FRIEDRICH NIETZSCHE


COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA

PARTE TERZA


“Voi guardate in alto, quando tendete verso l'elevazione. E io guardo giù nel profondo, perché sono già esaltato.
Chi di voi può insieme ridere ed essere esaltato?
Chi sale sugli alti monti, ride sopra tutte le tragedie e tutte le tristizie seriose.

Zarathustra, Del leggere e dello scrivere (I)

IL VIANDANTE

Era quasi mezzanotte, quando Zarathustra prese la sua strada sù per il dorso dell'isola, per raggiungere di buon mattino l'altra spiaggia: perché di là voleva salire sulla nave. Infatti là c'era una buona rada, dove anche le navi straniere gettavano spesso l'ancora; e prendevano con sé tutti quelli che volevano traversare il mare dalle Isole Felici.
Mentre Zarathustra saliva così per la montagna, ripensava strada facendo al suo molto girovagare solitario fin dalla sua giovinezza, e a quante montagne e dorsi e cime aveva già salito.
“Io sono un viandante e uno scalatore” disse al suo cuore; “io non amo l'uniforme; sembra che io non possa starmene fermo a lungo.
E qualunque cosa mi sopraggiunga come destino ed esperienza da sopportare, io sarò sempre un viandante e uno scalatore: perché infine non si esperimenta mai se non se stessi.
È passato il tempo in cui potevano accadermi delle disgrazie e che cosa mai potrebbe ora accadermi, che già non sia cosa mia?
È un continuo ritorno, e così ritorna alla fine da me il mio proprio Io, e ciò che di lui fu a lungo in un paese straniero e disperso tra tutte le cose e sorti.
E so anche una cosa: io sto ora davanti alla mia ultima cima e a ciò che mi è stato riservato per ultimo. Ahimè, io devo scalare la mia strada più ardua! Ahimè, io ho iniziato il mio più solitario viaggio!
Ma chi è della mia specie non fugge una tale ora: l'ora che gli dice: 'Ora soltanto tu percorri la via verso la tua grandezza! Cima e abisso sono ora una sola cosa!
Tu percorri la via della tua grandezza: ora è divenuto tuo ultimo rifugio ciò che tu hai fino ad oggi chiamato tuo ultimo pericolo!
Tu percorri la via della tua grandezza: il fatto che dietro di te non vi sia più strada alcuna, possa essere il tuo miglior coraggio!
Tu percorri la via della tua grandezza: e nessuno ormai ti seguirà di soppiatto! Il tuo stesso piede ha cancellato la via dietro di te, e su questa sta scritto: impossibilità.
E se ti mancano ormai tutte le scale, allora tu devi saper salire anche sulla tua stessa testa: come vorresti altrimenti ascendere?
Sulla tua stessa testa e via oltre il tuo stesso cuore! Ora ciò che in te è più mite deve divenire durissimo.
Chi si è sempre molto riguardato, si ammala infine della sua stessa cautela. Sia lodato ciò che rende duri! Io non amo la terra dove scorrono burro e miele!
Bisogna imparare a prescindere da se stessi, per vedere molto: questa durezza è necessaria a chi vuole scalare le montagne.
Ma chi con lo sguardo insiste nella volontà di conoscere, che cos'altro potrebbe scorgere di tutte le cose se non la loro scorza?'
Ma tu, Zarathustra, tu hai voluto scrutare l'apparente e la nascosta ragione di tutte le cose: così tu devi salire oltre te stesso, avanti, in alto, fino a che tu non avrai sotto di te le tue stelle!
Sì! Guardare me stesso dall'alto, e anche le mie stelle: soltanto questo io chiamo la mia vetta, ed è ciò che mi è rimasto ancora qual compito e mia ultima vetta!”
Così parlò Zarathustra a se stesso durante la salita, confortando il suo cuore con dure sentenze: perché era ferito nel cuore come non mai prima di allora. E come giunse sulla sommità del dorso montuoso, scorse davanti a sé la vastità dell'altro mare: e si fermò e tacque a lungo. Ma la notte era fredda a quella altitudine e limpida e stellata.
“Io conosco la mia sorte” disse infine con tristezza. “Suvvia! Sono pronto. In questo momento comincia la mia ultima solitudine.
Ahimè, questo nero triste mare sotto di me! Ahimè, questa gonfia notturna malinconia! Ahimè, destino e mare! Io devo discendere fino a voi!
Sto innanzi alla più elevata delle mie montagne e al mio più lungo cammino: perciò devo prima scendere più in fondo di quanto sia mai salito: più giù in fondo nel dolore di quanto sia mai salito, fino dentro ai suoi flutti più neri! Così vuole il mio destino: Suvvia! Sono pronto.
Da dove vengono le più alte montagne? così ho chiesto un giorno. E ho appreso che vengono dal mare.
Questa testimonianza è scritta sulle loro rocce e sulle pareti delle loro vette. Dal più, profondo il sommo deve levarsi alla sua altezza.”

Così parlò Zarathustra sulla cima della montagna, dove faceva freddo: ma quando giunse in prossimità del mare e infine si trovò solo tra gli scogli, allora avvertì la stanchezza del cammino e fu preso da ancor maggiore nostalgia.
“Ora tutto è ancora addormentato” disse; “anche il mare dorme. Il suo occhio mi guarda ebbro di sonno e muto.
Ma emana calore, lo sento. E sento anche che sogna. Si ravvolge su se stesso dormendo su duri cuscini.
Ascolta! ascolta! Come si lamenta nei suoi cattivi ricordi! O forse in cattive speranze?
Ahimè, sono anch'io triste con te, oscuro mostro, e per causa tua sono io stesso angosciato.
Ahimè, perché la mia mano non ha forza sufficiente? Volentieri, in realtà, io ti libererei dai tuoi cattivi sogni!”

E mentre Zarathustra così parlava, rideva di se stesso con malinconia e amarezza. “Come, Zarathustra!” si disse. “Tu vorresti, cantando, dare conforto anche al mare?
Ahimè, Zarathustra, pazzo bonario, fiducioso, arcibeato! Ma tu sei sempre stato così: sempre ti sei avvicinato fiduciosamente ad ogni terribile cosa.
Tu hai voluto accarezzare ogni mostro. Un soffio di caldo respiro, un po’ di soffice pelo intorno, alla zampa: e subito tu sei pronto ad amare e a sedurre.
L'amore è il pericolo del più solitario, l'amore per tutto ciò che solo viva! Realmente è degna di riso la mia follia e la mia modestia nell'amore!”

Così parlò Zarathustra, e rise ancora una volta: ma allora si ricordò dei suoi amici che aveva abbandonato; e come se coi suoi pensieri si fosse reso colpevole verso di loro, si inquietò con se stesso dei suoi pensieri. E subito avvenne che colui che rideva pianse: Zarathustra pianse amaramente d'ira e di nostalgia.



DELLA VISIONE E DELL'ENIGMA


1

Quando, tra l'equipaggio, si sparse voce che Zarathustra era sulla nave - poiché insieme a lui era salito a bordo un altro uomo, che veniva dalle Isole Felici -, allora sorse una grande curiosità e attesa. Ma Zarathustra tacque per due giorni ed era freddo e sordo per la tristezza, così che non rispondevano agli sguardi né alle domande. Ma la sera del secondo giorno i suoi orecchi si riaprirono, sebbene ancora non parlasse: poiché si potevano ascoltare molte cose straordinarie e pericolose su quella nave, che veniva da lontano e andava ancora più lontano. Ma Zarathustra era amico di tutti quelli che fanno viaggi lontani e non possono vivere senza pericolo. Ed ecco! mentre stava in ascolto, infine la sua lingua si sciolse, e il ghiaccio del suo cuore si ruppe: allora cominciò a dire così:
“A voi, audaci cercatori, tentatori, e a chiunque si imbarcò per mari spaventosi con vele astute,
a voi, ebbri di enigma, amici del crepuscolo, la cui anima è sedotta dai flauti verso ingannevoli abissi:
- poiché non volete seguire a tastoni un filo con codarda mano; e, dove potete indovinare, là odiate concludere a voi tutti io narro l'enigma che ho veduto, la visione più solitaria.
Recentemente camminavo triste nel pallido crepuscolo, triste e duro, con le labbra serrate. Più d'un sole era tramontato per me.
Un sentiero che saliva difficile attraverso le pietre, un sentiero maligno, solitario, non confortato da erba né da arbusti: un sentiero di montagna scricchiolava sotto la costanza del mio piede.
E così silenziosamente avanzando sull'ironico turbinio dei ciottoli, calpestando la pietra che lo faceva scivolare: così il mio piede si sforzava di salire.
Verso l'alto; a dispetto dello spirito che lo tirava verso il basso, lo trascinava verso l'abisso, lo spirito di pesantezza, il mio demonio e nemico capitale.
Verso l'alto; sebbene egli sedesse su di me, mezzo nano, mezzo talpa; paralitico, paralizzante; gocciolando piombo nelle mie orecchie e nel mio cervello pensieri come gocce di piombo.
'O Zarathustra,' bisbigliava con scherno, sillaba per sillaba, 'tu, pietra della saggezza! Tu ti sei lanciato in alto, ma ogni pietra lanciata deve cadere!
O Zarathustra, tu, pietra della saggezza; tu, pietra da fonda; tu, infrangitore di stelle! Tu ti sei lanciato da te stesso così in alto; ma ogni pietra lanciata deve cadere!
Sei condannato a te stesso e alla tua propria lapidazione: o Zarathustra, sì, tu hai lanciato lontano la pietra; ma ricadrà su di te!'
Il nano tacque; e così durò a lungo. Ma il suo silenzio mi opprimeva; e ad essere in due in questo modo si è, in realtà, più soli che ad essere uno solo!
Io salivo, salivo, sognavo, pensavo; ma tutto mi opprimeva. Ero simile ad un malato stanco del suo lungo tormento, che un sogno ancora più brutto ridesta dal sonno.
Ma c'è qualcosa in me che io chiamo coraggio: che fino ad ora ha sempre vinto ogni mio scoraggiamento. Questo coraggio infine mi ha imposto di fermarmi e di dire: 'Nano! O tu o io!'
Il coraggio è il miglior assassino, il coraggio che attacca; poiché in ogni assalto c'è qualcosa che suona.
Ma l'uomo è l'animale più coraggioso: perciò egli ha vinto ogni animale. A suon di musica ha vinto anche ogni dolore; e il dolore umano è il più profondo dei dolori.
Il coraggio uccide anche la vertigine degli abissi: e dove l'uomo non si trova davanti agli abissi? Il vedere stesso non è scorgere abissi?
Il coraggio è il migliore assassino; il coraggio uccide anche la compassione. Ma la compassione è l'abisso più profondo: quanto più profondamente l'uomo penetra la vita, tanto più profondamente penetra anche il dolore.
Ma il coraggio è il miglior assassino, coraggio che attacca: egli uccide anche la morte, perché dice: 'Questa era la vita? Suvvia! Ancora una volta!'
In questo detto vi è molta musica. Chi ha orecchi da intendere, intenda.”


2

“Fermo, nano!' dissi. 'O tu o io! Ma io sono il più forte di noi due: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo tu non lo potresti sopportare!'
Allora accadde che io mi sentii più leggero: perché il nano scese già dalle mie spalle, il curioso! E si rannicchiò su una pietra' davanti a me. Ma c'era un portone proprio là dove noi ci fermammo.
'Guarda questo portone, nano!' proseguii. 'Ha due facce. Qui si incontrano due strade: nessuno le ha percorse mai fino alla fine.
Questo lungo sentiero indietro dura un'eternità. E quel lungo sentiero in avanti è un'altra eternità.
Si contraddicono, queste strade; battono la testa l'una contro l'altra: ed è appunto qui, a questo portone che si incontrano. Il nome del portone sta scritto in alto: Attimo.
Ma chi andasse avanti per una di queste strade e sempre avanti e sempre più lontano -, credi tu, o nano, che queste strade si contraddirebbero eternamente?'
'Tutto ciò che è diritto mente' mormorò sprezzante il nano. 'Ogni verità è curva; il tempo stesso è un cerchio.'
'Tu, spirito di gravità!' dissi adirato. 'Non prendere la cosa troppo alla leggera! O altrimenti ti lascio rannicchiato lì dove sei, a gamba zoppa, io che ti ho portato in alto!'
'Vedi' continuai 'questo attimo! Da questo portone-attimo corre un lungo, eterno sentiero all'indietro: dietro di noi sta un'eternità.
Non deve forse tutto ciò che può correre esser già passato una volta per questo sentiero? Non deve forse tutto ciò che può accadere, essere già accaduto una volta, compiuto, trascorso?
E se tutto è già stato: che cosa pensi tu, nano, di questo attimo? Non deve anche questo portone già essere stato?
E non sono tutte le cose concatenate in tal modo che questo attimo trascina con sé tutte le cose venture? Quindi, anche se stesso?
Poiché tutto ciò che può camminare, anche per questo lungo sentiero che va avanti, deve una volta passare!
E questo lento ragno che striscia nel chiarore della luna, e quello stesso chiarore, e io e tu sotto il portone, bisbigliando insieme, bisbigliando di cose eterne, non dobbiamo già essere stati una volta? e ritornare e passare per l'altro sentiero, davanti a noi, per questo lungo orribile sentiero, non dobbiamo ritornare eternamente?'
Così io dicevo e sempre più piano: poiché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri nascosti. Allora, improvvisamente, udii un cane ululare vicino.
Avevo mai udito un cane ululare così? Il mio pensiero tornò indietro. Sì! quand'ero bambino, nella più lontana fanciullezza: allora avevo udito un cane ululare così. E Io avevo anche visto, col pelo irto, la testa protesa in alto, tremante, nella più silenziosa mezzanotte, quando anche i cani credono ai fantasmi: così che mi fece pietà. Proprio allora la luna piena passava, in un silenzio mortale, sopra la casa; proprio allora stava là quieta, come una brace rotonda, quieta sul tetto piatto, come su proprietà altrui:
di ciò il cane aveva avuto allora paura: perché i cani credono ai ladri e ai fantasmi. E quando l'udii ancora ululare così, mi fece ancora una volta pietà.
Dov'era ora il nano? E il portone? E il ragno? E ogni bisbiglio? Forse che io stavo sognando? Mi destavo? Ad un tratto mi ritrovai tra i selvaggi scogli, solo, desolato, nel più desolato chiarore lunare.
E là giaceva un uomo! Ed ecco! Il cane, balzando con il pelo irto, con guaiti, mi scorse venire; e allora ululò di nuovo, e gridò: avevo mai udito un cane gridare aiuto così?
E, in realtà, ciò che scorsi, io non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore che si torceva, soffocava, si contraeva convulsamente, stravolto, ed una lunga serpe nera gli pendeva dalla bocca.
Ho mai visto tanto ribrezzo e livido orrore su un volto? Forse dormiva? Poi il serpente gli si introdusse nelle fauci e vi si attaccò forte coi denti.
Tirai forte allora il serpente con la mano: invano! essa non riuscì a strappare il serpente dalla gola'. Allora gridai: 'Mordi! Mordi!
Staccagli la testa! Mordi!' Così gridava in me il mio orrore, il mio odio, il mio ribrezzo, la mia pietà, tutto il mio bene e tutto il mio male gridavano in un sol grido in me.
Voi, arditi, intorno a me! Voi cercatori, tentatori, e chi di voi si imbarcò sul mare inesplorato con vele astute! voi appassionati di enigmi!
Scioglietemi dunque l'enigma, che io allora vidi, spiegatemi dunque la più solitaria visione!
Poiché fu una visione e una previsione: che cosa vidi allora in simbolo? E chi è colui che deve ancora venire?
Chi è il pastore, nelle cui fauci penetrò il serpente? Chi è l'uomo a cui penetrò nelle fauci tutto ciò che è più pesante e più nero?
Ma il pastore morse, come gli consigliò il mio grido; morse con saldo morso! Sputò lontano da sé la testa del serpente: e si alzò d'un balzo.
Non più pastore, non più uomo: un trasfigurato, un illuminato, che rideva! Mai sulla terra un uomo ha ancora riso come lui!
O fratelli miei, io ho udito un riso che non era un riso d'uomo; e ora mi divora una sete, un desiderio che mai non si estingue.
Il mio desiderio di quel riso mi divora: oh, come sopporterò di vivere ancora! E come potrei sopportare di morire ora?”
Così parlò Zarathustra.


DELLA BEATITUDINE CONTRO VOGLIA

Con tali enigmi e amarezze nel cuore, Zarathustra traversava il mare. Ma quando fu lontano quattro giorni di viaggio dalle Isole Felici e dai suoi amici, si trovò ad aver superato del tutto la sua pena: e stava di nuovo sul suo destino, vittorioso e con piede fermo. E allora così disse Zarathustra alla sua coscienza esultante:
“Sono di nuovo solo e voglio essere solo, solo con il cielo pulito e il libero mare; e di nuovo è intorno a me l'ora pomeridiana.
Nell'ora pomeridiana io ho trovato la prima volta i miei amici, nell'ora pomeridiana anche l'altra volta: in quell'ora in cui ogni luce diventa più silenziosa.
Poiché ciò che della felicità è ancora in cammino tra cielo e terra, si cerca allora per dimora un'anima luminosa: per gioia ogni luce diviene allora più silenziosa.
Ora pomeridiana della mia vita! Un giorno anche la mia gioia scese a valle per cercarsi una dimora: e trovò queste aperte anime ospitali.
Ora pomeridiana della mia vita! Che cosa non ho dato per avere una sola cosa: questa vivente piantagione del mio pensiero e questa mattutina ora della mia più alta speranza!
Un giorno il creatore cercò i compagni e i figli della sua speranza: ed ecco, accadde che non potesse trovarli perché prima doveva esso stesso crearli.
Così io sono a metà della mia opera, andando dai miei figli e allontanandomi da loro: e per amore dei suoi figli, Zarathustra deve portare a compimento se stesso.
Poiché si ama dal profondo solo il proprio figlio e la propria opera; e dove è un grande amore per se stessi, là v'è un segno di gravidanza: così ho visto che accade.
Ancora verdeggiano i miei figli nella loro prima primavera, stanno vicino l'uno all'altro e insieme si lasciano scuotere dai venti, albero del mio giardino e del miglior terreno.
E in verità! Dove tali alberi stanno vicino l'uno all'altro, là sono le Isole Felici!
Ma un giorno io voglio sradicarli e piantarli di nuovo uno lontano dall'altro: perché imparino la solitudine e l'orgoglio e la prudenza.
Nodoso e piegato in flessibile durezza dovrà stare presso il mare, come un faro vivente dell'indistruttibile vita.
Là dove le tempeste si abbattono sul mare, e il grugno della montagna beve l'acqua, là ognuno dovrà avere una volta il suo giorno e la sua notte di veglia, per sua prova e conoscenza.
Dovrà provare e dare a conoscere, quindi, di essere della mia specie e stirpe, di essere in possesso di una tenace volontà, taciturno, anche quando parla, e così arrendevole da prendere donando: onde possa divenire un giorno mio compagno, e creatore ed esaltatore insieme con Zarathustra: tale che scriva il mio volere sulle mie tavole: per un miglior compimento di tutte le cose.
E per amor suo e dei suoi io dovrò poi portare a compimento me stesso: perciò io ora fuggo la fortuna e mi offro ad ogni sfortuna: per la mia ultima prova e conoscenza.
E in realtà, era tempo che io andassi; e l'ombra del viandante e il lunghissimo indugiare e l'ora più silenziosa, tutto mi diceva: 'E tempo!'
Il vento soffiava attraverso il buco della chiave e diceva: 'Vieni!' Astutamente la porta mi si apriva e diceva: 'Va'!'
Ma io giacevo incatenato dall'amore per i miei figli; il desiderio mi aveva teso questo laccio, il desiderio d'amore, perché io divenissi preda dei miei figli e mi perdessi in loro.
Desiderare per me significa perdersi. Io vi ho, figli miei! In questo avere deve esservi solo sicurezza e non desiderio.
Ma il sole del mio amore mi covava, Zarathustra cuoceva nel suo proprio succo, e ogni ombra e dubbio era volato via.
Già mi veniva la voglia del gelo e dell'inverno:
'Oh, il gelo e l'inverno mi facessero dl nuovo scricchiolare e stridere!' sospiravo; e si levarono da me gelide nebbie.
Il mio passato spezzò i suoi sepolcri, più d'un dolore sepolto vivo si svegliò: aveva soltanto dormito, nascosto nel panneggiamento funebre.
E tutto mi dava segni: 'è tempo!' Ma io non udivo: finché infine il mio abisso si agitò e il mio pensiero mi morse.
Ahimè, pensiero abissale, tu sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di ascoltarti scavare e non tremare più?
Il cuore mi batte sù fino in gola, quando ti sento scavare! Anche il tuo silenzio vuole soffocarmi, o tu abissalmente silenzioso!
Non ho ancora mai osato chiamarti quassù: già bastava che ti portassi con me! Non ero ancora abbastanza forte per la tracotanza e malizia del leone.
Mi era già sufficiente l'orrore del tuo peso: ma un giorno io dovrò trovare la forza e la voce leonina per chiamarti quassù!
Quando un giorno avrò superato ciò, supererò anche cose maggiori; e una vittoria dovrà essere il sigillo del mio compimento!
Frattanto avanzo su mari malsicuri; la lusinga del pericolo mi alletta, mi guardo innanzi e alle spalle, e non vedo confine.
Non è ancora giunta per me l'ora della mia ultima battaglia; o giunge proprio ora? In realtà, mi guardano tutto intorno con perfida bellezza il mare e la vita!
Ora pomeridiana della mia vita! O felicità che precede la sera! O porto in alto mare! O pace dell'incerto! Come diffido di tutti voi!
In realtà, diffido della vostra perfida bellezza! Somiglio all'amante che diffida di tutti i sorrisi troppo vellutati dell'amata.
Come il geloso allontana da sé l'amata, tenero anche nella sua durezza, così io allontano da me quest'ora beata.
Va via, ora beata! Con te mi è sopraggiunta una beatitudine contro voglia! Ora sto qui disposto al più profondo dolore: tu sei giunta fuori tempo!
Va via, ora beata! Piuttosto scegli la tua dimora laggiù, tra i miei figli! Affrettati! e benedicili prima di sera con la mia felicità!
Già si avvicina la sera: il sole cala. Addio, mia felicità!”
Così parlò Zarathustra. Ed attese per tutta la notte la sua infelicità: ma aspettò invano. La notte rimase chiara e silenziosa, e la felicità stessa si avvicinò sempre più a lui. Ma verso il mattino Zarathustra rise in cuor suo e disse con ironia: “La felicità mi corre dietro. Questo accade perché io non corro dietro alle donne. La felicità è infatti una donna”.


PRIMA DEL LEVAR DEL SOLE

“O cielo sopra di me puro! Profondo! Abisso di luce! Guardandoti io mi sento scosso da un divino desiderio.
Lanciarmi nella tua celeste altitudine, questa è la mia profondità! Rifugiarmi nella tua purezza, questa è la mia innocenza!
Il dio è avvolto e nascosto dalla sua bellezza: così tu occulti le tue stelle. Non parli: così mi annunci la tua saggezza.
Muto sul mare impetuoso mi sei oggi apparso, il tuo amore e il tuo pudore sono una rivelazione per la mia anima impetuosa.
Poiché tu sei venuto a me avvolto nella tua bellezza, così tu mi parli muto, palese nella tua saggezza: oh, come potrei non indovinare tutto il pudore della tua anima? Prima del sole tu sei giunto a me, solitario.
Noi siamo amici fin dal principio: abbiamo in comune l'angoscia e il raccapriccio e il fondamento: anche il sole è a noi comune.
Non parliamo fra di noi, perché sappiamo troppe cose: ci tacciamo reciprocamente, ci sorridiamo l'un l'altro il nostro sapere.
Non, sei tu la luce del mio fuoco? Non hai tu l'anima gemella per la comprensione?
Insieme abbiamo imparato ogni cosa; insieme abbiamo appreso a salire al di là di noi stessi, verso noi stessi, e a sorridere 'serenamente:
a sorridere senza nubi da occhi luminosi e da lontananze remotissime, mentre, sotto di noi, costrizione e fine e colpa evaporano come pioggia.
E quando io vagavo solo: di che aveva fame la mia anima nelle notti e nei sentieri senza meta? E quando scalavo le montagne, chi cercavo se non te, sulle montagne?
E tutto il mio errare e scalare montagne era soltanto un bisogno e un pretesto maldestro: perché solo volare vuole la mia volontà, -volare in te!
E chi odiavo io più delle nubi vaganti e tutto ciò che ti offuscava? Odiavo anche il mio stesso odio, perché ti offuscava!
Non sopporto le nubi vaganti, furtivi gatti ladri: rubano a te e a me ciò che abbiamo in comune: l'inaudito illimite Sì e Amen.
Noi non sopportiamo intermediari e intriganti, le nubi vaganti: esseri a mezzo che non sanno benedire né radicalmente maledire.
Più volentieri starei in una botte sotto un cielo chiuso, o più ancora senza cielo in un abisso, che vedere te, cielo lucente, offuscato dalle nubi vaganti!
Spesso m'è presa voglia di legarle solidamente insieme con i frastagliati fili d'oro del fulmine, per battere il timpano, come il tuono, sul loro gonfio ventre:
suonare furiosamente i timpani, perché esse mi rubano il tuo Sì e il tuo Amen! O cielo sopra di me,
O puro! lucido! O abisso lucente! Perché mai ti rubano il mio Sì e il mio Amen!
Io preferisco il rumore, il tuono e le maledizioni del temporale, a questa circospetta esitante calma felina: tra gli uomini io odio più d'ogni altro chi è umile, una cosa di mezzo, un'esitante lenta nuvola che passa.
'Chi non può benedire deve, imparare a maledire!' Questo luminoso principio mi è caduto giù dal cielo chiaro: stella fedele al mio cielo anche nelle notti più buie.
Io sono uno che benedice e dice SI, se tu mi stai intorno, o puro! luminoso abisso di luce! Io porto in ogni abisso il mio benedicente Sì.
Io sono uno che benedice e dice di Sì: perciò ho lottato a lungo, e fui un lottatore, perché volevo che un giorno le mani fossero libere per benedire.
E questa è la mia benedizione: essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come il suo tetto rotondo, la sua cupola azzurra e l'eterna sicurezza: ed è beato colui che così benedice!
Poiché tutte le cose sono battezzate alla fonte dell'eternità e al di là del bene e del male; lo stesso bene e male sono soltanto ombre e parvenze e molli afflizioni e nuvole che passano.
In realtà, è benedizione e non maledizione, se io insegno che 'sopra ogni cosa sta il cielo del Caso, il cielo della innocenza, il cielo della Indeterminazione, il cielo del coraggio'.
'Per caso': questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito ad ogni cosa, liberandola dalla schiavitù della finalità.
Io posi questa libertà e questa celeste serenità come una volta azzurra sopra ogni cosa, quando insegnai che sopra di loro e attraverso loro non vuole nessuna 'volontà eterna'.
Posi questa presunzione e follia in luogo di quella volontà, quando insegnai: 'Nel totale, una sola cosa è impossibile: la ragionevolezza!'
Tuttavia un po' di ragione, un granello di saggezza, sparso fra stella e stella, è un fermento mescolato in tutte le cose: è per amore della follia che la saggezza è mescolata a tutte le cose!
Un po' di saggezza è ben possibile; ma questa beata sicurezza io ho trovato in tutte le cose: che esse preferiscono danzare coi piedi del Caso.
O cielo sopra di me, o puro! sublime! Questa è ora per me la tua purezza, che non esiste nessun eterno ragno né tela di ragno della ragione:
che tu sei per me una pista danzante per divini casi, un divino tavolo per il divino gioco dei dadi e per divini giocatori!
Ma tu arrossisci? Ho forse detto cose da non dirsi? Ho bestemmiato, mentre volevo benedirti?
O è la vergogna di essere in due che ti fa arrossire? Mi imponi di andare e di tacere, perché ora sta giungendo il giorno?
Il mondo è profondo: più profondo di quanto non abbia mai pensato il giorno. Non tutto può essere detto in parole prima del giorno. Ma ecco: ora il giorno giunge: separiamoci dunque!
O cielo sopra di me, o pudibondo! ardente! O mia felicità prima del levar del sole! Il giorno viene: separiamoci! “
Così parlò Zarathustra.



DELLA VIRTÙ CHE RIMPICCIOLISCE

1

Quando Zarathustra fu di nuovo sulla terra ferma, non corse subito alla sua montagna e alla sua grotta, ma fece molte strade e domande e si informò di questo e di quello, così che diceva a se stesso scherzando: “Ecco un fiume, che per mille curve rifluisce alla sua sorgente!” Voleva sapere che cosa frattanto fosse accaduto dell'uomo: se fosse divenuto più grande o più piccolo. E una volta vide una fila di case nuove; allora si meravigliò e disse:
“Che cosa significano queste case? Proprio non le ha costruite una grande anima, a sua immagine!
Forse un bambino scemo le ha cavate dalla sua scatola di giocattoli? Oh, se un altro bambino potesse di nuovo ripone subito nella loro scatola!
E queste stanze e camere: come possono uomini entrarvi ed uscirne? Sembrano fatte per bambole di seta e per ghiottoni, che si fanno anche succhiare”.
E Zarathustra si fermò e meditò. Infine disse triste: “Tutto è diventato più piccolo!
Io vedo ovunque porte più basse: chi è della mia razza, riesce ancora a passarvi sotto, ma è costretto a curvarsi!
Oh, quando io andrò di nuovo nella mia patria, dove non mi dovrò più curvare, curvarmi davanti ai piccoli!” E Zarathustra sospirò e guardò lontano.
Ma in quello stesso giorno pronunciò il discorso sulla virtù che rimpicciolisce.


2

“Io vado fra questo popolo e tengo gli occhi aperti: essi non mi perdonano di non essere invidioso delle loro virtù.
Tentano di mordermi, perché dico loro: per la piccola gente sono necessarie piccole virtù; e perché mi riesce a stento capire come la piccola gente possa essere necessaria!
Assomiglio d'altronde ad un gallo posto in un pollaio inconsueto, dove tutte le galline cercano di beccarlo; tuttavia io non sento rancore per queste galline.
Sono gentile con loro, come con tutte le piccole noie; essere pungente con i piccoli, mi sembra una saggezza da porcospino.
Parlano tutti di me, quando a sera siedono intorno al fuoco; di me parlano, ma mai nessuno pensa a me!
Questo è il nuovo silenzio, che ho imparato: il loro rumore intorno a me stende un mantello sui miei pensieri.
Schiamazzano tra di loro: 'Che cosa vuole da noi questa oscura nuvola? stiamo attenti che non ci porti un'epidemia!'
Poco fa una donna ha tirato a sé un bimbo che voleva avvicinarsi a me: 'Allontanate i bambini!' ha gridato. 'Quegli occhi bruciano le anime dei bambini'.
Tossiscono quando parlo: credono che la tosse sia una obiezione contro i forti venti; ma non indovinano il fremito della mia gioia!
'Non abbiamo tempo per Zarathustra' obiettano; ma che cosa importa un tempo, che per Zarathustra 'non ha tempo?'
E anche quando mi elogiano: come potrei io addormentarmi sulla loro gloria? La loro lode è per me un serto di spine: mi graffia anche quando me la tolgo.
E anche questo ho imparato in mezzo a loro: che il lodatore si dà arie come per rendere qualcosa, ma in realtà vuole ottenere ancora più doni!
Domandate al mio piede, se sopporta il loro modo di lodare e di sedurre! In realtà, nel ritmo di tale tic-tac, egli non ama né danzare, né stare fermo.
Vorrebbero sedurmi, lodandomi, alla piccola virtù; vorrebbero indurre il mio piede al tic-tac della piccola felicità.
Ma io passo tra questo popolo e tengo gli occhi aperti: sono ormai più piccoli e diventeranno sempre più piccoli: a ciò conduce il loro insegnamento della felicità e della virtù.
Perfino nella virtù essi sono modesti, perché vogliono comodità; Ma con la comodità è compatibile soltanto una virtù modesta.
Imparano un modo tutto particolare di camminare e di procedere: io lo chiamo uno zoppicare. E sono d'inciampo ad ognuno che ha fretta.
Qualcuno di loro va avanti guardando dietro di sé, con il collo ritto: mi piacerebbe andare a sbattere contro il suo petto.
Piedi ed occhi non devono mentire, né contraddirsi l'un l'altro. Ma vi è molta menzogna tra la piccola gente.
Alcuni di loro vogliono, ma la maggior parte di essi sono voluti. Alcuni di loro sono sinceri, ma la maggior parte sono solo dei pessimi commedianti.
Vi sono tra loro dei commedianti in mala fede e commedianti contro voglia; i sinceri sono sempre rari, in particolar modo i commedianti sinceri.
Hanno poca virilità: perciò le loro donne si mascolinizzano. Perché soltanto chi è abbastanza maschio, può liberare la femmina nella donna.
La peggiore ipocrisia che ho trovato in loro è che anche coloro che comandano, simulano le virtù di quelli che servono.
'Io servo, tu servi, noi serviamo': così predica la ipocrisia dei dominanti, e guai, quando il primo dei padroni è soltanto il primo dei servi!
Ahimè, anche nelle loro ipocrisie si smarriva la curiosità dei miei occhi; indovinavo bene la loro felicità di mosche e il loro ronzìo intorno ai vetri delle finestre illuminati dal sole.
Come io vedo tanta bontà, così vedo tanta debolezza. E per tanta giustizia e compassione, altrettanta debolezza.
Sono sinceri, giusti e buoni l'un l'altro, come sono sinceri, giusti e buoni i granelli di sabbia verso i granelli di sabbia.
Chiamano 'rassegnazione' l'abbracciare semplicemente una piccola felicità; e intanto vanno storcendo l'occhio verso una nuova piccola felicità.
Essi vogliono, in fondo, semplicemente una cosa: che nessuno faccia loro del male. Perciò prevengono gli altri e fanno loro del bene.
Ma è vigliaccheria: anche se la chiamano 'virtù'.
E quando questa piccola gente parla talvolta rudemente, sento in loro soltanto della raucedine; infatti ogni corrente d'aria li rende più rochi.
Sono prudenti, le loro virtù hanno dita prudenti. Ma mancano dei pugni, le loro dita non sanno chiudersi in pugno.
Per loro è virtù ciò che rende modesti e miti: perciò hanno trasformato il lupo in cane e l'uomo stesso nel migliore degli animali domestici.
'Ci mettiamo a sedere nel mezzo' sembra dirmi il loro sorriso di soddisfazione 'e ugualmente distanti dai gladiatori morenti come dai porci contenti'.
Ma questa è mediocrità: anche se là chiamano moderazione.”


3

“Vado tra il popolo e vi lascio cadere qualche parola: ma esso non sa né prendere né conservare.
Si meravigliano perché non sono venuto a calunniare i vizi e i piaceri; e in realtà, io non sono venuto per mettere in guardia dai borsaioli!
Si meravigliano che io non sia disposto a scaltrire e ad aguzzare la loro prudenza; come se già non avessero tra loro abbastanza sputasentenze, la cui voce stride come il gessetto sulla lavagna!
E quando grido: 'Maledetti tutti i demoni vigliacchi che avete in corpo, che amano piagnucolare e giungere le mani e adorare': allora essi urlano: 'Zarathustra è un ateo'.
E in particolar modo fanno ciò i loro maestri di rassegnazione; ma proprio nei loro orecchi mi piace gridare: Sì! io sono Zarathustra, l'ateo!
Ah, questi maestri di rassegnazione! Si ficcano dovunque siano dei meschini, dei malati e dei rognosi, come pidocchi: soltanto il mio schifo mi trattiene dallo schiacciarli.
Ebbene! Questa è la mia predica per i loro orecchi: io sono Zarathustra, l'ateo, che chiede: 'C'è qualcuno più ateo di me, affinché io gioisca del suo insegnamento?'
Io sono Zarathustra, l'ateo: dove troverò i miei simili? Miei simili sono tutti coloro che impongono a se stessi la loro volontà e rimuovono da sé ogni rassegnazione.
Io sono Zarathustra, l'ateo: e mi cuocio ogni caso nella mia pentola. E solo quando è ben cotto, lo chiamo il benvenuto, come un mio cibo.
Più di un avvenimento mi è riuscito dispotico: ma ancora più dispotica gli ha risposto la mia volontà; e lui, eccolo subito a pregare in ginocchio: a pregare, per trovare in me una dimora e un cuore, aggiungendo allettatore: 'Vedi dunque, o Zarathustra, come l'amico viene incontro all'amico!'
Ma che cosa dico e sbraito, dove nessuno ha i miei orecchi! Perciò voglio gridare a tutti i venti:
Voi diverrete sempre più piccoli, piccola gente! Vi spezzetterete, voi comodi! Andrete in rovina con tutte le vostre piccole virtù, le vostre piccole omissioni, le vostre piccole rassegnazioni!
Troppo molle, troppo cedevole è il vostro terreno!
Ma perché un albero divenga grande, deve conficcarsi con dure radici in salde rocce!
Anche ciò che voi omettete, forma la trama dell'avvenire umano; anche il vostro Niente è una tela di ragno e un ragno che vive del sangue dell'avvenire.
E quando voi prendete, allora è come se rubaste, o voi piccoli virtuosi; senonché anche tra i furfanti l'onore dice che 'si deve rubare quando non si può rapinare'.
'È così;' anche questo è un insegnamento della rassegnazione. Ma io vi dico, o amanti della comodità: si prende e vi sarà preso sempre di più!
Ahimè, se allontanaste da voi ogni mezzo volere e vi decideste una buona volta per la pigrizia o per l'azione!
Ahimè, se poteste comprendere la mia parola: 'Fate comunque ciò che volete, ma siate in primo luogo di quelli che sanno volere!'
'Amate sempre il vostro prossimo come voi stessi; ma siate in primo luogo di quelli che amano se stessi...
amare di un grande amore, amare con un grande disprezzo!' Così parla Zarathustra, l'ateo.
Ma a che parlare, dove nessuno ha i miei orecchi! E anche qui troppo presto per me.
Io sono il mio stesso precursore tra, questo popolo, il mio stesso grido del gallo attraverso vicoli oscuri.
Ma la loro ora sta venendo! Ed anche la mia! Essi vanno divenendo di ora in ora più meschini, più poveri, più sterili; misera erba! misero terreno!
E presto sembreranno erba secca e stoppia, e in verità! stanchi di se stessi, e più spasimanti di acqua che di fuoco!
Ora benedetta del fulmine! O mistero prima del meriggio! Voglio far d'essi un giorno fuochi vaganti e annunciatori con lingue di fiamma:
dovranno un giorno annunciare con lingue di fuoco: viene, è vicino, il grande meriggio!”
Così parlò Zarathustra.


SUL MONTE DEGLI OLIVI

“L'inverno, tristo ospite, abita nella mia casa, le mie mani sono livide a causa delle sue amichevoli strette di mano.
Io lo onoro, questo triste ospite, ma ben volentieri lo lascio solo. Volentieri io gli sfuggo: e, se si corre bene, gli si sfugge!
Con caldi piedi e caldi pensieri io fuggo là, dove
non giunge il vento, verso l'angolo solatìo del mio oliveto.
Là rido del mio rigido ospite e gli sono anche grato, perché a casa mi distrugge le mosche e fa tacere tanti piccoli rumori.
Non sopporta che una mosca ronzi, peggio se due; fa solitarie le strade, tanto che persino il chiaro di luna ha paura di entrarvi.
È un duro ospite, ma io lo onoro, e non prego, come gli effeminati, il panciuto idolo del fuoco.
Preferisco battere ancora un po' i denti, piuttosto che pregare un idolo! Così vuole il mio carattere. E in particolar modo io sono contrario a tutti gli ardenti, fumanti, tetri idoli del fuoco.
Colui che amo; io lo amo più d'inverno che d'estate; più beffardamente e più coraggiosamente io derido i miei nemici, ora che l'inverno sta in casa mia.
Proprio con coraggio, persino quando io vado quatto quatto a letto: anche allora la mia felicità nascosta ride e fa baldoria, e ride anche il mio sogno bugiardo.
Io un basso adulatore? Mai in vita mia ho strisciato davanti ai potenti; e se ho mentito, ho mentito per amore. Perciò sono allegro anche nel mio letto invernale.
Un simile letto mi riscalda meglio di uno ricco, poiché io sono gelo della mia povertà. E nell'inverno questa mi è più fedele che mai.
Inizio ogni giorno con una malignità; beffeggio l'inverno con un bagno freddo: e il mio rigido amico di casa brontola.
Mi piace anche solleticarlo con un candelotto di cera: perché infine lasci uscire il cielo fuori dal grigio crepuscolo.
Io sono particolarmente maligno proprio al mattino: nell'ora mattutina, quando il secchio stride nel pozzo e i cavalli nitriscono con calore per le grigie strade.
Impaziente attendo che il luminoso cielo infine si discopra, il cielo invernale dalla candida barba, il vecchio dalla testa bianca... il cielo invernale, il taciturno, che spesso tiene segreto anche il suo sole!
Ho forse imparato da lui i lunghi luminosi silenzi? O lui, li ha imparati da me? O ognuno di noi se li è inventati da sé?
L'origine di tutte le cose buone è molteplice; tutte le cose buone e coraggiose balzano per gioia alla ribalta della vita: come potrebbero farlo una volta sola!
Anche un lungo silenzio è una cosa buona e coraggiosa, e come il cielo invernale guardare da volti luminosi e chiari occhi tondi: come lui nascondere il proprio sole e la propria inflessibile volontà solare. In realtà, io ho bene appreso quest'arte e questo coraggio invernale!
La mia più cara malizia e arte è questa, che il mio silenzio ha imparato a non tradirsi con il silenzio.
Con un tintinnio di parole e di dadi io vinco d'astuzia quelli che mi attendono al varco solennemente: a tutte queste rigide spie sono costretti a sfuggire la mia volontà e il mio fine.
Perché nessuno possa vedere nel fondo della mia anima e nella mia suprema volontà, ho inventato il mio lungo luminoso silenzio.
Ho incontrato più di un prudente: che velava il suo volto e intorbidiva la sua acqua, perché nessuno lo vedesse dentro.
Ma proprio a lui si attaccarono i più scaltri e diffidenti e gli schiacciatori di noci: proprio da lui cavarono fuori il suo più falso pesce!
Ma i limpidi, i coraggiosi, i trasparenti, sono per me i più scaltri taciturni: così profondo è il loro fondo che anche l'acqua più limpida non lo tradisce.
O tu, silenzioso cielo invernale dalla barba bianca, tu, testa bianca dagli occhi tondi che mi stai guardando! O celeste immagine della mia anima e della sua temerarietà!
Non dovrò nascondermi, come uno che ha inghiottito l'oro, affinché non mi si squarci l'anima?
Non dovrò camminare sui trampoli, perché non si accorgano delle mie lunghe gambe, tutti questi invidiosi e piagnucoloni che mi stanno intorno?
Queste anime affumicate, calducce, logore, ammuffite, inasprite; come potrebbe la loro invidia sopportare la mia felicità!
Così io mostro loro soltanto il ghiaccio e l'inverno delle mie vette; e non come il mio monte si cinge ancora di tanto sole!
Essi odono fischiare soltanto le mie bufere invernali: e non si accorgono che io navigo anche su caldi mari, come i nostalgici, grevi, caldi venti del sud.
Hanno pietà delle mie disgrazie e del mio destino: ma la mia parola suona: 'Lasciate il destino venire a me: esso è innocente come un bambino!'
Come potrebbero sopportare la mia felicità, se io non circondassi la mia felicità di disgrazie e di travagli invernali e di cappucci di pelle d'orso e di veli di nevosi cieli?
...se io stesso non avessi pietà della loro compassione: della compassione di questi invidiosi e piagnucoloni!
se davanti a loro non gemessi e battessi i denti per il freddo, e non mi lasciassi pazientemente avvolgere nella loro compassione!
In ciò sta il saggio coraggio e la benevolenza della mia anima, che essa non nasconde il suo inverno e le sue bufere di gelo; e neppure i suoi geloni.
Per uno la solitudine è fuga di malato; per l'altro
è fuga dagli ammalati.
Mi ascoltino pure gemere e battere i denti per il freddo dell'inverno, tutti questi miseri invidiosi furfanti che stanno intorno a me! Con questi gemiti e brividi sfuggo alle loro stanze riscaldate.
Mi compatiscano e sospirino pure per i miei geloni: 'Nel ghiaccio della conoscenza morrà assiderato!'
dicono.
Intanto io cammino in lungo e in largo, con i piedi caldi, sul mio monte degli olivi: nell'angolo solatìo del mio oliveto, io canto e mi beffo di ogni compassione.”
Così cantò Zarathustra.



DEL PASSARE OLTRE

Così attraversando lentamente molto popolo e molte e diverse città, Zarathustra ritornò, per vie traverse, al suo monte e alla sua caverna. Ed ecco che, senza saperlo, giunse anche alle porte della grande città: ma qui un pazzo con la bava alla bocca gli corre incontro con le braccia aperte e gli sbarrò la strada. Questo pazzo era lo stesso che il popolo chiamava “la scimmia di Zarathustra”: infatti aveva appreso qualcosa del suo stile e delle sue flessioni di voce e pescava spesso e volentieri nel tesoro della sua saggezza. Ma questi così parlò a Zarathustra:
“O Zarathustra, qui è la grande città: qui tu non hai nulla da cercare e tutto da perdere.
Perché metterti a sguazzare in questo fango? Abbi compassione dei tuoi piedi! Sputa piuttosto sulle porte della città e vattene via!
Qui è l'inferno per i pensieri dei solitari: qui i grandi pensieri finiscono per lasciarsi bollire e ridurre a pezzi.
Qui si corrompono tutti i grandi sentimenti: vi possono strepitare solo i piccoli sentimenti, asciutti come le aringhe!
Non senti già l'odore dei macelli e delle trattorie dello spirito? Non fuma forse questa città del vapore dello spirito macellato?
Non vedi le anime pendere come stracci cascanti e sporchi? E da questi stracci essi fanno I giornali!
Non senti, come qui lo spirito diventa gioco di parole? Butta fuori una spiacevole sciacquatura di parole! E anche con questa sciacquatura di parole fanno giornali.
Si aizzano l'un l'altro e non sanno contro chi. Si riscaldano l'un l'altro e non sanno perché. Fanno tintinnare il loro stagno, fanno tintinnare il loro oro.
Sono freddi e cercano il caldo nell'acquavite: sono riscaldati e cercano frescura presso gli spiriti gelidi; sono tutti infermi e tisici d'opinione pubblica. Tutti i piaceri ed i vizi sono qui di casa; poi ci sono anche i virtuosi, vi sono molte virtù impiegatizie capaci di tutto: molte virtù impiegatizie con dita di scrivani e dure carni di sederi e di attesa, e la benedizione di piccole stelle sul petto e figlie imbottite senza sedere. Vi sono anche molte pietà e molti fedeli leccapiedi, baciapile del dio degli eserciti. 'Dall'alto' cadono le stelle e l'eccellentissima saliva; verso l'alto aspira ogni petto senza stelle. La luna ha la sua corte e la corte ha i suoi satelliti e verso tutto ciò che viene dalla corte prega il popolo mendicante e tutte le virtù mendicanti impiegatizie. 'Io servo, tu servi, noi serviamo' prega la virtù servizievole verso il suo principe: onde la meritata, stella si appiccichi finalmente all'esile petto! Ma la luna gira intorno alla terra: così anche il principe gira intorno a ciò che è più terreno: e questo è l'oro dei mercanti. Il dio degli eserciti non è il dio, dei lingotti: il principe propone, ma il mercante dispone! Per tutto ciò 'che in te è luminoso e forte e buono, o Zarathustra! sputa su questa città di mercanti e volgiti via! Qui ogni sangue scorre putrido e fiacco e schiumoso nelle vene: sputa sulla grande città, che è la grande cloaca, dove converge ogni rigurgito! Sputa sulla città delle anime flaccide e degli scarni petti, degli occhi aguzzati, delle dita vischiose; sulla città degli intrusi, degli sfacciati, degli scribi e degli strilloni, degli ambiziosi, dei surriscaldati: dove confluisce tutto ciò che è corrotto, equivoco, lascivo, oscuro, putrido, ulceroso; cospiratore: sputa sulla grande città e volgiti via!”
Ma a questo punto Zarathustra interruppe il pazzo dalla bocca schiumante e gli tappò la bocca.
“Finiscila dunque!” esclamò Zarathustra. “I tuoi discorsi e le tue maniere mi fanno da tempo schifo!
Perché hai abitato così a lungo nella palude, da diventare tu stesso un ranocchio e un rospo?
Non scorre forse anche nelle tue vene un sangue putrido, schiumoso e paludoso, che ti ha insegnato a gracidare e a bestemmiare così?
Perché non ti sei rifugiato nella foresta? O non hai arato la terra? Il mare non è pieno di isole verdi?
Io disprezzo il tuo disprezzo: e se tu ammonisci me, perché non ammonisci te stesso?
Dall'amore soltanto deve levarsi in volo il mio disprezzo, il mio uccello ammonitore; ma non dalla palude!
Ti chiamano la mia scimmia, tu pazzo colla bava alla bocca: ma io ti chiamerò d'ora innanzi il mio maiale che grugnisce; tu che col tuo grugnire mi sciupi anche la mia lauda della follia.
Che cosa è stato che ti ha fatto grugnire la prima volta? Il fatto che nessuno ti ha adulato abbastanza. Perciò ti sei seduto su questa lordura, per avere una ragione di grugnire; per avere un motivo di vendetta! Infatti è vendetta, pazzo vanitoso, tutto il tuo schiumare; ti comprendo bene!
Ma la tua folle parola mi secca anche quando hai ragione! E se la parola di Zarathustra avesse mille volte ragione: tu, adottandola, avresti sempre torto!'
Così parlò Zarathustra; guardò la grande città, sospirò e tacque a lungo. Infine così disse:
“Anche questa grande città e non solo questo pazzo mi fanno schifo. Né qui né là c'è nulla da migliorare, né da peggiorare.
Guai a questa colonna di fuoco, in cui essa arderà!
Poiché tali colonne di fuoco devono precedere il grande meriggio! Ma ogni cosa ha il suo tempo e il suo destino!
Per ora ti do questo insegnamento, o pazzo, prima del congedo: se non si può più amare, si deve passare oltre!”
Così parlò Zarathustra e passò oltre il pazzo e la grande città.


DEGLI APOSTATI

Ahimè, è già tutto grigio ed appassito, ciò che poco fa, su questo prato, era verde e variopinto? E quanto miele di speranza già portai di qui ai miei alveari!
Quei giovani cuori sono già tutti vecchi; anzi, neppure vecchi! soltanto stanchi, miserabili, pigri; dicono: 'Siamo di nuovo divenuti devoti'.
Poco tempo fa io li vidi, al mattino, correre con agili gambe verso l'aperto: ma i loro piedi della conoscenza sono divenuti stanchi, e ora calunniano addirittura quel loro volo mattutino!
In realtà, molti di loro muovevano allora le gambe come in una danza e li allettava il riso della mia saggezza: poi si sono ravveduti. E ora li vedo tutti curvi strisciare verso la Croce.
Una volta volavano, come moscerini e giovani poeti, intorno alla luce e alla libertà. Un po' più vecchi, scuri e maldicenti, gente che siede accanto alla stufa.
È mancato loro il cuore dal tempo in cui la solitudine mi ingoiò come una balena? Il loro orecchio è stato troppo a lungo ad ascoltare invano me e il mio appello di tromba e il mio richiamo di araldo?
Ahimè! Sono sempre pochi coloro, il cui cuore ha lungo coraggio e audacia; a questi pochi anche lo spirito rimane paziente. Ma il resto è vile.
Il resto: che sono sempre la maggioranza, di ogni giorno, il di più, i superflui: tutti questi non sono che vili!
Chi è della mia specie, troverà per la via la mia specie di esperienze: i suoi primi compagni saranno cadaveri e saltimbanchi.
Ma i suoi secondi compagni si chiameranno suoi fedeli: uno sciame vivente, con molto amore, con molta pazzia, molta adorazione imberbe.
Non legherà il suo cuore a questi fedeli colui che è tra gli uomini della mia specie; non deve credere a queste primavere e ai prati variopinti, chi conosce la specie umana fuggitiva e vile!
Se potessero diversamente, allora vorrebbero anche diversamente. Le mezze misure rovinano tutto ciò che è intero. Che le foglie ingialliscano, che c'è da lamentarsi?
Lasciale andare in malora, o Zarathustra, e non lamentarti! Piuttosto, soffia con il vento frusciante su di loro, soffia su queste foglie, o Zarathustra: perché tutto ciò che è caduco fugga via da te ancor più velocemente!“
“Noi siamo ridivenuti devoti e pii' confessano questi apostati; molti di loro sono persino troppo vigliacchi, per confessarlo. '
Io li guardo negli occhi, e rinfaccio al rossore delle loro guance: siete di nuovo di quelli che pregano!
Ma è una vergogna, pregare! Non per tutti, ma per te e me, e per chiunque abbia la sua coscienza nella testa! Per te è una vergogna, pregare!
Tu lo sai bene: il vile demonio in te, che ama giungere le mani e tenerle in grembo e desidera star comodo: è questo vile demonio che ti dice: 'C'è un Dio!'
Ma con ciò tu appartieni alla specie di coloro che temono la luce, cui la luce non dà riposo; e così tu devi, giorno per giorno, affondare sempre più il capo nella notte e nella nebbia!
In realtà, tu hai scelto bene l'ora: proprio ora gli uccelli notturni volano fuori dai nidi. Giunge l'ora di tutti coloro che temono la luce, l'ora serale e festiva, ove non c'è 'festa'.
Io sento e fiuto: è giunta la loro ora di caccia e di processione, non certo per una caccia selvaggia, ma per una moderata, storpia, caccia furtiva e salmodiante; per una caccia di ipocriti pieni di sentimento: tutte le trappole del cuore sono ora di nuovo tese! E dove io sollevo una tenda, di là viene fuori a precipizio una piccola farfalla notturna.
Stava forse lì rannicchiata insieme ad un'altra piccola farfalla notturna? Poiché io sento l'odore di piccole confraternite nascoste; e dove c'è una stanzuccia, ci sono nuove pinzochere e il tanfo delle pinzochere.
Siedono insieme ogni sera e dicono: 'Lasciateci ritornare come bambini e dire, buon Dio! con la bocca e lo stomaco resi guasti dai pii dolciai!'
Oppure per lunghe sere stanno a guardare un astuto ragno crocesegnato, che sta in agguato sulla sua tela e predica l'astuzia e insegna: 'È bene fare la tela sotto le croci!'
O siedono tutto il giorno con le lenze sulle paludi e si credono con ciò profondi; ma chi pesca là dove non ci sono pesci, io non lo chiamo nemmeno superficiale!
Oppure imparano lieti e pii a suonare l'arpa da un compositore di inni, che desidererebbe arpeggiarsi dentro il cuore di qualche giovane donnetta: perché è stanco delle vecchie donnette e delle loro lodi.
O imparano a rabbrividire da qualche pazzo semierudito, che in buie camere attende che gli spiriti giungano a lui: e lo spirito svanisce del tutto!
O ascoltano un vecchio girovago barboso che ha imparato dai tetri venti malinconici accenti; e suona come il vento e predica con tetri accenti la malinconia!
Taluni di loro sono divenuti persino guardiani notturni: e ora sanno suonare i corni e andare in giro di notte e risvegliare vecchie cose da tempo addormentate.
Cinque parole di vecchie cose io ho udito ieri notte vicino al muro del giardino: provenivano da questi vecchi tristi rinseccoliti guardiani notturni.
'Per essere un Padre non pensa abbastanza ai suoi figli: i padri terreni in questo fanno meglio!'
'E troppo vecchio! Egli non si cura più dei suoi figli': così rispondeva l'altro guardiano.
'Ma ha figli? Nessuno può provarlo, se non lo prova lui stesso! Da tempo attendo che finalmente ce lo provi.'
'Provare? Come se lui avesse mai provato qualcosa! Provare gli è gravoso; tiene a che gli si creda.'
'Sì! Sì! La fede lo rende felice, la fede in lui. E questa è la caratteristica della gente vecchia! Così siamo anche noi!'
Così dicevano tra loro i due vecchi guardiani notturni e timorosi della luce, e diedero tristemente fiato ai loro corni: questo accadde ieri notte presso il muro del giardino.
Ma a me si torceva il cuore dal ridere e voleva rompersi e non sapeva dove, e sprofondò nel diaframma.
In realtà, questa sarà la mia morte, che io soffochi per il riso, se vedrò gli asini ubriachi e ascolterò i guardiani notturni dubitare in tal modo di Dio.
Non è dunque passato il tempo, anche per tutti questi dubbi? Chi può risvegliare ancora tali favole addormentate che hanno paura della luce!
Con i vecchi dèi è finita già da tempo: e in realtà, essi hanno avuto una buona e felice fine!
La loro morte non fu un crepuscolo [Allusione al Crepuscolo degli dèi di Wagner]; questo è mentire! Piuttosto: un giorno essi moriranno dal ridere!
Questo avvenne quando un dio pronunciò la formula più atea: 'C'è un solo dio! Tu non avrai altro dio tranne me!' un vecchio dio barbuto, geloso, poté giungere a tal punto: e allora tutti gli dèi risero e traballarono sui loro seggi ed esclamarono: 'Non è proprio questa l'essenza della divinità, che non c'è Dio, ma gli dèi?'
Chi ha orecchi da intendere, intenda.”
Così parlò Zarathustra nella città che egli amava e che è chiamata “La vacca variopinta”. Da lì aveva da camminare ancora per due giorni, per giungere alla sua caverna e ai suoi animali; ma la sua anima era continuamente in letizia per la prossimità del suo ritorno.


IL RITORNO

“O solitudine! Tu solitudine, mia patria. Troppo a lungo ho vissuto selvaggio in paese selvaggio, da non tornare con lacrime di gioia alla tua dimora!
Ora minacciami solo con il dito, come minacciano le madri, sorridimi, come sorridono le madri, dimmi dunque: 'E chi era colui che un giorno fuggì via da me come un vento di tempesta?
...che andandosene esclamò: troppo a lungo ho vissuto con la solitudine, e così ho disimparato a tacere! E ora - l'hai tu imparato?
O Zarathustra, io so tutto: e che tu nella moltitudine ti sentivi abbandonato, più solo che con me!
Altra cosa è l'abbandono, altra la solitudine: questo l'hai imparato! E che tra gli uomini tu sarai sempre un selvaggio e un estraneo: selvaggio ed estraneo anche se essi ti amassero: poiché prima di tutto essi vogliono essere rispettati!
Ma qui invece tu sei nella tua dimora e in casa; qui tu puoi dire tutto liberamente e sfogarti fino in fondo, qui non c'è da vergognarsi dei sentimenti intimi e tenaci.
Qui tutte le cose vengono carezzevoli al tuo labbro e ti lusingano: poiché vogliono cavalcare su questo dorso. Su ogni similitudine tu cavalchi qui verso ogni verità.
Sincero e leale tu puoi qui parlare a tutte le cose: e in realtà, come una lode suona ai loro orecchi, che qualcuno parli chiaro e diritto con tutte le cose!
Ma altra cosa è l'abbandono. Ti ricordi ancora, o Zarathustra? Quando l'uccello gracchiò sopra la tua testa, mentre eri nella foresta, indeciso dove andare? Ignaro, con vicino un cadavere: quando dicesti: possano guidarmi i miei animali! Ho trovato più pericoloso vivere tra gli uomini che tra gli animali. Questo era abbandono!
Non ti ricordi, Zarathustra? Quando tu eri seduto nella tua isola, una fontana di vino tra secchie vuote, dando ed elargendo, donando e spendendoti per gli assetati: finché alla fine tu solo restasti assetato tra gli ebbri, e durante la notte lamentavi: il prendere non è più beato che il dare? [Allusione al detto dl Cristo che si trova in San Paolo: ‘Donare è più dolce che ricevere'] E il rubare più beato che il prendere? Questo era abbandono!
O Solitudine! Tu solitudine, mia patria! Come mi parla beata e carezzevole la tua voce!
Noi non ci facciamo domande l'un l'altro, noi non ci lamentiamo l'un l'altro, noi andiamo apertamente insieme attraverso porte aperte.
Poiché in te tutto è aperto e chiaro; e anche le ore corrono su piedi più agili. Nel buio il tempo trascorre più pesantemente che nella luce.
Qui si aprono tutte le parole e tutti gli scrigni delle parole di vita: qui ogni vita vuoi divenire parola, ogni divenire vuole imparare da me a parlare.
Ma laggiù, là, ogni parola è vana! Là, la miglior saggezza è dimenticare e passar oltre: questo ho appreso ora!
Chi, stando tra gli uomini, volesse capire tutto, dovrebbe toccare tutto. Ma io ho mani troppo pulite per farlo.
Già io non posso respirare il loro fiato; ahimè, ho vissuto così a lungo tra le loro grida e nel loro fetido alito!
O beato silenzio intorno a me! O puri profumi a me d'intorno! O come questo silenzio respira puro dal profondo del petto! Come sembra stare in ascolto, questo beato silenzio!
Laggiù, invece, tutti parlano, e nessuno ascolta. Si gridi pure la saggezza con le campane: i mercanti del mercato vinceranno il loro buono con il tintinnio delle monete!
Tutti parlano, nessuno sa più comprendere. Tutto cade nell'acqua, ma niente cade più nelle profonde fontane.
Tutti parlano e nulla giunge più a buon fine. Tutti gracchiano, ma chi vorrà sedere tranquillo sul proprio nido a covare le uova?
Tutto fra loro parla, tutto viene ridotto in formule. E ciò che ieri era ancora troppo duro per il tempo stesso e per il suo dente, oggi pende -raschiato e corroso dalle fauci degli uomini attuali.
Tutti parlano, tutto è svelato. E ciò che una volta era chiamato segreto e mistero delle anime profonde, oggi appartiene ai trombettieri di piazza e ad altri farfalloni.
O umanità, strana cosa! O strepito per le vie oscure! Ora tu stai di nuovo dietro di me: il mio più grande pericolo sta alle mie spalle!
Nell'indulgenza e nella compassione si è sempre annidato il mio maggior pericolo; ogni umanità vuole essere risparmiata e compatita.
Con verità nascoste, con folle mano e folle cuore e ricco delle piccole bugie della compassione: così io ho sempre vissuto tra gli uomini.
Ho seduto travestito tra di loro, pronto a negare me, per sopportare loro, e persuadendo volentieri me stesso: 'Folle, tu non conosci gli uomini!'
Si disimpara l'uomo, quando si vive tra gli uomini: in ogni uomo c'è troppa facciata; a che servono occhi di lunga brama, di lunga portata?
E quando mi disconoscevano, io, folle, ero con loro più indulgente che con me: ero abituato alla durezza contro me stesso e spesso facevo vendetta su me stesso di questa indulgenza.
Punzecchiato dalle mosche velenose e corroso, come una pietra, dalle troppe gocce di malvagità, sedevo tra di loro e dicevo a me stesso: 'Tutto ciò che è piccolo è innocente per la sua piccineria!'
Particolarmente in coloro che si dicono 'buoni', ho trovato le mosche più velenose: pungono in tutta innocenza, mentono in tutta innocenza; come potrebbero essere giusti verso di me!
Chi vive tra i buoni impara a fingere compassione. La compassione rende l'aria afosa per tutte le anime libere. La stoltezza dei buoni è senza fondo.
A nascondere me stesso e la mia ricchezza: questo ho imparato laggiù; infatti vi ho trovato solo poveri di spirito. La bugia della mia compassione, era che io sapessi per ognuno, che di ognuno vedessi e fiutassi, quanto spirito gli bastava e quanto gli era di troppo.
I loro rigidi saggi: io li chiamavo saggi, non rigidi; così imparavo ad inghiottire le parole. I loro becchini: io li chiamavo ricercatori e saggiatori; così imparavo a dire una cosa per un'altra.
I becchini si scavano fuori le loro malattie. Perciò sotto le antiche macerie stanno terribili esalazioni. Non bisogna rivangare la mota. Si deve vivere sulle montagne.
Ma ora, con beate narici, io respiro di nuovo la libertà dei monti! Finalmente il mio naso si è liberato dall'odore dell'umanità!
Solleticata dall'aria frizzante, come da un vino spumeggiante, la mia anima starnuta; starnuta e si rallegra: salute!”
Così parlò Zarathustra.


DELLE TRE COSE MALVAGE

1

“In sogno, nell'ultimo sogno del mattino, io stavo oggi su un promontorio; fuori dal mondo, tenevo una bilancia e pesavo il mondo.
Oh, troppo presto è giunta l'aurora: che infuocata mi ha destato, la gelosa! Essa è sempre gelosa dell'ardore dei miei sogni mattutini.
Misurabile per chi ha tempo, ponderabile per un buon pensatore, raggiungibile a volo per ali potenti, interpretabile per i divini schiaccianoci: così il mio sogno ha trovato il mondo.
Il mio sogno, un ardito veleggiatore, mezzo nave, mezzo sposa dei venti, silenzioso come una farfalla, impaziente come i falchi reali: come dunque ha avuto oggi il tempo e la pazienza di pesare il mondo!
Lo ha persuaso la mia saggezza, la mia ridente, sveglia, quotidiana saggezza, che si beffeggia di tutti 'i mondi infiniti'? Poiché dice: 'Dove è la forza, anche il numero diviene padrone: esso ha più forza'.
Come sicuro il mio sogno guardava questo mondo infinito, non curioso, né del vecchio, né del nuovo, nulla temendo, nulla invocando: come se un turgido pomo si offrisse alla mia mano, un pomo d'oro maturo, con la buccia fresca e vellutata; così mi si offriva il mondo: come se un albero mi facesse cenno, un albero dall'ampia ramaglia, dalla vigorosa volontà, curvo per servire da spalliera e anche da sedile a chi è stanco del cammino; così stava il mondo sul mio promontorio: come se leggiadre mani mi porgessero uno scrigno; uno scrigno, aperto per l'estasi di occhi pudicamente adoranti: così oggi mi veniva incontro il mondo: non abbastanza enigma da intimorire l'amore umano, non abbastanza soluzione da addormentare la sapienza umana: una buona cosa umana era oggi per me il mondo, di cui si dice tanto male!
Come ringrazio il mio sogno mattutino, poiché io
oggi, così di buon mattino, ho pesato il mondo! Questo sogno è venuto a me come una buona cosa umana consolatrice dei cuori!
E perché io possa imitarlo durante il giorno e imparare da lui le sue cose migliori: io voglio ora porre sulla bilancia le tre cose peggiori e pesarle umanamente bene.
Chi ha imparato a benedire, ha imparato anche a maledire: quali sono nel mondo le tre cose più maledette? Queste voglio porre sulla bilancia.
Voluttà, sete di dominio, egoismo: queste tre cose sono state fino ad ora le più maledette e più malfamate e calunniate, ed io le voglio pesare umanamente bene.
Ebbene! Qui è il mio promontorio, e là il mare: che si scaglia violento vicino a me, velloso, lusinghiero, questo vecchio fedele mostro canino dalle cento teste, che io amo.
Ebbene! qui io voglio reggere la bilancia sul mare ondoso: ed eleggo a testimonio, perché vigili, te, albero solitario, che io amo, dal forte profumo, dall'ampia ramaglia marcata!
Su quale ponte il presente va all'avvenire? Per quale forza ciò che è alto si piega al basso? E che cosa significa superare anche il supremo?
Ora la bilancia sta pari e immobile: vi ho gettato tre gravi domande, l'altro piatto contiene tre gravi risposte.“


2

“Voluttà: pungolo e tortura per tutti gli spregiatori del corpo vestiti di cilicio, e maledetta come 'mondo' da tutti i trascendentalisti: perché schernisce e beffeggia tutti i maestri di inganni e di follie.
Voluttà: per la canaglia fuoco lento, su cui viene bruciata; per tutti i legni bacati, per tutti gli stracci puzzolenti, forno fervido e fumante.
Voluttà: per i liberi cuori innocente e libera, giardino gioioso della terra, l'esuberante gratitudine dell'avvenire per il presente.
Voluttà: solo per l'impotente un dolciastro veleno; ma per le volontà leonine un grande ristoro del cuore, gelosamente conservato vino dei vini.
Voluttà: grande similitudine di gioia per la suprema felicità e la suprema speranza. Infatti a molte cose è permesso il matrimonio e più che il matrimonio, e a molte cose, che sono tra loro più estranee che l'uomo e la donna: e chi mai ha compreso interamente come siano estranei tra loro l'uomo e la donna! Voluttà: ma io voglio avere siepi intorno ai miei pensieri e alle mie parole: affinché i maiali e i sognatori non penetrino nel mio giardino!
Sete di dominio: l'ardente flagello di chi ha il cuore più duro; il crudele martirio, che si riserva per il più crudele, la oscura fiamma dei roghi viventi.
Sete di dominio: il perfido freno che viene imposto ai popoli più presuntuosi; la schernitrice di tutte le virtù dubbie; che doma ogni cavallo e ogni superbia.
Sete di dominio: il terremoto che spezza e scava tutto ciò che è marcio e vuoto; che infrange, rintrona, rimbomba, vendicatrice sui sepolcri imbiancati; il lampeggiante punto interrogativo accanto alle risposte intempestive.
Sete di dominio: davanti al suo sguardo l'uomo striscia e si appiattisce e serve e diviene più vile del serpente e del suino: finché infine scoppi da lui urlante il grande disprezzo.
Sete di dominio: il terribile maestro del grande disprezzo, che predica in faccia alle città e ai regni:
'Via di qua!' finché un giorno saranno loro a gridargli: 'Via di qua!'
Sete di dominio: che seduce tuttavia anche i puri e i solitari e le altezze paghe di sé, ardente come un amore, che seducente dipinga su cieli terreni purpuree beatitudini.
Sete di dominio: chi può chiamarla malattia, se ciò che è in alto guarda giù per sete di potenza? In realtà, nulla di infermo o di morboso è in tale discesa e aspirazione!
Affinché l'altitudine solitaria non sia in eterno solitaria e paga di se stessa; il monte scende alla valle e i venti delle alture calano al piano.
Oh, chi troverà il nome giusto, il nome virtuoso per una tale aspirazione! 'Virtù dispensatrice': così chiamò l'innominabile un giorno Zarathustra.
E allora accadde - e in verità, accadde per la prima volta - che la sua parola esaltò l'egoismo, il guarito, sano egoismo, che sgorga da un'anima potente: da un'anima potente, a cui appartiene il corpo alto, bello, vittorioso, delizioso, intorno al quale ogni cosa si fa specchio:
l'agile persuasivo corpo, il danzatore, di cui l'anima amante di se stessa è simbolo e quintessenza. Il compiacimento che provano di se stessi tali corpi e tali anime si chiama da se stesso: 'virtù'.
Con le sue parole di buono e cattivo si cinge questa gioia di sé come di sacri boschi; con i nomi della sua felicità bandisce da sé tutto ciò che è spregevole.
Bandisce da sé tutto ciò che è vile; dice cattivo ciò che è vile! Le sembra spregevole colui che è sempre preoccupato, sospiroso, lamentevole, e anche colui che si accontenta di piccoli vantaggi.
Disprezza altresì quella saggezza che si culla nel dolore: perché in realtà, c'è anche una saggezza che sboccia nell'oscurità, una saggezza notturna: che sempre sospira: 'Tutto è vano!'
La schiva diffidenza le sembra cosa da poco, e chiunque cerca giuramenti invece di sguardi e mani: ed anche ogni saggezza troppo diffidente, perché è qualità delle anime vili.
Ancora da meno ritiene chi si contenta di poco, lo spirito caninamente supino, che subito si rovescia sul dorso, pavido: e c'è anche una saggezza che è servile, simile al cane e pia e pronta a compiacere.
Per lui è odioso e spregevole chi non vuole difendersi, chi ingoia la bava e tollera gli sguardi maligni, il troppo paziente, il troppo rassegnato, il troppo pago: tutto ciò è servile.
Che uno sia servile davanti agli dèi e ai calci divini, oppure agli uomini e alle sciocche opinioni umane è la medesima cosa: il beato egoismo sputa su ogni usanza servile.
Cattivo: così chiama tutto ciò che è curvo e servilmente flesso, i non liberi, occhi che ammiccano, i cuori oppressi, e ogni falso modo arrendevole, che ti bacia con tumide labbra vili.
E pseudosaggezza: così chiama tutto ciò che servi e vecchi e stanchi distillano; 'e in particolar modo tutte le malvage, scaltre e astute follie clericali!
Ma gli pseudosaggi, tutti i preti, gli stanchi del mondo, e coloro che hanno anima di donna e dl servo, oh, che brutto tiro hanno, da sempre, giocato all'egoismo con i loro intrighi!
E proprio ciò era virtù e si chiamava virtù, questo intrigare contro l'egoismo! 'Altruisti: così desideravano di essere, ben a ragione, tutti quei vigliacchi stanchi del mondo, quei ragni crociati!
Ma per tutti costoro ora viene il giorno, la mutazione, la spada del giudizio, il grande meriggio: allora molte cose diverranno manifeste!
'E chi dice sano e sacro l'Io e beato l'egoismo, in realtà, dice, da profeta, ciò che sa: 'Ecco, viene, è vicino, il grande meriggio!'“
Così parlò Zarathustra.


DELLO SPIRITO DI GRAVITÀ


1

“La mia lingua è del popolo: parlo troppo ordinario e cordiale per gli uomini vestiti di seta. E ancora più estranea suona la mia parola a tutte le seppie e gli imbrattacarte.
La mia mano è la mano di un pazzo: guai a tutte le tavole e pareti, e a ciò che ha uno spazio per le sciocche decorazioni e gli stupidi scarabocchi!
Il mio piede è un piede equino; con cui io scalpito e trotto sui massicci montuosi e sulle pietre, in lungo e in largo, e sono un demone di gioia nella veloce corsa. Il mio stomaco è forse uno stomaco di aquila? Infatti ama sopra ogni cosa la carne di agnello. Comunque è certamente uno stomaco di uccello. Nutrita di cose innocenti e di poco, pronta e impaziente di volare, di volare via; questa è dunque la mia specie: come non potrebbe avere in sé qualcosa della specie degli alati! E soprattutto è tipico della specie degli alati che io sia nemico dello spirito di pesantezza: proprio nemico mortale, nemico di cuore, per natura! Oh, dove non è già volata e rivolata la mia inimicizia! Potrei anche cantare una canzone, anzi, voglio cantare: anche se mi trovo solo in una casa vuota e dovrò cantare soltanto per i miei propri orecchi. Certamente vi sono altri cantanti, ai quali solo la casa piena rende morbida l'ugola, il gesto espressivo, l'occhio eloquente, il cuore desto: ma io non assomiglio a loro.”


2

“Chi un giorno insegnerà agli uomini a volare, avrà abbattuto ogni limite; tutte le pietre di confine voleranno in aria, egli ribattezzerà la terra, chiamandola 'la leggera'.
Lo struzzo corre più veloce del più rapido cavallo, ma anche lui piega ancora la greve testa nella terra greve: così l'uomo, che tuttora non può volare.
La terra e la vita sono gravi per lui; così vuole lo spirito di gravità! Ma chi intende diventare leggero e alato, deve amare se stesso: così io insegno.
Certamente non con l'amore dei malati e del morbosi: poiché in loro puzza anche l'amor proprio!
Si deve imparare ad amare se stessi - così io insegno - con un amore sano e retto: da star presso a noi stessi senza andar vagando qua e là.
Una dispersione di questo genere si chiama 'amore del prossimo': con questa parola si è fin qui mentito ipocritamente nel miglior modo, particolarmente da parte di coloro che venivano a noia a tutti.
È vero che imparare ad amare se stessi non è un comandamento né per oggi né per domani. Bensì la più squisita, la più astuta, e la più paziente di tutte le arti.
Infatti, per il suo possessore, ogni possesso è ben nascosto; e di tutte le miniere, la propria è l'ultima ad essere sfruttata; così ha voluto lo spirito di gravità.
Quasi fin dalla culla ci dispensano parole e valori pesanti caricati di 'bene' e di 'male': così i chiama la dote che subito ci consegnano. In virtù di essa, ci viene perdonato di vivere.
E per questo si lascia che i fanciulli vengano a noi, perché si impedisca loro per tempo di amare se stessi: così ha voluto lo spirito di gravità.
E noi, noi ci trasciniamo dietro fedeli, ciò che ci è stato dato in dote, su dure spalle e per scabrose montagne! E quando sudiamo, ci dicono: 'Sì, la vita è pesante da portare!'
Ma è l'uomo soltanto che è pesante a se stesso da portare! Questo avviene perché trascina con sé troppe cose estranee sulle sue spalle. Simile al cammello, si inginocchia e si lascia ben caricare.
Particolarmente il forte, l'uomo che porta pesi sulle spalle, riverente per natura: troppe parole e valori estranei e pesanti si addossa; poi la vita gli sembra un deserto!
Ed è vero! Anche molte cose proprie sono pesanti da portare! E molte interiorità dell'uomo sono come l'ostrica, schizzinosa e viscida e difficile ad afferrare: così che un nobile guscio con nobili ornamenti può intercedere. Ma anche quest'arte si deve imparare: ad avere il guscio e una bella apparenza e una giudiziosa cecità!
Talvolta ci si inganna su talune cose nell’uomo per il fatto che il guscio è scadente e brutto e troppo guscio. Molte nascoste bontà ed energie non vengono mai comprese; le leccornie più deliziose non trovano il gustatore!
Le donne sanno questo, le deliziose: un po' più grasse, un po' più magre; oh, quanto destino sta in così poco!
L'uomo è più difficile da scoprire e ancora di più a se stesso; spesso lo spirito mente a proposito dell'anima. Così agisce lo spirito di gravità.
Ma sicuramente ha scoperto se stesso colui che dice: questo è il mio bene e il mio male: con ciò egli fa ammutolire la talpa e il nano, che dicono: bene per tutti, male per tutti.
Non sopporto neanche quelli che dicono buona ogni cosa e questo mondo il migliore. Li chiamo i sempre soddisfatti.
La contentezza di tutto, che sa provare gusto in tutto: non è certo il miglior gusto! Io onoro le lingue renitenti e gli stomachi schifiltosi, che hanno imparato a dire 'io' e 'sì' e 'no'.
Masticare e digerire tutto è un modo proprio da maiali!
Dire sempre I-A [in tedesco JA = SÌ]: soltanto ciò ha imparato l'asino, e chi è della sua specie!
Il giallo profondo e il rosso caldo vuole il mio gusto, che mescola il sangue a tutti i colori. Ma chi dipinge la sua casa di bianco, questi per me rivela un'anima imbiancata.
Gli uni s'innamorano di mummie, gli altri di fantasmi; entrambi ugualmente nemici alla carne e al sangue; oh, come mi vanno a contraggenio entrambi! Perché io amo il sangue.
E non voglio abitare né indugiare dove ciascuno sputa e vomita: questo è il mio gusto preferisco vivere tra i ladri e gli spergiuri. Nessuno porta oro in bocca.
Ma ancor più sono avverso ai vili adulatori; e la bestia più spiacevole che ho trovato tra gli uomini, la chiamo parassita: non vuole amare e tuttavia vive d'amore.
Per me sono infelici tutti quelli che hanno soltanto una scelta: divenire malvage bestie o malvagi domatori: presso di loro io non costruirei la mia capanna.
Chiamo infelici anche quelli che debbono sempre aspettare; mi vanno contro stomaco: tutti i doganieri e i mercanti e i re e custodi di regni o di botteghe.
In realtà, io ho imparato anche ad aspettare, e a fondo; ma ad aspettare soltanto per me stesso. E soprattutto ho imparato a stare in piedi e ad andare e ad andare e a correre e a saltare e ad arrampicarmi e a danzare.
Ma questo è il mio insegnamento: chi vuole imparare a volare, prima deve imparare a stare in piedi, e ad andare e a correre e ad arrampicarsi e a danzare: non si impara di colpo a volare!
Ho imparato a scalare talune finestre con scale di corda, con agili gambe mi sono arrampicato sugli alti alberi delle navi: stare a sedere sugli alti alberi della conoscenza non mi è sembrata piccola felicita; guizzare come una piccola fiamma sugli alti alberi della nave: certamente una piccola luce, ma un grande conforto per i marinai fuori rotta e per i naufraghi!
In molti modi e per molte strade io sono pervenuto alla mia verità: non per una sola scala sono salito alla sommità, dove il mio occhio vaga nella mia lontananza.
E sempre malvolentieri ho domandato la via; questa è cosa che mi è sempre andata a contraggenio! Ho preferito domandare e ricercare la via da me stesso.
Tutto il mio cammino è stato un ricercare e un domandare: in realtà, si deve imparare anche a rispondere a tali domande! Ma questo è il mio gusto: non buono, non cattivo, ma il mio gusto, per il quale ormai io non ho più pudore né segreto.
'Questa è dunque la mia strada; dov'è la vostra?' ho risposto a coloro che mi domandavano 'della strada'. Infatti la strada non esiste!”
Così parlò Zarathustra.



DELLE TAVOLE ANTICHE E DELLE NUOVE


1

“Sono qui seduto e aspetto; intorno a me sono antiche tavole infrante e anche nuove tavole scritte a metà. Quando viene la mia ora? l'ora della mia discesa, del mio tramonto: poiché ancora una volta voglio andare tra gli uomini.
L'attendo dunque: poiché prima devono giungere a me i segni che è la mia ora, cioè il leone che sorride con lo stormo di colombe.
Frattanto, come uno che ha tempo, parlo a me stesso. Nessuno mi racconta novità: così io narro a me, me stesso.”


2

“Quando giunsi tra gli uomini, li trovai seduti su un'antica presunzione: tutti presumevano di sapere già da tempo che cosa fosse buono e cattivo per gli uomini.
Ogni discorso sulla virtù sembrava loro una cosa vecchia e logora; e chi voleva dormire bene, prima di andare a dormire parlava del bene e del male.
Disturbai questi dormienti quando insegnai che nessuno sa ancora che cosa sia buono e cattivo: tranne il creatore!
Ma questi è colui che crea lo scopo dell'uomo e dà il suo significato e l'avvenire alla terra: questi per primo crea quel qualcosa che è bene e male.
E imposi loro di abbattere le loro vecchie cattedre, dove si era seduta soltanto l'antica presunzione; imposi loro di ridere dei loro grandi maestri di virtù e santi e poeti e salvatori del mondo.
Imposi loro di ridere dei loro tenebrosi saggi, e di chi, simile a un nero spaventapasseri, si era appollaiato, ammonitore, sull'albero della vita.
Mi sedetti lungo le loro grandi strade sepolcrali e vicino alle carogne e ai corvi, e risi di tutto il loro passato e del suo frollo decadente splendore.
In realtà, simile ai predicatori di penitenza e ai pazzi, io gridai ira e fracasso su tutte le loro grandezze e piccolezze; perché le loro cose migliori sono così piccole! E le loro cose peggiori sono così piccole! E io risi.
Gridò e rise da me, la mia saggia bramosia che è nata sui monti, la mia selvaggia saggezza! la mia grande bramosia che batte le ali.
Spesso, fra il mio riso, mi trascinava via, in alte lontananze: volavo rabbrividendo, come una freccia, attraverso un'estasi ebbra di sole: in lontani tempi futuri, che nessun sogno ha mai visto, nel Sud più infuocato che nessun artista ha mai sognato: là dove gli dèi, danzando, si vergognano di ogni veste;
infatti io parlo in similitudini e, simile ai poeti, zoppico e balbetto: e in realtà, mi vergogno di dover essere ancora poeta!
Dove tutto il divenire mi sembrava una danza e un capriccio divini, e il mondo libero e rilassato e rifluente su se stesso: come un eterno sfuggirsi e ricercarsi di molti dèi, come un beato contraddirsi, riudirsi, riappartenersi di molti dèi.
Dove ogni tempo mi sembrava un beato scherno dell'attimo, dove la necessità era anche libertà, che beatamente giocava con il pungiglione della libertà.
Dove ritrovai anche il mio antico demone e nemico mortale, lo spirito di gravità, e tutto ciò che ha creato: costrizione, ordinamenti, bisogno e conseguenze e scopo e volontà e bene e male.
Non devono forse esservi cose sulle quali si possa danzar via? Non debbono esistere, per amore della leggerezza e levità, talpe e nomi pesanti?”

3

“Là fu anche, dove io raccolsi dalla strada la parola Superuomo, e l'idea che l'uomo è qualcosa che deve essere superata: che l'uomo è un ponte non una mèta: deve chiamarsi felice per il suo meriggio e la sua sera, come strada per nuove aurore: la parola di Zarathustra del grande meriggio, e ciò che io sospesi sull'uomo, come un secondo purpureo rosso di sera.
In realtà, io additai loro, perché le vedessero, anche nuove stelle e nuove notti; e sopra alle nubi e al giorno e alla notte distesi anche il riso come una tenda variopinta.
Insegnai loro tutto il mio poetare ,e le mie aspirazioni: a comporre in uno e rimettere insieme ciò che nell'uomo è frammento e enigma e terribile caso;.
come poeta, risolvitore di enigmi e redentore del caso, io insegnai loro a creare l'avvenire, e a redimere, creando, tutto ciò che fu.
Redimere nell'uomo il passato e ricreare ogni 'fu' finché la volontà dica: 'Così volli! Così vorrò'.
Questo ho chiamato redenzione, solo questo ho insegnato loro a chiamare redenzione.
Ora attendo la mia redenzione, per recarmi per l'ultima volta tra loro.
Poiché voglio andare ancora una volta tra gli uomini: sotto di loro voglio tramontare, morendo, voglio dar loro il più ricco dei miei doni!
Ho imparato questo dal sole, quando il ricchissimo tramonta: getta nel mare l'oro della sua inesauribile ricchezza, così che anche il più povero pescatore rema con remi d'oro! Vidi questo una volta e alla vista non mi saziai di piangere.
Simile al sole, anche Zarathustra vuole tramontare: ora sta seduto e attende; intorno a lui sono antiche tavole infrante e nuove tavole, scritte a metà.”

4

“Ecco, qui è una nuova tavola: ma dove sono i miei fratelli, che porteranno con me la tavola a valle e in cuori di carne?
Il mio grande amore per i più lontani impone di non risparmiare il tuo prossimo! L'uomo è qualcosa che deve essere superata.
Vi sono molte strade e modi di superamento: questo è affar tuo! Ma solo un pagliaccio può pensare che 'l'uomo possa venire anche saltato'.
Supera te stesso anche nel tuo prossimo: un diritto che tu ti puoi accaparrare non devi aspettare che te lo diano!
Ciò che fai, nessuno può rifartelo. Non esiste, vedi, contraccambio.
Chi non può comandare a se stesso, deve obbedire. Più d'uno d'altronde può comandare a se stesso, ma ci manca ancora molto a che ossa anche obbedirsi!”


5

“Così vuole il carattere delle anime nobili: non vogliono avere nulla per niente, e meno di tutto la vita.
Solo chi appartiene alla plebe vuole vivere per niente, ma noi altri, cui la vita si è donata, noi pensiamo sempre a che cosa di meglio possiamo dare in cambio! E, in realtà, una parola nobile, quella che dice:
'Ciò che la vita promette a noi, noi vogliamo mantenerlo alla vita!'
Non bisogna voler godere, quando non si dona da godere. Non si deve anzi neppure voler godere!
Godimento e innocenza sono le cose più pudiche: non bisogna cercarle. Si deve possederle, e piuttosto ricercare la colpa e il dolore.!“

6

“Fratelli miei, chi è una primizia, viene sempre sacrificato. E noi siamo primizie.
Tutti noi sanguiniamo su segreti altari sacrificali, noi tutti bruciamo e arrostiamo in onore di antichi idoli.
La nostra parte migliore è ancor giovane: ciò solletica i vecchi palati. La nostra carne è tenera, il nostro pelo .è quasi un pelo di agnello: come potremmo non solleticare i vecchi sacerdoti degli idoli!
E in noi stessi che abita il vecchio sacerdote degli idoli, e si arrostisce la nostra parte migliore per il banchetto. Ahimè, fratelli miei, come potrebbero le primizie non essere olocausti!
D'altronde, così vuole il nostro carattere; e io amo
coloro che non pretendono di conservarsi. Io amo con tutto il mio amore quelli che tramontano: perché sono coloro che vanno oltre.” -


7

“Essere sinceri è cosa che possono pochi! E chi può, non vuole! Ma meno di tutti lo possono i buoni.
Oh, questi buoni! Gli uomini buoni non dicono mai, la verità; per lo spirito è una malattia essere così buono.
Cedono anche, questi buoni, si rassegnano, il loro cuore parla, il loro intimo obbedisce: ma chi obbedisce, non sente se stesso!
Tutto ciò che i buoni chiamano male, deve esser messo insieme, perché ne nasca una verità: fratelli miei, siete voi anche abbastanza malvagi per questa verità?
L'audace rischio, la lunga diffidenza, la crudele negazione, la noia, il tagliare nel vivo; come di rado tutto questo va insieme! Ma è da questi semi che viene generata la verità!
Accanto alla cattiva coscienza, è cresciuta fin qui ogni scienza! Spezzate, spezzatemi, o voi che conoscete le antiche tavole!”


8

“Se il mare ha traverse, se ponticelli e ringhiera varcano i fiumi: in realtà, non trova fede colui che dice: 'Tutto fluisce'.
Anche gli stolti lo contraddiranno. 'Come?' diranno gli stolti. 'Tutto è nel fiume? E traverse e ringhiere passano tuttavia sopra il fiume?'
Sopra il fiume tutto è saldo, tutti i valori delle cose, i ponti, i concetti, 'bene' e 'male': tutto saldo!
Quando poi giunge il duro inverno, il domatore del fiume, allora anche i più scaltri imparano a diffidare; e, in verità, non sono soltanto gli stolti a dire:
'Non sta forse tutto fermo?'
'In fondo tutto sta fermo.' Questo è un giusto insegnamento invernale, una cosa buona per tempi infecondi, un buon confronto per gli ibernanti e i poltroni.
'In fondo tutto sta fermo': ma il vento di primavera predica il contrario.
Il vento del disgelo, un toro, che non è il toro che tira l'aratro, un toro furioso, distruttore, che spezza il ghiaccio con le sue 'rabbiose corna! Tuttavia il ghiaccio spezza le passerelle!
Fratelli miei, non è ora tutto nel fiume? Non sono tutte le ringhiere e le passerelle cadute in acqua? Chi si appoggia ancora al 'bene' e al 'male'?
'Guai a noi! Evviva noi! Soffia il vento del disgelo!' Predicate questo, fratelli miei, per tutte le strade!”

9

“C'è un'antica follia che si chiama bene e male. La ruota di questa follia si è volta fin qui intorno agli indovini e agli astrologhi.
Una volta si credeva agli indovini e agli astrologhi: e perciò si credeva che 'tutto fosse destino' e che 'tu devi, perché lo devi!'
Più tardi si diffido degli indovini e degli astrologhi: e perciò si pensò: 'Tutto è libertà: tu puoi, perché tu vuoi!'
Fratelli miei, intorno alle stelle e al futuro si è fino ad ora parlato a vanvera, senza saperne nulla: e perciò anche sopra il bene e il male si è parlato a vanvera senza saperne nulla!”

10

“ 'Tu non devi rubare! Tu non devi uccidere!' Questi principi venivano una volta detti sacri, davanti ad essi si piegavano i ginocchi e la testa e ci si toglieva le scarpe.
Ma io vi domando: dove furono mai nel mondo ladri ed assassini peggiori di queste sacre parole?
Non è nell'essenza stessa di ogni vita rubare e uccidere? E il dire sacre tali parole, non è uccidere la stessa verità?
Non fu una predica di morte il chiamare sacro ciò che contraddice e contrasta a ogni vita? Fratelli miei, spezzate, infrangetemi le antiche tavole!”

11

“Questa è la mia compassione verso tutto il passato; che io vedo come esso è sacrificato; sacrificato alla grazia, allo spirito, alla follia di ogni generazione che viene e che trasforma in proprio ponte tutto ciò che fu!
Potrebbe venire un gran potente; uno scaltro despota, che con la sua grazia e la sua disgrazia riesca a costringere e violentare tutto il passato: finché divenga per lui pane e segno premonitore e araldo e grido di gallo.
Ma questo è l'altro pericolo e l'altra mia compassione: chi appartiene alla plebe, risale con il pensiero fino al nonno, ma con il nonno il tempo gli si ferma.
Così tutto il passato può venir sacrificato: perché può una volta accadere che la plebe divenga la padrona, e affoghi nelle sue basse acque ogni tempo.
Perciò, fratelli miei, è necessaria una nuova nobiltà che sia avversa ad ogni plebe e ad ogni tirannia e che scriva di nuovo su nuove tavole la parola 'nobile'.
Sono necessari molti nobili e un varia specie di nobili, perché si abbia aristocrazia! O, come dissi una volta con una similitudine: 'Proprio questa è la divinità, che esistono gli dèi, ma non un Dio!”


12

“Fratelli miei, io vi indico e vi consacro ad una nuova aristocrazia: dovete divenire i testimoni e i coltivatori e i seminatori dell'avvenire; in realtà, non ad una aristocrazia che si possa comperare, come fanno i mercanti, con l'oro dei mercanti: poiché poco valore ha tutto ciò che ha prezzo.
D'ora innanzi il vostro onore non dipenderà da dove provenite, bensì da dove andate! La vostra volontà e il vostro piede, che vuole andare oltre voi stessi: questo costituisce il vostro nuovo onore!
Non certamente che voi abbiate servito un principe - che cosa importa ormai dei principi! - o che siate divenuti baluardo di ciò che già stava in piedi, perché stesse più saldo!
Né che la vostra casata sia divenuta cortigiana nelle corti, e che voi abbiate imparato a stare in piedi, simili ad un airone variopinto, per ore ed ore in un laghetto dall'acqua bassa: perché poter stare in piedi è un merito dei cortigiani; e infatti tutti i cortigiani credono che faccia parte della beatitudine, dopo la morte, avere il permesso di sedersi!
E neanche che uno Spirito, che essi chiamano santo, abbia condotto i vostri antenati in terra promessa, che per me non è un elogio: perché là cresce il peggiore di tutti gli alberi, la Croce; né quella terra è da lodare!
In realtà, dovunque lo 'Spirito Santo' ha guidato i suoi cavalieri, sempre tali cortei sono stati preceduti da capre e oche e croci e teste balzane!
Fratelli miei, la vostra aristocrazia non deve guardare indietro, ma avanti! Dovete farvi cacciar via da tutte le terre dei padri e degli avi!
Dovete amare la terra dei vostri figli: questo amore sia la vostra nuova aristocrazia; la terra non ancora scoperta, nel più lontano dei mari! Verso di essa vi dico di guidare le vele cercandola infaticabilmente!
Nei vostri figli voi dovete fare ammenda del fatto di essere figli dei vostri padri: dovete redimere così tutto il passato! Io pongo sopra di voi questa nuova tavola!”

13

“ 'A che vivere? Tutto è vano! Vivere è macinare paglia; vivere è bruciarsi senza riscaldarsi.'
Queste vecchie chiacchiere sono sempre ritenute 'saggezza'; anzi, perché sono vecchie e puzzano di muffa, perciò sono ancor più onorate. Anche la muffa nobilita.
Ai bambini è permesso parlare così: hanno paura del fuoco, perché si sono bruciati! C'è molta puerilità negli antichi libri della saggezza.
E chi sempre 'macina paglia', come potrebbe poter dire male della trebbiatura? Occorre tappare la bocca a simili pazzi!
Taluni si siedono a tavola e non portano nulla con sé, neppure una buona fame: e poi bestemmiano: 'Tutto è vano!'
Ma mangiare e bere bene, fratelli miei, non è, in realtà, un'arte vana! Spezzate, spezzatemi le tavole di coloro che non sono mai contenti!” -

14

“ 'Per il puro tutto è puro': così parla il popolo. Ma io vi dico: per i porci tutto diviene porco!
Perciò gli esaltati e i malinconici, che hanno penzoloni anche il cuore, predicano: 'Il mondo stesso è un mostro ributtante'.
Poiché tutti questi sono spiriti impuri; ma in particolar modo coloro che non hanno quiete né riposo, se non quando vedono il mondo a rovescio; i trascendentalisti!
A costoro io dico in faccia, anche se non suona grazioso: il mondo, come l'uomo, ha anche lui un deretano, questo è il fatto!
C'è nel mondo molto fango, questo è un fatto! Ma non per questo il mondo è un mostro schifoso!
C'è saggezza in questo, che molte cose nel mondo puzzano: lo stesso schifo crea ali e forze presaghe di limpide fonti!
Anche nel migliore c'è qualcosa di schifoso; anche il migliore è qualcosa che deve venir superato.
Fratelli miei, v'è molta saggezza sul fatto che ci sia molto fango nel mondo!”

15

“Tali discorsi io ho udito fare dai più trascendentalisti alla loro coscienza, e in verità senza malizia e ipocrisia, anche se nel mondo non vi sono malizie e ipocrisie peggiori di queste.
'Lascia stare il mondo com'è Non alzargli contro neanche un dito!'
'Lascia che chi voglia strangoli e pugnali e tormenti e spelli la gente: non alzare neppure un dito contro questo! Così impareranno a rinunciare al mondo.'
'Tu devi prendere alla gola e strangolare la tua stessa ragione; perché è una ragione di questo mondo; così imparerai anche tu a rinunciare al mondo.'
Spezzate, infrangete, fratelli miei, queste antiche tavole della gente pia. Contraddite i discorsi dei calunniatori del mondo!”


16

“ ‘Chi molto impara, disimpara ogni forte desiderio’: questo si va bisbigliando per tutti i vicoli oscuri.
'La sapienza rende stanchi, non vale per nulla la pena; tu non devi desiderare!' Ho trovato appese queste nuove tavole anche nei mercati aperti.
Spezzatemi, fratelli miei, infrangete anche queste nuove tavole! Le hanno appese gli stanchi del mondo e i predicatori della morte, e i carcerieri: poiché, badate, non è che una predica in favore della schiavitù.
Essi hanno imparato male e neanche le cose migliori, e tutto troppo presto e in fretta: avendo mangiato male, si è guastato loro lo stomaco; lo spirito è uno stomaco guasto che consiglia la morte! Poiché in realtà, fratelli miei, lo spirito è uno stomaco!
La vita è una sorgente di luce: ma per colui attraverso il quale parla uno stomaco guasto, il padre della tribolazione, per lui sono avvelenate le fonti.
Conoscere: è gioia per la volontà leonina! Ma chi è diventato stanco, è diventato anche soltanto un 'passivo', zimbello di tutte le onde.
Così è sempre il modo di agire degli uomini deboli, che si perdono per la strada. Alla fine la loro stanchezza si chiede: 'Perché abbiamo percorso così tanta strada? tanto tutto è uguale!'
A loro suona piacevole agli orecchi che si predichi: 'Non vale la pena! Non dovete volere!' Ma questa è una predica a favore della schiavitù.
Fratelli miei, Zarathustra giunge come un fresco vento impetuoso per gli stanchi della via; molti nasi farà ancora starnutire!
L'alito mio libero passa anche attraverso i muri, e penetra nelle prigioni e negli spiriti imprigionati!
Il volere libera: poiché volere è creare: così io vi insegno. Soltanto al fine di creare voi dovete imparare!
E anche l'imparare voi dovete apprenderlo prima da me, come cioè imparare bene! Chi ha orecchi da intendere, intenda!”

17

“Ecco lì la navicella; laggiù, forse, finirà per andare nel grande Nulla. Ma chi vuole imbarcarsi su questo 'forse'?
Nessuno di voi vuole imbarcarsi sulla barca della morte! Perché dunque volete essere stanchi del mondo?
Stanchi del mondo! Non siete stati buoni a divenire neanche dei fuggiaschi dal mondo! Vi ho trovato sempre desiderosi della terra, innamorati anche della vostra stessa stanchezza terrestre!
Non per nulla il labbro vi pende: un piccolo desiderio terreno vi sta ancora sopra! E nell'occhio, non ci nuota forse una nuvoletta di indimenticata gioia terrena?
Vi sono sulla terra molte buone invenzioni, le une inutili, le altre piacevoli: per cagion loro la terra è da amare.
E diverse invenzioni sono, poi, così buone che sono come il seno della donna: utili e piacevoli nello stesso tempo.
Ma voi, stanchi del mondo! Voi, poltroni terreni! Sarebbe bene farvi delle carezze con la frusta! Per rendervi con colpi di frusta di nuovo agili le gambe.
Poiché, se non siete malate e decrepite creature di cui la terra è stanca, allora siete astuti poltroni o ghiotti, sornioni gatti lascivi. E se non volete correre di nuovo allegramente, allora dovete togliervi di mezzo!
Non si deve voler essere medico degli incurabili: così insegna Zarathustra: dunque, toglietevi di mezzo!
Ma occorre più coraggio per farla finita che per fare un nuovo verso: questo lo sanno tutti i medici e i poeti.'

18

“Fratelli miei, cl sono tavole create dalla stanchezza, e tavole create dalla putrida pigrizia: anche se parlano in ugual maniera, vogliono essere ascoltate in modo diverso.
Guardate questo qui che sta languendo! E distante solo un palmo dalla sua mèta, ma per la stanchezza si è' ostinatamente gettato a questo punto nella polvere: questo valoroso!
Per la stanchezza sbadiglia alla via e alla terra e alla mèta e a se stesso; non vuol muovere più un passo, questo valoroso!
Ora il sole arde su di lui, e i cani leccano il suo sudore: ma lui giace nella sua ostinazione e preferisce languire: 'languire, distante un palmo dalla sua mèta! E voi dovrete trascinano per i capelli verso il suo cielo, questo eroe!
Meglio dunque che lo lasciate giacere lì dove si è adagiato, perché il sonno giunga a lui, il consolatore, con un rinfrescante scroscio di pioggia: lasciatelo giacere lì, finché non si svegli da sé, finché non rinnegherà da sé la stanchezza e ciò che la stanchezza gli ha insegnato!
Soltanto, fratelli miei,- scacciate da lui i cani, gli sporchi ipocriti, e tutti i vermi brulicanti: tutta la ciurmaglia brulicante degli 'uomini colti' che è sempre avida del sudore degli eroi!”


19

“ 'Traccio intorno a me cerchi e sacri confini; un numero di persone sempre più piccolo ascende con me su montagne sempre più alte: costruisco una catena dl monti con sempre più sacre montagne.
Ma ovunque voi salirete con me, fratelli miei: guardate che nessun parassita salga con voi!
Il parassita è un verme strisciante, che sì insinua e vuole ingrassare a spese dei vostri punti deboli e malati.
Questa è la sua arte, che si accorge, spiando le anime che salgono verso l'alto, dei loro punti fiacchi: e costruisce il suo nido schifoso nelle miserie e nelle debolezze, nelle vostre tenere vergogne.
Dove il forte è debole, il nobile troppo generoso, lì egli costruisce il suo nido schifoso: il parassita abita dove il grande ha i suoi piccoli punti deboli.
Qual è il modello più alto di ogni esistente e quale il più piccolo e basso? Ecco: il parassita è il tipo più basso e stretto; ma chi appartiene alla più alta razza è anche colui che nutrisce la maggior parte dei parassiti.
Egli è l'anima che ha la scala, più lunga per salire e per discendere più a fondo degli altri: e come non dovrebbero assidersi su di lei proprio la maggior parte dei parassiti?
...l'anima più ampia, che può correre in se stessa più lontano e vagare ovunque vuole; l'anima più imbevuta di necessità, e che per capriccio si precipita nel Caso: l'anima che è, e che si precipita nel divenire; l'anima che possiede, e che vuole tuttavia precipitare nella tensione e nel voler oltre: l'anima che fugge se stessa, ricongiungendosi a se stessa nel più ampio giro; l'anima più saggia, che è anche la più dolce nel sussurrare la follia: l'anima che più ama se stessa, nella quale tutte le cose trovano il loro flusso e riflusso, la loro alta e bassa marea: oh, come dovrebbe la più alta anima non essere anche quella che alberga i peggiori parassiti?”

20

“Fratelli miei, sono forse crudele? Ma io dico: a ciò che cade bisogna dare una spinta per farlo andar giù!
La totalità presente, che cade, che sta andando in rovina: chi si sentirebbe di trattenerla! Ma io, io voglio darle ancora una spinta!
Conoscete la voluttà di far precipitare le pietre negli abissi? Questi uomini di oggi: guardateli come precipitano nelle mie profondità!
Io sono un preludio di migliori suonatori, o miei fratelli! Un esempio! Agite secondo il mio esempio!
E a colui a cui voi non insegnate a volere, fatemi un piacere: insegnategli a cadere più rapidamente!”

21

“Io amo gli ardimentosi: ma non basta essere degli spadaccini; bisogna anche saper guardare a-chi-tocca!
E spesso c'è più valore nel contenersi e passar oltre: per risparmiarsi in vista di un nemico più degno!
Dovete soltanto avere dei nemici da odiare, ma non da disprezzare: dovete essere orgogliosi del vostro nemico: l'ho già detto una volta.
Dovete risparmiarvi, amici miei, per il nemico più degno: perciò è necessario che passiate sopra a molte cose: particolarmente a molta gente, che vi frastorna le orecchie col popolo e coi popoli.
Conservate puro il vostro occhio dai loro pro e contro! Molto v'è in essi di giusto, e molto di ingiusto: a guardarli vien la rabbia!
Guardarci dentro e colpirci dentro è come una cosa sola: perciò andatevene nelle foreste e mettete a dormire la vostra spada!
Andate per le vostre vie! E lasciate che il popolo e i popoli vadano per le loro! Sono vie oscure, in verità, sulle quali non lampeggia una sola speranza!
Chi vi domina è il mercante, tutto ciò che ancora vi riluce è soltanto oro da bottegaio, vile chincaglieria! Non è più tempo da re: quello che oggi si chiama popolo non se li merita.
Guardate come ormai questi popoli imitano il merciaio: si scelgono le più piccole particelle di vantaggi da ogni letamaio!
Si spiano a vicenda, strappano sempre qualche segreto agli altri, e questo chiamano 'regole di buon vicinato'. Oh, felici tempi lontani, quando un popolo diceva soltanto: 'Voglio essere signore dei popoli!'
Perché, o fratelli, il migliore deve dominare, il migliore vuole altresì dominare! E là dove la dottrina dice altrimenti, è il migliore che manca.”


22

“Guai se quelli avessero il pane gratis! Contro che cosa essi potrebbero gridare! Il loro sostentamento è il loro giusto divertimento; e debbono quindi ottenerlo con difficoltà!
Sono bestie da preda: nel loro 'lavorare' c'è ancora la rapina, nel loro 'guadagnare' c'è ancora il raggiro! Perciò debbono ottenerlo con difficoltà!
Debbono divenire migliori belve, più fini, più astute, più simili all'uomo: l'uomo infatti è la miglior belva che esista.
L'uomo ha già rubato a tutte le bestie le loro virtù: questo perché l'uomo si è trovato in maggiori difficoltà di tutte le altre bestie.
Solo gli uccelli stanno sopra di lui. E se l'uomo imparasse anche a volare, guai! fin dove mai non volerebbe la sua rapace bramosia!”


23

“Così io voglio l'uomo e la donna: abile in guerra l'uno, abile nel partorire l'altra, entrambi abili nel danzare con la testa e con le gambe.
E valga come perduto per noi il giorno in cui non danzeremo almeno una volta! E falsa sia da noi detta ogni verità che non rechi un sorriso!”

24

“Il vostro conchiudere le nozze: guardate che non sia un cattivo chiudere! Chiudete troppo velocemente: e così ne consegue la rottura del matrimonio!
E tuttavia è sempre meglio rompere il matrimonio che piegarlo, mentire al matrimonio! Una donna mi disse: 'Sì, ho rotto il matrimonio, ma prima il matrimonio ha infranto me!'
I male accoppiati ho sempre visto che sono i peggiori vendicativi: vogliono far scontare a tutto il mondo il fatto di non poter più andare ognuno per conto suo.
Perciò io voglio che gli onesti dicano l'uno all'altro: 'Noi ci amiamo: lasciateci vedere se possiamo continuare ad amarci! Dovrà forse la nostra promessa costituire uno sbaglio?
Concedeteci una dilazione e un breve matrimonio, per vedere se siamo abili al grande matrimonio! È una cosa grave, essere sempre in due!'
Così consiglio a tutti gli onesti; e che cosa sarebbe dunque il mio amore per il Superuomo e per tutto ciò che deve venire, se consigliassi e parlassi diversamente!
Perché, fratelli miei, il giardino del matrimonio non deve servire soltanto a propagare, ma a salire!

25

“Chi divenne saggio sopra le antiche origini, ricercherà infine anche le fonti del futuro e nuove origini.
Fratelli miei, non passerà molto tempo, che sorgeranno nuovi popoli e nuove fonti precipiteranno verso nuovi abissi.
Il terremoto, che ricopre di terra molte fonti e crea molti morti di sete, porta alla luce anche intime forze e cose nascoste.
Il terremoto scopre nuove sorgenti. Dal terremoto di antichi popoli erompono nuove sorgenti.
E se qualcuno grida: 'Ecco una fontana per molti assetati, un cuore per molti nostalgici, una volontà per molti strumenti': intorno a lui si assiepa una folla, cioè molti che ricercano.
Chi può comandare, chi deve obbedire: questo è ciò che là si cerca! Ahimè, quanto è lungo il ricercare e il consigliare e lo sconsigliare e l'imparare e il ritentare!
La società umana è un tentativo, così io insegno, un lungo ricercare: cerca colui che comanda!
Un tentativo, fratelli miei! E non un contratto! Spezzate, infrangete questa parola dei teneri di cuore e delle mezze misure!”


26

“Fratelli miei! A causa di chi corre il maggior pericolo tutto l'avvenire dell'umanità? Non è forse a causa dei buoni e dei giusti?
...e di coloro che sentono nel cuore e dicono: 'Noi sappiamo ciò che è buono e giusto, e lo possediamo; guai a quelli che ancora lo ricercano!'
Per quanto danno possano fare i cattivi: il danno dei buoni è il più dannoso dei danni!
Per quanto danno possano fare i calunniatori del mondo: il danno dei buoni è il più dannoso dei danni.
Fratelli miei, una volta uno guardò nel cuore dei buoni e dei giusti e disse: 'Sono farisei'. Ma non fu compreso.
Gli stessi buoni e giusti non poterono capirlo: il loro spirito era prigioniero della loro buona coscienza. La stoltezza dei buoni è imperscrutabilmente astuta.
Ma questa è la verità: i buoni devono essere farisei, non hanno scelta!
I buoni devono crocifiggere colui che si trova la sua propria virtù! Questa è la verità!
Ma il secondo che scoprì il loro paese, paese, cuore e regno terrestre dei buoni e dei giusti, fu colui che domandò: 'Chi odiano di più?'
Essi odiano maggiormente il creatore: che frange le tavole e gli antichi valori, l'infrangitore, che essi chiamano assassino.
I buoni, infatti, non possono creare: essi sono sempre il principio della fine: crocifiggono colui che scrive molti valori su nuove tavole, sacrificano a se stessi l'avvenire, crocifiggono ogni avvenire dell'umanità!
I buoni sono sempre stati il principio della fine.”

27

“Fratelli miei, avete capito anche questa parola? E ciò che io dissi un giorno sull'ultimo uomo'?
A causa di chi corre il maggior pericolo tutto l'avvenire dell'umanità? Non è forse a causa dei buoni e dei giusti?
Spezzate, infrangete i buoni e i giusti! Fratelli miei, avete capito anche questa parola?”


28

“Fuggite via da me? Siete spaventati? Tremate davanti a questa parola?
Fratelli miei, quando vi esortai a spezzare i buoni e le tavole dei buoni: allora soltanto io imbarcai l'uomo per il suo alto mare. Allora subentra in lui il grande spavento, il grande sgomento, il grande male, la grande nausea, il grande mal di mare. False rive e false sicurezze vi hanno insegnato i buoni; nella menzogna dei buoni voi nasceste e vi credeste al sicuro. Tutto, sin nel profondo, viene falsato e contorto dai buoni. Ma chi scoprì la terra 'uomo', scoprì anche la terra 'avvenire umano'. E voi dovete essere i miei navigatori prodi e pazienti! Camminate dunque eretti, fratelli miei, imparate ad andare diritti! Il mare è in burrasca: molti hanno bisogno di voi per risollevarsi.
' Il mare è tempestoso: tutto è in mare. Suvvia!
Orsù! Vecchi cuori di marinai!
Ma che terra dei padri! Il timone vuole piegare dove è la terra dei nostri figli, più burrascosa del mare; verso questa si precipita la nostra grande brama!”


29

“Perché così duro?' disse un giorno al diamante il carbone da cucina. 'Non siamo forse prossimi parenti?'
Perché così teneri? Fratelli miei, domando a voi: non siete voi fratelli miei?
Perché così teneri, così rammolliti e arrendevoli? Perché nei vostri cuori c'è tanta negazione e rinnegamento? Così poco destino nei vostri sguardi?
E se non volete essere destino e inesorabilità, come potrete vincere?
E se la vostra durezza non vuole scintillare e tagliare e resecare: come potrete un giorno creare con me?
I creatori sono duri. E beatitudine deve esser per voi imprimere le impronte delle vostre mani nei millenni, come sulla cera, beatitudine, scrivere sulla volontà dei millenni come sui bronzo, sul più duro bronzo, sul più nobile bronzo. È duro solo ciò che è supremamente nobile.
Questa nuova tavola, fratelli miei, io sollevo sopra di voi: divenite duri!”

30

“O tu, mia volontà! Tu, svolta di ogni necessità, tu mia necessità! Salvami da tutte le piccole vittorie!
Tu, missione della mia anima che io chiamo Destino! Tu, in me! Tu, sopra di me! Salvami e serbami per un grande destino!
E l'ultima tua grandezza, mia volontà, serbatela per la tua ultima impresa, onde tu sia inesorabile nella vittoria! Ahimè, chi non soggiacque alla sua vittoria!
Ahimè, a chi non si oscurò lo sguardo in quell'ebbro crepuscolo!
Ahimè, a chi non vacillò il piede, chi non disimparò a stare in piedi, nella vittoria!
Perché io un giorno sia pronto e maturo per il grande meriggio: pronto e maturo come bronzo incandescente, nube gravida di folgore e mammella turgida di latte: pronto per me stesso e per la mia volontà più recondita; un arco cupido della sua freccia, una freccia cupida della sua stella: una stella, pronta e matura nel suo meriggio, incandescente, trafitta, beata dinanzi ai distruttori raggi del sole: un sole essa stessa e una inflessibile volontà solare, pronta a distruggere nella vittoria.
O volontà, tesa in ogni necessità, tu, mia necessità! Serbami per una grande vittoria!”


IL CONVALESCENTE

1

Un mattino, non molto dopo il suo ritorno nella caverna, Zarathustra balzò sù dal suo giaciglio come un pazzo, gridando con voce terribile e dibattendosi, come se nel suo giaciglio vi fosse stato, oltre a lui, qualcuno che non volesse levarsi, e così forte risuonava la voce di Zarathustra che i suoi animali corsero a lui spaventati, e da tutte le caverne e nascondigli prossimi alla caverna di Zarathustra, uscì fuori ogni specie di animali, volando, svolazzando, strisciando, saltando secondo la natura dei loro piedi e ali. Allora Zarathustra disse queste parole:
“Sorgi, pensiero abissale, dalle mie profondità! Sono il tuo gallo e la tua alba; o verme addormentato: sù! sù! La mia voce ti risvegli!
Togli le bende dai tuoi occhi: obbedisci! Poiché io voglio ascoltarti! Sù! Sù! Qui c'è abbastanza rumor di tuono perché anche i sepolcri imparino ad udire!
Allontana dai tuoi occhi il sonno e ogni ottusità e cecità! Ascoltami anche con i tuoi occhi: la mia voce è un rimedio anche per i nati ciechi.
E quando sarai desto, dovrai restare eternamente desto. Non è nel mio carattere, risvegliare dal sonno le bisnonne, per poi dir loro di riaddormentarsi!
Ti agiti, ti allunghi, rantoli? Sù! Sù! Non rantolare, devi parlarmi! Ti chiama Zarathustra, l'ateo!
Io, Zarathustra, l'intercessore della vita, l'intercessore del dolore, l'intercessore del cerchio, ti chiamo, o mio pensiero abissale!
Salute a me! Tu vieni, io ti sento! La mia profondità parla, sospingo verso la luce la mia più fonda profondità!
Salute a me! Vieni! Dammi la mano! ah! lascia! ah! ah! schifo, schifo, schifo, guai a me.”

2

Ma appena Zarathustra ebbe detto queste parole, cadde riverso e giacque a lungo come corpo morto. Quando ritornò in sé, era pallido e tremante e rimase sdraiato, e per lungo tempo non volle né mangiare né bere.
In tale condizione rimase per sette giorni; ma i suoi animali non lo lasciavano né giorno né notte, tranne l'aquila che volava via per andare a cercare il cibo. E ciò che prendeva e predava lo poneva sul giaciglio di Zarathustra: così che Zarathustra alla fine giacque tra bacche gialle e rosse, grappoli d'uva, mele rosa, erbe aromatiche e pine. Ai suoi piedi poi giacevano due agnelli, che l'aquila aveva con fatica portato via alloro pastori.
Finalmente, dopo sette giorni, Zarathustra si sollevò dal suo giaciglio, prese in mano una mela rosa, la odorò e trovò soave la sua fragranza. Allora i suoi animali credettero che fosse giunto il momento di parlare con lui.
“O Zarathustra,” dissero “già da sette giorni tu giaci così, con occhi appesantiti dal sonno: non vuoi rimetterti finalmente in piedi?
Esci fuori dalla tua caverna: il mondo ti attende come un giardino. Il vento gioca con grevi profumi che vogliono venire a te; e tutti i ruscelli bramano correrti dietro.
Tutte le cose ardono di te che per sette giorni sei rimasto solo; esci fuori dalla tua caverna! Tutte le cose vogliono essere tua medicina!
Forse che una nuova conoscenza è venuta a te, aspra e pesante? Hai giaciuto come una pasta che lievita, mentre la tua anima gonfiava e traboccava.”
“O miei animali,” rispose Zarathustra “chiacchierate ancora così, e lasciate che io vi ascolti! Il vostro chiacchierare mi rianima in tal modo che quando chiacchierate, il mondo mi appare come un giardino.
Come è bello che esistano parole e suoni: non sono forse le parole e i suoni come arcobaleni e ponti illusori fra ciò che è eternamente diviso?
Ad ogni anima appartiene un altro mondo; per ogni anima un'altra anima è un aldilà.
L'apparenza inganna proprio tra ciò che si somiglia; poiché l'abisso più piccolo è il più difficile da colmare. Per me, come potrebbe esistere un fuori-di-me?
Non esiste fuori! Ma noi lo dimentichiamo non appena la voce risuona; com'è bello che noi dimentichiamo!
Non sono stati assegnati alle cose nomi e suoni, perché l'uomo si ritrovasse nelle cose? È una bella follia il parlare: con esso l'uomo danza sopra tutte le cose.
Come sono piacevoli ogni parlare e tutte le falsità dei suoni! Con i suoni, il nostro amore danza su variopinti arcobaleni.”
“O Zarathustra,” dissero allora gli animali “per coloro che pensano come noi, tutte le cose danzano di per se stesse: vengono e si porgono la mano e ridono e fuggono via, e ritornano.
Tutto va, tutto ritorna; eternamente gira la ruota dell'esistenza. Tutto muore, tutto fiorisce di nuovo; eternamente trascorre l'evo dell'esistenza.
Tutto si spezza, tutto si ricongiunge; eternamente l'esistenza si costruisce la stessa casa. Tutto si accomiata, tutto si risalita; e così rimane eternamente fedele a se stesso l'anello dell'esistenza.
In ogni istante comincia l'esistenza; intorno ad ogni 'qui' la palla gira 'là'. Il centro è ovunque. Tortuoso è il sentiero dell'eternità.” [Allusione al pensiero induista e buddista]
“O buffoni e organetti!” rispose Zarathustra, e rise di nuovo. “Come sapete bene ciò che si dovette compiere in sette giorni: e come quel mostro mi penetrò in gola per soffocarmi! Ma io gli staccai con un morso la testa e la sputai lontano da me.
E voi, voi ne avete già fatto una canzone? Ma ora giaccio qui, stanco anche di quel morso e del vomito, malato ancora della mia propria liberazione.
E voi state a guardare tutto ciò? Animali miei, siete anche voi crudeli? Avete voluto assistere al mio grande dolore, come fanno gli uomini? L'uomo è infatti il più crudele degli animali.
Fino ad oggi è stato la creatura più contenta della terra ogni volta che ha assistito alle tragedie, ai combattimenti dei tori, alle crocefissioni; quando inventò l'inferno, esso fu il suo paradiso in terra.
Quando l'uomo grande grida di dolore, il piccolo accorre in fretta e la lingua gli penzola fuori fino al collo per il compiacimento. Ma dice che è 'compassione'.
Il piccolo uomo, in particolare il poeta, con quanta premura accusa con parole la vita! Ascoltatelo, ma ascoltate anche la gioia che si nasconde in quel le accuse!
Questi accusatori della vita: la vita li soggioga con un batter di ciglia. 'Tu mi ami?' dice l'insolente. 'Aspetta ancora un poco, per ora non ho tempo per te.'
L'uomo è contro se stesso il più crudele degli animali; ascoltate il piacere che si nasconde nei lamenti e nelle accuse di tutti coloro che si dicono 'peccatori' e 'portatori di croce' e 'penitenti'!
Ma io stesso voglio forse con ciò essere accusatore dell'uomo? Ahimè, animali miei, questo soltanto ho imparato fin qui, che all'uomo sono necessarie le sue cose peggiori per raggiungere le sue migliori; che tutte le sue cose peggiori sono la sua miglior forza e la pietra più dura per il supremo creatore; e che l'uomo deve diventare migliore e insieme peggiore.
Non sono stato inchiodato a questo legno di martirio per avere saputo che l'uomo è cattivo, ma perché ho gridato, come nessuno aveva ancora gridato:
'Ahimè, che quanto in lui è più malvagio è ancora piccola cosa! Ahimè, che le sue cose migliori sono ancora poca cosa!'
Il grande schifo per l'uomo, questo è ciò che mi ha mozzato il fiato e mi è sceso giù per la gola: e ciò che disse l'indovino: 'Tutto è uguale, niente vale la pena, il sapere uccide'.
Un lungo crepuscolo mi venne zoppicando davanti, una tristezza ebbra e mortalmente stanca, che mi parlò sbadigliando. 'Eternamente l'uomo ritorna, colui di cui tu sei stanco, il piccolo uomo.' La mia tristezza sbadigliò e trascinava la gamba e non poteva addormentarsi.
La massa umana in caverna si trasformò ai miei occhi, il suo petto si incavò, tutto quanto è vivo mi sembrò un putridume umano e una massa di ossa e di marcio passato.
I miei sospiri si posavano su tutti i sepolcri degli uomini, e non potevano più rialzarsi; i miei sospiri e i miei interrogativi gracidavano e strozzavano e scavavano e lamentavano di giorno e di notte:
'Ahimè, l'uomo ritorna eternamente! Il piccolo uomo ritorna eternamente!'
Nudi li avevo un giorno visti entrambi, l'uomo più grande e l'uomo più piccolo: troppo simili l'uno all'altro, troppo umano anche il maggiore di essi!
Troppo piccolo il più grande! Questa era la mia ripugnanza dell'uomo! Ed anche del più piccolo c'è un eterno ritorno! E provavo così una grande ripugnanza per tutto l'esistente!
Oh, schifo! schifo! schifo!” Così parlava Zarathustra, e sospirava e inorridiva; perché si ricordava della sua malattia. Ma i suoi animali non lo lasciarono continuare.
“Non parlare più oltre,” o tu che stai guarendo!” gli risposero i suoi animali. “Ma va' fuori, là dove il mondo ti attende simile ad un giardino.
Va' fuori verso le rose e le api e gli stormi delle colombe! E specialmente verso gli uccelli cantori: affinché tu impari da loro il cantare!
Cantare è appunto cosa per convalescenti; il sano può parlare. E anche se il sano vuol canti, li vuole tuttavia diversi da quelli che desidera il convalescente.”
“O voi, buffoni e organetti, tacete dunque” rispose Zarathustra, e sorrise dei suoi animali. “Come sapete bene quale conforto io abbia scoperto per me in sette giorni!
Che io debba di nuovo cantare, questo è il conforto che ho scoperto per me, e questa è la mia convalescenza: volete trarne forse di nuovo una canzone?”
“Non parlar oltre” gli ribatterono i suoi animali; “ma piuttosto, o convalescente, fabbricati una nuova lira, un nuovo strumento!
Perché vedi, Zarathustra: per i tuoi nuovi canti c'è bisogno di una nuova lira.
Canta e trabocca, o Zarathustra, cura con nuovi canti la tua anima: onde tu possa sopportare il tuo grande fato, che non fu ancora quello di alcun uomo!
Perché i tuoi animali lo sanno bene, o Zarathustra, chi tu sei e devi divenire: vedi, tu sei il maestro dell'eterno ritorno: questo è il tuo fato! [La dottrina dell'eterno ritorno è l'estrema e più alta intuizione di Nietzsche, che le dedicò molte pagine in tutte le sue ultime opere]
Il fatto che tu per primo debba insegnare questa dottrina: come non dovrebbe questo grande tuo destino non costituire anche il tuo maggior pericolo e la tua più grave malattia!
Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte le cose eternamente ritornano e noi con loro, e che noi già siamo stati un'infinita quantità di volte, e tutte le cose con noi.
Tu insegni che c'è un grande eone del divenire, un grande mostruoso eone: che simile ad un orologio a polvere, deve continuamente capovolgersi per vuotarsi sempre di nuovo: per modo che tutti questi anni cosmici sono simili a se stessi, nel grande e nel piccolo, e noi stessi siamo simili sempre di nuovo a noi stessi in ogni eone, nel grande come nel piccolo.
E se tu ora volessi morire, o Zarathustra: vedi, noi sappiamo anche come tu in tal caso parleresti a te stesso; ma i tuoi animali ti pregano di non morire ancora!
Tu parleresti senza tremare, anzi respirando di felicità: poiché ti sarebbero stati tolti di dosso un grande peso e una grande afa, o pazientissimo!
'Ora io muoio e mi dissolvo,' tu diresti 'e in un attimo non sono più nulla. Le anime sono altrettanto mortali come i corpi.
Ma il nodo delle cause nelle quali io sono avvolto, ritorna e mi rifarà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell'eterno ritorno.
Io ritorno, ritornerò ancora, con questo sole, con questa terra, con questa aquila, con questo serpente; ma non per una nuova vita o una vita migliore o una vita consimile: ritornerò di nuovo eternamente per condurre questa medesima vita, nel grande come nel piccolo, e insegnare ancora l'eterno ritorno di tutte le cose: per pronunciare ancora la parola del grande meriggio della. terra e dell'uomo, ed annunciare di nuovo agli uomini il Superuomo.
Ho detto la mia parola e della mia parola io perisco: così vuole il mio eterno destino; come annunciatore io vado incontro al mio crepuscolo!
L'ora è venuta, che colui che tramonta impartisca a se stesso la sua benedizione. Così finisce il tramonto di Zarathustra'.“

Quando gli animali ebbero pronunciato queste parole, tacquero. e attesero che Zarathustra dicesse loro qualche cosa: ma Zarathustra non li udì neanche tacere. Stava immobile, con gli occhi chiusi, simile ad un dormiente, anche se addirittura non dormiva: perché in realtà stava parlando con la propria anima. Il serpente e l'aquila, quando lo videro così silenzioso, rispettarono il grande silenzio che lo circondava e cauti si allontanarono.


DELLA GRANDE NOSTALGIA

“O mia anima, io ti ho insegnato a dire 'oggi' come 'un giorno' e 'una volta' e a danzare in giro la tua danza sopra ogni Qui e Là e Laggiù.
O mia anima, ti ho liberato da tutti i nascondigli, ho spazzato via da te la polvere, i ragni e la penombra.
O mia anima, ho lavato da te il piccolo pudore e il cantuccio della virtù e ti ho convinta a porti nuda davanti agli occhi del sole.
Con la tempesta, che si chiama 'spirito', io ho soffiato sopra il tuo mare ondoso; ne ho spazzato via tutte le nuvole, e ho strozzato l'impiccatore, che si chiama 'peccato'.
O mia anima, io ti ho dato il diritto di dir No come la tempesta, e di dire Sì, come dice Sì il cielo aperto: e tu stai immobile come la luce e passi attraverso le bufere negatrici.
O mia anima, io ti ho reso la libertà su tutto il creato e non creato: chi conosce, come tu la conosci, la voluttà dell'avvenire?
O mia anima, io ti ho insegnato il disprezzo, non quello che sopraggiunge come un verme roditore, ma il grande, amoroso disprezzo, che tanto più ama là ove più spregia.
O mia anima, io ti ho insegnato a convincerti in modo da radicare in te anche: la convinzione delle cause: simile al sole, che induce il mare a credere alla sua altezza.
O mia anima, io ho tolto da te ogni obbedienza inginocchiamento e invocazione al Signore; ti ho dato io stesso il nome di 'svolta del destino' e 'fato'.
O mia anima, io ti ho dato nuovi nomi e variopinti meccanismi, ti ho chiamato 'fato' e 'ampiezza delle ampiezze' e 'cordone ombelicale del tempo' e 'campana azzurra'.
O mia anima, al tuo regno terrestre ho dato da bere tutta la sapienza, tutti i nuovi vini ed anche tutti i vini incredibilmente vecchi e forti della sapienza.
O mia anima, ogni sole io ho versato su di te e ogni notte e ogni silenzio e ogni nostalgia: e tu mi sei cresciuta come un albero di vita.
O mia anima, ecco che tu stai davanti a me straordinariamente ricca e pesante, una vigna con mammelle gonfie e densi grappoli d'oro bruno: densi e carichi della tua felicità, tutti un'attesa di eccesso e tuttavia nel pudore dell'attesa.
O mia anima, non c'è in nessun luogo un'anima più amante, comprensiva e ampia! Dove mai si incontrano e si congiungono meglio che in te passato e futuro?
O mia anima, io ti ho dato tutto, e tutte le mie mani si sono vuotate per te: e ora! Ora tu mi dici sorridendo e piena di malinconia: 'Chi di noi deve ringraziare?
Non ha da ringraziare il donatore per colui che ha ricevuto? Non è il donare una necessità? Non è il prendere un gesto di compassione?'
O mia anima, io comprendo il sorriso della tua malinconia: la tua stessa ricchezza eccessiva tende ora mani imploranti!
La tua pienezza volge gli occhi sopra mari tempestosi e cerca e attende; la nostalgia della pienezza rifulge dal cielo sorridente del tuo occhio!
E in verità, o mia anima! chi vedendo il tuo sorriso non si scioglierebbe in lacrime? Gli angeli stessi si sciolgono in lacrime per la bontà enorme del tuo sorriso.
È la tua bontà e l'eccesso delle tue bontà, che non vogliono lamentarsi né piangere: e tuttavia il tuo sorriso, o mia anima, si protende verso le lacrime e la tua bocca trema verso il singhiozzo.
'Non è ogni pianto un lamento? E non è ogni lamento un'accusa!'
Così tu dici a te stessa, e perciò tu vuoi, o anima mia, piuttosto sorridere che scaricare la tua pena; scaricare in lacrime cocenti tutta la tua pena per la tua pienezza e per tutto il bisogno che ha la vigna del potatore e del falcetto del potatore!
Ma se tu non vuoi piangere né sfogare nel pianto la tua purpurea malinconia, dovrai pur cantare, o mia anima! Vedi, sorrido io stesso predicendoti questo:
cantare, con canto ebbro, finché tutti i mari si calmino per ascoltare la tua nostalgia, finché sopra tutti i mari della nostalgia plani il vascello, il miracolo d'oro, per il cui oro tutte le buone, cattive, singolari cose sobbalzano; anche molte grandi e piccole specie animali, e tutto ciò che ha strani piedi leggeri da poter correre per sentieri viola-zzurri, verso quel miracolo d'oro, il libero vascello e il suo signore: ma questi è il potatore, che attende, con falcetto di diamante, il tuo grande liberatore, o mia anima, il senza nome, a cui solo i canti del futuro troveranno un nome! E invero già il tuo alito profuma di canti futuri, già tu ardi e sogni, già bevi assetata a tutte le canore profonde fontane consolatrici, già riposa la tua malinconia nella felicità dei canti futuri!
O mia anima, ora ti ho dato tutto e anche l'ultima delle mie cose, e tutte le mie mani si sono vuotate per te: e che io ti abbia esortato a cantare, ecco, questa è l'ultima delle mie azioni!
Che io ti abbia esortato a cantare, dillo, dillo tu: chi di noi ha ora da ringraziare? Ma dunque: cantami, canta, anima mia! E lascia che io ti ringrazi!”
Così parlò Zarathustra.


LA SECONDA CANZONE A BALLO

1

“Or è poco ho guardato nel tuo occhio, o vita: e ho visto luccicare l'oro nella tua pupilla notturna; il mio cuore si è fermato per la voluttà: ho visto luccicare un vascello d'oro su acque notturne, una barca dondolante d'oro che annegava, si imbeveva d'acqua, e ritornava sù di nuovo a dondolare!
Hai gettato uno sguardo verso il mio piede ebbro di danza, uno sguardo dondolante ridente interrogante dissolvente: due volte soltanto hai mosso le tue nacchere con le tue piccole mani; e già il mio piede oscillava d'ebbrezza danzante.
I miei talloni s'impennavano, e le dita dei miei piedi si tendevano per intenderti: perché il danzatore ha il suo orecchio nelle dita dei suoi piedi.
Sono balzato verso di te: allora tu ti sei ritratta davanti al mio salto; e contro di me ha lingueggiato la lingua della tua chioma volante!
Ed io sono balzato lontano da te e dalle tue serpi: e tu ti sei immobilizzata davanti a me, rivolta a mezzo verso di me con l'occhio pieno di desiderio.
Con sguardo ambiguo, tu mi insegni vie ambigue; e per vie ambigue impara il mio piede le astuzie!
Io temo la tua vicinanza, amo la tua lontananza; la tua fuga mi attrae, il tuo cercarmi mi blocca: lo soffro, ma che cosa non soffrirei volentieri per te!
Il cui gelo infiamma, il cui odio avvince, la cui fuga lega, la cui irrisione commuove.
Chi non ti odierebbe, o grande legatrice, allettatrice, tentatrice, cercatrice, ritrovatrice! Chi non ti amerebbe, o peccatrice innocente, impaziente, sfuggente, dagli occhi di fanciullo!
Dove mi trai ora, tu fiore e demonio? Ed ora tu mi sfuggi di nuovo, o dolce scapestratezza e ingratitudine!
Io danzo sul tuo ritmo, ti seguo anche nella più piccola traccia. Dove sei tu? Dammi la mano! O anche solo un dito.
Qui sono caverne e folteti: ci smarriremo! Ferma! Arrestati! Non vedi ronzare civette e scoiattoli? Tu civetta! E tu scoiattolo! Mi vuoi fare il verso?
A che punto siamo? Dai cani hai imparato ad ululare e a guaire.
Mi hai digrignato graziosamente in faccia i tuoi dentini bianchi, i tuoi occhi malvagi sono balzati contro di me dal fondo del pelame ricciuto!
È una danza sfrenata: io sono il cacciatore; vuoi tu essere il mio cane o il mio camoscio?
Stammi accanto! Presto, maligna saltatrice! E ora sù! Avanti! Guai, anche io sono stato preso nei tuoi salti!
Oh, guarda come giaccio, mio orgoglio, e come invoco pietà! Volentieri andrei con te per più amabili sentieri!
Sentieri dell'amore attraverso tranquilli cespugli variopinti! O là, lungo il mare, ove nuotano e danzano pesci d'oro!
Sei ora stanca? Lassù pascolano capre e tramonti: non è bello dormire se i pastori suonano flauti? Sei tanto stanca? Lascia che io ti porti, abbandona le braccia sui fianchi! E se hai sete, io avrei quale cosa, ma la tua bocca non vuole bere!
Oh, la dannata guizzante serpe che scivola nei buchi! Dove sei andata? Sul volto io sento due tocchi della tua mano che vi lascia impronte rosse! Sono veramente stanco di essere sempre il tuo stolto pastore! Tu strega, finora ho cantato per te; ora tu devi metterti a urlare!
Sulla battuta della mia frusta devi danzare e urlare! Non ho dimenticato la frusta, vero? No!”


2

“Allora la vita mi rispose in questo modo, turandosi le sue graziose orecchie:

'O Zarathustra! Non far tanto fracasso con la tua frusta! Tu lo sai: il fracasso uccide i pensieri, e proprio ora mi vengono tanti teneri pensieri.
Entrambi siamo due veri inutili, buoni a nulla nel bene e nel male. Al di là del bene e del male abbiamo trovato la nostra terra promessa e il nostro prato verde: noi due soltanto! Perciò dobbiamo essere buoni l'uno con l'altro!
E se anche non ci amiamo proprio del tutto, dobbiamo forse mettere il broncio, se non ci si ama proprio del tutto?
Che io sono buona e spesso troppo buona lo sai bene: e la ragione è che io sono gelosa della tua saggezza. Ah, questa vecchia pazza della saggezza!
Se tu una volta perdessi davvero la tua saggezza, allora ti sfuggirebbe presto anche il mio amore'.
A questo punto la vita guardò pensosa dietro a sé e intorno a sé e disse piano: 'O Zarathustra, tu non mi sei abbastanza fedele!
Tu non mi ami quanto tu dici; io so che tu pensi di dovermi presto abbandonare.
C'è una vecchia pesante pesante campana rumorosa: che di notte fa fracasso col suo rumore fino alla tua grotta: se tu senti questa campana battere l'ora a mezzanotte, tra l'una e la mezzanotte, tu pensi, pensi, o Zarathustra, lo so, di volermi lasciare!'
'Sì,' risposi esitando 'ma tu sai anche...' E le dissi qualcosa all'orecchio, lì tra le sue gialle trecce disordinate e pazzerelle.
'Tu lo sai, Zarathustra? Non lo sa nessuno.'
Ci siamo guardati, e abbiamo volto gli occhi al verde prato, su cui scorreva appunto la fresca sera, e abbiamo pianto insieme. Allora mi era più cara la vita di tutta la mia saggezza.”
Così parlò Zarathustra.

3

UNO!
O uomo! Ascolta!
DUE! Che dice la profonda mezzanotte?
TRE! “Dormii, dormii,
QUATTRO!
da un sogno profondo son risorta:
CINQUE!
il mondo è fondo,
SEI!
e più profondo che non pensi il giorno.
SETTE!
Fonda è la pena,
OTTO!
la gioia più fonda del dolore:
NOVE! la pena dice: passa!
DIECI!
Ma ogni gioia vuole l'eternità,
UNDICI! vuole profonda, fonda eternità!”
DODICI!


I SETTE SIGILLI
(ovvero: la canzone del Sì e dell'Amen)

“Se io sono un indovino, pieno di quello spirito profetico che erra su alti gioghi montani tra due mari, e scorre tra il passato e l'avvenire come una pesante nuvola, nemico delle opprimenti bassure e di tutto ciò che è stanco e non può né vivere né morire: pronto nell'oscuro petto alla folgore e al raggio di luce liberatore, carico di lampi che dicono Sì! che arridono Sì!, alle profetiche saette: ed è beato chi è così gravido! E in realtà, deve a lungo pendere sopra ai monti come cupa nube, colui che vorrà un giorno accendere la luce dell'avvenire!
Come potrei non essere in brama di eternità e dell'anello degli anelli; dell'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero aver figli, tranne questa donna che io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”

“Se la mia ira ha spezzato i sepolcri, ha rimosso le pietre terminali e ha gettato in abissi scoscesi le antiche tavole spezzate:

se il mio scherno ha soffiato via le putrefatte parole e io sono come una scopa per i ragni crociati e vento che spazza via le antiche ammuffite camere sepolcrali:

2

“Se mi sono seduto esultante dove giacciono gli antichi dèi, benedicendo il mondo, amando il mondo proprio vicino ai monumenti dei calunniatori de mondo: se amo persino le chiese e i sepolcri degli dèi, quando il cielo guarda con chiaro occhio attraverso le loro volte scoperchiate; e volentieri mi siedo come l'erba e il rosso papavero sui templi diroccati; come potrei non ardere i brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che io amo: perché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”

3

“Se è giunto a me un alito dell'alito creatore e di quella celeste necessità, che costringe anche il caso a danzare la danza delle stelle: se ho riso del baleno creatore, a cui borbottando, ma obbediente, segue il lungo tuono dell'azione: se ho giocato ai dadi con gli dèi, alla tavola degli dèi, che è la terra, finché la terra tremò e crepò e ne sprizzò un torrente di fuoco: poiché la terra è la tavola degli dèi, e vibrante per le nuove parole creatrici e per il divino lancio di dardi: come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterna ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero aver figli, tranne questa donna che io amo: perché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”


4

“Se ho bevuto a pieni sorsi a quella spumosa coppa profumata, in cui sono confuse tutte le cose: se mia mano ha versato il remoto nel prossimo, e il fuoco nello spirito e la gioia nel dolore e il pessimo nell'ottimo: se io stesso sono un chicco di quel sale liberatore, che fa sì che tutte le cose si mescolino bene nella bocca: poiché c'è un sale che lega il bene con il male; e anche l'ingrediente peggiore è necessario per l'aroma e per l'estremo trabocco: come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”

5

“Se sono affezionato al mare e a tutto ciò che ha la natura del mare, e gli sono tanto più legato quanto più esso mi contraddice furiosamente: se è in me quel piacere del ricercare, che spinge la vela verso ciò che è ancora inesplorato, se nel mio piacere c'è un piacere di marinaio: se il mio giubilo grida: 'La costa è scomparsa, l'ultima catena è caduta, l'immensità freme intorno a me, spazio e tempo brillano lontano; bene! va avanti! vecchio cuore!' come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”

6

“Se la mia virtù è la virtù di un danzatore, e io spesso sono balzato con entrambi i piedi nell'estasi dorata e smeraldina: se la mia malvagità è una malvagità sorridente, che sta tra i declivi di rose e le siepi dei gigli: nel riso infatti è raccolto ogni male, ma santificato e assolto attraverso la propria beatitudine: se è il mio Alfa e Omega che tutto ciò che è pesante divenga leggero, ogni corpo danzatore e ogni spirito uccello: e in realtà, questo è il mio Alfa e Omega!
Come potrei non ardere di brama per l'eternità e per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che io amo: poiché io amo te, o eternità!
Poiché ti amo, o eternità!”

7

“Se ho disteso sopra di, me cieli quieti e volteggiato con le mie ali nei miei propri cieli: se giocando ho nuotato in profonde lontananze di luce ed è giunto l'uccello-saggezza della mia libertà: così parla l'uccello-saggezza: 'Vedi, non c'è né Sopra né Sotto! Lanciati per ogni dove, avanti, indietro, o tu leggero! Canta! non parlar più!
Tutte le parole sono forse fatte per i pesanti? Tutte le parole non sono forse menzogna per il leggero? Canta! non parlar più!'
Come potrei non ardere dl brama per l'eternità e, per l'anello degli anelli, l'anello nuziale dell'eterno ritorno?
Non ho ancora trovato la donna con la quale desidero avere figli, tranne questa donna che io amo: poiché io amo te, o eternità!
Perché ti amo, o eternità!”