Mariacristina Cavecchi
Ulysses e le immagini in viaggio
In cerchio.
Quando gli venne commissionato il ritratto di James Joyce, l'artista Constantin Brancusi, dopo una prima bozza molto verosimigliante, per rispondere alla richiesta della stessa committente Caresse Crosby, proprietaria della casa editrice Black Sun Press, desiderosa di qualcosa "alla Brancusi", produsse Symbol of Joyce (vedi fig. a lato). Quest'opera, riporta Ellmann nella biografia di Joyce, suscitò non poco turbamento e sorpresa nel padre John Joyce il quale, vedendola, pare abbia commentato: "The boy seems to have changed a good deal!". Al di là dell'aneddoto, nella grafica che l'artista rumeno dedica all'autore di Ulysses il cerchio sembra imporsi come una suggestiva visualizzazione dell'architettura dell'edificio narrativo joyciano. Brancusi recupera la forma circolare, sì, ma nella declinazione della spirale, capace di esprimere un "sens du pousser"; il punto interrogativo di Brancusi annoda il continuo movimento e l'enigmatica energia, da una parte a tutta una simbologia magica e misteriosa propria della tradizione celtica - così come viene anche recuperata da W.B. Yeats nella poesia The Gyre (da Last Poems, 1936-1939) -, e dall'altra al fermento avanguardista: i rotorelief di Marcel Duchamp, i suoi Broyeuse de chocolat (1913) [vedi fig. A] e Moulin à café (1911), per non parlare del Ballet Mécanique (1924) di Fernand Léger, cui Joyce ebbe modo di assistere dall'amico George Antheil.
L'ossessione del cerchio, che sembra investire i diversi ambiti della cultura e si declina attraverso la storia, dal pensiero storicistico di Vico al moto circolare della teoria della relatività di Einstein, fino all'attenzione per le forme circolari delle avanguardie artistiche, sembra abbracciare infatti anche Ulysses, la cui vicenda, macroscopicamente, si potrebbe visualizzare come chiusura di un cerchio, con il ritorno a casa di Bloom e con la ricomparsa, alla fine del romanzo, dell'immagine della nuvola mattutina. Nel cerchio joyciano s'incontrano e finiscono per sovrapporsi pensiero selvaggio e brivido tecnologico, passato medievale e presente avanguardista. Parte degli oggetti sprigionano il fervore tecnologico e ludico delle avanguardie, in particolare di futurismo e dadaismo; altri sono invece impregnati di un misticismo e primitivismo che ci conducono lontano, nel tempo e nello spazio.
Da un lato, sulla scorta degli studi di J. A. Isaak, A.K. Loss, G. Cianci, è ipotizzabile rintracciare in Ulysses echi e riflessi di un mondo artistico vivace e in subbuglio e quindi pensare alle circolarità di certi oggetti futuristi e dadaisti; dall'altro, seguendo le indicazioni di R. Bush, che indica la via per una (ri)valutazione dell'importanza del "primitivo" per il modernismo, si seguiranno le tracce di forme circolari depositarie di un passato dell'Irlanda, che pare sedimentarsi proprio in una circolarità strettamente connessa alla ritualità e che richiama alla memoria non solo i geroglifici del Book of Kells [vedi fig. B], ma anche la ruota cosmica di "Mag ruith" ("servitore della ruota") o le piante circolari dei santuari (come quelli di Navan Fort e Dún Ailinne) e dei siti reali celtici in Irlanda - fra i più noti, quello di Tara [vedi fig. C].
Cabaret.
Da Tara occorre spostarsi vorticosamente a Zurigo e al Cabaret Voltaire. Anche se non è documentato nessun incontro tra Joyce e Tristan Tzara, uno dei fondatori del Cabaret Voltaire, come invece suppone suggestivamente il drammaturgo Tom Stoppard nel suo testo teatrale Travesties (1974), credo che si possano registrare alcune coincidenze e fatti che lasciano supporre come Joyce fosse al corrente delle esibizioni e dell'attività del rumeno Tzara e di tutto il gruppo Dada, prima a Zurigo, quindi a Parigi. Benché i due artisti non si siano mai frequentati e forse mai incontrati, rimane il fatto che Joyce si trovasse a Zurigo tra il 1915 e il 1920, dove era molto attento all'attività teatrale essendo egli stesso direttore di una piccola compagnia (The English Players) e dove poté quindi assistere, se pure non direttamente, alla nascita del Cabaret Voltaire nel febbraio 1916 da parte di Tristan Tzara e Hugo Ball, le cui serate accesero non poco le notti di Zurigo; così come resta il fatto che si trovasse a Parigi tra il 1920 e il 1939, dove, alla fine del 1919, arrivò anche Tzara che sbarcò da Francis Picabia dando il via a un "dada parigino". Così, al di là d'improbabili prestiti diretti, Ulysses si è innegabilmente nutrito, più o meno consapevolmente, della sperimentazione dadaista. Un'ipotesi, quest'ultima, suffragata dalle parole dello stesso Joyce, quando nel 1920 scrisse al fratello Stanislaus pregandolo di smentire le voci in circolazione sul suo conto, secondo le quali egli sarebbe stato il fondatore a Zurigo del movimento dadaista che stava all'epoca entusiasmando Parigi. Benché rimanga ancora molto da esplorare sul versante del confronto tra estetiche joyciana e dada, o sulla comune vocazione alla sperimentazione, basterà ora prestare l'attenzione ad alcuni elementi che hanno indubbiamente caratterizzato l'arte (o anti-arte) dada e che ritroviamo altrettanto prepotentemente in Joyce: la struttura grafica del testo; il ruolo centrale degli oggetti animati; l'uso delle maschere.
Se è indubbiamente il futurismo a suggerire la sperimentazione grafica di Ulysses, il dadaismo sembra accelerare l'attenzione alla vita tipografica del testo. La varietà dei caratteri tipografici nella poesia fonetica di Hugo Ball, Phonetic poem (1917) o l'organizzazione spaziale del testo all'interno della pagina in uno dei tanti poèmes simultanès offerte dal Cabaret Voltaire - quali L'amiral cherche une maison à louer di R. Huelsenbeck, M. Janco, T. Tzara, pubblicato nel giugno 1916 in Cabaret Voltaire a cura di Hugo Ball [vedi fig. D] - sono ricollegabili alla forte vocazione iconica del tessuto testuale joyciano. Così, più e più volte in Uysses il segno alfabetico si trasforma in immagine, come quando la ripetizione delle "o" dà vita ad a una ricca varietà di cerchi. Accade che il segno grafico abbia un'importanza straordinaria come in Aeolus, dove le pagine del capitolo (quelle tratte dall'edizione Oxford curata da Jeri Johnson e non quelle dell'edizione Penguin arbitrariamente 'normalizzata' da Gabler), riproducono delle titolazioni tese a ricreare il grande impatto degli effetti visivi del giornale, ma accade anche, viceversa, che la sua stessa assenza sia significativa; è il caso dell'ultimo capitolo, Penelope, dove l'assenza di punteggiatura contribuisce, anche in termini visivi, a rendere il senso dell'impetuoso sfogo conclusivo di Molly. E come non notare, poi, la specularità che si viene a creare tra il cabaret zurighese e il monologo di Molly nell'insistente ripetizione di "Yes" a conclusione del romanzo - quasi una eco della formula affermativa "da, da" della lingua slava!
Quanto alla misteriosa vita degli oggetti di Ulysses, essa culmina certamente in Circe, sebbene cominci molto prima. Nel mondo notturno e visionario del bordello sono molti gli oggetti provvisti di autonomia linguistica e movimento che compaiono come attori della pantomima: un orologio, degli anelli, un sapone, un grammofono, una pianola. Il ventaglio di Bella Cohen, le fibbie del vestito di Zoe, il berretto di Stephen sono sineddochi - "la parte per il tutto", come spiega didatticamente Stephen al soldato Compton (Uysses, p. 549) - sineddochi particolarmente significative sotto il profilo del linguaggio mitologico che costituiscono una rappresentazione testuale del pensiero magico così com'è venuto codificandosi nelle riflessioni di Frazer. Ma se da un lato, come sottolinea C. Patey, "gli oggetti parlanti di Circe sono (anche) gli amuleti e i feticci di un mondo improvvisamente sfuggito al tempo della storia e diventato animista e mitologico", dall'altro è possibile ravvisare in essi un'eco degli oggetti che hanno acquistato una nuova vita nell'arte figurativa dada e surrealista. Così, l'acquarello stilizzato Seduction (Seduzione, 1920) di Suzanne Duchamp non può non interagire con il ventaglio ammiccante di Bella Cohen che svolazza e corteggia Bloom, per l'appunto con fare seduttivo. Nel collage di Max Ernst, Der Hut macht den Mann (L'uomo lo fa il cappello, 1920) protagonista assoluto è il cappello, un protagonista che in una versione di paglia compare anche in molte sequenze del Ballet Mécanique di Léger e che ci riporta alla memoria i molti e importanti copricapi joyciani, anch'essi datori di identità, particolarmente numerosi in Circe: cappello da Napoleone o da alpinista, cappello a tricorno violetto o bombetta grigia portati da Bloom; berretto da casa di Rudolph; cappellino da marinaio di Kitty, tre cappelli da donna calcati sulla testa di Richie Goulding, o cappello da Vedova Allegra di Mrs Cunningham. Senza dire del berretto che, come il ventaglio di Bella, assurge a vita propria e intrattiene una conversazione molto intellettuale con Stephen (U, p. 479). E come non menzionare i numerosi campanelli disseminati lungo tutto Ulysses (dai campanelli dagli effetti sonori onomatopeici ai rintocchi di campane che ammoniscono Stephen di tornare a casa), che certamente furono anche tra i protagonisti di molte serate dada, così come le lattine o le chiavi utilizzati come strumenti musicali per provocare il pubblico, suscitando spesso rabbia e indignazione? Ma i legami parentali degli oggetti joyciani non finiscono qui; intrattengono rapporti con i famosi ready-made di Marcel Duchamp - tra i quali Roue de bicyclette (1913) [vedi fig. E] - condividendone l'inquietante vitalità e con i close-ups di Fernand Léger, secondo il quale isolare un oggetto o un frammento d'oggetto e presentarlo sullo schermo in primi piani di dimensioni più grandi possibili gli conferisce una personalità che non ha mai avuto prima, e in questo modo può diventare un veicolo di potenza lirica e plastica del tutto nuova.
Oltre agli oggetti, in Ulysses anche le singole parti del corpo umano godono di una vita indipendente: una testa femminile separata dal busto, una mano di morto che scrive sul muro, la laconica testa di Virag che l'interessato si svita in un batter d'occhio e si ficca sottobraccio, la loquace zampa di Bella, per non parlare dei baci, certamente più astratti, che vanno "cinguettando... squittendo... tubando" (U., p. 598). Ancora una volta, possiamo trovare un interlocutore visivo nei ripetuti close-ups della bocca, degli occhi e dei piedi nel Ballet Mécanique di Léger ma anche nei bozzetti disegnati nel 1918 per Le Coeur à Gaz, testo teatrale di Tristan Tzara, che verrà poi allestito come parte conclusiva di una soirée parigina al Théâtre Michel il 6 luglio 1923, e che vede come protagonisti "Orecchio", "Bocca", "Naso", "Occhio", "Collo" e "Sopracciglia". Ci si ricorderà che per l'occasione le singole parti del corpo furono recitate dallo zoccolo duro del gruppo dada: oltre a Tzara, Soupault, Ribemont-Dessaignes, Théodore Fraenkel, Louis Argon e Benjamin Péret.
Rimangono le maschere. Numerose in Ulysses, e particolarmente nei suoi momenti più visionari: maschere nere che coprono le "facce grassocce, patatose" dei fratelli Bohee, "canterini di colore vestiti di tela da marinai bianca, calze scarlatte, colletti Sambo inamidatissimi, e grandi aster scarlatti all'occhiello" (U, p. 428); maschera con la faccia di Matthew Arnold indossata dai fratelli siamesi, Filippo Briaco e Filippo Lucido (U, p. 491); maschere ancora una volta nere dei due assistenti di Rumbold (U, p. 553); e, ancora, maschere delle ore della notte, che indossano pugnali nei capelli e braccialetti di campanelli dal suono sordo (U, p. 539). Tutte maschere che strizzano l'occhio a quelle ispirate all'arte primitiva del periodo e alle loro consorelle, onnipresenti e importantissime, del Cabaret Voltaire, tra le quali spiccano soprattutto le opere del rumeno Marcel Janco [vedi fig. F].
Dall'impressionismo al pop e ritorno.
Accanto ad un fertile dialogo con le avanguardie artistiche (si tratti di futurismo, vorticismo, dadaismo o surrealismo) Ulysses reca anche le tracce di un dialogo persistente con la tradizione pittorica tardo-ottocentesca e post-impressionista. La scena del bar nel capitolo Sirens, intento a esplorare i temi del desiderio e del tradimento, porta senza troppa ambiguità a una tela diventata rapidamente un topos erotico e pittorico e nella quale Joyce avrebbe potuto cogliere quell'"oscillazione incessante del soggetto" di cui scrive M. Foucault nel saggio dedicato al pittore francese: Le bar aux Folies-Bergère (1881-1882) notoriamente esposta da Edoard Manet al Salon del 1882 [vedi fig. G]. Non solo l'Ormond Bar descritto da Joyce risulta "il più conveniente di Dublino" (U, p. 258), ma è anche dotato di uno "specchio [...] adorno di caratteri dorati" (U, p. 252) e in questo senso sembra rispondere al dipinto parigino. I "bicchieri da gazzosa, vino del Reno e chiaretto baluginanti" (U, p. 260) sono senza dubbio più popolari delle bottiglie di champagne, ma le due sensuali cameriere Miss Douce, dai capelli bronzei, e Miss Kennedy, dai capelli biondi, non hanno nulla da invidiare alla figura femminile che campeggia nel quadro di Manet. La suggestione impressionista dell'Ormond Bar non è certamente sfuggita a Richard Hamilton, tra i progenitori inglesi dell'arte Pop, cimentatosi con l'illustrazione di Ulysses a partire dal 1948. La sua versione pittorica delle sirene joyciane, Bronze by gold (Bronzo accanto a oro, realizzato nel 1987 dopo una lunga gestazione iniziata nel 1949) riapre il dialogo tra Joyce e Manet con una torsione tardo novecentesca, sottolineando l'immagine delle due donne che tengono in mano una fallica pompa della birra ad un preciso passo joyciano: "sul manico liscio aggettante della pompa della birra posò Lydia la mano leggermente, paffutamente, lascialo in mano mia. [...] Avanti, indietro: indietro, avanti: sopra il manico lustro [...] il pollice e l'indice passavano pietosi: passavano, posavano e toccando delicati, poi scorrevano lisci, lenti giù, una fresca ferma clava di smalto bianco protuberante attraverso la lor cerchia scorrevole" (U, p. 279).
Quest'ultima immagine mi consente una riflessione finale sulla ricchezza e la fertilità pittorico-visiva di Ulysses. Joyce parla con le immagini che lo circondano e le immagini parlano con e di Joyce: ce lo dice chiaramente Hamilton, e ancor prima Henri Matisse, che nel 1935 illustra Ulysses per un'edizione newyorkese a tiratura limitata. Lo ribadisce Robert Motherwell, cui si devono le illustrazioni dell'edizione americana Arion Press del 1989. Quella che si va delineando tra il romanzo e il mondo delle arti figurative, coevo e non solo, non è certo una relazione di dipendenza o di rigida filiazione. Si tratta piuttosto di una interlocuzione permanente che lega generi visivi e verbali molto diversi tra loro. Una interlocuzione permanente, se è vero, come è vero, che Ulysses continua ancora oggi a parlarci e a ispirarci delle immagini, come nel recente film di Manoel de Oliveira, Ritorno a casa (2001). Ulysses ha 80 anni... ma non li dimostra.
Testi consultati
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