SERGIO SABLICH

ANALISI DI«ARLECCHINO»

CONSIDERAZIONI FINALI

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Anche a non voler troppo insistere sul soffío di confessione e di denuncia che spira in quest'opera, è indubbio che l'«Arlecchino» impegnò Busoni sia come musicista e compositore sia come uomo e testimone del suo tempo, posto di fronte aIle menzogne e alla disumanità della guerra. Lo spunto originario della Commedia dell'Arte e della giovanile comicità rossiniana rimase soltanto lo sfondo per un'operazione assai più ambiziosa e per molti versi originale, la quale, senza rinunciare ad essere spettacolare, animata e divertente, contiene toni di profonda serietà e amarezza, nel momento stesso in cui inclina alla parodia e alla caricatura. Su questo aspetto del suo lavoro Busoni insistette in modo particolare, anche per rettificare alcuni fraintendimenti possibili a un primo, superficiale ascolto:
Si rimprovera al mio Arlecchino d'essere sarcastico e disumano, invece debbo questa creazione all'impulso diametralmente opposto: alla pietà verso gli uomini che si rendono vicendevolmente la vita difficile, più difficile di quel che dovrebbe e potrebbe essere: col loro egoismo, coi loro pregiudizi radicati nel sangue, con la forma che oppongono al sentimento! Per questo nell'«Arlecchino» (e questa intenzione è realizzata) si arriva solo a un riso doloroso. Persino il personaggio più innocuo, il Cavaliere, è ironizzato in parte con amarezza. Le parole del Protagonista sono le mie proprie confessioni. L'Abate esprime umana indulgenza e tolleranza. Il sarto Matteo è l'idealista ingannato, colui che non sospetta di nulla. Colombina: la donna. È il libretto d'opera più morale dopo quello del «Flauto magico», che io ammiro altamente.
Dal «Flauto magico» Busoni desunse la compresenza di elementi elevati e scherzosi, educativi e divertenti, sacri e profani, dotti e popolari, facendone il mezzo di espressione della sua idea di moralità in ambito non soltanto artistico. Come il «Flauto magico» anche l'Arlecchino è fondamentalmente un Singspiel, sia pur di tipo moderno, che affida cioè alla parola e al dialogo non soltanto il procedere dell'azione ma anche i messaggi, sempre ambiguamente simbolici, del protagonista: circostanza, questa, che se da un lato è del tutto coerente con le idee estetiche di Busoni sulla funzione del teatro, dall'altro getta forti dubbi sull'autenticità della sua ispirazione italiana, almeno nei risultati finali. Arlecchino è opera assai poco italiana nella sostanza, e assai più vicina alla visione che delle maschere italiane ebbero musicisti come Richard Strauss o Igor Stravinskij (al cui «Pulcinella» è legata se non altro dal gioco dei rimandi alle musiche del passato); per non parlare di influssi più certi, come quelli del «Pierrot lunaire» schoenberghiano, evidenti sia nell'uso dello Sprechgesang sia in alcune lugubri e sideree atmosfere vocali e strumentali.
Non è un caso che l'eredità di Busoni in questo campo sia stata raccolta da musicisti come Alfredo Casella e soprattutto Gianfrancesco Malipiero, nel cui teatro simbolico, «a pannelli», irriducibilmente avverso all'Ottocento romantico come al naturalismo, è possibile ravvisare più di un punto di contatto con la poetica busoniana.
Il sentimento di un riso doloroso, paradosso solo apparente, permea da cima a fondo la partitura dell'«Arlecchino» e ne è, per così dire, l'anima, oltre che la chiave interpretativa. A tale sentimento Busoni non oppone la forma, ma una serie di forme e di linguaggi convenzionali calati in situazioni e in personaggi tipici del melodramma sia serio che buffo, scomposti e analizzati per far vedere cosa c'è al di là della convenzione e della veste fittizia in cui appaiono; svelando così che la scuola in cui ha appreso la lezione è quella di Mozart e di Rossini. Certo, in lui il peso dell'iropia, della caricatura, forse anche dell'eccesso didascalico, inevitabile in un'operazione del genere e in un musicista così radicale come Busoni, è assai maggiore; ma non troppo intellettualistico e di rado sovrabbondante, continuamente oscillante tra lo scherzo iracondo e la serietà giocosa: benché richieda, per esser apprezzato fino in fondo, un bagaglio culturale niente affatto elementare e una disponibilità totale a farsi prendere nel vortice delle trovate e delle allusioni.
Pur non rinunciando a smascherare, talvolta duramente, il vuoto che si cela dietro le grandi passioni - gli atteggiamenti stereotipati e falsi, le impudicizie e le menzogne della scena -, l'amore di Busoni per un teatro inteso come mezzo di comunicazione e di conoscenza, oltre che fonte di spirituale divertimento, è tale da farlo indugiare, nel momento stesso in cui se ne distacca e li sottopone a critica, a osservare nostalgicamente i meccanismi e gli oggetti della sua creazione. Mentre li manovra, e sembra osservarli dall'alto, in realtà vive con essi, ne è parte egli stesso. Il suo scherno, la sua ira, le sue beffe vanno all'immagine che il pubblico da loro pretenderebbe, non allo spirito che si nasconde dietro quell'immagine. Del resto, dal teatro delle marionette Busoni aveva imparato assai presto che anche dentro un fantoccio di legno o di pezza si riflette un po' della luce celeste, e della verità umana. Di qui l'ambiguità commossa e l'iperbolicità formale di un'opera come «Arlecchino», non decifrabile in modo univoco estrapolando singolarmente le sue componenti.
Ciò vale anche, anzi soprattutto, per la musica. Accanto alle invenzioni brillanti, alle citazioni magistralmente elaborate, alle parodie di luoghi comuni dell'opera, sovente all'interno stesso di esse emerge lo stile personale di Busoni, quasi esso fosse il risultato naturale di quei linguaggi e di quegli stili. Si passa di continuo dall'immedesimazione allo straniamento, dal calco di una musica «al quadrato» costruita con prodigiosa abilità alla trovata originale, inedita e inaspettata: senza che le cesure siano avvertibili, si ha in ogni istante l'impressione che una superiore facoltà ordinatrice, soggettiva e insieme oggettiva, governi la partitura. E non è senza valore che questa voce personale prorompa anzitutto nelle parti puramente musicali e in quelle forme chiuse cui Busoni annetteva particolare importanza nell'economia di un lavoro teatrale. Proprio in nome della continuità dell'evoluzione linguistica, la quale arricchendo i mezzi disponibili li riduce a fattori espressivi elementari, Busoni evidenzia le caratteristiche specifiche della sua arte: la nodosa intelaiatura ritmica, la melodia polifonica, il robusto tessuto contrappuntistico, la lucidità delle soluzioni armoniche, spesso piegate a simbolismi finemente ironici, la brillante tavolozza orchestrale, così ricca di effetti timbrici, ora «alla maniera di», ora in linea con le più moderne acquisizioni del tempo, sono tutti elementi che coesistono e che sono combinati insieme nella variegata rappresentazione musicale dell'«Arlecchino», sia avvolgendo i materiali e le forme del passato, sia addensandosi in figure di autentica individualità stilistica.
Sergio SABLICH, «Busoni», Torino, EDT, 1982, pp. 214-216