DAVID OSMOND-SMITH

IL LINGUAGGIO ARMONICO DI BUSONI:
UN PROBLEMA FAUSTIANO

Non sono purtroppo riuscito a rintracciare il prof. David Osmond-Smith per chiederGli il permesso di pubblicare questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005. Sono tuttavia convinto che, quando verrà a conoscenza della pubblicazione e del nobile scopo ad essa connesso, non avrà nulla da obiettare.


Considerati retrospettivamente, i musicisti della generazione di Busoni assumono un'importanza particolare in quanto essi furono i primi a riflettere nelle loro opere alcune trasformazioni della vita musicale la cui gravità è diventata evidente solo in anni più recenti. Quelle trasformazioni erano, in parte, il risultato di un mutamento di equilibrio tra il senso del dovere del compositore nei confronti del suo materiale e il suo senso del dovere verso il pubblico. L'evoluzione dei mezzi tecnici nella musica europea degli ultimi duecento anni è stata senz'altro rapida, secondo la consuetudine europea, ma non è stata tale da distruggere il senso di una continuità: da un punto di vista analitico non è affatto assurdo che Schönberg dichiarasse il suo debito nei confronti di Mozart, o che il Boulez della Deuxième Sonate offrisse un omaggio a Beethoven. Ma, collocato entro il suo contesto sociale, il compositore del ventesimo secolo sembra doversi confrontare con un problema senza precedenti. Per quanto il pubblico musicale degli anni Ottanta del Settecento non fosse ancora paragonabile ai livelli attuali, esso pretendeva di ascoltare musica contemporanea; le opere prodotte soltanto alcuni decenni prima interessavano esclusivamente un piccolo gruppo di intenditori aristocratici ed accademici. Un secolo più tardi, le parti stavano già cominciando a subire quel drastico rovesciamento che ha condizionato in modo così peculiare i compositori del nostro secolo. Un pubblico molto più ampio e appartenente alla classe media aveva già istituito il suo pantheon di classici, e in tal modo era incline a giudicare la nuova musica con un metro sempre più conservatore; nello stesso tempo, la continua evoluzione dello stile musicale conduceva la nuova produzione più radicale entro quel ghetto di "specialisti" dal quale deve ancora uscire.
Ciò ha avuto gravi conseguenze per la musica come disciplina, in quanto ha incoraggiato un ascolto contemplativo a spese dell'ascolto competitivo. Per il dilettante settecentesco come per l'odierno appassionato di rock, andare ad ascoltare musica nuova significava confrontarla con quella che egli stesso avrebbe potuto comporre: un modo di replicare alla sua insufficienza poteva essere quello di andarsene e scrivere qualcosa di meglio. Oggi invece, a causa del tabù che ci vieta di riprodurre con esattezza gli stili del passato (un tabù la cui straordinaria potenza è stata fin troppo efficacemente dimostrata dall'insulsaggine dei recenti tentativi neo-romantici di eliminarlo), gli appassionati di musica si limitano tutta'al più a un giudizio "competitivo" sull'interpretazione, ma il più delle volte si accontentano di un consumo passivo e piacevole. La musica del passato è degna di essere ammirata proprio in quanto inimitabile. Non a caso il Dottor Faust di Busoni impiega i suoi poteri magici appena acquisiti non per far avanzare la scienza verso l'ignoto (come suggerisce in modo piuttosto specioso la scenografia di Werner Herzog nella presente edizione bolognese), ma per richiamare in vita come attualità il passato desiderabile ma irraggiungibile, per divertire la corte di Parma e, con Elena di Troia, per soddisfare se stesso.
Non ho la pretesa di sapere se Busoni volesse esprimere un simbolismo di questo genere. Certamente, però, egli e Mahler furono tra i primi compositori a sentire il bisogno di includere nella loro pratica compositiva le dicotomie della vita musicale circostante: non solo la crescente ossessione dei "classici", ma anche il solco sempre maggiore tra la comune musica popolare e quella scritta per la sala da concerto. Le posizioni assunte da loro e dalla generazione successiva di compositori per venire a capo di questa situazione di disorientamento e potenziale scoraggiamento hanno suggerito alcune vie di sopravvivenza creativa che sono risultate di fondamentale importanza per la musica degli ultimi decenni. Non mi propongo di indugiare su quelle che non sono rilevanti ai fini della specifica opera di Busoni, ma vale la pena passarle rapidamente in rassegna al solo scopo di collocare in prospettiva l'originale soluzione faustiana alla quale Busoni condusse il problema.
La prima possibilità, e forse la più seducente dal punto di vista ideologico, è quella di un intransigente modernismo, tanto attento al potenziale immanente agli stili e alle strutture musicali quanto indifferente ai desideri e ai gusti dei musicofili borghesi. Questo sforzo di essere "absolument moderne", come disse Rimbaud nel suo commiato alla poesia, doveva trovare presto la sua giustificazione sociale nella dubbia metafora della "avant-garde" - sebbene solo nel caso di Debussy e dello Stravinskij della Sagra della primavera il fantomatico esercito di ascoltatori così evocato fosse diventato reale. Fin dall'inizio alcuni furono incerti sulla legittimità di tale posizione entro una cultura classicheggiante: per quanto indirettamente, si dovette scendere a patti con la totalità dell'ambiente musicale. Uno fra i modi più onesti, ma scomodi, di fare ciò fu l'ironica giustapposizione di aspetti diversi di quell'ambiente, un procedimento avviato da Mahler nella sua forma più devastante. Anche nella versione più scherzosa formulata da Poulenc e da un certo Stravinskij del periodo di mezzo, l'evocazione negativa di una perduta (e forse chimerica) unità della cultura borghese era troppo inquietante per imporsi come pratica generale. D'altra parte, la compattezza stilistica poteva essere conquistata solo a patto di introdurre l'ironia della situazione entro il linguaggio musicale stesso. Forse l'esempio più autorevole fu l'uso da parte di Stravinskij di una sintassi armonica e ritmica di chiusura in modo tale da metterla in contraddizione con se stessa (come nella sua continua mescolanza di funzioni di tonica e dominante o nel suo imporre staticità a un andamento melodico derivato da una tradizione dinamica e in perenne sviluppo). Soluzioni stilistiche che cercavano di reprimere l'ironia intrinseca alla situazione del compositore ebbero un destino meno felice. Quando Hindemith e lo Schönberg neoclassico usarono il ritmo e la curva della frase tonale come sostegno per una scrittura melodica non tonale, il risultato fu caratterizzato da un pathos "scomodo" all'ascolto e presumibilmente non intenzionale: il lamento per un paradiso perduto. Ciò che poteva essere stato inteso come una sfida al consumo passivo dei classici sprofondava in quella nostalgia da cui cercava di liberarsi.
Intellettualmente Busoni non era estraneo all'ironia. Ma quando essa giunse a forgiare un linguaggio musicale personale, egli istintivamente si orientò verso una soluzione che trascendesse l'ironia mediante la ricerca di un idioma che permettesse la naturale coesistenza di vari elementi della sua cultura musicale. Il solco esistente tra le prese di posizione teoriche di Busoni e le sue preoccupazioni pratiche di compositore è già stato analizzato in altre relazioni e risulta altrettanto sorprendente da questo punto di vista. Non conosco alcuno scritto di Busoni in cui venga proposta la necessità di una summa sintetica di questo tipo, eppure in quanto necessità pratica essa è presente in ogni pagina delle sue opere mature.
Célestin Deliège ha già richiamato l'attenzione sulla "rhapsodic de styles" presente su larga scala in Doktor Faust: il mio scopo è quello di verificare e spiegare come la musica di Busoni cerca di trascendere l'eclettismo forse implicito in questa descrizione attraverso il mantenimento di un flusso denso e continuo tra un ampio ventaglio di scelte armoniche e stilistiche.
Prima di tentare uno sviluppo di questa asserzione mediante l'esame di parti della musica di Doktor Faust, vale la pena di fermarsi un momento a considerare i continuatori di questa impresa utopica. La musica di Busoni, infatti, non ha prodotto immediatamente una tradizione e fino a poco tempo fa ha attirato solo un pubblico piuttosto specializzato. Tuttavia, i medesimi problemi sono stati affrontati nei tardi anni Sessanta da Henri Pousseur, e non solo nell'ambito compositivo, ma anche in quello della teoria musicale. Da Couleurs croisées in poi, Pousseur ha realizzato una serie di opere che cercavano di mediare tra i diversi stili comunemente praticati nella vita musicale e di fornire una tecnica su base seriale che fosse capace di tale flessibilità. L'impulso per avanzare in questa direzione era venuto dall'impiego della citazione stilistica nella sua "fantaisie variable genre opéra" intitolata Votre Faust. Naturalmente, non è casuale che entrambi i compositori fossero così suggestionati dal mito di Faust. L'avidità di Faust di dominare e possedere ogni conoscenza diventa un problema centrale in un'epoca che ha rovistato nelle tombe della nostra e di altre culture alla ricerca di nuovi stimoli, ma si è interessata relativamente poco di come trasformare in un'attiva sintesi personale questa sua passiva frequentazione del supermercato antiquario così ottenuto. Se l'ideale rinascimentale dell'«homo universalis» sembrava abbastanza chimerico da spingere Johannes Faust a un patto col Diavolo, qual è allora il dilemma del suo emulo novecentesco, come lui minacciato da ogni parte da un'infinita regressione di specialismi culturali e scientifici?
Se il culto per i padri tipico della nostra cultura pone tali ostacoli nel cammino dell'autoaffermazione creativa, l'argomento scelto da Busoni per la sua opera più importante costituiva il complemento drammatico del dilemma affrontato nel suo stile musicale. Inflitti, anche se ci limitiamo alla considerazione dell'armonia, la quantità dei mezzi che egli scelse di includere nel suo stile era notevole. È indicativo del problema il fatto che io possa illustrare la maggior parte di essi riferendomi a un solo "movimento" di Doktor Faust, la Sarabande che funge da "intermezzo sinfonico" tra la prima e la seconda scena; essa si presta a un'analisi non solo perché è autonoma, ma anche in quanto contiene una serie di materiali che vengono impiegati anche in altre parti dell'opera. Gli unici elementi ovviamente assenti sono l'armonia completamente coloristica e non funzionale che di norma si trova assodata al magico in Doktor Faust (un bell'esempio è il brano in cui Faust evoca Elena di Troia alla b. 995 della seconda scena dello "Hauptspiel"), e l'uso simultaneo di due tonalità (come nella presentazione di Faust alla Corte di Parma da parte di Mefistofele a partire dalla b. 390 della prima scena) o di due sistemi armonici (come nella combinazione di elementi a toni interi e diatonici alla b. 390 di quella stessa scena).
Sebbene un'armonia tonale pienamente funzionale sia presente nella Sarabande (e anzi predomini dalla b. 45 alla b. 59), gran parte del pezzo è scritta con procedimenti a vario titolo estranei alla normale pratica tonale. Particolarmente caratteristica è la funzionalizzazione di tutte le risorse della scala cromatica in un contesto tonale mediante
(a) l'unione dei mezzi sintattici della scala maggiore e di quella minore e
(b) il trattamento di tonica e dominante come punti focali, capaci di attirare da' entrambe le direzioni una "sensibile" semitonale (producendo così il frequente ricorso a sopratoniche bemollizzate e a sottodominanti diesizzate).

Ciò non soltanto produce il caratteristico movimento che dà l'avvio a ogni frase della melodia della Sarabande (dalla b. 13 in poi), ma determina anche il procedere per semitoni tipico dei cambiamenti di centro tonale sia qui (b. 3, b. 32, b. 75 ecc.) che, in modo ancor più rilevante, nell'inizio del Preludio II.
Si tratta di una concezione fondamentalmente lineare che però può prestarsi a una varietà di pratiche armoniche. Il pezzo inizia infatti non solo con l'andamento cromatico già notato in precedenza, ma con quell'uso simultaneo di funzioni armoniche contraddittorie (qui tonica e sottodominante) che Stravinskij avrebbe poi sviluppato in forma di linguaggio autonomo. Qui comunque esso viene usato per sole nove battute, e quando la melodia entra porta con sé una nuova serie di risorse entro l'armonia di triadi. Busoni armonizza l'ampio arco della sua melodia giustapponendo, su un basso cromatico discendente, una serie di triadi e di accordi di settima per lo più privi di una relazione tonale, ma in grado di riaffermare i rapporti funzionali nelle cadenze (b. 17-18, o b. 21-22), e di mantenere così il senso di tonica al si minore. (Un linguaggio armonico simile è usato ampiamente nel Corteo che apre la prima scena dello Hauptspiel). Queste triadi concatenate cromaticamente cedono il passo, alla b. 28, a un rifacimento delle b. 6-9, che costituisce ora un'esplicita dimostrazione del cromatismo funzionale, "modale" di Busoni già precedentemente esaminato.
Quattro battute dopo (b. 32), la base armonica sembra pronta per un ritorno al linguaggio precedente, ma implica ora in modo più esplicito la funzione tonale quando, per due battute, abbozza una modulazione da do a fa prima di ritornare all'instabilità tonale. Si tratta di un accenno profetico, poiché alla b. 41 un nuovo centro tonale, do, viene ad essere fissato, dapprima mediante il cromatismo "modale" di Busoni e poi (dalla b. 45 in avanti) con esclusione dell'elemento modale. La funzionalità tonale ora si afferma pienamente con il passaggio da do a fa maggiore/minore e poi di nuovo a do, seguito da un'incursione nel puro diatonismo in mi bemolle maggiore (b. 52). Per l'orecchio di alcuni, un mutamento così radicale di stile armonico può sembrare sconcertante, ma entro il contesto dell'opera risulta ricco di associazioni. Esso infatti è una ripresa diretta della musica con cui Faust, dopo aver congedato come inutili cinque dei sei spiriti che aveva evocato nel suo studio, invoca la redenzione umanistica di un duro lavoro: "Lavoro, onda salutifera, in te mi bagno e trovo la mia purificazione!". E proprio là dove, in quel Preludio II, il la acuto e lacerante della prima chiamata di Faust da parte di Mefistofele insidia quel momento di illuminazione, la Sarabande procede nel modo suo proprio, tornando a dissolversi per un momento nel cromatismo. Quando la frase diatonica precedente viene ripresa, essa è già intrisa di cromatismo "modale" e naturalmente nello spazio di poche battute si perde ogni senso di un chiaro orientamento tonale, con tutt'al più una precaria gravitazione verso il mi. Per due volte il fa risolve scendendo al mi (b. 70), ma la terza volta sale e introduce una rielaborazione variata della melodia principale (b. 75). Questo è l'ultimo ampio ricorso di Busoni all'organizzazione cromatica di un'armonia di triadi poiché alla b. 87 esso cede il passo a un'infrazione con cui il fa maggiore sopra un basso cromatico diventa mi maggiore, ma un mi maggiore al quale le funzioni armoniche contraddittorie conferiscono ancora una volta un alone dissonante. Ciò conduce alla più ricca esplorazione, da parte di Busoni, nel campo del diatonismo dissonante: si tratta in realtà di una sequenza di sospensioni, ma resa indefinita da un basso che segue parallelamente le sospensioni un tono sotto. Ancora una volta, l'orientamento armonico diventa ambiguo, ed è così che il pezzo termina, nell'incertezza se fare la cadenza sul si bemolle o sul si.
Questa breve trattazione delle risorse armoniche di Busoni non basta ad illustrare l'abilità con cui esse vengono impiegate, ma serve almeno a sottolineare la frequenza con cui le regole del gioco vengono cambiate. E precisamente questa caratteristica a distinguerlo da un contemporaneo più anziano quale Debussy, le cui opere certamente contengono pari ricchezza di mezzi armonici, ma che costruisce ogni pezzo di lunghezza simile a questa (ad esempio, uno dei Préludes per pianoforte) con una scelta accuratamente limitata fra tali mezzi. Per riunire insieme questo caleidoscopio di risorse armoniche, retrospettive e sperimentali insieme, Busoni si affida alla fondamentale eredità tecnica che gli deriva da due dei suoi compositori preferiti, Liszt e Berlioz: il contrappunto cromatico. È infatti un tipo di pensiero musicale fondamentalmente contrappuntistico che permette a Busoni di giustificare la sua ampia tavolozza armonica mediante una coerente condotta delle voi e la compattezza del linguaggio melodico usato da quelle voci. È difficile però trattenersi dall'osservare che nella musica di Liszt e in quella di Berlioz il contrappunto cromatico aveva forti connotazioni demoniache: se Faust chiede l'aiuto di Mefistofele per conseguire le sue aspirazioni utopiche, allo stesso modo anche Busoni chiede l'aiuto di un elemento "diabolico" per realizzare la sua sintesi onnicomprensiva. Al principio l'analogia può sembrare piuttosto stravagante, ma è proprio quel senso di continua e quasi segreta trasformazione della prospettiva armonica che ha conferito alla musica di Busoni la sua aura di occulto. Senza dubbio l'ironica esplorazione del pluralismo stilistico condotta da Mahler è più congeniale a un'epoca come la nostra, che conferisce al martirio esistenziale il marchio dell'autenticità quasi come un'azione riflessa. Ma se Busoni è un compositore meno importante, è anche vero che egli ha scelto il cammino più difficile. Chi può sapere se è soltanto il nostro irrefrenabile gusto per la negatività che ci porta a scoprire, dietro la sintesi stilistica faustiana e onnicomprensiva della musica di Busoni, un odore di zolfo?

(Traduzione dall'inglese di Laura Callegari)