima nella tecnica o meglio rivelerà l'anima della tecnica, producendo quella identificazione demoniaca che consentirà al nomos dell'elementare di trovare gli strumenti adeguati alla sua micidiale affermazione. La mobilitazione totale sarà uno di questi strumenti. Kraus traccia il perimetro di quell'avventura tecnoromantica in cui va individuata la costellazione della stessa mobilitazione totale che è coerentemente concepita da Jünger come il catalizzatore di quella fusione di esperienza della guerra e affermazione assoluta della tecnica nella quale sarà possibile leggere l'equaclone magica di una metafisica irrazionalista.
Il quadro in cui Jünger teorizza la sua tesi della "mobilitazione totale" è direttamente discendente dalla Lebensphilosophie, come risulta evidente da quanto già siamo venuti dicendo. Per la 'filosofia della vita' l'essenza della vita risulta inscindibile dalla massimizzazione di un potenziale d'energie irriducibili e infrenabili: la barbarie presenta nell'immagine della "déesse Vie" cara a tanti scrittori dell'area simbolistico-decadente, da Wedekind a D'Annunzio, dal primo Th. Mann a Hofmannsthal a Hesse sta nella superiore trascendenza di un processo nietzscheanamente creativo-distruttivo, per il quale non esiste altra giustizia se non quella insita nel suo ritmo ascendente dove si trasfigura ogni forma effimera nel suo stesso annientamento.
Nel concetto jüngeriano di "mobilitazione totale" si raggiunge il punto di arrivo di quella "estetizzazione della politica" di cui parlava Benjamin. Mobilitazione totale presuppone infatti, per Jünger che sia riconosciuto e fissato il "rango estetico" del processo, vale a dire la sua "necessità". Ma proprio questa cristallizzazione implica la spoliticizzazione del processo medesimo e quindi l'ipostasi della potenzialità cosmica (l'elementare) che in esso si esprime. Anche se la mobilitazione eccede l'occasione che ha determinato il suo punto di massima tensione, la guerra, è pur sempre in quest'ultima che prende forma la totalità imperiosa e cogente di una tecnica del dominio divenuta essa stessa dominio. Sullo scenario della mobilitazione progresso e civiltà di massa s'incontrano per fondarsi in un "gigantesco processo di lavori", all'interno del quale gli stessi caratteri del progresso diventeranno enigmatici come "i segreti di una dinastia egizia".
"In questo assoluto reclutamento delle energie potenziali - scrive Jünger in Die Totale Mobilmachung - che trasformarono gli stati industriali in fucine di Vulcano si esprime forse l'inizio dell'era del lavoro nel modo più evidente: essa rende la guerra mondiale un fatto storico di portata superiore alla stessa rivoluzione francese. Per esprimere energie di tale portata non è più sufficiente preparare il braccio armato: si richiede un armamento esteso fino al più intimo midollo, fino al più sottile ganglio vitale.
Realizzare energie di questa natura è il compito della mobilitazione totale, di un'operazione mediante la quale la rete elettrica della vita moderna, variamente ramificata e venata, viene fatta affluire con un unico tocco al quadro dei comandi nel grande flusso delle energie belliche" [Die Totale Mobilmachung, cit., p. 130].
La "mobilitazione totale" equivale alla scomposizione alchemica dell'arcanum di cui è costituito il flusso di una vita annientante le stesse forme in cui s'incarna: le componenti sono da ritrovare nel progresso tecnologico, da un lato, e nel dominio dell'elementare, dall'altro. Ma non sarebbe possibile questa scomposizione e al tempo stesso l'attivazione sinergica di una totalità in cui queste componenti si potenziano reciprocamente se non fosse stato raggiunto il punto critico in cui è data la loro 'rivelazione', se cioè la mobilitazione totale non avvenisse come mobilitacione bellica.
L'assunzione della guerra dell'apparato categoriale della Lebensphilosophie, per cui essa diventa un"esperienza interiore" presuppone, almeno come tendenza di fondo, la sua estrapolazione dal contesto storico-politico-sociale, vale a dire la messa in opera di quel procedimento di astrazione che, come avveniva nella rivoluzione conservatrice, persegue finalità metapolitiche. Non a caso Benjamin insisteva sulla necessità che lo scrittore rivoluzionario non dovesse mirare alla riforma dell'apparato produttivo, bensì ad adattarlo agli scopi della rivoluzione, promuovendo la socializzazione dei mezzi spirituali di produzione. "Poiché la lotta rivoluzionaria non si svolge tra il capitalismo e lo spirito, ma tra il capitalismo e il proletariato" [W. BENJAMIN, L'autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Torino 1973, p. 217]. La componente metapolitica della mobilitazione totale s'accompagna al fatto che quest'ultima non si introduce ad una fattualità puramente tecnica: la tecnica viene assorbita nei contenuti e nelle figure simboliche the promanano da essa una volta che ne sono resi impalpabili i confini. Sul paesaggio della tecnica si dispiegano quelle figure mitiche che sono - come dirà Jünger in Heliopolis - "simboli, chiavi per il mondo cosmico ed elementare" [E. JÜNGER, Heliopolis, Tübingen, 1949, p. 29].
L'approdo metapolitico è in realtà un approdo mitico o più precisamente a quella Vorzeit che in tanto precede il tempo storico in quanto lo compenetra di sé in ogni momento [E. JÜNGER, Sprache und Körperbau, Zurich, 1947, p.62]. Nella prima guerra mondiale, in cui si scontrano, per Jünger, i residui dispoticofeudali della vecchia Europa con l'idelogia democratico-progressista del mondo liberal-borghese (la Zivilisation occidentale) si annunciano gli albori di un'età nuova in cui la saldatura tra il freddo dominio della tecnica e l'elementare mitico si realizza definitivamente. La nuova e inaudita potenza espressa dal coincidere di due figure, quella del soldato con quella dell'Arbeiter, non raggiunge ancora la sua affermazione poiché il senso della guerra risulta condizionato - secondo Jünger - dall'ottica distorta del progresso se si pensa che per uomini come Barbusse decisamente pacifisti, la guerra del '14, "questa guerra" doveva essere considerata come "una lotta del progresso, della civitlà, dell'umanità, addirittura della pace stessa contro un elemento che contrasta tutto ciò" [Die totale Mobilmachung, cit., p. 140].
I fili cui sono appesi i burattini del progresso sono per Jünger ancora invisibili [Ibi, p. 126]; ma la vittoria del progresso sarà ormai l'ultima. A Jünger preme soprattutto elaborare le linee di sviluppo di un processo nel quale il volto del soldato e quello del "milite del lavoro" assumono gli stessi tratti ermetici, crudeli e metallicamente impenetrabili, quasi a suscitare la suggestione di una imperturbabile impassibilità arcaica. Poco importa che a questa figura sia sottesa l'evoluzione di una ideologia politica, dal nazionalismo borghese presente nella prima stesura di Im Stahlgewitter e nel Wäldchen 125, al nazionalismo rivoluzionario. La sostanza della prospettiva jüngeriana è già fondamentalmente metapolitica: non a caso si dissolve nell'aura mitica la stessa distinzione tra Destra e Sinistra [C.v. KROCKOW, Die Entscheidung. Eine Untersuchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Stuttgart, 1958, p. 49], come sta avvenendo anche oggi, in alcuni strati intellettuali, al limite di un processo di decomposizione delle istanze critico-rivoluzionarie del movimento operaio e, sul versante opposto, come conseguenza della liquidazione del velleitarismo nostalgico neofascista ad opera della cosiddetta Nuova Destra.
Il nesso tra tecnica e fondo elementare rivelato dalla guerra consente di intendere la mobilitazione totale come una "mobilitazione del mondo". La guerra consente di mettere a nudo il carattere di potenza insito nella tecnica, escludendo ogni elemento economico e di progresso" [Der Arbeiter, cit., p. 174]. Di conseguenza essa "non è in alcun modo uno strumento del progresso, sibbene uno strumento per la mobilitazione del mondo attraverso la figura dell'Arbeiter e fintantoché questo processo si svolge, si può pronosticare con precisione che non è possibile rinunciare a nessuna delle sue devastanti peculiarità" [Ibi, p. 202].
È dunque sul piano dell'ineluttabilità di un processo di cui l'evoluzione tecnologica è la spia, che Jünger trasforma il carattere funzionale della tecnica, di per sé destinata a infrangere i rapporti di produzione (W. Benjamin), in una costellazione mitica, per cui essa diventa una forza annientante per effetto della sua sola esistenza: "sie verneint durch ihre blosse Existenz"
[Ibi, p. 170]. Nella sinistra fascinatio di questo potere della tecnica sta l'antidoto ad ogni suggestione umanistico-cristiana: "Esiste una grande differenza - nota ancora Junger - tra gli antichi iconoclasti e incendiari di chiese e l'alta misura di astrazione a partire dalla quale un artigliere della guerra mondiale può visualizzare una cattedrale gotica come semplice punto direzionale nella zona del combattimento" [Ibidem]. Quella matematica "misteriosa e inflessibile" che orienta il compasso di una mobilitazione di cui la guerra come evento storico-politico determinato viene nichilisticamente trascesa, immette nel gioco delle forze tellurico-planetarie uno stato di insicurezza permanente o più precisamente una sorta di "sicurezza suprema". Si ha qui la rottura di ogni ordine protettivo, l'individuo umano è ridotto a quantité negligeable dal momento che conta soltanto l'identificazione in quell'elementare all'interno del quale è lo stesso pericolo a generare una sicurezza indistruttibile. Per altro verso questa mobilitazione del mondo comporta il raggiungimento di una sincronia tra il ritmo dionisiaco di un universo caotico ed eslege e quello del cuore umano, del cuore 'avventuroso'.
La scissione di 'anima' e 'tecnica' viene così superata dal ritmo sincronico generato dalla percezione tecnico-mitica dell'elementare: questa sincronia diventa, per Jünger, un teorema ideologico celato sotto l'estetizzazione e la mitologizzazione simbolica. L'«incongruenza di spiritualità e prassi», di cui parlava Döblin [A. DÖBLIN, Der Geist des naturalistischen Zeitalters, in Aufsätze zur Literatur Freiburg Br., 1963, p. 80], non viene genericamente eliminata dalla spiritualizzazione dell'elemento tecnico. Alla visualizzazione magico-intellettuale jüngeriana il "fenomeno colmo di senso" ("sinnvolle Erschinung") si presenta scomposto nella sua doppia componente formale-genetica, statico-dinamica, diurna-notturna, come un cerchio la cui periferia è chiaramente percepibile alla luce del giorno, mentre scompare di notte, allorché s'accende nell'oscurità il "fosforico punto mediano". "Nella luce appare la forma, nell'oscurità la forza generatrice" [Das abenteurliche Herz (Erste Fassung), cit., p. 65]. La sincronia tra periferia e centro è dunque una sincronia magica. La guerra funge, per così dire, da catalizzatore notturno che porta alla individuazione di quel centro fosforescente nel quale è lo spirito stesso a rivelarsi come l'anima segreta del potentiel de guerre messo in azione dalla tecnica. È in virtù di questa "comprensione magico-intellettuale" che la tecnica, costruita come un meccanismo dominato da sue proprie leggi, assolutamente autonomo e definalizzato, eccede se stessa, rimandando ad un "ordine superiore" nel quale realtà e magia diventano termini novalisianamente interscambiabili: "Il reale è altrettanto magico quanto il magico è reale" [E. JÜNGER, Blätter und Steine, Leipzig, 1942, p. 121]. La comprensione magica agisce qui come comprensione precategoriale, come divinazione estatica di quella verità del "sangue" che "s'impadronisce della vita, delle sue estrinsecazioni e delle sue forme sino alla forma onnicomprensiva dello stato. Esso deve prendere possesso anche della macchina poiché solo in questo modo questo lavoro uniforme, finalizzato e incessante acquista il suo compito superiore, la sua variopinta pienezza e il suo senso più profondo" [JÜNGER, Zum Geleit, in «Der Vormarsch», 1927-1928, pp. 82-83]. Ma a ben vedere non si tratta di una mera decantazione spirituale dell'opacità terrestre di cui è satura l'estraneità della macchina, poiché nella categoria del 'sangue' si tradisce la caratteristica ambivalenza decadente jüngeriana di elemento fermo e sovraumanità. Questa "forza oscura" del sangue nasconde in sé "una profonda ragione" che se per un verso affonda nei meandri archetipici della regressione arcaica, per l'altro si mescola all'estasi del sacrificio: in questo senso il sangue è arcanamente combinato col 'fuoco' come simbolo di un'essenza puramente spirituale, in virtù della quale l'uomo trascende se stesso. Non a caso gli elementi della guerra sono, per Jünger, "sangue" e "fuoco": il Kriegserlebnis è l'esperienza di questa insondabile identità. Pe questo una stessa generazione, quella dei combattenti della prima guerra mondiale, si è trovata di fronte al mistero di due esiti apparentemente contraddittori: l'annientamento sui campi di battaglia, da un lato, e il raggiungimento, dall'altro, di "una salute mai provata, grazie alla vicinanza della morte, del fuoco e del sangue" [Der Arbeiter, cit., p. 62]. Il gioco della guerra spalanca sotto di noi una voragine in cui si dissolvono l'idillio e i "paesaggi di stile antico", la "Gemütlichkeit" e la "storica Biedermeierei" - dirà Jünger - ma proprio questo gelido furore, destinato a non saziarsi mai, rappresenta, ai suoi occhi, quel "sentimento estremamente moderno" che "nel gioco con la materia presagisce l'attrattiva di perigliosi giochi" [ Das abenteuerliche Herz (Erste Fassung), cit., p. 154]. Sta in questo passaggio una trasvalutazione, delle virtù militari-cavalleresche, parallela a quella del soldato nell'Arbeiter. Se nella "mobilitazione totale" è impossibile, per il sentimento, non "avvertire, con un senso d'orgoglio mescolato a gioia, che non esiste qui un solo atomo che non sia al lavoro e che noi stessi ci siamo votati nel nostro intimimo più profondo a questo processo furibondo" [Ibi, pp. 152-153], è nel gioco della "mobilitazione del mondo" che s'inscrive un nuovo codice di valori. L'eroico altro non è, a questo punto, se non la cosciente, fredda dissoluzione del razionale e della pacifica Ziviliation nel grande crogiuolo del sangue e del lavoro: la "crudeltà della civilizzazione" ha raggiunto qui la sua "nota glaciale" [JÜNGER, Das sibirische Tagebuch, in "Ja und Nein. Blätter für deutsches Schrifttum", I (1929), 7-8, p. 27].
Potremmo dire che nella "mobilitazione totale" s'inabissano in verità anche i caratteri peculiari dell'esistenza eroica: è la tipologia di massa di questa mobilitazione ad imporlo, ma anche quella che Jünger chiama "la costrizione del mondo", per la quale il ritmo totalizzante della mobilitazione esprime una sorta di diktat tellurico primordiale in cui nascita e morte diventano fenomeni interscambiabili legati alla stessa ferrea necessità, per cui ogni destino individuale naufraga nell'indifferenza di un processo anonimo. Nella jüngeriana "democrazia della morte" già si annunciano i grandi massacri e le carneficine collettive che dalla prima guerra mondiale contrassegnano le operazioni pianificate di sterminio del ventesimo secolo.
"Come assieme ad ogni vita - scriveva Jünger nella Mobilitazione totale - nasce già il germoglio della morte, così anche la comparsa delle grandi masse include in sé una democrazia della morte. E già alle nostre spalle l'epoca del colpo sparato dopo aver preso la mira. Il caposquadriglia che in volo notturno impartisce l'ordine d'inizio del combattimento non conosce più nessuna differenza tra i combattenti e i non combattenti e la nuvola mortale di gas si espande come un elemento su tutti gli esseri viventi. La possibilità potenziale di queste minacce non presuppone una mobilitazione né parziale né generale, bensì una mobilitazione totale che si estende persino al bambino nella culla" [Die Totale Mobilmachung, cit., p. 132].
Un noto studioso jüngeriano, Karl Heinz Bohrer, afferma che "nell'estetizzazione della funzione" (la funzione della macchina) deve cogliersi "l'ultimo tentativo di salvezza di fronte alle contraddizioni del reale processo lavorativo" e che proprio il "movimento estetico", cui appartiene anche Jünger, ricupera una "dimensione utopica" opponendo alla progressiva disumanizzazione insita in questo processo la coscienza esteticamente mediata di questa alienazione. Questa sarebbe stata a giudizio di Bohrer "l'unica critica possibile dell'esistente da parte dello scrittore borghese" [K.H. BOHRER, Die Ästhetik des Schreckens, Munchen-Wien, 1978, pp. 155-156]. A me pare, invece, che proprio il movimento estetico riplasmi, per così dire, la disumanità del processo lavorativo, venendo così ad offrire un supporto ideologico alla prassi economico-sociale del capitalismo. L'apparente superamento dell'asincronia tra "anima" e "tecnica" tende in realtà a garantire l'intangibilità dei rapporti capitalistici di produzione ed è evidente che la stessa estetizzazione della guerra, a cui si deve quei superamento, si salda strettamente all'esaltazione della guerra imperialista. Il nuovo quadro ideologico viene così perfezionato sulla base di un teorema culturale (estetizzazione della tecnica) capace di integrare la brutalità delle condizioni sociali in cui si svolge il processo produttivo della grande industria mediante una sublimazione che non ha nulla a che fare con la critica dell'esistente. Al contrario questa sublimazione si collega al trend di un processo storico-sociale che impone la salvezza dell'esistente solo mediante il sovvertimento di un quadro ideologico (quello liberale-democratico) ormai incapace di legittimarlo. La legittimazione estetica è la sola, dunque, a rendere possibile la concilizazione di fatto e valore, ma questa non può avvenire se non a condizione di trasfigurare il fatto (la tecnica), così da fare di questo stesso un valore totalizzante. Con l'ultima diffidenza del borghese verso la tecnica viene cinicamente superato anche lo smarrimento di fronte alla anonimità dei processi tecnologici ma non ci si muove in una direzione che consente di unire l'evoluzione della tecnica all'emancipazione della classe produttrice, il proletariato. Non a caso questa sublimazione avviene mediante la guerra: essa, infatti, sottrae all'evento della tecnica ogni finalità e destinazione umane, ipostatizzando miticamente quella cancellazione dell'umano che già si era manifestata nello stesso processo produttivo.
È indubbio che il tentativo di legittimazione estetico-ideologica operato da Jünger nella fase di trapasso imperialista del capitalismo monopolistico si nasconda e quasi si dissolva sotto la bronzea stilizzazione della Materialschlacht, ma non v'è alcun ricupero d'utopia in tutto questo, semmai la ferrea conseguenzialità con cui le potenze distruttive scatenate dai modo capitalistico di produzione vengono non già dissimulate, bensì rese trasparenti, eternizzate nel loro sfondo mitico. Tutto ciò non toglie che Jünger sia riuscito a mettere in luce, senza ipocriti camuffamenti, la necessità di fare i conti con la realtà di quell'autoestraneazione umana che rappresenta un punto di non ritorno nella storia del Novecento: questa 'negatività', che giunge per Benjamin al punto da costringere l'uomo a vivere "il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine"
[W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Torino 1966, p. 48], viene giocata da Jünger sul terreno di una demolizione della "sicurezza" borghese, della vecchia ideologia idealistico-umanistica e questo è senz'altro il segno di una più matura e spregiudicata coscienza delle contraddizioni, necessaria per cogliere la reale complessità di quelle nuove declinazioni l'inumano o dell'impossibilità dell'umano che verranno sempre più decisamente emergendo sull'orizzonte del nostro secolo. Tuttavia, lungi dal voler intervenire negli intrecci che collegano queste contraddizioni con i fenomeni di barbarizzazione della società capitalistico‑borghese alle soglie del fascismo, la prospettiva jüngeriana, ad onta delle sue tensioni problematicamente feconde, finisce per consolidare la base ineluttabile dei processi storico‑sociali attraverso una sottile mistificazione estetica proiettata come liberazione mitica.