LA MUSICA
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Quattro battute di tromba, puntute, frizzanti, brillanti, presentano Arlecchino, il quale poi dice il Prologo. La vivacissima Introduzione che segue, s'inizia con le 4 battute d'Arlecchino e procede spedita, giocando spesso con ritmi di tre contro due, rna conservando costante il suo carattere fra mozartiano e cimarosiano (a parte la modernità armonica).
Anche la prima scena è preceduta da una breve «Introduzione», tranquilla e calma, che ritrae assai bene il vecchio angolo bergamasco, scena alla vicenda. Un primo tema di questa «Introduzione» servirà poi di sfondo al monologo di Matteo e alle sue letture dantesche. Divertentissimo il commento del Sarto al Canto di Paolo e Francesca; spassoso il commento musicale al commento letterario. Dice Matteo a un certo punto: «Leggendo questi versi - mi par d'udir - la melodia d'un'opera». Ed ecco dall'orchestra zampillare fresca una gaia musica del «Don Giovanni» di Mozart, sulla quale si distende il canto di Matteo: La bocca mi baciò tutto tremante. Alle sue spalle intanto, su alle finestre, sua moglie Annunziata sta frascheggiando con Arlecchino; e i due piani dell'azione, quello evocato dal sarto con la lettura del canto dantesco e quello mimato dagli amanti, sono sovrapposti assai ingegnosamente e teatrali.
Ma ecco Arlecchino annunziare a Matteo l'arrivo dei barbari. La musica ha carattere quasi esclusivamente ritmico. Dapprima a pause lunghe, che aumentano e sottolineano il crescente spavento del sarto. Non appena Matteo è stato rinchiuso e Arlecchino è uscito vittorioso e libero, l'orchestra si lancia in un temetto gioioso e saltellante che rende con molta efficacia il carattere della maschera bergamasca.
All'ingresso dell'Abate e del Dottore la musica assume un andamento pacato e cattedratico. Il tema, di due battute, ha sapore donizettiano e ci fa pensare al «Don Pasquale». Tutto il dialogo si svolge su questa musica piana ma saporita, che colorisce e dà risalto a frasi e pensieri. Soltanto all'evocazione della Toscana la tavolozza si arricchisce e riscalda, l'espressività si intensifica, la lirica si distende, creando un canto che dice assai bene l'animo dell'autore verso la sua Terra. Ma poi, riaccendendosi la disputa filosofica, anche la musica riprende la sua vivacità, punteggiandosi di crome e ornandosi di svolazzi, sotto cui però si risente ancora, a tratti (e specie quando i due parlano del fascino femminile) il tema della Toscana, quasi a nostalgico ricordo.
Dopo un frammento che si potrebbe dire di «Recitativo figurato» (il Dottore e l'Abate spiano nella casa di Matteo, subodorando un mistero) allorquando ser Matteo si affaccia alla finestra, ritorna il tema iniziale del Duettino, per passare poi subito al Terzetto. Questa, una delle pagine più originali e vivaci dell'opera, ci prova l'ammirazione che Busoni aveva per Rossini. La spigliatezza degli andamenti, la varietà ritmica, il gioco vocale sono, infatti, più rossiniani che mozartiani. Con scaltrezza d'operista, il compositore assegna alla musica un compito soltanto coloristico e ritmico, orditura trasparente su cui ricama l'agile gioco delle voci. Come Rossini si servì più volte di una parola per caratterizzare un pezzo (famoso, per questo, il Terzetto dei «Pappataci» nell'«Italiana in Algeri»), così Busoni si serve qui della parola «i barbari» per dar carattere a questo brano.
Passata la prima fase dello spavento, ecco i tre compari suggestionarsi l'un l'altro, immaginando le atrocità che i barbari commetteranno. La musica si serve dello stesso spunto con cui Arlecchino annunciò a ser Matteo l'arrivo dei Barbari, ma il tema, con forzata caricaturalità, diviene melodrammatico. Ad ogni annunzio tragico che Matteo riferisce, gli altri due fanno eco con dilagante terrore, e l'aumentar del panico è reso ridicolissimo dalla progressione musicale, finché si giunge alla previsione di ciò che i nemici faranno delle donne. Qui il frammento drammatico del tema passa ai bassi e si fa quasi accorato. I tre uomini già vedono violentate le loro figliole e, quasi lacrimando, le invocano: «Rosina, Lucilla, Mariettina, Agnese, Beatrice, Concettina, Francesca, Vittorina, Virginia, Serafina....». La parentesi sentimentale è però breve, ché subito, alla reazione dei tre, il tema riprende il suo ruolo primitivo.
Poche battute ancora, sostenute e solenni, commentano l'in-vocazione dell'Abate a Dio, poi di nuovo il 3/4 vivace e leggero, ma questa volta in registro grave, commenta il piano che i tre architettano per fronteggiare la situazione. Quindi ancora il frammento «sostenuto», e su una frase quasi languida (la vista dell'Osteria) il Terzetto si chiude brillantemente.
La Seconda Parte s'inizia con una Marcia caricaturale. Queste Marcette, di carattere marionettistico e di sapore burlesco, sono una specialità di Busoni. (Anche in «Turandot» ve n'è un paio deliziose). Quella di cui si parla trae il suo ridicolo da un tema formato per metà - arsis e tesi - da due note gravissime, e per l'altra metà da tre terze acute e stridule. Conferiscono al brano un senso di falso militarismo le trombe che scandiscono un deciso ritmo in assoluta dissonanza.
Dopo il Recitativo con cui Arlecchino annuncia a Matteo l'ordine di arruolamento, la Marcia riprende col primitivo vigore e calore, e su questa, più stonato che mai, il verso dantesco: «ora comincian le dolenti note». Molto saporosa, anche per il contrasto, è poi la coda (che sarà sfruttata altrove), fatta anch'essa su un ritmo di Marcia, ma fra il funebre e il trionfale. È durante questa che Matteo domanda il permesso di poter prendere con sé il suo Dante e, ottenutolo, si allontana fra gli sbirri, comicamente declamando: «Per me si va nella città dolente...»
L'entrata di Colombina [Terza Parte] avviene su un Tempo di minuetto sostenuto, di semplicità cimarosiana. Su questo Minuetto (che si svilupperà poi alla fine e di cui conosceremo anche l'origine), si svolge il primo dialogo fra Colombina e Arlecchino. Ma poi, non appena Colombina riconosce il marito, la musica, pur conservando movimento e tema, si fa stizzosa e acre.
L'opera volge al suo punto focale. Già alle prime note della Canzone di Leandro si sente sapor di satira. Satira nel carattere della musica, fatta ad imitazione della tradizionale Serenata trovadorica da melodramma; satira nel modo di cadenzare, nel fraseggio, nella distribuzione delle parole. Soltanto all'inizio del Duetto la musica ridiviene più leggera e briosa, di piglio settecentesco, ma per ritornare quasi subito melodrammatica, quando Colombina confida a Leandro che il marito la tradisce. Il moto ritmico s'intensifica e drammatizza, i frammenti tematici si fanno brevi e concisi, le voci concitate; finché, alla ridicola minaccia di Leandro «Contro l'empio traditore la vendetta compierò!» (sic), l'orchestra assume un andamento di accompagnamento verdiano, mentre la voce imita perfettamente la cabaletta del melodramma ottocentesco italiano.
Tutto il duetto conserva questo tono spinto di caricatura, richiesta anche dal testo. Il tenore canta infatti:
Avrai le gemme che portavan le mie ave!
[...]
Nell'antisala i servi,
nelle scuderie i valletti,
già pronti ad obbedire a un vostro cenno.
[...]
Lo giuro
sulla tomba dell'ava
che morì assassinata.

Gli attori stessi, quasi a voler uscire dalla finzione, spesso rivolgono, parole al pubblico, commentando cinicamente l'azione cui essi stessi partecipano. (Forma di comicità difficilissima che, dieci anni più tardi, doveva divenire caratteristica dell'arte di Ettore Petrolini).

Dice a un certo momento Colombina: «Gaglioffa assai diventa questa arietta». E Leandro incalza: «Ora viene la stretta col do finale.» La musica, passata attraverso l'imitazione di tutti gli stili melodrammatici (imitazione rivissuta e riespressa sempre modernissimamente), dal verdiano al mozartiano, dal donizettiano al bellininiano, con puntature, corone, cadenze, ecc., si fa ora più incalzante, come si conviene appunto alla «Stretta finale» del tradizionale duetto, fino a terminare con l'acuto del tenore, spezzato in una «stecca» dall'entrata di Arlecchino.
Un «Moderato tragico» fa da sfondo melodrammatico alle parole di Leandro: «Chi osa portare la dissonanza nell'amoroso accordo?» Ma, sul tema dell'«Andantino» che aveva servito al duetto precedente, Arlecchino conduce con ipocrita galanteria Colombina alla Locanda, per poi sfidare a duello il rivale. Ancora una volta il simbolico liuto fa le spese della ilarità e della caricatura. Ad ogni ingiunzione che Arlecchino gli fa di sfoderare la spada? Leandro lancia frasi snobistiche, intercalate da strimpellamenti di liuto, finché, ad una più perentoria minaccia, il bellimbusto getta lontano lo strumento ed impugna il ferro. Il duello si svolge senza musica, in «parlato ». Pochi colpi e Leandro è in terra.
Il 4º Quadro è intitolato dall'autore: «Scena, Quartetto e Melodramma» ed è la gemma dell'opera. Sopra un frammento ritmico a ripetizione, leggermente claudicante, fanno la loro uscita dall'osteria il Dottore e l'Abate. La loro conversazione, piuttosto annebbiata dal vino, è sostenuta da un breve tema affidato ai bassi, sempre sul ritmo iniziale; e su questi due elementi musicali si svolgerà tutta la prima parte del terzettino (Abate, Dottore, Colombina). Unica variante (caratteristico modo busoniano di crear parentesi gravi nel contesto di brani vivaci), un tema disteso e sostenuto in ottave, nato dalla contrazione tematica della «Marcia Funebre» sul cui ritmo Matteo partì soldato, che commenta una disquisizione filosofica dell'Abate.
Subito dopo, il ritmo claudicante riprende, aggravato ora da accordi tenuti e da movimenti melodici, per sboccare in un lieto e chiaro 4/4, a movimento di crome. Su questo ritmo i due compari si prendono la donna in mezzo e, galantemente cianciando, si mettono in moto.
Un altro tema si svolge ora in orchestra, fresco, luminoso e rossiniano, per guidare il terzetto nel breve giro ch'esso compie intorno al corpo giacente. La gaiezza musicale accresce efficacia al contrasto che nascerà quando il Dottore, incespicando nel corpo di Leandro, vi cadrà sopra. I tremolati degli archi sopra il greve movimento dei bassi, poi il grido isterico di Colombina che si getta sul corpo dell'amato, e quindi il singhiozzare angosciato dei violini su un pedale di mi bem., danno alla scena uno spassosissimo senso di parodia e fanno eíficace commento all'aprirsi cauto delle finestre e al muto partecipare del popolo al fattaccio.
Poi l'ansia musicale si acqueta. Un «solo» di Timpani rievoca il tema di Marcia già udita; quindi si entra nello spiritosissimo 2/2 che, con un semplice mezzo ritmico e una indovinata sincronia delle due voci (Abate e Dottore) ci danno evidentissimo il senso dell'imbarazzo nel tragico frangente. «Or che fare? Chiamar gente?»
La musica cambia metro e colore all'annuncio di Colombina: «Non è morto quest'uomo!» Il bisticcio fra i tre è reso da un serrato gioco contrappuntistico e da un susseguirsi di veloci scale discendenti, sopra un movimento melodico dei bassi. A questo punto entrano in azione - pur sempre senza voce - «le finestre». In tempo di Marcia Funebre (ed è la terza), su passaggi cromatici, alternati ad accordi di attesa e di interrogazione, l'Abate chiede aiuto, uno ad uno, agli abitanti delle varie case. Ma i volti si ritraggono, tutte le imposte vengono richiuse. Il tema già udito nel precedente Terzetto si affloscia ora e si allenta.
«Decisamente l'uomo
propende ad occultare
la sua innata pietà!»

Ma ecco, su tema quasi di Valzer lento («Allegretto sostenuto»), spuntar l'asino provvidenziale. Anche il morto ora è in piedi. S'inizia il Quartetto. Musicalmente il brano è pressoché inanalizzabile. Vi sono due temi principali: uno nuovo, l'altro già udito, che si alternano e si susseguono. Ma questi poco pesano nel contesto generale del pezzo, il quale è caratterizzato sopratutto da una genialissima distribuzione delle parti, sia vocali che strumentali, e da un equilibrio perfetto fra le varie sonorità. Qui la raffinata perizia contrappuntistica del compositore si rivela in pieno; si ha evidente la prova della consumata conoscenza dei classici in genere e di Bach in particolare.
Lo schema del pezzo è italiano, cioè costruito in forma chiusa, solidamente inquadrato, con ritmica di carattere assolutamente «nostro». Il contenuto armonico invece, e più ancora quello melodico, appaiono più tedeschi che latini. Non vi è abuso di stile imitativo (raramente usato, anzi), quasi assente la frase strofica, eppure e ciononostante, il pezzo sta in piedi saldo e cammina scorrevole, giocondo, divertente. Non crediamo di emettere giudizio temerario asserendo che questo «Quartetto» è la cosa più geniale dell'empolese, e forse una delle più significative dell'arte contemporanea.
All'«Amen», che chiude il Quartetto, s'innesta il primo tema con cui il pezzo si era iniziato, ma più lento, a carattere marziale, e su questo il Corteo stallontana.
Un rullo di tamburo e tre accordi a salti di quarte discendenti, ci mostrano Arlecchino affacciato all'abbaino della casa di Matteo che osserva i partenti e lancia loro il suo cinico: «Buon viaggio, felici nozze e figli maschi!» Ma poi anche la musica, allargando il suo respiro lirico, divien più ardente. Arlecchino sente la gioia della riconquistata libertà e il disprezzo pel mondo: «Voi, Arlecchini!»
Sopra un leggero svolazzar di quartine, egli scivola per la grondaia, prende a braccetto Annunziata che l'attende sulla porta di casa e, su una scala cromatica ascendente, se ne fugge con lei sgambettando.
Il monologo di Matteo. Il tema di Marcia Funebre, già udito alla partenza di Matteo per la guerra, serve ora anche pel suo ritorno. Soltanto che il tema si trasferisce ora nella gamma sovracuta, e quindi da triste ch'era diviene ilare e giocondo. Il periodare, ben legato e modolato, ci dà evidente il senso di gioia che prova l'uomo tornando alla sua casa e alla tranquilla pace del luogo. Soltanto dopo la lettura della lettera lasciatagli dalla moglie fedifraga, la musica si intorbida e si aggroviglia. La serenità si appanna infatti anche nell'animo di Matteo: «Ora non capisco proprio più niente!»
Ma la consuetudine porta serenità. Il suo desco da lavoro, il suo Dante, bastano alla felicità di Matteo. La musica si fa di nuovo vivace e trasparente. Il ritmo è quasi di danza e ancora una volta esso serve da stonatissimo sfondo ai versi della Divina Commediá. Poi la giocondità si fa più calma e serena; su pochi degradanti accordi cala il siparietto e si presentano alla ribalta i valletti trombettieri che attaccano, un ritmo di Polacca, la quale serve d'introduzione all'ultima parte dell'opera: Processione e Danza. Si sviluppa ora quel Tempo di Minuetto Sostenuto che già udimmo accennato al principio del Duetto fra Arlecchino e Colombina e che non è altro che l'ultimo tempo (la «Polacca» appuntot della « Sonatina ad usum infantis», per pianoforte, trasferita nell'opera con poche varianti. Pagina saporita e arguta, dove la classica forma della Danza settecentesca assume sapore modernissimo dall'ardito procedere delle successioni armoniche.
Terminato il Minuetto, poche vivaci battute, derivate dal Tema arlecchiniano, servono a preparare l'ultima chiacchierata del protagonista. Dopo la quale 30 battute di «Presto» chiudono l'opera.