LUIGI PESTALOZZA

BUSONI E BRECHT?

Il curatore di questa Website ringrazia di cuore il prof. Luigi Pestalozza per il generoso permesso di pubblicazione di questo suo saggio, nell'ambito di un progetto per ricordare la figura e l'opera del musicologo Sergio Sablich prematuramente scomparso il 7 marzo 2005.


Brecht guardò effettivamente a Busoni. Il punto interrogativo che ho introdotto nel titolo serve a porre il problema del come, del fino a che punto, del perché vi guardò. Ma dico subito che ciò avvenne nell'ambito del dibattito, in Germania, in Europa, sul teatro musicale, sul rapporto musica‑testo o musica‑parola in quel tipo di spettacolo. Fu, in quegli anni, un dibattito importante, di orientamento ideale, culturale, sociale: si trattava fra l'altro di ridefinire ruolo e destino di quello che finora era stato in Europa il maggiore mass medium. Sarebbe diventato uno spettacolo di élite? Con protezza le avanguardie affrontarono il problema in questi termini, dandovi diverse, spesso opposte risposte.
Proprio perciò divenne una necessità, un'urgenza, tantopiù in Germania, fare i conti con Wagner, con la sua grande ombra, con i wagneriani e il wagnerismo, con il dramma musicale, forma e ideologia. Furono conti con un potere. O forse è più esatto dire che fu Wagner a trovarsi di fronte, negli anni della guerra imperialista e della Rivoluzione bolscevica sua estrema conclusione, a una Germania e a un'Europa cambiate, che ne mettevano in discussione il dominio, l'egemonia: che lo contestavano dopo che impressionismo ed espressionismo musicali, e neoromanticismo straussiano, erano discesi per diversi rami da lui (perfino i veristi italiani non l'avevano potuto ignorare: solo l'ultimo Verdi, nonostante le insinuazioni, non ne rimase irretito, ma fu ignorato). Invece con l'Ottobre teatrale che fu anche musicale, e con la Germania di Weimar e la Parigi di Stravinskij, dei Sei, ci fu un cambiamento di fondo, nelle teorie, nella prassi: le grandi sintesi, le unioni mistiche, compresa quella simbolica di parola e musica, non contavano più, non illudevano più. Infatti in Russia (lo dimentichiamo spesso) si era rotto il secolare rapporto di fiducia, anzi di attesa, fra zar e popolo. Ebbe, per l'intiero continente (per il mondo), un significato concreto: era iniziata l'età della separazione di ciò che non può stare unito se non mascherando, nascondendo i rapporti reali, la verità. Il secolo dei lumi - una rivoluzione tradita - si prendeva la sua rivincita, e in Francia, in Germania, in Russia (anche in Italia), Wagner smise di rappresentare la vita capovolta nello spettacolo della sua mitologia. Si cominciò ad analizzano per criticarlo, sebbene proprio in Russia, quarant'anni prima, Musorgskij fosse stato fra i rari musicisti europei a vederne il pericolo, l'equivoco, lo spirito antiilluminista, suo e più ancora dei suoi propagandisti. Penso alla sua critica a Serov. Ma ha un senso preciso che Musorgskij ponesse contemporaneamente fine, nel suo Boris, al simbolo, alla falsità, all'illusione dell'unione infine mistica di popolo e zar. La rottura storica anticipata nell'opera, la legava in maniera originale ai tempi dissacratori dell'Illuminismo, quelli che ritorneranno quando la polemica antiwagneriana riprenderà fiato dal finire di un'epoca, di un'Europa, di una Germania.
In questo contesto va visto e valutato l'incontro fra Brecht e Busoni, o meglio l'attenzione del primo per il secondo e ciò che questa attenzione brechtiana significa per capire la stessa opera (pensiero e teatro) busoniana. Certo Musorgskij, sul quale ho indugiato, non riguarda direttamente Busoni, e tantomeno Brecht. Riguarda però una reazione, anzi un tipo di reazione, che già si delineava anche fuori della Russia, che li avrebbe riguardati. Negli stessi anni, infatti, in Germania e quindi in Europa, Nietzsche portava la sua critica a Wagner, mobilitando anche lui originali argomenti illuministi. E Nietzsche ebbe una parte importante nel singolare rapporto di Brecht con Busoni. Vi ritornerà. Per ora, avervi accennato serve a riportarmi nell'ambito in cui più esattamente si colloca il discorso su Busoni e Brecht, cioè l'ambito tedesco, di una Germania musicale dove era diventato indispensabile, certamente più che altrove, prendere posizione verso Wagner, verso ciò che aveva prodotto, i wagneriani, il wagnerisino. Era diventato un modo, appunto, di ricerca musicale della verità.
Non tutti lo ritennero indispensabile. Busoni sì. E Brecht anche, Brecht più i suoi musicisti. Brecht guardò a Busoni sotto questo profilo, il profilo della musica, o anzi dell'opera capace di smascherare, di mettere in chiaro, di disalienare: di operare così contro e dopo la lunga ipnosi del dramma musicale, della musica che con Wagner aveva smesso di avanzare, poiché fu ritenuta la musica dell'ultimo musicista possibile. Si era presentata così, come la musica della fine, o della redenzione, che è lo stesso. "Wagner - aveva scritto proprio Busoni nell'Abbozzo di una nuova estetica della musica del 1907 -, gigante germanico che nella sonorità della sua orchestra sfiorò l'orizzonte terreno, che accrebbe certo la sua potenza espressiva ma la limitò a un sistema (dramma musicale, declamazione, tema conduttore), non è passibile di ulteriore accrescimento per i limiti che egli stesso si pose. La sua specie comincia e finisce con lui". Dunque già agli inzi del secolo Busoni vedeva che Wagner aveva chiuso, non aperto lo sviluppo della musica europea; che il problema era andare oltre, non accettare l'idea e la prassi musicale (appunto) della fine. Perciò le sue precoci, intelligenti prese di posizione o di distanza e perfino di opposizione, nei confronti di impressionismo ed espressionismo. Una intelligenza, davvero, della chiarezza, nel senso della clarté. Ma pochi decenni prima Nietzsche aveva sostenuto che a chi "volesse comporre" dopo Wagner, "si può raccomandare una forma minima". Raccomandazione epifanica, esatta. Precedendo Busoni (insegnandogli magari) Nietzsche aveva capito ragioni e compiti del finale musicale incarnato da Wagner: la sua simbologia sociale, il suo ruolo ideologico, il perché storico, cioè apologetico, di una musica senza vie di uscita, ripetitiva. A sua volta Bretht, ma lui vent'anni dopo Busoni, affermerà: "il vero progresso non è l'essere progredito, è il progredire". Una massima perfettamente antiwagneriana: e busoniana (e nietzscheana, ma lo dirò più avanti), proprio per come Busoni fu visto da Brecht.
Il terreno comune è la conoscenza, la riappropriazione dell'opera, della musica (nello stesso Brecht) come conoscenza, come mezzo di comunicazione della ragione (posso ricordare che Musorgskij aveva affermato che "l'arte è un mezzo di comunicazione fra gli uomini, non un fine"?). Ne importa che Busoni abbia rappresentato la tragedia (perfettamente goethiana) della ragione minacciata, nel suo Doktor Faust, l'opera della sua vita di musicista: quello che conta in lui, nella sua vita, nella sua opera, è la ragione (ancora, goethianamente, come ricerca, esplorazione, futuro), non la tragedia. Così in Brecht, davvero: e qui avviene il contatto, su questo terreno rivoluzionario che spiega come mai Brecht si sia accostato apertamente a Busoni proprio nel momento in cui si accostava al marxismo, quando il teatro si dichiarava ostentamente sociale, di classe. Quindi mentre si allontanava dai temi, dagli interessi (pensiero, contenuti) di Busoni? Ma il dichiararsi della polemica politica, sociale di Brecht, era l'effetto o comunque era in relazione con il processo di chiarificazione avvenuto sul terreno delle forme teatrali, delle scelte verso di esse, fino a quella di dover praticare il teatro musicale per arrivare a un teatro, cioè a un'opera, realmente chiaro, smascherato, insomma disalienato: ed è a questo livello formale rivoluzionario, dove sta il contenuto rivoluzionario della riforma teatrale di Brecht, della sua radicalità ideologica, che Busoni diviene un punto di riferimento. Perciò non darei importanza alla contraddizione di un Brecht sempre più comunista che guarda sempre più a Busoni, se non per sospetta re in essa qualcosa d'altro. Per esempio, capovolgendo i termini: che cosa significa Busoni che agisce su Brecht? Vuoi dire un rapporto della sua opera, teoria e prassi, con il teatro rivoluzionario, né solo tedesco del resto. Suggerisco fin d'ora un nome: Meyerhold.
La frase brechtiana appena citata - "il vero progresso non è l'essere progredito, è il progredire" -, appare nello scritto del 1931 Il teatro moderno è il teatro epico. Note all'opera «Ascesa e caduta della città di Maltagonny» (l'opera, composta nel 1928-29, era stata rappresentata nel 1930 prima a Lipsia e poi a Berlino). Ma al volontarismo (alla particolare dialettica) di quella frase dedicherò poi una certa attenzione; ora mi serve perché con questi connotati appena accennati, si integra in uno scritto importante per come in esso viene definita la nuova drammaturgia. Come si sa, Brecht contrappone in esso la Forma epica del teatro alla Forma drammatica del teatro. Subito dopo la contrapposizione è fra Opera drammatica e Opera epica. Avanzo due osservazioni. La prima è che in questo passaggio, in poche pagine, dal teatro di prosa a quello musicale, vi è il progredire di Brecht verso la piena chiarezza del problema, vi è il suo processo di chiarificazione teatrale nella Germania di quegli anni, vi è il suo cammino di autore, fino alla consapevolezza che il terreno decisivo in quella Germania, è il teatro musicale. La seconda osservazione, conseguente, è che la netta contrapposizione descrive uno schema di opposizone, un'opposizione volutamente schematica, come i tempi esigevano, dove però uno dei corni dello schema è con molta evidenza l'insostenibile potere sociale (ideologico) del dramma wagneriano. Schematicamente, in maniera di nuovo voluta, Brecht aveva infatti detto, ancora: "il vero progresso ha come causa l'insostenibilità di una condizione reale, e come conseguenza il modificarla"; e dunque lo schematismo dell'Opera epica contrapposta all'Opera drammatica, ostentava una volontà e un bisogno di modificazione, come conseguenza appunto di una condizione teatrale reale non più concepibile. Solo da Brecht? E solo da lui in questi termini?
Passare ora a Busoni vuol dire rispondere. Passare, per precisione, al suo scritto del 1921, apparso nel numero uno della berlinese "Faust", Abbozzo di un'introduzione alla partitura del «Dottor Faust" con alcune considerazioni sulle possibilità dell'opera. Rispetto a esso, o al suo punto cruciale, Brecht sembra aver fatto un'operazione di ricalco, anzi di trascrizione in senso (di nuovo) busoniano, nel senso di ricreare, di "creare a partire da". Mi riferisco in particolare al passo dove Busoni elabora anche lui, dieci anni prima, uno schema di contrapposizione fra la forma espositiva dei fatti scenici "Nel dramma o nel dramma musicale", e la forma "Invece, nell'opera". Naturalmente Busoni è diverso da Brecht. Brecht si occupa nella sua contrapposizione (ed è un curioso scambio) della musica, mentre Busoni si occupa del testo. Ma la diversità non è nemmeno troppa, né fondamentale, a cominciare dalla polemica opposizione dell'Opera al Dramma o dramma musicale, che già in Busoni ha per scopo di sgombrare il campo dalle tecniche equivoche, dalle forme (discorsi) che confondono le idee. E la scelta di Busoni, ben inteso, è per l'Opera, per la "condensazione" del suo testo, per la sua stessa "condensazione ottica" resa possibile dalla stessa "condensazione scenica" che per come viene presentata prelude davvero ai cartelli della scenografia brechtiana. In tutti i sensi insomma, e senza essere obbligatorio, lo sviluppo poteva ben essere, con di mezzo l'intelligenza di Brecht, l'opposizione fra Opera drammatica e Opera epica. In realtà l'Abbozzo di Busoni maturava la lunga riflessione degli anni prima della guerra: una riflessione estetica, teorica, di poetica teatrale, per una critica o reazione al dramma naturalista da Wagner ai veristi; laddove in Brecht maturerà nel 1931 la reazione, la critica al dramma espressionista, al protrarsi del naturalismo in teatro, alla finzione di ogni verismo, alla tenace tenuta (ideologica) della forma wagneriana. D'altra parte, e reintroduco il nome di Meyerhold, fin dal 1907, scrivendo del Teatro della "convenzione", questi aveva parlato in Russia di "lotta contro i metodi naturalistici di cui si sono fatti promotori i teatri sperimentali e alcuni registi": lui stesso, appunto con il suo "teatro della 'convenzione" che "propone una tecnica semplificata", che era magari ancora un'intuizione di rivolta. Quanto però vicina all'antinaturalismo di Brecht vent'anni dopo, a quello contemporaneo di Busoni? Busoni in effetti, in un altro abbozzo, nell'Abbozzo di una nuova estetica della musica (1906) aveva già elaborato una teoria: aveva già parlato, potrei dire, per tutti. Per tutti, a cominciare da lui (ne va sottolineato il rigore, l'audacia intellettuale in tempi di trionfi naturalistici), si sarebbe trattato di uscire dalla falsa aderenza alla realtà, dalla falsificazione del vero, dalle false verità: inventando un metodo teatrale diverso. Una questione di forme, infine.
Sarà utile, allora, soffermarsi sul perché e il come Brecht giunse al teatro musicale. L'incontro con Kurt Weill che praticava la Zeitoper, fu certamente decisivo: ma in quanto egli rese musicalmente possibile, a cominciare dall'Opera da tre soldi (1928), di fare e continuare a fare per parecchio tempo, del vero e proprio teatro musicale, o anzi dell'opera. Tuttavia le musiche dei lavori precedenti che Bretht si era scritto da sé, e che erano normali musiche di scena, avevano svolto una parte attiva, di critica della forma teatrale corrente. Brecht stesso ne parlò nel 1935 in uno scritto, La musica nel teatro epico, dove a proposito dei pezzi musicali di Tamburi nella notte, Carriera dell'associate Baal, Un uomo è un uomo primo allestimento, disse the "l'uso della musica costituì comunque una rottura con le convenzioni drammatiche dell'epoca: il dramma, per così dire, perdeva di peso, diventava più snello [...]. Già per il semplice fatto di introdurre un diversivo, la musida era un elemento di reazione rispetto all'angustia, all'opacità, alla viscosità della drammaturgia impressionista, alla maniaca unilateralità di quella espressionista". Sono parole importanti, che indicano una presa di distanza, fin dall'inizio, dalle principali correnti drammaturgiche del periodo: importanti in particolare per i rapporti di Brecht con l'espressionismo, spesso fraintesi. Di più, pongono l'accento sulla musica, che dunque Brecht usò subito come antidoto, come controveleno, per battere l'unilateralità espressionista, ma per batterne anche l"opacità", l"angustia", la "vischiosità" ed è un modo di parlare che ricorda quello di Nietzsche per Wagner, per il suo dramma musicale. Come Nietzsche, del resto, Brecht capì presto che soprattutto in Germania (con e dopo Wagner) la partita si giocava comunque, anche per lui, uomo della prosa, sul terreno della musica. Nel caso suo per non restare (appunto) intrappolato nella cultura (nel comportamento sociale) espressionista. Solo per questo? Bisogna ad ogni modo insistere: non rientrò mai, né mai si riconobbe nell'espressionismo. Ci avvertì di questo appena dopo la guerra, nel 1951, controcorrente e poco ascoltato, Emilio Castellani, introducendo il teatro di Brecht: "tutto il teatro di Brecht fino al 1926 sta all'espressionismo teatrale e letterario in un rapporto di 'critica', di 'chiaroveggenza". Gli rendo volentieri omaggio per la lucidità del giudizio. In realtà se non si capisce questo, non si capisce nemmeno l'approdo di Brecht all'opera, anzi perché e come vi dovette approdare. Infatti la musica con compiti (proprio essa) di "chiaroveggenza" e di "critica" si opponeva al teatro totale degli espressionisti, non ancora all'opera totale di Wagner. Ma la musica contro la cultura della tonalità, che scopriva o riabilitava quella (quanto illuminista) della distinzione, della separazione, non poteva sfuggire alla questione storica di fondo, alla questione formale principale del dramma musicale, o se vogliamo di Wagner come conclusione di una storia tedesca. E il salto di qualità verso l'opera (verso l'opera epica) furono le musiche chieste a Weill per il secondo allestimento di Un uomo è un uomo, composte quando "erano già state enunciate le prime teorie circa la distinzione dei vari elementi". L'Opera da tre soldi fu l'immediata conseguenza: assieme all'attenzione per Busoni teorico.
Weill, allievo di Busoni e musicista di Brecht, fece da tramite musicale, ma in certo modo. Fornì a Brecht la musica che questi voleva, che criticava socialmente i consumi musicali; e gli fornì dunque una musica dove generi e stili diversi praticavano davvero la teoria (antiespressionista, antiimpressionista) della distinzione, della separazione. In ciò c'è già parecchio Busoni. Busoni aveva scritto fra l'altro, in Sulla partitura del «Dottor Faust": "Soprattutto mi stava a cuore di creare forme musicali indipendenti, che si adattassero alla parola e all'evento scenico ma avessero esistenza propria e significativa, anche staccate dalla parola". Tuttavia ciò acquistava pieno senso musicale per la cura con cui Weill introduceva, nelle strutture della musica, gli intervalli adatti a garantirne la qualità epica. E di nuovo il ricorso a Busoni mi pare opportuno. In quella drastica stroncatura del "neoespressionismo" che è la Lettera musicale aperta dei 17 gannaio 1922 al "Caro signor Windisch", scriveva: "Caratteristica rimane solo la rimozione della consonanza e la mancata risoluzione della dissonanza. Con ciò l'armonia quale mezzo espressivo è atrofizzata e anche l'individualità dell'autore è cancellata: almeno alle mie orecchie tutte le combinazioni armoniche neoespressionistiche suonano uguali, qualunque sia la loro paternità. Soprattutto l'ottava eccedente e gli intervalli di quarta si incontrano dappertutto". Non li si incontra, appunto, in Weill, se non con compiti opposti, per mimare (criticare) la perdita di potere comunicativo dell'armonia, la sua condizione alienata. Così Weill dava una riconoscibile struttura brechtiana ai suoi songs, alle sue parafrasi delle musiche dello scambio musicale. Appunto musica di scambio e non musica d'uso: e tocco un tema di rilievo, e un equivoco della Berlino musicale degli anni 20. La differenza concettuale, stilistica, ideologica con Hindemith è tutta qui, nel come Weill musicista di Brecht non pensò affatto di rifare in stile moderno la musica d'uso, bensì di ricalcare criticamente, o quindi trascrivere, la musica di scambio, la musica ridotta a valore di scambio nella società borghese. Quindi, di nuovo, una trascrizione con fini sociali, teorici, politici: ma nella forma evidentemente attenta alla lezione di Busoni sulla ragione, sulla funzione di verità, del trascrivere. Senonché anche questo fa parte della fisionomia intervallare di Weill, puntigliosamente sottratta all'enfasi cromatica degli espressionisti, ostantatamente estranea al loro impiego esasperato, traumatico, della dissonanza costruita sulla rimozione sistematica dell'intervallo consonante. Del resto per via di questo dogmatico cromatismo, dell'intervallo della tensione catastrofica e redentrice, la seconda minore, Wagner rimase sempre alle loro spalle, poiché dopotutto anche loro parlavano di fine: poiché nell'intervallo minimo era compreso l'intero sistema armonico proprio perciò destinato a finire, per lasciargli spazio, per lasciarlo ai significati tragici di quella sua, infine wagneriana, totalità. Invece l'intervallo di Weill che non si può individuare se non come intervallo che non vuole diventare e non diventa uno - che dunque rifiuta idea e prassi della musica totale, della musica che aspira all'unità (al misticismo) - pare adempiere alla funzione di quella utopica «cadenza perfetta» evocata (ancora) da Busoni, la cui comparsa con un ostentato ruolo di compiuteza formale, non conferma affatto un'armonia esaurita, una sintassi esausta, bensì indica l'utopia appunto della forma persa e da ritrovare, o dunque il ruolo positivo della forma dopo la critica alla sua perdita di ruolo sociale, cioè musicale. Ma, sempre Busoni maestro di Weill, aveva precisato in quella Lettera accusatoria: "Per libertà della forma non ho mai inteso mancanza di forma, per unità tonale non ho mai inteso un'armonia a vanvera, illogica e senza meta, per diritto dell'individualità non ho mai inteso la manifestazione impertinente di qualsiasi scalzacane".
Un tale Weill non poteva nemmeno condividere le soluzioni pretonali di Hindemith, per ricorrere ancora al musicista che nella Berlino degli anni 20 ebbe una parte alquanto ambigua: non ne condivise l'illusorio espressionismo senza memorie wagneriane, il diatonismo privo di maggiore e minore, la sua regressione musicale (ideologica, sociale) preromantica: la sua riabilitazione della corporazione. Al contrario Weill, a proposito per esempio del maggiore e minore, si comportò in maniera del tutto diversa, da ricordarci cosa ne aveva detto sempre Busoni nell'Abbozzo di una nuova estetica della musica: "Lo credo - aveva detto - che i modi maggiore e minore e i loro rapporti di trasposizione, cioè il 'sistema dei dodici semitoni', rappresentino un simile caso di arretratezza'. L'arretratezza di chi non sapeva "stare al passo coi tempi". Appunto in Weill, brechtianamente, la rappresentano (additano situazioni filistee). In realtà l'armonia hindemithiana, la sua stessa fuga così carica di responsabilità, dalla seconda minore coltivata invece dai Viennesi, finiva comunque per servire le forme anche teatrali della cultura espressionista, così come la modernità di Krenek che introdusse il jazz in Jonny spielt auf non aveva impedito all'opera di rimanere del tutto tradizionale. Il jazz vi entrò come un ospite. Ben diversamente, il jazz di Weill dava forma invece a una nuova opera ("opera-ma novità!"), serviva il "teatro moderno" di Brecht. Ma la formava perché a sua volta la nuova opera di Brecht dipendeva musicalmente dalla capacità di Weill di condurre le regioni armoniche, grazie alla sua particolare trama intervallare, al di fuori della monotonalità, così predisponendo la componente musicale alla novità formale, operistica: sottratta all'in sé che gli espressionisti avevano imposto alla musica (come sua estetica, come sua filosofia), che era cominciato con Wagner. Weill tenne fuori la sua musica dall'ideologica tardoromantica del significato contenuto nel materiali musicale, fino a esserlo nell'intervallo minimo asservito così a un contenutismo estremo, obbligato davvero a doveri di espressività. Ed ecco il punto: il rifiuto dell'espressività, della sua trappola, fu il rifiuto principale di Weill, di Brecht, ma prima di loro di Busoni attento all'accusa - di praticarla - mossa a Wagner da Nietzsche.
Nel 1921 Busoni ha le idee chiare - mi riferisco all'Abbozzo di un'introduzione alla partitura del «Dottor Faust" - ha le idee chiare sull'opera. Vi si legge: "Per l'opera si tratta di un Gesamtkunstwerk 'musicale', all'opposto di quello di Bayreuth; se per venire incontro al lettore del 1921 dobbiamo ancora una volta e sempre riferirci a Wagner e richiamarci al termine di confronto a lui familiare!". Il contesto del dominio wagneriano è dichiarato, quasi con irritazione. E l'attualità del confronto è anche per Busoni la centralità europea, ottocentesca, di una storia tedesca, neoromantica, addiritttura romantica, musicale, teatrale. Dice subito dopo, con polemica sicurezza:

Vorrei ancora mettere in chiaro che l'opera, in quanto forma musicale, è stata sempre composta di una serie di pezzi brevi e chiusi, e non sussisterà mai che in queste forme. Non c'è mente umana che possa concepire né seguire uno svolgimento ininterrotto della durata di tre o quattro ore. Gli antichi mostravano questo spezzettamento apertamente, i moderni cercano invano di nasconderlo sopprimendo le 'cadenze perfette', sì che va perduta l'articolazione ritmica, che della struttura musicale è necessità organica, paragonabile alla funzione respiratoria negli uomini e negli animali ('Più aria' esclamerebbe un Goethe della musica!).

C'è tutto, compreso quello che Weill doveva apprendere, che Brecht condividerà; e Sergio Sablich farà del resto seguire, nel suo indispensabile libro su Busoni, questo puntuale commento: "Lo iato con l'opera musicale 'moderna' si acuisce in questi riferimenti sempre più espliciti al dramma musicale di Wagner, il 'Dalai Lama', come egli lo definì, responsabile agli occhi di Busoni di aver esercitato sulle giovani generazioni una tirannia assoluta, stregandole col suo fascino demoniaco e spingendole all'imitazione dovunque, anche in Italia". Perciò Busoni va subito al nodo della questione, cioè al punto distintivo, al testo, in termini di nuovo, e conseguentemente contrario, rispetto alla formula del dramma musicale: "Così dal libretto io esigo non solo che evochi la musica, ma oltre a ciò che le conceda lo spazio necessario al suo dispiegamento. La parola permetta alla musica di concludersi; d'altra parte non la costringa a estendersi troppo per i suoi scopi (della parola) se la musica stessa è già esaurita". E appena prima aveva sostenuto, introducendo in questa ulteriore riabilitazione dell'opera antica una perentoria confutazione, perfettamente attuale, degli argomenti naturalistici: "Come è poco naturale tutto ciò! Ma certo, davvero poco naturale. D'altronde che potrebbe e dovrebbe essere l'opera se non qualcosa di poco naturale? Che, cosa potrebbe risultare 'naturale' nell'opera? Nel dar forma all'opera noi dobbiamo partire coscientemente da queste premesse e porle a base di ogni costruzione". Infatti concluderà con queste parole il saggio sulle possibilità dell'opera: "Lei che si fonda sull'inverosimile, l'incredibile, l'impossibile".
Busoni non crede soltanto, contro l'opinione corrente, che l'opera lirica (questa sua opera) "non deve rappresentare un genere musicale inferiore": crede "che in avvenire l'opera sarà la forma più alta, e precisamente la forma unica e universale dell'espressione e del contenuto musicale". Ma non è un'estremismo polemico. Semmai il ripetuto riferimento al dramma musicale, va ribaltato in ciò che porta dentro di attenzione per il futuro della musica, a partire dall'attenzione al presente. Allora proprio Bretht è già tirato in causa, a cominciare dalla pagina del suo saggio Il teatro moderno è il teatro epico, dove spiega "perché Mahagonny è un'opera". Lo è perché è un divertimento, perché è "gastronomica", perché "il suo contenuto è il divertimento". Perché "tiene conto coscientemente di ciò che l'opera, come genere artistico, ha di assurdo": infatti "l'intensità del godimento dipende direttamente dal grado d'irrealtà". Ebbene, a parte che la parola "gastronomica" equivale (anticipo questi sotterranei percorsi) alla parola "culinaria" con cui Nietzsche opponeva la qualità proprio anche di divertimento dell'opera mediterranea alla nebbiosa uniformità del Wort Ton Drama; a parte questa anticipazione, l'assonanza di Brecht con Busoni circa il definitorio carattere assurdo, inverosimile, dell'opera, serve già a Busoni per fare dell'opera una protagonista attiva della musica presente, della sua attualità infine sociale: nel senso della sua reale pratica sociale. L'opera di Busoni sarà infatti "in avvenire la forma più alta", perché "accoglie nel suo seno, ammette e promuove tutti i mezzi e tutte le forme musicali che altrimenti non possono essere adoperate se non uno per volta. Offre l'occasione di impiegarli tutti insieme o a gruppi. Il campo dell'opera va dai semplici motivi di canzoni, di marcia e di danza, sino ai contrappunti più elaborati, dal canto all'orchestra, dal 'sacro' al 'profano', e ancora più oltre; lo spazio smisurato di cui essa dispone la rende capace di assimilare ogni genere e ogni tipo, di riflettere qualsiasi stato d'animo".
Si direbbe una rapida e precisa descrizione di una partitura di Weill per Brecht, per Mahagonny o forse più ancora per l'Opera da tre soldi. Del resto, quante volte Brecht teorizzerà, e praticherà, l'accostamento di sacro e profano, il ricorso alla pluralità dei generi, la rottura smascheratrice dell'ideologica unità stilistica? A sua volta Weill, in uno scritto nel 1929 in "Die Musik", si confessava già del tutto brechtiano, ma pur sempre per discendenza busoniana, affermando che "per quella forma di teatro che vuole prendere a proprio oggetto l'uomo, la musica è indispensabile grazie alla sua capacità di fissare e chiarire gli eventi scenici sotto l'aspetto gestuale. E solo una forma di teatro per la quale la musica sia indispensabile, può rispondere pienamente alle necessità di quella pura opera d'arte musicale che chiamiamo opera". Appunto, come per Busoni, il suo primato, e con una funzione antagonistica ben precisa. "Si tratta - dice Weill con Brecht sempre sottointeso - di un teatro non-romantico al massimo grado, perché il 'romanticismo' come arte esclude il pensiero operando con mezzi narcotizzanti, mostrando l'uomo solo eccezionalmente e rinunciando del tutto, almeno nel periodo di più alta fioritura (in Wagner), a rappresentarlo". Qui però l'identificazione con Busoni, con il suo "sentire umano - ma non faccende umane", coinvolge Busoni in una comune identificazione antiwagneriana con Nietzsche: e su questo percorso siamo sempre più spinti a muoverci. Ma il discorso si era interrotto a quella molteplicità dei materiali, dei generi, degli stili raccomandata da Busoni, esaltata dalla sua opera, che in lui è anche polifunzionalità della musica (e si veda la sua lettera a Paul Bekker sulla "nuova classicità"), nel senso della musica le cui divisioni in generi, stili, materiali diversi è conseguenza di "titoli, situazioni, interpretazioni the sono trasportate in essa dall'esterno": talché è sempre possibile assegnare funzioni diverse.
Si direbbe un ragionare sulla divisione del lavoro musicale, della produzione, del consumo nella società borghese, e perfino un modo di riflettere sulla perdita in essa del valore d'uso della musica a vantaggio del suo valore di scambio. Certo Busoni ha riflettuto e ragionato sulle forme di mercificazione della musica, della sua alienazione, e in questa direzione va interpretata la sua ricerca musicale della verità, o della verità musicale, insomma della musica riportata a compiti di verità: la sua ricerca di musicista (la sua "nuova classicità") "in tempi confusi, non chiaramente delineati". Tuttavia di nuovo, in questa direzione ci si imbatte in Brecht e Weill, nella loro concezione della musica neutrale, della sua neutralità in quanto non neutrale è in realtà solo l'atto di chi se ne appropria e la diversifica: l'atto, la prassi sociale dell'appropriazione, o di chi come loro, con la loro opera, si riappropria di essa. Di qui l'importanza del gesto musicale, della gestualità che fa della musica un fatto critico verso la sua stessa condizione sociale, verso il suo passato e il suo futuro; e di qui Weill e Brecht che si interessano a tutte le musiche prodotte dalla società borghese, attraverso le quali la borghesia rivela le sue tecniche e forme di appropriazione di tutta la musica.
Non intendo attribuire a Busoni ciò che non gli tocca. Mi preme però approfondirne un aspetto. Ho parlato di gestualità che mette in mostra i ruoli critici della musica, in Brecht, in Weill. Ma nella sua lotta contro la falsità del verismo (del naturalismo) Busoni aveva parlato di stilizzazione estrema della "convenzione" operistica "per uscire con decoro da questo conflitto". Siamo nel 1906, e nell'Abbozzo di una nuova estetica della musica ciò significa che "l'azione in cui i personaggi agiscono cantando dovrà essere posta sin da principio su di un piano incredibile, irreale, inverosimile, affinché l'impossibile poggi sull'impossibile, e tutti e due divengono possibili e accettabili". Più tardi, nell'altro Abbozzo di quindici anni posteriore, questa teoria della "convenzionalità" come strumento di ciò che può e deve prevalere nella musica (per esempio, aveva notato nel 1884, in Carmen: "in essa la verità e non il verismo prevale"), questa teoria, dunque, si consolida e si precisa, si collega alla musica che "grazie alla sua neutralità" è "adattabile e pieghevole". A parte il richiamo ormai d'obbligo al "convenzionalismo" di Meyerhold che di nuovo conferma la partecipazione di Busoni a un percorso antinaturalistico europeo, il suo "convenzionalismo" investe questioni di esecuzione, di gestualità anche esecutiva, di rapporto complessivo con i materiali, i generi, gli stili coinvolti nell'opera. Quali, in realtà? Come in Weill e Brecht più tardi, il rapporto è con ciò che di musicale (tutto) viene prodotto e consumato, quasi in una logica da "consumo che determina la produzione" (o logica del capitalismo), ma per prendere posizione con la musica; per fare della musica, affrontandola nell'opera sui suoi molteplici terreni, un fatto di ricerca e trasformazione continua; per sottrarla agli schemi delle divisioni codificate o delle finte unioni, destinate a confondere. Di qui il suo ruolo educante e quindi il ruolo educante dell'opera, ma sempre in quanto concentrata sulle questioni essenziali, di demistificazione, di ricerca della "chiarezza" "dove c'è oscurità", talché per raggiungere "il nostro scopo", di "fare luce nella situazione", "è necessario che il pubblico partecipante venga educato e si lasci educare". Qualcosa che prelude - il pubblico deve essere "partecipante" - ai Lehrstucken di Brecht (in parte di Weill), nonostante il moralismo che sembra intervenire e che invece non smentisce tale preludio. Mi riferisco al passo singolare dell'Abbozzo in cui Busoni afferma che "Non è tema (dell'opera) l'amore; è questione che riguarda la vita. Chi è incline a esso lo sperimenti ma non lo descriva, ma non lo legga descritto e soprattutto non lo metta in musica. Ognuno che sia stato, come terzo, in compagnia di una coppia di innamorati, si sarà sentito a disagio. Di fronte a un duetto d'amore questo succede a tutto il pubblico". Il duetto del Tristano parrebbe il bersaglio.
Ancora Sablich valuta correttamente che la "sconcertante argomentazione" di Busoni è comunque "del tutto coerente con il divieto assoluto di cantare le passioni umane più volte espresso nella sua estetica". Io andrei più in là, in diverse direzioni. Busoni è qui evidentemente attento al momento esecutivo, dell'opera rappresentata, e si preoccupa attraverso un esempio ostentatamente censorio, dell'equivoco, dello scadimento di ruolo in cui la musica, il teatro musicale, può cadere: cui può contribuire, come ha già contribuito, se si sottomette alla morale corrente e cioè dominante, ai modi di coinvolgimento musicale, profondamente antisociali, di cui il dramma parlato e musicale in specie, sono stati protagonisti. Ritorna la parte assegnata alla musica, anzi all'opera, e ritorna la presumibile attenzione di Brecht quando assegna alla musica, nell'Opera epica, il compito di essere "mediatrice", di "indicare il comportamento", o quando a partire proprio dal testo afferma che "Il testo non deve essere sentimentale o moraleggiante, bensì mostrare la sentimentalità e la morale". Anche lui dunque mette in guardia dagli ingredienti fondamentali dell'Opera drammatica, nell'eredità drammaturgica wagneriana, e tantopiù quando nelle Note all"Opera da tre soldi" tratta con altrettanta preoccupazione per il momento esecutivo, del "cantare le canzoni": "In nessun caso - raccomanda - il canto deve soccorrere quando la piena del sentimento faccia mancare la parola [...]. L'attore [...] non deve sforzarsi troppo di dar risalto al contenuto sentimentale della canzone (è lecito offrire ad altri un cibo che abbiamo già mangiato?)". Nemmeno per Brecht si può parlare di moralismo, e quanto a Busoni non trascurerei allora il suo rifiuto (fin dalle riflessioni di estetica dei 1906) sia della musica a programma (ma "Il nome di Wagner ci riporta alla musica a programma"), sia della musica assoluta: rifiuto di Wagner e al tempo stesso di Hanslick (esplicitamente citato), dell'oggettivismo formalista di questo e del soggettivismo romantico impersonato, diffuso da quello. Ma l'incomprensione di Busoni è soprattutto per chi non accetta "una terza possibilità che stia al di fuori e al di sopra di queste due". Appunto la musica per e della sua opera lirica, che D'Amico in maniera un po' spicciativa ma corretta, riassume così: "Per Busoni la musica dell'opera lirica va chiamata esclusivamente a rendere situazioni già di per sé musicali (marce, danze, canzoni) ovvero l'elemento soprannaturale o fantastico, ma non mai indotta a impegni veristici o ad espressioni passionali (...). Meglio: non deve mirare ad esprimere un testo ma appunto ciò che il testo parola o azione - non può dire".
Parlavo all'inizio di mass medium finito. Questa concezione dell'opera, della musica in e per essa, di Busoni ma poi anche, insisto, di Brecht, tiene conto di quella fine e cerca uno sbocco. Certamente in Brecht ma in maniera evidente anche in Busoni (come avrebbe potuto guardare a lui?), la musica (ogni elemento dell'opera) si deve legare dunque alla prassi, alla molteplicità del reale musicale e quindi non solo musicale, ovvero alla musica dei generi, stili, ecc. praticati, alla sua concreta capacità fantastica, soprannaturale. Così l'opera si ripropone in piena legittimità e attualità come un medium, perfino di massa; e dovrei qui approfondire - sarebbe un aiuto, ma mi limito a questo accenno -, il tema della trascrizione, in Busoni non meno che in Brecht; il tema del rapporto tra futuro e passato attraverso appunto il modo di trascrivere quest'ultimo. Sono momenti importanti dell'estetica busoniana della "nuova classicità", di quel progetto busoniano che ancora D'Amico chiamò il progetto di "una rivoluzione permanente da condursi nel seno stesso dei mezzi espressivi": ossia "Il vero progresso non è l'essere progredito, ma il progredire" aveva scritto Bretht. Nonostante i rifiuti del soggettivismo romantico oltre che dell'oggettivismo positivista, ritrovo in Bretht, come in Busoni, la componente volontaristica del loro pensiero, del loro teatro, forse troppo trascurata per capire a fondo come furono parte della loro epoca rivoluzionaria.
Volontarismo è una parola eccessiva se non la si riconduce all'opera con funzioni educative. Nel senso detto. Che esige una precisazione: a quale opera questa opera si rifà? Quale modello accetta? Educare per Busoni vuoi dire ciò the nell'Abbozzo del 1906 afferma a proposito del pubblico ("partecipante" dirà poi) che "non sa e non vuole sapere che chi vuoi accogliere in sé un'opera d'arte deve fare metà del lavoro lui stesso". Non era ii solito malumore saccente. Erano i limiti assegnati all'opera, alla musica sottratta agli effetti narcotizzanti. Perciò appena sopra, sempre attento alla fase esecutiva, aveva ammonito: "Chi rappresenta 'reciti', non viva in proprio". Come non pensare che Brecht abbia letto queste parole, queste pagine? Esse però contano soprattutto per la forma dell'opera alla quale rimandano, coi suoi ruoli compreso quello educativo: con i suoi modelli. "Mi sovviene di un solo esempio che si avvicina moltissimo al mio ideale ed è il Flauto magico. Esso riunisce in sé l'elemento educativo, spettacolare, sacrale e divertente". Per le stesse ragioni anche Brecht lo additerà a suo ideale esempio. Troppo per vedervi una coincidenza, e comunque abbastanza per vedere nel comune riferimento un giudizio comune sulla storia, non solo operistica, tedesca. Una presa di posizione: Mozart contro Wagner? Certo a partire da questa intelligenza Busoni sarebbe stato capace, isolato, di capire Verdi. "Affinché la musica non resti completamente soffocata nel dramma antimusicale, il sicuro istinto di Verdi (leggo dalle pagine sul "Dottor Faust") trova il modo di aiutarsi (cito l'Otello) innestandosi e sfruttando accortamente un brindisi, un concerto di mandolini, una preghiera della sera, una romanza (quella del salice) come numeri musicali. Con queste interpolazioni l'Otello diviene quasi un'opera". Chi ha ascoltato il Dottor Faust si sarà chiesto se Busoni non sia stato il solo operista della sua generazione a non ignorare Verdi.
Gli esempi portati da Busoni, da Brecht: implicano parecchio, sono una guida. Né soltanto Mozart. L'operetta, Offenbach, Fidelio, l'avversione per Strauss, sono rimandi pieni di senso. Brecht li riprende quasi alla lettera da Busoni? Non è questo che soprattutto interessa. Ritorniamo al caso, d'altronde riepiogativo, del Flauto magico: l'elogio della sua forma esemplare riguarda la funzione appunto educativa di essa, in quanto strumento o meglio parte di quella goethiana ricerca di una luce terrena, della mente, delle cose, che è la ricerca della verità, dello smascheramento come contenuto illuministico dell'opera. A interessare è allora in entrambi questo (questo li accomuna): la ricerca illuministica, nei nostri "tempi confusi", di una forma capace di "fare luce". Tamino ha superato le prove adempiendo alla forma del Flauto magico: che per Brecht è dunque l'opera della rivoluzione borghese diventata ora l'esempio formale dell'opera, del teatro antiborghese; e che per Busoni è l'opera della sua coscienza antiborghese, l'opera che dimostra come le forme del teatro musicale moderno, abbiamo perso, abbiamo tradito l'antica maniera formale per arrivare alla verità. Non per niente, del resto, nel 1884 proprio Busoni aveva scritto che "Nella Carmen la purezza della forma musicale e la verità drammatica si accoppiano". Alla Carmen dedicò in effetti particolare attenzione, ed essa conduce alla sua attenzione per Nietzsche. Ecco un altro protagonista, perfino determinante, di quanto ho detto fin qui. Ma non sarà necessario indugiare. Quale significato se non antiwagneriano in senso nietzscheano poteva d'altronde avere quella lettura della Carmen? In realtà Nietzsche va solo chiamato alla memoria. Certo prediligeva l'operetta, con una furia intellettuale dissacratoria tutta illuminista: "Quanto alle condizioni elementari di un genio - disse - Offenbach è più geniale di Wagner". Gli piacevano le bande, il loro suono; e apprezzava Rossini. Potrei continuare: tutto converge verso Busoni, verso la sua ben nota simpatia per il lato goethiano di Nietzsche: per il suo gusto aperto al molteplice musicale, per il suo intelletto nemico della unilaterale Bayreuth. Frasi come questa, a proposito dell'opera, "E vi siano pure intrecciate danze, mascherate e magie, così che lo spettatore abbia coscienza ad ogni momento della piacevole menzogna e non si abbandoni come se si trattasse di un avvenimento di vita reale", rivelano il debito, addirittura nel modo di scriverle. Sono tante, ma i debiti di Busoni verso Nietzsche gli si saranno già riconosciuti. Il maggiore, quello nodale, resta comunque quello verso il Nietzsche della critica all'«eccesso di espressività»: eccesso wagneriano, si intende, ma per dire di un'intera epoca. Busoni capì dove stava la forza critica di questo Nietzsche: un'intera epoca si difendeva, con l"eccesso di espressività", dal pericolo delle cose semplici, musicali (simboliche) per prime. "Una nuova armonia - aveva scritto - (...) non escluderebbe l'uso di formule semplici per idee semplici". E semplice era la "purezza della forma musicale" della Carmen, piena di semplici, pericolose idee; lo era la sua "cadenza perfetta", troppo simbolicamente perfetta (troppo pericolosa) per essere la cadenza di un'espressione eccessiva. E mi chiedo del resto a chi pensava Busoni quando nel 1911 scriveva nell'articolo Matinée schoenberghiana: "Che stia rinascendo il sentimentalismo? Dopo avere ascoltato i pezzi per pianoforte e i Lieder di Arnold Schoenberg [...] si sarebbe quasi indotti a crederlo". Chiamava "sentimentalismo" ciò che Nietzsche non aveva ancora potuto chiamare "espressionismo", ma che aveva chiamato, appunto, "eccesso di espressività". Tuttavia questo ci riporta a Brecht, ma ora al Brecht the guardò anche a Nietzsche.
La conclusione non è soltanto questo: come e perché, guardando a Busoni, Brecht abbia guardato a Nietzsche. Ciò spiega fra l'altro la componente di volontarismo che troviamo nella reazione - negli anni 20 tedeschi - al dominio per lungo tempo incontrastato del dramma musicale, del naturalismo, di queste forme dell'illusione borghese. Ma questo vuoi dire soprattutto the Nietzsche è arrivato fino a Brecht, fino al suo teatro rivoluzionario, uno dei teatri europei della Rivoluzione, lei per prima volontaristica.
Arrivò infatti a toccare anche Meyerhold, per citare fugacemente, ancora, un personaggio di contorno ma significativo, ritengo, di questa mia relazione. Senonché è con la Germania degli anni Venti, che posso concludere. In questa Germania culminò dunque con Brecht, e con e attraverso Busoni, un itinerario tedesco, di storia tedesca musicale, civile, ideale, politica, che era partito da Wagner per arrivare a rinnegarlo. A rinnegarlo perfino in nome o forse per effetto principale della rivoluzione antiborghese annunciatasi anche in Germania dopo la guerra, ma comunque in termini molto nietzschani: un cammino molto diverso da quello che, partito sempre da Wagner, era approdato nel primo decennio del secolo a Vienna. Berlino fu diversa da Vienna proprio per questi cammini diversi, tanto che lo Schönberg degli anni berlinesi, quando se ne accorse, compì l'errore di comporre Dall'oggi al domani: ma per ripiegare presto sul viennese (wagneriano) Mosè e Aronne.
Infine: Brecht scopre un ruolo inatteso di Nietzsche? In ogni caso l'ipotesi credibile aiuta a collocare meglio Busoni. Busoni fra Nietzsche e Brecht scopre in effetti una sua presenza nei problemi del teatro rivoluzionario tedesco, dei teatri (europei) figli della Rivoluzione. Né suggerisco un Busoni suo musicista, suo operista. Semmai mediò, preparò, aiutò a capire; e ritengo però che le forme rivoluzionarie del suo teatro, abbiano partecipato attivamente alla sua preparazione. Era infatti rivoluzionario, nei suoi anni, pensare e comporre forme teatrali che combattevano in teatro le forme dell'alienazione dell'uomo e della sua vita. Perciò Brecht guardò a Busoni, e perciò vi guardò come al solo operista che poteva aiutarlo a chiarire la questione dell'opera, del teatro musicale. A chiarirla in termini rivoluzionari. Posso allora concludere che Busoni fu al centro di una storia rivoluzjonaria del teatro musicale europeo, prima di tutto tedesco? Per convincere meglio dovrei compiere altre scorrerie nei testi dei miei protagonisti. Dovrei ricorrere ad altre citazioni. Le affido alle vostre ben più competenti letture.