SERGIO SABLICH
BUSONI PIANISTA

A Londra, un critico chiese a Busoni quale fosse la sua professione. «Io sono un musicista, come certo saprà», ribatté Busoni. «Oh sì, naturalmente; ma, voglio dire, quale strumento suona in particolare?». Questo accadeva nell'autunno 1897, durante la prima tournée in Inghilterra. Busoni confidò alla moglie di sentirsi «un po' depresso da questa sensazione di dover ricominciare sempre dal principio, un Sisifo dei debutti» [1]: aveva passato i trent'anni, vantava una lunga carriera di concertista militante, ma ogni nuova apparizione pubblica, ogni nuova tappa in paesi o città sconosciute seguiva un rituale penoso, poco importa se immancabilmente concluso da successi trionfali, e indimenticabili. Quando Busoni ritornò a Londra l'anno dopo nessun critico, anzi nessuno che l'avesse udito suonare, avrebbe più osato chiedere quale fosse la sua professione.
Ma Busoni non si considerò mai, di professione, soltanto un pianista: «I am a musician!», aveva infatti risposto in quella occasione. E in altre ancor più spiacevoli situazioni aveva reagito con amarezza, talvolta con sarcasmo, talaltra con fine ironia [2] su quella «existence de saltimbanque» che lo costringeva a far mostra di sé in pubblico, a dare agli altri un'immagine che corrispondeva solo in parte a quello che sentiva di essere e che realmente era: un musicista completo e impegnato su fronti distinti ma complementari. Per lunga parte della sua vita soffrì, ora in silenzio ora protestando con veemenza, dell'esser considerato solo un fenomenale virtuoso, e non per esempio un interprete altrettanto grande, o un compositore attivo. Eppure al concertismo non rinunciò finché poté, e non solo per ambizione o per il guadagno materiale, che pur gli era indispensabile; e quando fu costretto a farlo non ebbe pace, arrivando perfino a rimpiangerne i riti («Dopo tutto, sono un cavallo da circo!»). Anche qui lacerazioni e contrasti, contraddizioni e paradossi, affiorano come punte di un iceberg che nasconda la verità insondabile di una figura umana e artistica eccezionale. Ma quale verità?
Quando Stuckenschmidt dà il titolo di «Virtuoso suo malgrado» [3] alla sua stimolante ricognizione di Busoni pianista, enfatizza un luogo comune che rischia di alterare una prima verità elementare. Poiché se è vero che il pianismo in Busoni fu soltanto una faccia della poetica del comporre e del creare (comporre musiche di, da e sopra altri autori in veste di revisore, trascrittore e rielaboratore di opere pianistiche; creare egli stesso opere per il pianoforte, come ultimo erede di una lunga tradizione e allo stesso tempo convinto assertore di nuove possibilità tecniche ed espressive dello strumento), non va dimenticato che quella poetica, e i suoi molteplici effetti, sarebbero stati impensabili senza l'impulso incessante di un'aspirazione concertistica mai appagata, vissuta come necessaria via, lastricata di fatica e sudore, alla verifica e alla perfezione. Busoni fu anzitutto un pianista e un virtuoso per vocazione, nato per suonare il pianoforte, e che si realizzò in una quasi completa incarnazione, spirituale e fisica, nello strumento «malfamato ma unico». Seguendo il paradosso di Shaw, si potrebbe addirittura affermare che il resto fu soltanto un di più.

Busoni sommo pianista, principe del pianoforte. Dallapiccola ha narrato un aneddoto bellissimo a questo riguardo:

Non dimenticherò mai il vecchio accordatore della Casa Steinway di Amburgo che, venuto ad accordare il mio pianoforte, anni or sono, mi raccontò di aver fatto quattro tournées in Russia con Paderewski e non so quante con Emil Sauer, e con Moritz Rosenthal, e con mille altri. Gli domandai se, per caso, avesse lavorato anche per Busoni. Al che mi rispose: «Ma noi stavamo parlando di pianisti, di grandi pianisti. Busoni era un principe» [4].

Su ciò, tutte le testimonianze di chi ascoltò Busoni concordano, come concordano nel tentare di restituirci almeno in parte il fascino immenso che lo circondava quando sedeva al pianoforte. Gisella Selden Goth ricorda la «calda ebbrezza che emanava dalla alta, snella, incanutita figura davanti al pianoforte. Seduto come inchiodato sulla sua panca, la sua faccia sembrava trasfigurata nella beata immobilità di chi sa di aver raggiunto la perfezione. Indimenticabili le mani elastiche e nervose che scorrevano, volavano, cantavano sulla tastiera, indimenticabile il fluido estatico che dal podio si diffondeva sopra le moltitudini affascinante» [5]. E Bruno Götz:

Quelle che udivo non erano più le stesse opere, erano eteree visioni sonore che trasparivano da queste opere, così come i Maestri che le avevano create potevano averle concepite dentro di sé, prima di mettere su carta quel che avevano percepito nel loro intimo... Sia dal punto di vista tecnico che da quello musicale, egli le rendeva con fedeltà assoluta. Pure, senza curarsi affatto di tutte le usuali tradizioni esecutive, le ricreava come se provenissero nuovamente dalla sorgente originale; ed esse apparivano nuove e sconosciute, quasi che risuonassero per la prima volta [6].

E ancora Zweig:

Fin dalla giovinezza lo avevo amato più di ogni altro virtuoso del pianoforte. Quando suonava, i suoi occhi assumevano una meravigliosa luce di sogno. In basso le mani creavano senza fatica la musica perfetta, ma su in alto la bella testa spirituale, lievemente gettata all'indietro, ascoltava ed assorbiva la musica creata. Sembrava si operasse in lui una specie di trasfigurazione. Quante volte durante i concerti avevo fissato quel suo volto luminoso, mentre le note mi penetravano nel sangue con molle turbamento ed insieme con argentea limpidezza! [7]

Il fiume delle testimonianze potrebbe scorrere all'infinito, anche per regioni poeticamente meno fonte. Ad Alfredo Casella destiniamo in questo volume uno spazio privilegiato, riproponendo in appendice quell'acuto saggio su Busoni pianista da lui pubblicato nel 1940 sulla rivista «La Rassegna musicale»: quadro affascinante e insuperato, dipinto da chi di Busoni fu fervente ammiratore e amico, e poi ideale continuatore in campo didattico [8].
Abbandonato così il regno delle memorie e dei ricordi, nell'impossibilità di seguire le tracce dirette della lezione di Busoni oggi che i suoi allievi sono morti, ricercheremo altrove le ragioni di un mito che trascende l'epoca stessa in cui nacque, un'epoca che pur produsse pianisti come Alfred Reisenauer, Emil Sauer, Eugen d'Albert, Moritz Rosenthal (tutti allievi di Liszt) e Ignacy Jan Paderewski. E incominceremo perciò da molto lontano.

Fra i numerosi scritti di Busoni sul pianoforte, non sono molti quelli che si occupino di problemi tecnici in senso stretto. Busoni si mantiene fedele alla affermazione con cui si apre la recensione al trattato 'Die natürliche Klaviertechnik' (La tecnica naturale del pianoforte) del didatta Rudolf M. Breithaupt: «chi possiede il talento necessario a produrre qualcosa di eminente nel campo di un'arte raggiunge questo scopo foggiandosi una teoria sua propria: una teoria tale da mettere in valore le proprie capacità ed eliminare i propri congeniti difetti.» [9]
A questo riguardo, il suo pensiero appare in tutta chiarezza in uno scritto del 1910, Ciò che si richiede dal pianista: «No, la tecnica non è e non sarà mai l'alfa e l'omega dell'arte pianistica, e nemmeno di qualunque altra. Tuttavia, com'è naturale, ai miei scolari prèdico: fatevi una tecnica, e di fondamenta solide. Per formare un grande artista si devono realizzare molteplici condizioni, e appunto perché questo è dato solo a pochi un vero genio costituisce una tale rarità» [10] . Così, la tecnica «non sta solo nelle dita e nei polsi, oppure nella forza e nella resistenza: la più grande tecnica risiede nel cervello, si compone di geometria, valutazione delle distanze e disposizione sapiente. Ma anche con ciò siamo appena al principio, perché alla vera tecnica appartiene anche il tocco e soprattutto l'uso del pedale» [11]. Fra le qualità necessarie per formare il grande artista Busoni enumera, in crescendo, «intelligenza non comune, cultura, vasta educazione in tutte le discipline musicali e letterarie e nelle questioni della vita umana, carattere, sentimento, temperamento, fantasia, poesia, magnetismo personale, presenza di spirito e autocontrollo». Solo per concludere: «Dovremo ancora aggiungere il senso della forma, dello stile, la virtù del buon gusto e l'originalità? Come elencare tutto ciò che si può richiedere? Ma prima di tutto si tenga presente una qualità essenziale: Colui per la cui anima non è passata una vita non dominerà mai il linguaggio dell'arte» [12]. Come si intuisce, Busoni sta parlando di sé.
Più istruttive e concrete sono quelle Regole per gli esercizi del pianista che Busoni sottopose all'attenzione della moglie in una lettera da Berlino datata 20 luglio 1898 [13]. In dodici punti Busoni fissa sulla base della propria esperienza le leggi fondamentali dello studio del pianoforte, sotto un profilo sia tecnico sia psicologico e interpretativo. Partendo dal presupposto che «sul pianoforte tutto è possibile, anche quel che ti sembra impossibile o che lo è realmente», Busoni suggerisce: «Studia il passaggio con la diteggiatura più difficile; quando sei arrivato a dominarlo, allora suona con quella più facile». E subito dopo: «Non ti irrigidire a voler vincere dei pezzi che hai studiato male in altri tempi e che perciò non ti riescono; per lo più è lavoro buttato. Ma se nel frattempo hai cambiato completamente il tuo modo di studiare, riprendi a studiarli dal principio, come se tu non li conoscessi affatto». Queste massime di Busoni denotano un radicalismo fondato anzitutto sulla massima semplicità.
Un principio teorico universalmente valido alla base del problema tecnico però esiste, e Busoni lo individua, prima ancora che nella facoltà ordinatrice e assimilatrice della mente, nella «obbedienza infallibile a due leggi di natura: quella delle funzioni musicali e quella dell'inerzia e della gravità» [14]. Particolarmente interessanti suonano due altre affermazioni: «che la mano debba formulare già in sé il disegno del passaggio (come il razzo l'arabesco pirotecnico che sta per produrre); - che suonare il pianoforte è complessivamente caduta e non sollevamento di pesi» [15]: ossia razionale applicazione della forza muscolare e delle sue leggi fisiche allo strumento, più in funzione della distensione, che permette il controllo sulla qualità del suono, che della tensione. In altre parole, forza e resistenza, velocità e brillantezza dipendono esclusivamente dalla corretta posizione di fronte allo strumento; e quest'ultima, a sua volta, dall'aver coscienza in ogni momento dell'impiego dei muscoli e degli arti e dal controllo, guidato dal cervello, delle loro funzioni di estensione e flessione. Un recente e singolare studio di Heinrich Kosnick, già allievo di Busoni, quasi un trattato della tecnica pianistica alla luce dell'esperienza busoniana, si sbilancia anche troppo in questa direzione: ma anche a non volerne condividere le drastiche conclusioni, è illuminante leggere che la grandezza «moderna» di Busoni risiede proprio nell'aver disciplinato la ricerca psico-fisiologico-anatomica relativa alla pratica e all'esercizio del pianoforte [16].

Ciò chiarisce naturalmente solo in parte la fisionomia di Busoni pianista, e vale per così dire come preambolo: ma la acuta modernità di Busoni si rivela già nella concretezza sistematica con cui affrontò questi problemi basilari dello studio e dell'apprendimento del pianoforte. Del resto, una carriera lunga e intensa come la sua sarebbe stata altrimenti impensabile, a meno di non volerla spiegare come un miracolo. Non fu un miracolo, ma una lenta, continua ascesa costruita solidamente passo dopo passo. Nel 1907, richiesto di dire la sua opinione sulla questione del suonare a memoria, affermò con risolutezza:

Vecchio concertista militante, sono arrivato alla persuasione che suonare a memoria permette una libertà d'esecuzione incomparabilmente maggiore [17].

Ed ecco poche righe dopo la spiegazione:

Ci sono degli artisti che apprendono lo strumento e gli elementi musicali come un tutto; e artisti che s'impadroniscono di singoli passaggi e di singoli pezzi, isolatamente.
Per questi ultimi ogni pezzo è un nuovo problema, che deve venir risolto faticosamente volta per volta; essi devono fabbricarsi per ogni serratura una nuova chiave.
I primi invece sono fabbri che con un mazzo di grimaldelli e di chiavi false penetrano e vincono in breve il segreto di ogni serratura. Questo si riferisce tanto alla tecnica quanto al contenuto musicale e alla memoria. Se si possiede, per esempio, la chiave della tecnica dei passaggi di Liszt, del suo sistema di modulazione, del suo sistema armonico, della sua costruzione formale (dove sta il crescendo? dove il punto culminante?) e della sua maniera espressiva, suonare tre o trenta dei suoi pezzi è lo stesso. E che questa non sia una frase, credo di averlo dimostrato [18].

Si arriva così alla conclusione:

Per chi ha la vocazione di suonare in pubblico, la memoria non è d'intralcio come non lo è, per esempio, il pubblico stesso. Ma colui per il quale suonare a memoria costituisce una barriera sarà esitante anche in tutto il resto. Il primo presenta la letteratura musicale agli altri, il secondo sceglie alcuni pezzi per presentare se stesso. Così la questione deve venir impostata in modo del tutto diverso: «dov'è il limite da cui comincia il diritto di suonare in pubblico?» [19]

Busoni si dimostra qui precursore del perfezionismo moderno, del metodo razionale applicato allo studio del pianoforte, senza tuttavia incorrere in quelli che sono i difetti del perfezionismo quando non sia posto al servizio degli scopi superiori della musica.
Detto questo, tutto il resto pertiene ad altre sfere: anzitutto alla sfera dell'interpretazione. Ai suoi tempi Busoni fu considerato uno straordinario, formidabile pianista, un fascinatore demoniaco, ma non altrettanto incondizionatamente un interprete sommo. Per lungo tempo il riconoscimento della critica rimase inversamente proporzionale al successo di pubblico, e ciò significa pur sempre qualcosa. Solo con la maturità, intorno ai quarant'anni, apparve chiaro quanto il suo modo di suonare fosse coerente con la poetica che via via si era venuta ampliando su più vasti piani di ricerca. Ciononostante le interpretazioni di Busoni, persino all'apice della sua evoluzione, ossia negli anni immediatamente precedenti la grande guerra, conservarono sempre un che di problematico, di ambiguo, di inappagante.
Storicamente egli visse in un'età in cui il concetto di interpretazione era ancor più nebuloso di come lo intendiamo noi oggi. Per noi, oggi, interpretazione è fedeltà al testo scritto, rigore critico e filologico, rispetto del verbo del compositore in un atto di libertà vigilata; ai tempi dell'infanzia di Busoni, per i romantici interpretazione significava anzitutto fedeltà sentimentale alle indicazioni poetiche e letterarie dell'opera o dell'autore, imitazione della maniera in cui gli autori stessi eseguivano la loro musica (Chopin e Brahms erano stati grandi pianisti, per non parlare di Liszt, che aveva creato una vera e propria falange di adepti e seguaci, tutti grandi virtuosi); insomma, ideale immedesimazione nell'ambiente e nel clima per cui la musica romantica era nata. Anche la musica dell'età classica doveva uniformarsi a quei criteri estetici: di qui lo stile cosiddetto monumentale, esempio massimo Anton Rubintein, che gonfiava in forza e dimensioni quella musica, soprattutto Beethoven, anche a costo di violentare la pagina scritta. Quando Busoni nel pieno della sua giovinezza si trovò a riflettere su questi problemi, dovette accorgersi di quanto il concetto di interpretazione fosse lato, e quanto per coglierlo intero si dovesse trascendere l'aspetto meramente esecutivo. Anche in questo caso egli fu il primo pianista della sua generazione a porsi criticamente di fronte al problema dell'interpretazione, e a tentare di risolverlo anche concettualmente.
Ciò avvenne naturalmente solo col tempo. All'inizio, Busoni cercò di uniformarsi all'immagine che da lui si richiedeva. Pur detestando profondamente la posa del divo, tipica in special modo degli allievi di Liszt (nel 1884, sull'«Indipendente», tracciò un ritratto memorabile delle stravaganze di Friedheim [20]), si affermò come il prototipo del pianista romantico, sia nel modo di presentarsi al pubblico, sia nel modo di suonare. Predilesse i programmi mastodontici, affrontati col piglio del dominatore, del virtuoso fenomenale cui tutto doveva riuscire meglio che agli altri, il passaggio acrobatico come il rubato di sicuro effetto. La libertà nella ricreazione della musica doveva essere totale: la pagina scritta era solo un indizio, l'esecuzione svincolata da ogni e qualsiasi costrizione letterale, in un'estrema variabilità di umori, da sera a sera, quasi che Busoni fosse stato mosso ogni volta dall'estro dell'improvvisazione (anche questo era un principio molto in voga nella seconda metà del secolo scorso, e doveva riuscire particolarmente fascinoso in un mostro dell'improvvisazione quale appunto egli fu). Solo a poco a poco egli si rese conto che interpretazione è anche altro, soprattutto altro, e che la vera libertà consiste nel superamento cosciente della costrizione: da allora, il suo modo di suonare cambiò alla radice. Il punto critico fu rappresentato da Beethoven, il cui arco creativo smisuratamente ampio (dal cuore dello stile classico alle soglie di una nuova era della musica) sfuggiva a ogni unilaterale definizione. Se l'inizio del cambiamento avvenne sotto il segno della grande arte di Bach, la conclusione fu una nuova maniera di accostarsi ai romantici, soprattutto a Chopin, e una fedeltà devota, assoluta, a Liszt.
Bach fu per Busoni maestro di arte e di vita. Fu Bach che rivelò a Busoni una verità fondamentale: nell'identità dello spirito, che oltrepassa i confini di passato, presente e futuro, la musica, qualsiasi musica, non è attingibile nella sua sostanza se non attraverso una ricreazione fatta di immedesimazione e distacco. Ogni creazione musicale è perciò ricreazione, è essa stessa «trascrizione»: come la notazione «è già trascrizione di un'idea astratta» [21], così anche l'esecuzione di un lavoro è una trascrizione, «e anche questa non potrà mai far sì che l'originale non esista - per quanto libera ne sia l'esecuzione. Perché l'opera d'arte musicale sussiste intera e immutabile prima di risuonare e dopo che ha finito di risuonare. È insieme dentro e fuori del tempo» [22].
Busoni dette forma a questi concetti nel 1910, con lo scopo precipuo di legittimare anche teoricamente il valore della trascrizione, delle sue trascrizioni. Ma, per quanto concerne l'interpretazione, essi sono fissati già nell''Abbozzo di una nuova estetica della musica', che è di tre anni prima:

L'esecuzione della musica proviene da quelle libere altezze dalle quali la musica stessa è discesa. Quando essa corre il rischio di divenire terrena, all'esecuzione spetta di risollevarla, aiutandola a ritrovare il suo originale «librarsi».
La notazione, la scrittura di pezzi musicali, è in primo luogo un ingegnoso espediente per fissare un'improvvisazione, si da poterla far rivivere in un secondo tempo. Ma tra quella e questa corre lo stesso rapporto che tra il ritratto e il modello vivo. L'esecuzione deve sciogliere la rigidità dei segni e rimetterli in movimento.
Invece i legislatori pretendono che l'esecutore riproduca la rigidità dei segni e considerano la riproduzione tanto più perfetta quanto più si attiene ai segni.
Quello che il compositore necessariamente perde della sua ispirazione attraverso i segni, l'esecutore deve ricrearlo attraverso la sua propria intuizione [23].

La terminologia non tragga in inganno. Ispirazione e intuizione non sono per Busoni parole vaghe e astratte, ma le leve concrete e coscienti in mano al vero artista per aprire le porte del misterioso regno dell'«eterna armonia», ove tutto risuona «intero e immutabile», e ricercarne così i rapporti più interni e più segreti. Tutto il passato esiste solo in quanto virtualità aperta al futuro: è la prima definizione di una catena eterna di definizioni; di conseguenza, interpretare significa estrarre, in un processo allo stesso tempo analitico e sintetico, e rendere con i mezzi del proprio tempo le virtualità nascoste nella pagina scritta; ricreare la realtà viva dell'opera musicale, consegnandola a una delle sue molte, infinite vite.
Non sorprende dunque che Busoni, scoprendo nuove possibilità espressive nel pianoforte sia come interprete che come trascrittore e compositore, rifiutasse energicamente l'etichetta di virtuoso. Non perché quell'etichetta gli ripugnasse (scrisse infatti nel 1910 in polemica col pianista e didatta austriaco Gottfried Galston: «Per elevarsi sul virtuoso bisogna prima essere un virtuoso: ciò a cui si mira è un di più, non qualche cosa di diverso. Si dice: 'A Dio piacendo, non è un virtuoso'. Si dovrebbe dire: 'Non è soltanto, è più che un virtuoso'.» [24]); ma perché appunto quell'etichetta gli andava stretta, e non rendeva che in minima parte il senso delle sue esecuzioni, delle sue «interpretazioni». Lo si era accusato sovente di voler «modernizzare» gli autori che suonava. Quando nel 1902, nella recensione a un suo concerto berlinese, Marcel Rémy lo attaccò pubblicamente sul «Courrier musical» di Bruxelles, di cui era corrispondente, Busoni ribatté:

Se crede ch'io abbia intenzione di «modernizzare» le opere che io suono, Ella parte da un presupposto falso. È il contrario. Nel ripulirle dalla polvere della tradizione, io cerco di farle «giovani» - tali, quali furono sentite nel momento in cui uscirono dalla testa e dalla penna dell'autore.
La 'Patetica', Sonata ai suoi tempi quasi rivoluzionaria, deve suonare «rivoluzionaria» - né si può mettere passione bastante nell'Appassionata, vetta dell'espressione passionale della sua epoca. Nel mio modo di suonare Beethoven io cerco di avvicinarmi alla libertà, alla nervosità umana, che distinguono le composizioni del Maestro in opposizione ai suoi predecessori. Mi faccio presente il carattere dell'uomo Beethoven, ho riflettuto a quello che ci si riferisce del suo modo di suonare; per questa via mi sono fatto un ideale, che erroneamente si definisce «moderno», e che in realtà non è se non «vivente» [25].

Vero è che il nodo della polemica (Rémy peraltro aveva apprezzato molto il pianismo di Busoni, con osservazioni assai limpide [26]) verteva sull'interpretazione del Preludio, Corale e Fuga di César Franck, che. Busoni aveva eseguito con qualche licenza. Quelle licenze non erano affatto rare nelle sue esecuzioni, e costituivano un altro ricorrente capo d'accusa. Busoni rispose che non si trattava di arbitrii gratuiti, ma della strenua ricerca dello stile personale proprio di un autore, fuori delle nozioni tradizionali di progresso o di età:

Io non posso convenire che Franck sia più moderno di Beethoven. E questo qualcosa che chiamiamo «moderno» esiste poi davvero? Per me ci sono soltanto spiriti grandi e piccoli, opere buone e cattive [27].

Lo studio del significato psicologico, oltre che formale, di un pezzo, si fondava sulla questione dei «mezzi necessari ad esprimerlo». Busoni aveva riscontrato inadeguatezze di scrittura perfino in Liszt, e ancor di più in Chopin, durante la sua opera di revisione su questi autori. Sul pianoforte moderno era necessario disporre la musica sotto le dita in modo adeguato, usando armonie ora strette ora piene e larghe, sfruttando tutte le possibilità di registro e di sonorità. In ciò Busoni, coerentemente con la sua poetica, vedeva un campo aperto alla sperimentazione. Nel caso di Franck, il suo lavoro era stato di rendere più concreto il senso dell'orchestrazione già implicita in quella particolare scrittura strumentale:

Una frase strumentata «fortissimo» si può suonare con dolcezza, ma non con molta forza un pezzo orchestrato «pianissimo». Si possono mettere le sordine alle trombe, ma non eroicizzare i flauti. Ne abbiamo un esempio nel Corale di Franck, dove si richiedono tre diversi livelli di sonorità senza che la realizzazione pianistica muti; credo di aver corrisposto all'intenzione del Maestro mutando io la «strumentazione» [28].

Ancora una volta Busoni si manteneva fedele al principio delle «virtualità da svelare nella continuità assoluta con la storia». Per suonare un pezzo nuovo, avrebbe scritto nel 1910 sempre a proposito di Franck, occorre «fabbricare la chiave che permette di entrare in questo nuovo compartimento. E tutto quello che vi appartiene diventa accessibile a sua volta» [29]. Ciò che prima valeva per la tecnica, è ora appannaggio dell'interpretazione.
Negli anni della maturità, Busoni accentuò fino all'estremo i caratteri propri di un pianismo teso a fare dello strumento un mezzo di espressione assoluto, vivente, portatore dell'idea compositiva sotto una luce parzialmente nuova. Da una interpretazione intellettualmente analitica, oggettiva, passò a una specie di impressionismo avvolto nel mistero, che richiedeva si percepisse la musica come una visione diretta in cui ogni dettaglio fosse interamente trasceso. Il progetto di un nuovo stile pianistico si affacciò prepotentemente nel periodo della maggiore fertilità creativa (1910-12), e ne accompagnò lo studio per il resto dei suoi giorni. Chi lo poté udire prima e dopo quegli anni ricavò l'impressione di un virtuosismo smaterializzato, alla ricerca di un suono orchestrale ora imponente ora dolcissimo, non più pianistico in senso stretto, come se si fosse trattato della trascrizione di musica pura per il pianoforte. I musicisti poterono ammirare sbalorditi la sua capacità di rendere i diversi piani sonori come una polifonia di voci o di registri, il cesello dei particolari che faceva risaltare ancor più l'insieme, il fraseggio delle unità musicali come l'ampio arco sotteso a tutto il discorso musicale. Hugo Leichtentritt, per esempio, indica nelle componenti architettonica e pittorica i connotati inconfondibili dello stile pianistico di Busoni:

Due direttrici apparentemente inconciliabili segnano questo miracolo di pianismo. Da una parte, esso scaturisce dal senso della monumentalità dello stile architettonico gotico, dei ritmi lineari nella loro compagine sottile, così come essi si scaricano sui singoli elementi architettonici, dai possenti, massicci pilastri fino alle figure ornamentali più graziose e fantastiche. Dall'altra, esso si nutre del sentimento per la raffinatezza di colori degli impressionisti moderni, in una tavolozza indicibilmente ricca di tonalità e di sfumature [30].

Fra i caratteri specifici di questa tecnica matura, numerose fonti dirette e indirette sottolineano anzitutto l'uso del pedale, a cui Busoni riconosceva possibilità immense:

Gli effetti del pedale sono ancora lungi dall'essere esauriti, perché sono rimasti tuttora schiavi di una teoria armonica gretta e irragionevole: il pedale si tratta come se si volessero ridurre l'aria e l'acqua a forme geometriche [31].

Approvò con entusiasmo, e sperimentò di persona, l'applicazione del pedale tonale, introdotto verso la fine del secolo dalla Casa Steinway, formulandone alcune possibilità d'impiego nella prima appendice alla prima parte del 'Clavicembalo ben temperato' [32]. Del resto, l'interesse per gli aspetti tecnici e costruttivi dei pianoforti della sua epoca rientrava in quell'auspicato arricchimento espressivo di tutti gli strumenti musicali che Busoni aveva invocato già in uno scritto del 1893 [33] (né si dimentichi a questo proposito che Busoni fu legato da stretta amicizia con i maggiori costruttori di pianoforti europei e americani, da Theodor Steinway a Friedrich Wilhelm Carl Bechstein a Ludwig Bösendorfer [34]).
Nonostante l'inesauribile varietà di sfumature nel tocco, che sovente riusciva a ottenere effetti timbrici di tipo orchestrale assai speciali (un dato, questo, evidente anche nelle trascrizioni e nelle opere originali, non ultimo nelle indicazioni dinamiche, agogiche ed espressive di cui son così ricche), nelle critiche dell'epoca, soprattutto per le sue interpretazioni dei romantici, incontriamo ripetutamente l'accusa che il pianoforte di Busoni non «cantava». Nello scritto Apprezzare il pianoforte [35] (1910), Busoni vide proprio nella «impossibilità di sostenere il suono» uno dei difetti più «evidenti, gravi e irrimediabili» del pianoforte (difetti ampiamente ricompensati dai suoi meravigliosi pregi e privilegi rispetto agli altri strumenti). La Selden-Goth, sulla base di colloqui avuti con lo stesso Busoni, ci aiuta a intendere come anche quell'impressione di apparente freddezza fosse il risultato di una scelta ben precisa e motivata:

Aveva anche riconosciuto che il concetto di un vero «legato» era contrario all'essenza degli strumenti a tastiera e quindi rinunziò a volerlo ottenere; invece scolpiva ogni suono singolarmente, basando il legato della cantilena esclusivamente sopra l'uso accuratamente escogitato del pedale. Questo suonare «non legato» impregnava i temi delle grandi fughe «Allegro» di Bach di una plasticità ferrea; allo stesso «non legato» Busoni attribuiva il segreto del cosiddetto «perlato», dovuto ad assoluta uguaglianza, precisione e distacco [36].

La stessa Selden-Goth afferma che Busoni possedeva mani «non specialmente grandi ma oltremodo elastiche che gli permettevano di prendere accordi a cinque parti nella estensione di una decima senza arpeggiare e di raggiungere l'indipendenza completa fra di loro dei gruppi di dita più alti e più bassi» [37]. In realtà le mani di Busoni erano molto grandi e di muscolatura robusta, oltre che flessibile [38]. Certo però l'indicazione della Selden-Goth è preziosa per spiegare, accanto alla forza e alla potenza delle ottave e dei fortissimo per cui Busoni andava tanto famoso, la leggerezza da cui nasceva quel già ricordato virtuosismo smaterializzato, l'indipendenza nel graduare le sonorità dei più complessi orditi polifonici e la capacità di produrre effetti di tipo organistico, capacità, questa, esemplificata al massimo grado dalle trascrizioni di musiche per organo di Bach.
Solo una pallida idea di questo suono - a detta di chi l'ascoltò dal vivo - inconfondibile e unico, è resa dalle poche incisioni e «rulli di pianola» che ci sono rimasti di Busoni. I limiti tecnici dell'epoca e in parte la scelta stessa dei brani, tendente a ridurre Busoni a campione di virtuosismo, non offrono un'immagine complessivamente rappresentativa del suo pianismo. Abbiamo visto che la poetica dell'interpretazione, quale Busoni maturò nel corso degli anni, mal si adattava a vivere fuori dalla realtà della sala da concerto, del pubblico, del programma e perfino dell'umore della serata. Così, nonostante il valore di queste preziose documentazioni storiche, prendere per oro colato quel che esce da incisioni oltretutto sperimentali, rischia di portare fuori strada, o, che è lo stesso, nel regno dell'opinabile. Ciò non è detto per scusare le parziali perplessità che nascono all'ascolto di questi dischi, peraltro compensate da favolose illuminazioni, soprattutto nella calcolata evidenziazione di alcuni particolari - un ritmo, un giro armonico, una sequenza di piani sonori - che da soli svelano il significato più riposto di un'opera, di un autore, di uno stile (si ascolti, ad esempio, il fantastico alternarsi di tensioni e distensioni nel personalissimo fraseggio del Preludio n. 7 di Chopin). Non soltanto la qualità del suono, ma anche le licenze, le eccentricità e le esuberanze di cui abbondano, che pur essendo coerenti con l'impostazione intellettuale e critica di Busoni fanno sembrare a noi di un altro mondo certe sue scelte interpretative, appaiono per natura refrattarie al disco, per così dire impoverite e raffreddate, e non è detto che corrispondano interamente alla verità delle interpretazioni busoniane, al loro senso ultimo e definitivo.

Già nel 1905-06 Busoni aveva effettuato una serie di registrazioni su rulli di pianoforte meccanico (la cosiddetta «pianola», che permetteva la riproduzione automatica dell'esecuzione) per la Welte Mignon di Friburgo. Esse comprendevano alcuni pezzi di Liszt ('Réminiscences de Don Juan da Mozart', 'Parafrasi dal Rigoletto' da Verdi, 'Die Ruinen von Athen - Fantasie' da Beethoven, 'Polacca' n. 2 in mi maggiore, 'Feux follets' dagli 'Studi trascendentali', 'La caccia' e 'La campanella' dagli 'Studi' da Paganini, e la 'Valse Caprice' in la maggiore), di Chopin (i 'Preludi' n. 1, 2, 3, 7, 8, 15, 23 e 24 e il 'Notturno' op. 15 n. 2) e la 'Ciaccona' di Bach nella versione dello stesso Busoni [39]. Nemmeno quando, attorno agli anni Venti, con le più moderne tecniche di incisione su disco la resa migliorò sensibilmente, Busoni ripose soverchia fiducia nell'incisione: il disco rimase per lui un'allettante fonte di guadagno, e insieme causa di forti contrasti interiori, insomma un'avventura che non affrontò mai con piena convinzione. Ne è prova la lettera alla moglie del 15 novembre 1919 da Londra, dove si era recato appunto per alcune incisioni:

Lunedì incomincia il lavoro di incisione dei dischi. Anche questa è una cosa che faccio solo con mezza convinzione: questo dissidio in me - quando si tratta di cose di interesse economico - fa sì che le realizzo solo a metà. Non voglio guastar del tutto l'affare, e non voglio mentire del tutto: - e così è impossibile che la cosa riesca [40].

Nel 1919 e nel 1922, sempre a Londra, Busoni registrò per la Columbia inglese una serie di pezzi in massima parte nuovi e assai più interessanti sia per la superiore qualità dell'incisione sia per la migliore riuscita dell'interpretazione. Evidentemente, con l'esperienza Busoni aveva imparato a mantenere in sala d'incisione quella concentrazione fatta di abbandono e di precisione che prima, per sua stessa ammissione, gli era mancata. Questi pezzi sono il 'Preludio e Fuga' n. 1 dal primo volume del 'Clavicembalo ben temperato di Bach'; il 'Preludio-Corale 'Nun freute Euch, liebe Christen' di Bach trascritto da Busoni; le 'Ecossaises' di Beethoven sempre nella rielaborazione da concerto di Busoni; il 'Preludio' n. 7, gli 'Studi' op. 10 n. 5, op. 25 n. 5, op. 10 n. 5 (per la seconda volta) e il 'Notturno' op. 15 n. 2 di Chopin; la 'Rapsodia Ungherese' n. 13 (in una versione abbreviata) di Liszt [41]. Ci pare che soprattutto l'interpretazione magistrale della tredicesima 'Rapsodia' rispecchi le qualità peculiari del pianismo di Busoni: esatta gradazione di tocco anche nei momenti di massima sonorità, uguaglianza e brillantezza nei passaggi virtuosistici, bellezza e potenza dei fortissimo, pienezza di suono anche nei piano, dominio sovrano dell'architettura formale del pezzo. Si faccia attenzione, a questo proposito, alla capacità somma in Busoni di unire la massima libertà fantastica con la coerenza di sviluppo degli elementi compositivi: così, per esempio, lo scintillio delle scale e degli arpeggi rimane uno sfondo nitido, contro il quale i temi, accordi poderosi o melodie cantabili, si stagliano in plastica evidenza, creando un rispecchiarsi continuo di ombre e di luci dal portentoso effetto spaziale e coloristico.

Il repertorio pianistico di Busoni, ricostruito e pubblicato da Dent in appendice alla sua biografia [42], costituisce una ulteriore e preziosissima fonte di studio per seguire le tappe dell'evoluzione del pianista, dalla prima infanzia fino agli ultimi, massimi esiti interpretativi. Ferruccio bruciò le tappe del consueto apprendistato di un pianista in erba con eccezionale rapidità, dovuta certo in primo luogo al talento innato e alla straordinaria capacità di assimilazione, ma andando per gradi, nonostante il pressante condizionamento paterno. Cominciò, come tutti, con Clementi, l'«Album per la gioventù» di Schumann e le Sonate facili di Mozart, i clavicembalisti del Settecento e gli 'Studi' di Czerny e di Cramer. Grazie alla madre ebbe la possibilità di coltivare - accanto alla tecnica - il gusto della musica d'insieme e la sensibilità musicale, con una naturalezza spontanea e intimamente vissuta. La stessa prima apparizione nelle vesti di fanciullo prodigio, avvenuta a undici anni col Concerto in do minore K. 491 di Mozart, appare una prestazione ragguardevole più dal lato musicale che specificamente tecnico. Del resto a Vienna, proprio in qualità di fanciullo prodigio, egli impressionò come improvvisatore ed esecutore di composizioni proprie (si ricordino le critiche di Hanslick e Ambros) più che come virtuoso, anche se i pezzi suonati in quell'occasione furono tutt'altro che cosa da poco. Seguì poi, grazie a una grande intuizione di Ferdinando, il primo contatto con Bach, con la punta impressionante della 'Fantasia cromatica e Fuga' suonata a Baden nel 1878, dunque a dodici anni; e, ancora, l'improvvisa rivelazione della musica romantica: dopo Schumann, Chopin, Mendelssohn e Schubert. Al contrario di Chopin e Mendelssohn, Schubert e Schumann non ebbero in seguito molto posto nei programmi concertistici di Busoni: del primo non rimasero, oltre alle predilette trascrizioni lisztiane, che composizioni «minori», soprattutto i 'Quattro Impromptus' op. 90; del secondo, a parte il 'Concerto in la minore', niente più che una predilezione isolata per i 'Pezzi fantastici', gli 'Studi sinfonici' e le 'Variazioni Abegg' (non i 'Kreisleriana', non 'Carnaval', non i 'Davidsbündlertänze'). Questo fatto non deve stupire: se nell'Ottocento Schubert come autore per pianoforte non era quasi considerato, la sua gloria immortale essendo legata quasi esclusivamente ai Lieder, Schumann divenne ben presto estraneo a Busoni per ragioni, potremmo dire, di incompatibilità fisiologica. Non sopportava, Busoni, i suoi atteggiamenti settari e «da carbonaro», la dichiarata avversione a Liszt, fatta poi propria dal circolo che ruotava intorno a Brahms. Per Busoni, Schumann rimase l'esempio massimo di quell'«impressionismo» soggettivo e limitato, di pretta marca tedesca, che Liszt era riuscito invece a rendere con linguaggio e sentimenti cosmopoliti.
Negli anni di Graz, gli studi con Mayer-Remy fortificarono la preparazione musicale di Busoni e imposero un freno alla massacrante attività dei concerti. Quegli studi furono di grande utilità anche al pianista, inducendolo a vedere nel pianoforte un mezzo espressivo di portata più ampia e meno immediata. Nel 1879 a Bolzano era avvenuto il primo incontro con Beethoven, con la 'Sonata in do maggiore' op. 53; nei due anni successivi, a Graz, egli eseguì per la prima volta la 'Sonata in re minore' op. 31 n. 2 e la 'Sonata in do minore' op. 111. Soprattutto quest'ultima, «così introspettiva e ricca di sonorità» [43] rimase a lungo il suo pezzo preferito, prima di venir soppiantata, nel pieno della splendida maturità artistica, dalla 'Sonata in si bemolle maggiore' op. 106, la 'Hammerkiaviersonate', «la composizione pianistica più possente di tutti i tempi» [44]. Non è un caso che egli l'affrontasse per la prima volta a Boston nel 1892, proprio alla vigilia di quella crisi che doveva portare radicali mutamenti nel suo atteggiamento esecutivo.
Beethoven è una delle tre colonne portanti nel tempio dell'arte pianistica di Busoni (le altre due sono naturalmente Bach e Liszt). Eppure, egli non ebbe mai nel suo repertorio l'intero corpus delle 32 'Sonate'; dei 'Concerti', l'«Imperatore» fu il suo cavallo di battaglia, il 'Quarto' un gioiello che riservava ai momenti di grazia, il 'Terzo' e il 'Primo' una conquista della tarda maturità, allorché gli fu chiara la loro importanza nello sviluppo del genere. Non suonò invece mai il 'Secondo', che considerava una mal riuscita imitazione da Mozart. Amò profondamente tutte le 'Variazioni' composte da Beethoven, le 'Bagatelle' op. 126 e le postume Ecossaises, che eseguì sovente in una propria rielaborazione da concerto [45]. Beethoven lo soggiogò a lungo, poi lo respinse; infine giunse a capirlo e a venerarlo, pur distinguendo, come scrisse una volta, il Beethoven buono da quello meno buono [46]. Toccò alcune tappe obbligate della produzione sonatistica di Beethoven, come la 'Waldstein', la 'Patetica' e l'«Appassionata», eccellendo, talvolta forse eccedendo, nella forza rappresentativa ed espressiva, per volgersi poi decisamente verso le opere dell'ultimo periodo, allora poco eseguite e ancor meno comprese e di cui vide con chiarezza, primo forse fra i pianisti della sua generazione, e secondo solo a Liszt e a Bülow, tutta la carica profetica.
I suoi 'Beethoven-Abende', insieme con i concerti monografici dedicati Bach, Liszt e Chopin, fecero epoca, e Busoni li ripropose ogni qual volta poté contare su un pubblico preparato e spiritualmente partecipe: il primo di cui si abbia ricordo risale ai tempi di Helsinki (1888); i più famosi a quelli di Berlino e Zurigo. Proprio in occasione del concerto beethoveniano tenuto alla Tonhalle di Zurigo il 6 aprile 1916, in cui eseguì la 'Sonata' op. 111, le 'Bagatelle' op. 126 e la 'Sonata' op. 106, Busoni dettò un breve scritto che riassume in sintesi il suo pensiero sul Beethoven pianistico:

Lo stesso passo decisivo e rivoluzionario che Beethoven ha fatto nelle forme sinfoniche, lo ha fatto anche nell'ampliamento delle composizioni per pianoforte. Nella storia del pianoforte non c'è stata una trasformazione maggiore di quella intercorsa tra la sonata di Haydn e Mozart e la Sonata «für das Hammerklavier». Beethoven ha creato il moderno pianoforte a coda nella sua tecnica, nello sfruttamento del registro acuto, di quello basso e dei registri più distanziati, nell'impiego del pedale, nel raffinamento e nell'arricchimento della sonorità.
La sua forma naturale d'espressione per raggiungere tutto questo fu la sonata, come ad altri fini era stata per Bach ovvia forma la fuga.
Nonostante tutte le conquiste strumentali, per Beethoven l'elemento fondamentale è il contenuto musicale: lo stesso «pianoforte» è solo un mezzo adatto a trasmettere, attraverso un'esecuzione, questo contenuto.
Ciò risulta soprattutto nelle opere della sua epoca creativa più matura, nella quale la tecnica pianistica non resta subordinata, ma è posta in rapporto perfetto con l'elemento spirituale, mentre il suo periodo di mezzo propende piuttosto a una accentuazione della brillantezza esteriore [47].

Vienna rappresentò un primo punto di arrivo per il pianista Busoni. La dura lotta per affermarsi, la giovanile esuberanza e la coscienza superba delle proprie forze lo spinsero a imitare i grossi calibri del concertismo, fino ad attingere i vertici di quello stile monumentale che appariva ai suoi occhi mèta necessaria per meritare l'appellativo di virtuoso. A diciott'anni si sentiva sicuro come un dio: offrendosi come solista per la stagione concertistica 1884-85, in una lettera alla Società Filarmonica di Vienna datata 4 agosto 1884 si dichiarava pronto a eseguire qualsiasi pezzo a scelta, all'unica condizione che essa gli fosse comunicata qualche settimana avanti la data del concerto (aveva aggiunto questa postilla solo per farsi garante della sua serietà). Fu quello il periodo del contatto fertile e insieme contrastato con i grandi della musica viennese, così amabilmente e acutamente ritratti nelle corrispondenze sull'«Indipendente», dei dubbi e delle folgoranti scoperte, soprattutto della subitanea passione per Brahms. Di Brahms, nel 1884, Busoni eseguì la 'Sonata in fa minore' op. 5 e le 'Variazioni su un tema di Händel': infatuazione passeggera, almeno per l'esecutore (ché diverso è il caso dell'influenza esercitata da Brahms su Busoni compositore), se è vero che poi nel suo repertorio soltanto il 'Concerto in re minore' op. 15 apparve con una certa frequenza. Questi tre lavori, più le 'Variazioni su un tema di Paganini' op. 35, furono le uniche composizioni di Brahms suonate in concerto da Busoni. Non presentò mai in pubblico il 'Concerto in si bemolle maggiore' op. 83, nemmeno quando si trattò di illustrare la storia dello sviluppo del Concerto per pianoforte: pur apprezzandolo molto e conoscendolo a fondo, lo considerava una Sinfonia con pianoforte obbligato, ossia un lavoro eminentemente sinfonico.
Verso i vent'anni, Busoni cominciò ad approfondire lo studio del repertorio romantico, e soprattutto di Chopin. Chopin fu l'unico romantico ad apparire regolarmente nei suoi programmi anche negli anni berlinesi e zurighesi, e l'unico che egli stimasse degno, al pari di Bach, Beethoven e Liszt, di figurare da solo in un intero concerto. Dovette però lavorare parecchio prima di arrivare a comprendere la vera, autentica statura artistica di Chopin, quella statura che una tradizione esecutiva superficiale e volgare aveva compresso e immiserito nella moda salottiera di un intimismo sentimentale o nella brillantezza esteriore di un virtuosismo a effetto. Ancora nel 1922 Busoni confidava all'amico Phiipp:

Chopin mi ha attratto e respinto per tutta la vita; e troppo spesso ho sentito la sua musica: prostituita, profanata, involgarita. È un'isoletta attorno a cui le acque salgono sempre più, sinché non ne sporgono che due o tre cime: gli 'Studi' e i 'Preludi' e, forse, le 'Ballate' [48].

I 'Preludi' interessarono Busoni più di ogni altra opera di Chopin. Attese fino al 1906 prima di affrontarli in pubblico nella versione integrale, ma lo studio di tutto il ciclo fu per lui una rivelazione entusiasmante:

I «24» di Chopin mi hanno dato molto da fare. Non sembrano difficili quando si sentono, ma in realtà non sono più facili delle 'Variazioni su Paganini'. E tanto diversi nella tecnica. Bisogna sapersi trasformare continuamente! Ma è un magnifico arricchimento... [49].

E il giorno dopo, sempre alla moglie, con malcelato orgoglio:

I 'Préludes' di Chopin mi sono costati giusto 12 ore di studio in 4 giorni! [50]

Il modo in cui Busoni affrontava Chopin parve sempre, soprattutto nei paesi tedeschi, difficilmente accettabile perché troppo poco sentimentale. Afferma a questo proposito Dent:

La sua concezione di Chopin fu sempre di terrificante grandiosità. I passaggi che la maggior parte dei pianisti usavano rendere in modo sognante etenero, lui li eseguiva con energia e dignità, quasi volesse sembrare duro e severo [51].

Per un certo tempo, nella interpretazione della «Marcia funebre» della 'Sonata in si bemolle minore' op. 35, seguì le suggestioni letterarie che avevano reso famoso Rubinstein, per il quale la musica doveva evocare il quadro del passaggio di un corteo funebre. Nei Trio, scandalizzò i critici dando alla melodia un rilievo inconsueto, come fosse quella di un'opera italiana, magari di Bellini, cogliendo così in pieno un aspetto peculiare dello stile di Chopin. L'avvicinamento al cuore dell'arte chopiniana avvenne a poco a poco, con rigore inflessibile, spogliandola via via dei rivestimenti inessenziali. È sintomatico a questo riguardo citare un episodio relativo al primo concerto di Busoni a Varsavia (1902). Per quell'occasione, in omaggio alla città natale del compositore, egli aveva preparato un programma che comprendeva solo musiche di Chopin. L'impresario, memore delle feroci stroncature avute da Busoni come interprete chopiniano, suggerì di modificare il programma con altri autori a lui più congeniali: Busoni rifiutò categoricamente. Il concerto si risolse in un inatteso, grande trionfo. Egli commentò semplicemente che chi conosceva il vero Chopin non poteva non apprezzare il senso delle sue interpretazioni.
Analogamente a quanto aveva fatto per Beethoven, Busoni presentò il suo concerto monografico dedicato a Chopin alla Tonhaile di Zurigo il 13 aprile 1916 (in programma i 12 'Studi' op. 25, i 24 'Preludi' e la 'Ballata' n. 4) con una pagina critica che vai la pena di riportare per intero:

Nella storia della musica Chopin si trova in una posizione particolare in quanto - pur avendo scritto solo per pianoforte e per di più soltanto in forme di minori dimensioni - esercitò un influsso decisivo su contemporanei e successori e arrivò poco per volta a essere il compositore più popolare, il più amato, il più accessibile agli amatori di musica di ogni grado: posizione questa che detiene quasi nella stessa misura tutt'oggi. Ma altrimenti lo vedono i musicisti (uno Schumann e un Liszt in prima linea), altrimenti lo vede il pubblico. Perché l'atteggiamento del pubblico verso l'artista riposa da sempre su un benevolo equivoco, e non è possibile che sia altrimenti, né altrimenti può essere. In questo caso è stato il lato fantasioso e sensibile della natura di Chopin che ha colpito il punto ricettivo di un uditorio estremamente vasto.

«Ah, questi cuori teneri!
Un ciarlatano è capace di commuoverli» [52]

Avuta assicurazione da parte di autorità musicali che stavolta non si trattava di un ciarlatano, tanto più volentieri il pubblico si è abbandonato a quel lato della sensibilità chopiniana che coincideva con la caratteristica principale .sia del ciarlatano che del pubblico. Ma l'apporto più valido di Chopin sta nell'aver espresso il suo mondo soggettivo senza ritegno, nell'aver arricchito l'armonia e sviluppato il pianismo puro. Il suo soggettivismo è collegato con la tendenza all'espressione personale del suo tempo; la sua personalità rappresenta l'ideale del personaggio da romanzo balzacchiano degli anni 1830-40: lo straniero pallido, interessante, misterioso, distinto, - a Parigi. La coincidenza di tanti elementi spiega l'azione vasta e penetrante esercitata dalla sua personalità, alla quale una forte musicalità conferisce validità duratura [53].

Quanto agli altri autori romantici, un posto di rilievo è occupato nel repertorio pianistico di Busoni da Carl Maria von Weber (soprattutto il Weber dei pezzi brillanti e delle 'Sonate') e da Mendelssohn, che però Busoni probabilmente non contava fra i romantici; e forse proprio in ciò stava la ragione della sua ammirazione eterna per lui, il quale oltretutto era stato uno dei primi paladini della religione di Bach. Altri nomi, come quelli del francese Charles Henri Valentin Alkan (1813-88) e di Anton Rubintein, assai stimato da Busoni anche come compositore, restarono amori per lo più passeggeri, avventure di determinati momenti o stati d'animo della vita di un artista. Per alcuni autori, non ci sarebbe stata neppure una seconda volta: è il caso di Cajkovskij, di cui Busoni fu «costretto» a suonare a Londra il celeberrimo 'Concerto in si bemolle minore'. Ne riferì alla moglie in questi termini:

Il 'Concerto' di Cajkovskij è passato ed è andato in modo eccellente; but once and never again [54]; - mi sentivo come quando indosso un paio di scarpe nuove; hanno un aspetto elegante, ma non vedo l'ora di toglierle [55].

E così fu.
Diverso il caso di compositori come Saint-Saëns e in particolare Franck. Busoni fu solito, fin dalle prime tournées, suonare le musiche dei compositori più affermati del paese che lo ospitava. Per esempio, durante le tournées in Italia del 1882-83 si accostò alla musica di Adolfo Fumagalli (di cui a Empoli nel 1882 suonò l'allora famosa trascrizione del 'Carnevale di Venezia') e Stefano Golinelli; così come a Copenaghen, nel 1896, suonò per la prima volta il 'Concerto in la minore' di Grieg. Quanto a Saint-Saëns, Busoni nutrì per lui una pacata ammirazione, dovuta anche al reciproco legame di stima e di amicizia. Seppe però dar conto di questa ammirazione in modo del tutto obiettivo e convincente in un bello scritto in sua memoria [56]; né ebbe torto a considerare i suoi 'Concerti' in sol minore e fa maggiore degni di figurare fra i piccoli capolavori del genere. Dell'importanza attribuita a Franck per le novità contenute nel 'Preludio, Corale e Fuga' e, in minor misura, nel 'Preludio, Aria e Finale', abbiamo già detto.
Dopo Vienna, una nuova fase iniziatasi con l'affrancamento dalla famiglia e i primi viaggi a Berlino e Lipsia, e culminata nel lungo soggiorno in America, segna la consacrazione, prima europea poi mondiale, di Busoni pianista. E una crescita a vista d'occhio, progressiva conquista non tanto di territori geografici, quanto di orizzonti tecnici e spirituali. Ancora per qualche anno Busoni spazza il campo come virtuoso puro, con programmi farciti di veri pezzi da combattimento. Ne trascriviamo uno, tipico, di un concerto tenuto ad Amburgo nel 1887: «Tarantella» dalla 'Muta di Portici' di Auber nella trascrizione di Liszt, due Valzer di Johann Strauss trascritti da Tausig, il 'Perpetuum mobile' di Weber, il Notturno in re bemolle maggiore op. 27 n. 2 di Chopin, le «Variazioni» dalla 'Sonata in re maggiore' di Haydn, il «Rondò alla Turca» dalla 'Sonata' K. 331 di Mozart e, per finire, la 'Fantasia e Fuga in sol minore' per organo di Bach nella trascrizione di Liszt.