FERRUCCIO BUSONI
TURANDOT

CARLO GOZZI
TURANDOT

GIACOMO PUCCINI
TURANDOT



TURANDOT, principessa chinese, figliuola di
ALTOUM, imperatore della China
ADELMA, principessa tartara, schiava favorita di Turandot
ZELIMA, altra schiava di Turandot
SCHIRINA, madre di Zelima, moglie di
BARACH, sotto nome di Assan, fu aio di
CALAF, principe dei tartari Nogaesi, figliuolo di
TIMUR, re d'Astracan
ISMAELE, fu aio del principe di Samarcanda
PANTALONE, segretario d'Altoum
TARTAGLIA, gran cancelliere
BRIGHELLA, maestro de' paggi
TRUFFALDINO, capo degli eunuchi del serraglio di Turandot
OTTO DOTTORI chinesi del divano
MOLTE SCHIAVE serventi nel serraglio
MOLTI EUNUCHI
UN CARNEFICE
SOLDATI

La scena è in Pechino, e nei sobborghi.

Il vestiario di tutti i personaggi è chinese, salvo quello di Adelma, di Calaf, e di Timur, ch'è alla tartara.

 

ATTO PRIMO

Veduta d'una porta della città di Pechino, sopra la quale ci sieno molte aste diferro piantate, sopra queste si vedranno alcuni teschi fitti, rasi; col ciuffo alla turca.

Scena prima

Calaf, indi Barach.

CALAF (uscendo da una parte)
Anche in Pechin qualch'animo cortese pur dovea ritrovar.


BARACH (uscendo dalla città)
Oimè! Che vedo!

CALAF (sorpreso)
Barach.

BARACH
Signor

CALAF
Tu qui!

BARACH Voi qui! Voi vivo!

CALAF
Taci; non palesarmi per pietade. Dimmi, come sei qui?

BARACH
Dopo la rotta
dell'esercito vostro sfortunato
sotto Astracan, veggendo i Nogaesi
fuggir sconfitti, e 'l barbaro sultano
di Carizmo feroce, usurpatore
del regno vostro, già vittorioso

scorrer per tutto, in Astracan ferito
mi ritrassi dolente Quivi intesi,
che 'l re Timur, genitor vostro, e voi
morti eravate nel conflitto. Io piansi.
Corro alla reggia per salvar Elmaze,
vostra madre infelice; e invan la cerco.
Già 'l soldan' di Carizmo furioso,
senza trovar chi s'opponesse, entrava
in Astracan coi suoi. Io disperato
fuggii dalla città. Peregrinando
più mesi andai. Qui in Pechin giunsi, e quivi
sotto nome di Assan, in Persia nato,
a una vedova donna m'abbattei
d'oppression colma, sfortunata; ed io
coi miei consigli, e con alcune gemme,
che avea, vendendo in suo favor, lo stato
dell'infelice raddrizzai. Mi piacque;
ella ebbe gratitudine; mia sposa
divenne alfine, e la mia sposa istessa
persian mi crede ancora, Assan mi chiama,
e non Barach. Qui vivo coi suoi beni,
povero a quel, che fui, ma fortunato
in questo punto son, dappoiché in vita
il principe Calaf, quasi mio figlio
da me allevato, io miro, e morto il piansi.
Ma come vivo, e come qui in Pechino?

CALAF
Barach, non nominarmi. Il dì funesto,
dopo il conflitto, in Astracan col padre
corsi alla reggia, e delle miglior gemme
fatto fardello, con Timur, e Elmaze,
miei genitori, di panni villerecci
travestiti, fuggimmo prontamente.
Per i deserti, e per l'alpestri roccie
n'andavamo celati. Oh Dio! Barach,
quante miserie, e quanti patimenti!
Sotto 'l monte Caucaseo i malandrini
ci spogliaron di tutto; e i nostri pianti
sol dono della vita hanno ottenuto.
Con la fame, la sete, ogni disagio
era compagno nostro. Il vecchio padre
or sugli omeri miei per alcun tempo,
or la teneva madre via portando,
seguivamo il viaggio. Cento volte
trattenni il genitori, che disperato
uccidersi volea. Ben altrettante
cercai la madre ritornar in vita,
per languidezza; e per dolor svenuta.
Alla città d'Jaich giugnemmo un giorno.
Quivi, piagnendo, io stesso, in sulle porte
delle moschee, chiedea6 pien di vergogna.
Nelle botteghe, e per le vie cercando
tozzi di pane, e picciole monete,
miseramente i genitor sostenni.
Odi sventura. Il barbaro sultano
di Carizmo crudel, non ancor pago
della fama, che morti ci faceva,
non ritrovando i nostri corpi estinti,
ricche taglie promise a chi recasse
i capi nostri. Lettere ai monarchi
con lumi, e contrassegni ebbe spedite,
con le quali chiedea di noi le teste.
Tu sai, quanto è quel fier da ognun temuto,
se un caduto monarca è più infelice
per i sospetti, di qualunque uom vile,
e quanto vai politica di stato.
Un provido accidente mi fe' noto,
che 'l re d'Jaich per tutta la cittade
cercar facea di noi secretamente.
Ai genitori miei corsi veloce;
gli animai per la fuga. Il padre mio
pianse, e la madre pianse, e in braccio a morte
voleano darsi. Amico, oh qual fatica
l'anime disperate è a porre in calma,
del ciel gli arcani, ed i decreti suoi
ricordando, e pregando! Alfin fuggimmo,
e nuove angosce, e nuove medie, e nuovi
patimenti soffrendo...

BABACH (piangendo)
Deh, signore,
non dite più; sento, che 'l cor mi scoppia.
Timur, il mio monarca a tal ridotto
con la sposa, e col figlio! Una famiglia
real, la più clemente, e prode, e saggia,
in tal mendicità! Deh dite: vive
il mio re, la sua sposa?

CALAF
Sì, Barach,
vivono tuttidue. Lascia, ch'io narri
a qual tribolazion soggetto è l'uomo,
benché nato in grandezza. Un'alma forte
tutto de' sofferir. De' ricordarsi,
che, a petto a' numi, ogni monarca è nulla,
e che costanza, e obbedienza solo
ai decreti del ciel fa l'uom di pregio.
De' Carazani al re fummo, ed in corte
nei più bassi servigi m'adattai
per sostenere i genitori. Adelma
del re Cheicobad de' Carazani,
aveva di me qualche pietade, e parmi
poter assicurar, ch'ella sentisse
più, che pietà per me. Go' sguardi suoi
parea, che penetrasse, ch'io non era
nato, qual apparia. Ma non so, quale
puntiglio il padre suo mosse a far guerra
ad Altoum, gran Can qui di Pechino.
Stolti furo i racconti, che dal volgo
venieno fatti per tal guerra, e solo
so, che fu ver, che 'l re Cheicobad
fu vinto, e desolato, e che fu estinta
tutta la stirpe sua, che Adelma stessa
morì in un fiume. Così fama sparse.
Anche da' Garazani via fuggimmo
per fuggir strage, ed il furor di guerra.
Dopo lungo patir giugnemmo a Berlas
laceri, e scalzi. Ma che più dir deggio?
Non istupir. La madre, e 'l padre mio
alimentai quattr'anni al prezzo vile
di portar sopr'agli omeri le casse,
le sacca, ed altri insofferibil pesi.

BARACH
Non più, signor, non più... Poiché vi miro
in arnese reale, ogni miseria
lasciam da parte, e finalmente dite,
come fortuna un di vi fu cortese.

CALAF
Cortese! Attendi. Uno sparvier perduto
fu da Alinguer, imperator di Berlas,
che molto caro avea. Fu preda mia,
ad Alinguer lo presentai. Mi chiese,
chi fossi; io tenni l'esser mio celato.
Dissi, ch'ero un meschin, che i genitori
sostenea, via portando a prezzo i pesi.
L'imperator nell'ospitai fè porre
la madre, e 'l padre mio. Diè commessione,
che ben serviti, e mantenuti in vita
fossero in quell'asilo di meschini.
(piangendo) Barach ivi è 'l tuo re... la tua regina...
Sono i miei genitor, sempre in spavento
d'esser scoperti, e di lasciar il capo.

BARACH (piangendo)
Oh Dio! Che sento mai!

CALAF
L'imperatore
a me diè questa borsa (trae dal seno una borsa), un bel destriere,
e questa ricca veste. Disperato
abbraccio i genitor. Lor dico: «Io vado
a ricercar fortuna. O questa vita
infelice vo' perdere, o gran cose
v'attendete da me; che 'l cor non soffre
in sì misero stato di vedervi».
Trattenermi volean, volean seguirmi;
e 'l ciel non voglia, che di là partiti
sieno per caldo amor dietro al lor figlio.
Lungi dal mio tiranno di Carizmo,
qui in Pechin giunsi, e del gran Can intendo
sotto mentito nome esser soldato.
Se m'innalzo, Barach, se la fortuna
mi favorisce, ancor farò vendetta.
Per non so qual funzione è la cittade
piena di forestier, né da alloggiarvi
potei trovar. Qui una pietosa donna
di quell'albergo m'accettò, ripose
il mio destrier...

BARACH 
Signor, quella è mia moglie.

CALAF
Tua moglie! Va, che fortunato sei
possedendo una donna sì gentile.
(in atto dipartire) Barach, ritornerò. Dentro a Pechino
questa solennità bramo vedere,
che tante genti aduna. Ad Altoum,
gran Can, poi mi presento, e grazia chiedo
di militar per lui. (va verso la porta della città)

BARACH
Calaf, fermatevi.
Non vi prenda disio d'esser presente
a un atroce spettacolo. Voi siete
in un teatro abbominevol giunto
di crudeltà inaudite.

CALAF 
Che! Mi narra.

BARACH
Noto non v'è, che Turandot, la figlia
unica d'Altoum imperatore,
bella, quanto crudel, qui nella China
è cagion di barbarie, e lutti, e lagrime?

CALAF

Io ben tra Carazani alcune fole
udia narrar. Diceasi anzi, che 'l figlio
del re Cheicobad in strana forma
perito era in Pechino, e che la guerra
con Altoum per questo si facea.
Ma 'l volgo ignaro inventa, e negli arcani
volendo entrar de' gabinetti, narra
facete cose, e chi ha buon senno, ride.
Dì pur, Barach.

BARACH
D'Altoum Can la figlia
Turandot, in bellezza inimitabile
da pennello il più industre, di profonda
perspicacia di mente, di cui vanno
molti ritratti per le corti in giro,
è d'animo sì truce, ed è sì avversa
al sesso mascolin, che invan fu chiesta
da gran monarchi in sposa.

CALAF
Ecco l'antica
fiaba, che udii tra Carazani, e risi.
Dì pur, Barach.

BARACH
Fiabe non sono. Il padre
volle più volte maritarla, ch'ella
erede è dell'impero, e volle darle
sposo di real stirpe, atto al governo.
Ricusò quell'indomita superba;
e 'l padre suo, ch'estremamente l'ama,
non ebbe cor di maritarla a forza.
Spesso avea guerre per cagion di lei,
e, quantunqu'è possente, e superasse
tutti gli assalitori, egli è pur vecchio,
e un giorno con parole risolute,
e con riflessi alfin disse alla figlia:
«O pensa a prender sposo, o suggerisci,
com'io possa troncar le guerre al regno,
ch'io son già vecchio, e troppi re ho affrontati
te promettendo, e poi per amor tuo
mancando alla promessa ingiustamente.
Vedi, che giusta è la richiesta mia,
che d'amor non ti manco. O ti marita,
o di troncar le guerre un mezzo addita,
e vivi poi, come t'aggrada, e mori».
Si scosse la superba, ed ogni sforzo
fe' per disobbligarsi. Assai preghiere
porse al tenero padre; ma fur vane.
S'infermo quella vipera di rabbia,
fu per morir. Al padre addolorato,
ma forte in ciò, questa dimanda fece.
Della ternibil donna udite in grazia
diabolica richiesta.

CALAF
Odo la fola,
che udito ho ancora, e che rider mi fece.
Odi, s'io la so bene. Ella un editto
volle dal padre, che qualunque principe
per sua consorte chiederla potesse,
ma con tal patto: ch'ella nel divano
solennemente in mezzo de' dottori
esporrebbe tre enigmi al concorrente;
che, s'egli li sciogliesse, era contenta
d'averlo sposo, e del suo impero erede;
ma che, se i suoi tre enigmi non sciogliesse,
Altoum Can, per sacro giuramento
a' numi suoi, troncar farebbe il capo
al prence incauto, e mal capace a sciorre
gli enigmi della figlia. Dì, Barach,
non è questa la fola? Or dì tu 'l resto,
ch'io m'annoio nel dirla.

BARACH
Fola! Fola!
Oh lo volesse il cielo. Si riscosse
l'imperatore a ciò, ma quella tigre
con alterigia, ed or con vezzi, ed ora
moribonda apparendo, vacillare
fe' la mente al buon vecchio, e alla fin trasse
al padre troppo tenero la legge.
Ell'adducea: «Nessuno avrà coraggio
d'esporsi al gran periglio; io vivrò in pace.
Se alcuno s'esporrà, non avrà taccia
il padre mio, s'eseguir fa un editto
pubblicato, e giurato». Questa legge
fu giurata, e andò intorno, ed io vorrei
fole narrarvi, e poter dir, che sogni
sono gli effetti della cruda legge.

CALAF
Credo, poiché tu 'l narri, quest'editto;
ma certamente nessun prence stolto
si sarà cimentato.

BARACH
Che! Mirate. (mostra i teschi sulle mura)
Que' capi tutti son di giovanetti
principi, esposti per discior gli oscuri
enigmi della cruda, e esposti invano
vi lasciaron la vita.

CALAF (sorpreso) Oh atroce vista!
Come può darsi tal sciocchezza in uomo
d'espor la testa per aver consorte
sì barbara fanciulla?

BARACH
Ma, non dite
questo, Calaf. Chiunque il suo ritratto,
che gira intorno, vede, una tal forza
sente nel cor, che per l'originale
cieco alla morte corre.

CALAF 
Un qualche folle.

BARACH
No, no, qualunque saggio. Oggi 'l concorso
in Pechino è, perché si tronca il capo
di Samarcanda al principe, il più bello,
il più saggio, e gentile giovinetto,
che la città vedesse. Altoum piange
della giurata legge, e l'inumana
si pavoneggia, e gode. (si mette in ascolto. Odesi un suono lugubre d'un tamburo scordato)
Udite! Udite! Questo suono lugubre è 'l mesto segno,
che 'l colpo segue. Io di Pechino uscito
sono per non vederlo.

CALAF
Tu mi narri
strane cose, Barach. Ed è possibile,
che da natura uscita una tal donna
sia, com'è Turandotte? Sì incapace
d'innamorarsi, e di pietà si ignuda?

BARACH
Ha mia consorte una sua figlia, serva
della crudele nel serraglio, e narra
di quando in quando a mia consorte cose,
che sembrano menzogne. Turandot
è una tigre, signor; ma la superbia,
l'ambizione è in lei più, ch'altro vizio.

CALAF
Vadano tra i dimoni questi mostri,
abbominevol mostri di natura,
che umanità non han. S'io fossi 'l padre,
morrebbe tra le fiamme.

BARACH (guarda verso la città) Ecco Ismaele,
l'aio infelice del già morto prence,
amico mio, che vien piangendo.

SCENA SECONDA
Ismaele, e detti.

ISMAELE (esce piangendo dalla città) Amico,
morto è 'l principe mio. Colpo fatale!
Deh perché sul mio capo non cadesti?
(piange dirottamente)

BARACH
Ma perché mai lasciarlo esporre, amico,
nel divano al cimento?

ISMAELE
E aggiungi ancora
all'angoscia rimproveri? Barach,
non mancai di dover. Se tempo aveva,
il suo padre avvertia. Tempo non ebbi,
ragion non valse, e l'aio alfine è servo,
né al principe comanda. (piange)

BARACH
Datti pace.
Filosofia t'assista.

ISMAELE
Pace! Pace! Amor mi tenne, e sino all'ultim'ora
presso mi volle. I detti suoi mi sono
fitti nell'alma, e tante acute spine
saranno a questo seno eternamente.
«Non pianger, mi dicea, volentier muoio,
che la crudele posseder non posso.
Scusami al re, mio padre, che partito
son dalla corte sua senza un addio.
Dì, che 'l timor, ch'ei s'opponesse allora
al mio desir, mi fe' disubbidiente.
Questo ritratto mostragli. (trae dal seno un ritratto) Veggendo
tanta bellezza dell'altera donna,
mi scuserà, piangerà teco il mio
caso crudel». Ciò detto, cento baci
impresse in questa maledetta effigie,
poscia il suo collo espose, e vidi a un tratto
(orribil vista, che natura oppresse!)
sangue spruzzar, busto cadere, in mano
del ministro crudele' il caro capo
del mio signor. Fuggii, d'orror, di doglia
desolato, acciecato.
(getta in terra, e calpesta il ritratto)
O maledetto,
diabolico ritratto, qui rimanti
calpestato nel fango. Amen potessi
calpestar teco Turandotte iniqua.
Ch'io ti rechi al mio re? No, Samarcanda
più non mi rivedrà. Piangendo sempre
in un diserto lascierò la vita.
(parte furioso)

 

SCENA TERZA
Barach, e Calaf.

BARACH
Signor, udiste?

CALAF
Sì tutto commosso
sono per quanto udii. Ma come mai
aver può tanta forza non intesa
questo ritratto?
(va per raccogliere il ritratto: Barach lo trattiene)

BARACH
Oh Dio! Signor, che fate?

CALAF (sorridendo)
Quel ritratto accolgo. Io vo' vedere
queste sì formidabili bellezze.
(vuol raccogliere il ritratto: Barach lo trattiene con forza)

BARACH
Meglio saria per voi fissar lo sguardo
nella faccia tremenda di Medusa.
Non ve! permetterò.

CALAF
Sei pazzo! Eh via.
(lo rispinge, raccoglie il ritratto)
Se tu sei folle, io tal non son. Bellezza
di donna non fu mai, che un sol momento
fermasse gl'occhi miei, non che nel core
potesse penetrar. Di donna viva
parlo, Barach: vedi se pochi segni
da pittor coloriti hanno a far colpo, e 'l colpo,
che tu narri, in questo seno.
Baie son queste. (sospirando) I casi miei, Barach,
chiaman altro, che amori.
(è in atto di guardare il ritratto. Barach impetuoso gli mette sopra una mano, gl'impedisce di vederlo)

BARACH
Per pietade
chiudete gli occhi...

CALAF (rispingendolo)
Eh via, stolto, m'offendi.
(guarda il ritratto, riman sorpreso, indi grado grado, con lazzi sostenuti s'incanta in esso)

BARACH (addolorato)
Misero me! Qua! infortunio è questo!

CALAF (attonito)

Barach, che miro! In questa dolce effigie,
in questi occhi benigni, in questo petto
l'alpestre cor tiranno, che narrasti,
albergar non può mai.

BARACH
Lasso! Che sento?
Signor, più bella è Turandot, né mai
giunse pittore a colorir le intere
bellezze di colei. Non celo il vero.
Ma non potria degli uomini eloquenti
la più faconda lingua dispiegarvi
l'ambizion, la boria, i sentimenti
crudi, e perversi de suo core iniquo.
Deh scagliate, signor, da voi lontana
la velenosa effigie; più non beva
la mortifera peste il guardo vostro
delle crude bellezze, io vi scongiuro.

CALAF (che sarà sempre stato contemplando il ritratto)
Invano tenti spaventarmi. Care,
rosate guance, amabili pupille,
ridenti labbra! Oh fortunato in terra
chi di sì bel complesso l'armonia
animata, e parlante possedesse!
(sospeso alquanto, poi risoluto)
Barach, non palesarmi. È questo il punto
di tentar la fortuna. O la più bella
donna, che viva, e in un possente impero,
disciogliendo gli enigmi, a un tratto acquisto,
o una misera vita, divenuta
insofferibil peso, a un tratto lascio.
(guarda il ritratto)
Dolce speranza mia, già m'apparecchio
vittima nuova a dispiegar gli enigmi.
Abbi di me pietà. Dimmi, Barach;
là nel divano almen, pria di morire,
vedranno gli occhi miei l'immagin viva
di sì rara bellezza?
(udirassi un suono lugubre di tamburo scordato dentro le mura della città, e più vicino della prima volta. Calaf si porrà in attenzione. Vedrassi innalzarsi per di dentro sulle mura un orrido carnefice chinese con le braccia ignude, e sanguinose, che pianterà il capo del principe di Samarcanda, indi si ritirerà)

BARACH
Deh mirate
prima, e v'inorridite. E quello il teschio
del principe infelice ancor fumante,
di sangue intriso, e quel, ch'ivi lo fisse
è 'l carnefice vostro. Vi trattenga
sicurezza di morte. E già impossibile
discior gli enigmi della crudel donna.
Il caro capo vostro, orrido in vista,
di spettacolo agli altri invano arditi
presso a quello diman sarà confitto.
(piange)

CALAF (verso al teschio)
Sventurato garzon, qual forza estrema
vuoi, ch'io ti sia compagno? Odi, Barach;
morto già mi piangesti, a che più piangere?
Vado ad espormi. Tu non palesare
il nome mio a nessun. Fors'è il ciel sazio
di mie sventure, e vuoi farmi felice,
perch'io sollevi i genitor meschini.
S'io disciolgo gli enigmi, a tanto amore
ti sarò grato. Addio.
(vuol partire, Barach lo trattiene)

BARACH
No certamente...
Per pietà... caro figlio.., oh Dio...! Consorte
vieni... m'assisti... questa a me diletta
persona espor si vuole a scior gli enigmi
di Turandot crudele.

 

SCENA QUARTA
Schirina, e detti.

SCHIRINA Oimè! Che sento!
Non siete voi l'ospite mio? Chi guida
questo affabile oggetto in braccio a morte?

CALAF
Pietosa donna, al mio destin mi tragge
questa bella presenza.
(mostra il ritratto)

SCHIRINA
Ah, chi gli ha data
l'immagine infernal!
(piange)

BARACH (piangendo)
Puro accidente.

CALAF (liberandosi)
Assan, donna gentile, il mio destriere
rimanga a voi con questa borsa in dono.
(trae la borsa dal seno, e la dà a Schirina)
Altro non ho nella miseria mia
da spiegarvi il mio cor. Se non v'incresce,
qualche parte del dono in mio soccorso
spendete in sacrifici a' dei celesti,
a' poverelli dispensate. Ognuno
preghi per questo sventurato. Addio
(entra nella città)

BARACH
Signor... Signor...

SCHIRINA
Figlio... fermate... figlio...
Ah vane son le voci. Dimmi, Assan,
chi è quei generoso sfortunato,
che alla morte seri corre?

BARACH
Non ti prenda
tal curiositade. E tal d'ingegno,
ch'io non dispero in tutto. Andiam, consorte,
a' poverelli tutto, e ai sacerdoti
vada quell'oro, onde si chieda al cielo
grazia per lui... Ah morto il piangeremo.
(entra in casa disperato)

SCHIRINA
Non sol quest'oro, ma di quanto mai
spogliar mi posso, tutto in pietose opre
dato ha pel meschin. Certo esser deve
qualche grand'alma alle maniere nobili,
all'aspetto sublime. Egli è sì caro
al mio sposo fedeli Tutto si faccia.
Ben trecento pollastri, ed altrettanti
pesci di fiume al gran Berginguzino
saranno offerti, e ai geni sacrifizio
di legumi abbondanti, e riso in copia
certo fatto sarà. Confuzio voglia
de' Bonces alle preci condiscendere.


ATTO SECONDO

Gran sala del divano con due portoni l'uno in faccia all'altro. Supponesi, che l'uno apra il passaggio al serraglio della principessa Turandot, e che l'altro apra il passaggio agli appartamenti dell'imperatore, suo padre.

 

SCENA PRIMA
Truffaldino, Brighella, eunuchi, tutti alla chinese.

TRUFFALDINO Comanda ai suoi eunuchi, che spazzino la sala. Fa erigere due troni alla chinese l'uno dall'una, l'altro dall'altra parte del teatro. Fa porre otto sedili per gli otto dottori del divano; è allegro, e canta.

BRIGHELLA Sopraggiunge, chiede la ragione dell'apparecchio.

TRUFFALDINO Che devesi radunare in fretta il divano coi dottori, l'imperatore, e la sua cara principessa. Per grazia del cielo le faccende vanno felicemente. È comparso un altro principe a farsi tagliar la testa.

BRIGHELLA Esserne perito uno tre ore prima. Rimprovera Truffaldino, che sia allegro per un macello così barbaro.

TRUFFALDINO Nessuno chiama principi a farsi mozzare il capo; se sono pazzi volontari, il danno sia di loro ecc. Che la sua adorabile principessa, ogni volta, che confonde un principe co' suoi enigmi, e lo manda al suo destino, per l'allegrezza d'esser vittoriosa lo regala, ecc.

BRIGHELLA Abborrisce sentimenti tali nel patriota. Detesta la crudeltà della principessa. Dovrebbe maritarsi, e troncar quella miseria ecc.

TRUFFALDINO Che a non volersi maritare ha ragione ecc. Sono seccature indiscrete ecc.

BRIGHELLA Che parla da eunuco inutile ecc. Tutti gli eunuchi odiano i matrimoni ecc.

TRUFFALDINO Collerico, che odia i matrimoni, temendo, che producano dei Brighelli.

BRIGHELLA Irritato; ch'è un galantuomo ecc. Che le sue massime sono perniziose, che, se sua madre non si fosse maritata non sarebbe nato.

TRUFFALDINO Che mente per la gola. Sua madre non fu mai maritata, ed egli è nato felicemente.

BRIGHELLA Si vede, ch'egli è un partorito contro le buone regole.

TRUFFALDINO Ch'egli è capo degli eunuchi; non venga ad impedir gli affari suoi, e vada, giacch'è maestro dei paggi, a fare il suo dovere; ma ch'egli sa, che insegna delle belle cose ai paggi a proposito dei matrimoni ecc. Mentre il contrasto dura tra questi due personaggi, gli eunuchi avranno assettata la sala. Odesi una marcia di strumenti. È l'imperatore che giugne nel divano colla corte, e coi dottori. Brighella parte per rispetto; Truffaldino coi suoi eunuchi per andar a levar la sua cara principessa.

 

SCENA SECONDA

Al suono d'una marcia escono le guardie alla chinese; indi gli otto dottori, poscia Pantalone, Tartaglia, e dopo Altoum, Can. Tutti sono alla chinese. Altoum è un vecchione venerando, riccamente vestito anch'egli alla chinese. Al suo comparire tutti si gettano colla fronte per terra. Altoum sale, e siede sul trono, posto alla parte, da dov'è uscito. Pantalone, e Tartaglia si mettono uno per parte del trono. I dottori siedono sopr'ai loro sedili. Termina la marcia.

ALTOUM
E sino a quando, miei fedeli, deggio
sofferir tali angosce? Appena... appena
le dovute funebri opre hanno fine
d'un infelice principe sull'ossa, e sull'ossa
di lui mi struggo in lagrime;
nuovo oggetto s'espone, nuove angosce
destando in questo sen. Barbara figlia,
nata per mio tormento! Che mi vale
il punto' maledir, che sull'editto
al tremendo Confuzio il giuramento
feci solennemente di eseguirlo?
Spergiuro esser non posso. Non si spoglia
di crudeltà mia figlia. Mai non mancano
stolti amanti ostinati, e non ritrovo
mai chi doni consigli in tanta doglia.

PANTALONE Cara Maestà, no saveria che consegio darghe. In tei nostri paesi no se zura de sta sorte de legge. No se fa de sta qualità de editti. No ghe esempio, che i prencipi se innamora de un retrattin, a segno de perder la testa per l'original, e no nasce putte, che odia i omeni, come la prencipessa Turandot, so fia. Oibò, no ghe xe idea da nu de sta sorte de creature, gnanca per sogno. Prima che le mie desgrazie me facesse abbandonar el mio paese, e che la mia fortuna me innalzasse senza merito all'onor de secretario de Vostra Maestà, no aveva altra cognizion della China, se no che la fusse una polvere bonissima perla freve terzana, e son sempre, come omo incocalio de aver trovà qua de sta sorte de costumi, de sta sorte de zuramenti, e de sta sorte de putti, e de putte. Se contasse sta istoria a Venezia, i me diria: «Via, sier bomba, sier slappa, sier panchiana, andè a contar ste fiabe ai puttelli»; i me rideria in tel muso, e i me volteria tanto de bero.

ALTOUM
Tartaglia, foste a visitar il nuovo
temerario infelice?

TARTAGLIA Maestà sì; è qui nelle solite stanze del palagio, che s'assegnano a' principi forestieri. Sono rimasto stupefatto della sua bella presenza, della sua dolce fisonomia, della sua maniera nobile di favellare. In vita mia non ho veduta la più degna persona. Ne sono innamorato, e mi sento strappare il cuore, che venga ad esporsi al macello, come un becco,' un principe così bello, così buono, così giovane... (piange)

ALTOUM
Oh indicibil miseria! Già eseguiti saranno i sacrifizi, onde dal cielo sia soccorso il meschin di tanto lume da penetrare, da discior gli oscuri enigmi della barbara mia figlia? Ah invan lo spero!

PANTALONE La pol star certa, Maestà, che no s'ha mancà de sacrifizi. Cento manzi xe stai sacrificai al Cielo, cento cavalli al Sol, e cento porchi alla Luna. a parte (Mi poi no so cossa se possa sperar da sta generosa beccaria imperial).

TARTAGLIA a parte (Sarebbe stato meglio sacrificare quella porchetta della principessa. Ogni disgrazia sarebbe finita.)

ALTOUM
Or ben, qui si conduca il nuovo prence.
(parte una guardia)
Si procuri distorlo dal cimento;
e voi, saggi dottori del divano,
ministri fidi m'assistite, dove
il dolor mi troncasse la favella.

PANTALONE Gavemo tante esperienze, che basta, Maestà. Se sfiataremo de bando, e po l'anderà a farse gargatar, come un dindio.

TARTAGLIA Senti Pantalone. Ho conosciuto in lui della virtù, e dell'acume; non sono senza speranza.

PANTALONE Che! Che el spiega le indovinelle de quella cagna? Oh fallada la xe.

 

SCENA TERZA
Calaf accompagnato da una guardia, e detti.

CALAF (s'inginocchierà con una mano alla fronte)

ALTOUM
Sorgi, incauto garzon.
(Calaf s'alza, e fatto un inchino, si pianta con nobiltà nel mezzo al divano tra i due troni verso all'uditorio.) Altoum segue a parte dopo aver contemplato fissamente Calaf
(Che bella idea!
Quanta compassion mi desta in seno!)
Dimmi, infelice, donde sei? Di quale
principe sei figliuolo?

CALAF (sorpreso alquanto, indi con inchino nobile)
Signor, per grazia
il mio nome stia occulto.

ALTOUM
E come ardisci,
senza dirmi la nascita,
d'esporti a pretender le nozze di mia figlia?

CALAF (con grandezza)
Principe son. Se 'l ciel vorrà, ch'io mora,
prima de fatal punto fia palese
il mio nome, la nascita, lo stato,
perché si sappia allor, che all'alto nodo,
senza sangue reale in queste vene,
d'aspirar non avrei temeritade.
(con inchino)
Grazia è per or, che 'l nome mio stia occulto.

ALTOUM a parte
(Che nobiltà di favellare! Oh quanta
compassion mi desta!) (alto) Ma, se sciogli

gli oscurissimi enigmi, e di non degna
nascita sei, come potrò la legge?...

CALAF (interrompendolo arditamente)
Per i principi so' scritta è la legge.
Signor... oh 'l ciel lo voglia... allor, s'io sono
d'ignobil stirpe, il capo mio la pena
paghi sotto una scure, ed insepolte
sien queste membra pascolo alle fere,
a' cani, alle cornacchie. Ho già in Pechino
chi mi conosce, e l'esser mio può dirvi.
(con inchino) Grazia è per or, che 'I nome mio stia occulto.
Alla vostra clemenza in grazia il chiedo.

ALTOUM
Abbi tal grazia in dono. Io non potrei
a quella voce, alle tue belle forme
nulla negar. Così disposto fossi
grazia tu a fare ad un imperatore,
che dall'alto suo seggio a te la chiede.
Desisti, deh desisti dal cimento,
a cui t'esponi. Tanta simpatia
dite mi prende, che del mio potere
a te tutto esibisco. Sii compagno
di me nel regno, ed al serrar quest'occhi
ogni possibil mia beneficenza
da quest'animo attendi. Non volere,
ch'io sia tiranno a forza. Io son l'obbrobrio,
per l'incautela mia, di tutti i sudditi.
Anima audace, se pietà può nulla
sopra dite, non obbligarmi a piangere
sul cadavere tuo. Non far, che accresca
l'odio a mia figlia, l'odio a me medesmo
d'aver prodotta una perversa figlia,
orgogliosa, crudel, vana, ostinata,
cagion d'ogni mia angoscia, e della morte.
(piange)

CALAF
Sire, datevi pace. Al cielo è nota
la pietade, ch'io sento. D'un tal padre,
qual siete voi, da educazion non ebbe
d'esser tiranna esempio vostra figlia.
Non ricerchiam di più. Colpa è in voi solo,
se colpa dir si può, tenero affetto
verso un'unica figlia, e d'aver data
al mondo una bellezza sì possente,
che trae l'uom di se stesso. Io vi ringrazio
de' generosi sentimenti vostri.
Mal vi sarei compagno. O 'l ciel felice
mi vuol, di Turandot a me diletta
donandomi 'l possesso, o vuol, che questa
misera vita, insofferibil peso
senza di Turandot, abbia il suo fine.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.

PANTALONE Ma, cara Altezza, cara vita mia, averè za visto sopra la porta della città tutte quelle crepe de mono impirae, no ve digo de più. No so che gusto, che abbiè a vegnirve a far scannar, come un cavron, con sicurezza, per farne pianzer, come desperai tutti quanti. Sappiè, che la principessa ve farà un impianto de tre indovinelle, che no le spiegheria el strolego Cingarello. Nu, che semo da tanto tempo deputai con sti eccellentissimi dottori del divan a dar sentenza de chi spiega ben, e de chi spiega mal, per far eseguire la legge, pratici, consumai sui libri, stentemo all'improvviso a arrivar all'acutezza dei enigmi de sta principessa crudel, perché no i xe minga: panza de ferro, buelle de bombaso, e via descorrendo; i xe novi de trinca, e maledetti; e, se no la li consegnasse proposti, spiegai, e sigillai in tante cartoline a sti eccellentissimi dottori, forsi gnanca eh saveria, dove i avesse la testa. Andè in pase, caro fio. Se' là, che parè un fior; me fe' pecca. Varenta al ben, che ve vogio, che se ve ostinè, fazzo più conto d'un ravanello del gobbo ortolan, che della vostra testa.

CALAF
Vecchio, invan t'affatichi, invan ragioni.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.

TARTAGLIA Turandotte... Turandotte. Mo che diavolo di ostinazione, caro figlio mio. Intendi bene. Qui non si giuoca a indovinare colla scommessa d'un caffè col pandolo,' o di mezza chioccolata colla vaniglia. Capisci, capisci una volta; qui ci va la testa. Io non uso altri argomenti per persuaderti a desistere. Questo è grande. La testa, la testa ci va; la testa. Sua Maestà ti prega, ha fatto sacrificare cento cavalli al Sole, cento buoi al Cielo, cento porchi alla Luna, cento vacche alle stelle in tuo favore, e tu, ingrato, vuoi resistere per dargli questo rammarico. Se non vi fossero altre femmine al mondo, che la principessa Turandotte, la tua risoluzione sarebbe ancora una gran bestialità. Scusa, caro principe mio. In coscienza è l'amore, che mi fa parlare con libertà. Hai tu ben capito, che cosa sia il perdere la testa? Mi par impossibile.

CALAF
Troppo dicesti. È vana ogni fatica.

Morte pretendo, o Turandotte in sposa.

ALTOUM
Crudel ti sazia; abbi la morte, ed abbi
la mia disperazione.
(alle guardie)
La principessa entri al cimento nel divan; s'appaghi
d'una vittima nuova.
(parte una guardia)

CALAF da sé con fervore
(Eterni numi,
m'ispirate talento. Non m'opprima
la vista di costei: io vi confesso,
che vacilla la mente, e che tremore
ho nel sen, dentro al core, e sulle labbra).
(all'assemblea)
Sacro divan, saggi dottori, giudici
nelle risposte mie della mia vita,
scusate tanto ardir; clemenza abbiate
per un cieco d'amor, che non conosce
dove sia, quanto vaglia, e s'abbandona
tratto da occulta forza al suo destino.

 

SCENA QUARTA

Udrassi il suono d'una marcia, intrecciato con tamburelli. Uscirà Truffaldino con la scimitarra alla spalla, i suoi eunuchi lo seguiranno. Dietro a questi usciran varie schiave di accompagnamento con tamburelli suonando. Dopo usciranno due schiave velate, una vestita riccamente, e maestosamente alla tartara, che sarà Adelma, l'altra passabilmente alla chinese, che sarà Zelima. Questa avrà un picciol bacile con fogli suggellati. Truffaldino, e gli eunuchi nel passar difilati si getteranno colla faccia a terra innanzi ad Altoum, poi sorgeranno. Le schiave s'inginocchieranno colla mano alla fronte. Uscirà Turandotte velata, vestita riccamente alla chinese, con aria grave e baldanzosa. I dottor e i ministri si getteranno colla faccia a terra. Altoum si leverà in piedi. Turandotte si porrà una mano alla fronte, e farà un inchino grave al padre, indi salirà il suo trono, e siederà. Zelima si porrà al suo fianco sulla sinistra, Adelma alla destra. Calaf che si sarà inginocchiato alla comparsa di Turandot, si rizzerà, e rimarrà incantato in essa. Tutti torneranno a' lor posti. Truffaldino, eseguite alcune ceremonie facete a suo modo, prenderà il bacile di Zelima coi fogli suggelati, li dispenserà ai dottori, si ritirerà dopo altre ceremonie, e riverenze chinesi. Durante tutte queste solennità mute, si sarà suonata la marcia. Al partire di Truffaldino rimarrà la gran sala del divano in silenzio.

 

SCENA QUINTA
Altoum, Turandot, Calaf Zelima, Adelma, Pantalone, Tartaglia, dottori e guardie.

TURANDOT (alteramente)
Chi è, che si lusinga audacemente
di penetrar gli acuti enigmi ancora
dopo sì lunga esperienza; e
brama miseramente di lasciar la vita?

ALTOUM
Figlia, egli è quello;
(addita Calaf che sarà attonito nel mezzo del divano in piedi)
e ben degno sarebbe,
che tuo sposo il scegliessi, e che finissi
d'esporlo al gran cimento, lacerando
di chi ti diè la vita il core afflitto.

TURANDOT (dopo aver mirato alquanto Calaf basso a Zelima)
Zelima, oh cielo! Alcun oggetto, credi,
nel divan non s'espose, che destasse
compassione in questo sen. Costui
mi fa pietà.

ZELIMA (basso)
Di tre facili enigmi
lo caricate, e terminate ormai
d'esser crudel.

TURANDOT (con sussiego, basso)
Che dici! La mia gloria!
Temeraria, tant'osi?

ADELMA che avrà osservato Calaf attentamente, da se'
(Oh Ciel! Che miro!
Non è costui quel, ch'alla cone mia
de' Carazani un dì vil servo io vidi,
quando vivea Cheicobad, mio padre?
Principe è dunque! Ah ben mel disse il core,
quel cor, ch'è suo).

TURANDOT
Principe, desistete
dall'impresa fatale. Al cielo è noto,
che quelle voci, che crudel mi fanno,
son menzognere. Abborrimento estremo
ch'ho al sesso vostro, fa, ch'io mi difenda,
com'io so, com'io posso, a viver lunge
da un sesso, che abborrisco. Perché mai
di quella libertà, di che disporre
dovria poter ognun, dispor non posso?
Chi vi couduce a far, ch'io sia crudele
contro mia volontà? Se vaglion prieghi,
io m'umilio a pregarvi. Desistete,
principe, dal cimento. Non tentate
il mio talento mai. Suberba sono
di questo solo. Il ciel mi diè in favore
acutezza, e talento. Io cadrei morta,
se nel divan con pubblica vergogna
fossi vinta d'acume. Ite, scioglietemi
dal proporvi gli enigmi; ancora è tempo;
o piangerete invan la morte vostra.

CALAF
Sì bella voce, e sì bella presenza,
sì raro spirto, e insuperabil mente
in una donna! Ah qual'error è mai
nell'uom, che mette la sua vita a rischio
per possederla? E di sì raro acume
Turandotte si vanta? E non iscopre,
che quanto i meni suoi sono maggiori,
che quant'avversa è più d'esser d'uomo moglie,
arder l'uomo più deve? Mille vite,
Turandotte crudele, in questa salma
fossero pur, io core avrei d'esporle
mille volte a un patibolo per voi.

ZELIMA (basso a Turandot)
Ah facili gli enigmi per pietade.
Egli è degno di voi.

ADELMA a parte
(Quanta dolcezza!
Oh potess'esser mio! Perché non seppi,
ch'era prence costui, prima che schiava
mi volesse fortuna,' e in basso stato!
Oh quanto amor m'accende or che m'è noto,
ch'egli è d'alto lignaggio! Ah che non manca
mai coraggio ad amor). (basso a Turandot) La gloria vostra
vi stia a cor, Turandot.

TURANDOT perplessa da sé
(E questo solo
ha forza di destar compassione
in questo sen? (risoluta) No, superarmi io deggio).
(a Calaf con impeto)
Temerario, al cimento t'apparecchia.

ALTOUM
Principe, insisti ancor?

CALAF
Signor, già 'l dissi.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.

ALTOUM
Il decreto fatal dunque si legga
pubblicamente; egli l'ascolti, e tremi.
(Pantalone caverà dal seno il libro della legge, lo bacierà, se lo porrà sul petto, poi alla fronte, indi lo presenterà a Tartaglia, il quale gettatosi prima colla fronte a terra, lo riceverà, poscia leggerà ad alta voce)

TARTAGLIA
Ogni principe possa Turandotte
pretender per consorte; ma disciolga
prima tre enigmi della principessa
tra i dottor nel divano. Se gli spiega
l'abbia per moglie. Se non è capace,
sia condannato in mano del carnefice,
che gli tronchi la testa, sicché muoia.
Al tremendo Confuzio Altoum Can
d'eseguire il decreto afferma, e giura.
(terminata la lettura, Tartaglia bacierà il libro, se lo porrà sul petto, e sulla fronte, e lo riconsegnerà a Pantalone, il quale, ricevutolo colla fronte per terra, si rizzerà, e lo presenterà ad Altoum, il quale, levata una mano, gliela porrà sopra)

ALTOUM (con sospiro)
O legge! O mio tormento! D'eseguirti
al tremendo Confuzio affermo, e giuro.
(Pantalone si porrà di nuovo il libro in seno. Il divano sarà in un gran silenzio. Turandotte si leverà in piedi)

TURANDOT (in tuono accademico)
Dimmi, stranier: chi è la creatura
d'ogni città, d'ogni castello, e terra,
per ogni loco, ed è sempre sicura,
tra gli sconfitti, e tra i vincenti in guerra?
Notissima ad ogn'uomo è sua figura,
ch'ella è amica di tutti in sulla terra.
Chi eguagliarla volesse è in gran follia.
Tu l'hai presente, e non saprai, chi sia.
(siede)

CALAF (dopo aver guardato il cielo in atto di pensare, fatto un inchino colla mano alla fronte verso Turandot)
Felice me, se di più oscuri enigmi
il peso non mi deste! Principessa,
chi non saprà, che quella creatura
d'ogni città, d'ogni castello, e terra,
che sta con tutti, ed è sicura sempre
tra gli sconfitti, e tra i vittoriosi,
palese al mondo, che non soffre eguali,
e ch'ho presente (il sofferite) è il sole?'

PANTALONE (allegro)
Tartagia, el l'ha imbroccada.

TARTAGLIA
Di pianta nel mezzo.

TUTTI i DOTTORI (apriranno la prima carta suggelata, indi in coro)
Ottimamente. 'l sole, è 'l sole, è 'l sole.

ALTOUM (allegro)
Figlio, al ciel t'accomando a' nuovi enigmi.

ZELIMA a parte
(Soccorretelo, o numi).

ADELMA agitata a parte
(O ciel, t'opponi;
fa, che non sia di Turandotte sposo.
Io mi sento morir).

TURANDOT sdegnosa da sé
(Che costui vinca!
Che superi 'l mio ingegno! Eh non fia vero).
alto
Folle, m'ascolta pur; spiega i miei sensi.
(si leva in piedi, e segue in tuono accademico)
L'albero, in cui la vita
d'ogni mortal si perde,
di vecchiezza infinita,
sempre novello, e verde,
che bianche ha le sue foglie
dall'una parte, e allegre;
bianchezza si discioglie;
son nel rovescio negre.
Stranier, dì in cortesia
quest'albero qual sia.
(siede)

CALAF (dopo qualche raccoglimento, e fatto il solito inchino)
Non isdegnate, altera donna, ch'io
disciolga i vostri enigmi. Questa pianta
antichissima, e nuova, in cui si perde
la vita de' mortali: e c'ha le foglie
bianche al di sopra, e dal rovescio negre,
co' giorni suoi, colle sue notti è l'anno.

PANTALONE (allegro)
Tartagia, el ga dà drento.

TARTAGLIA
Sì in coscienza, di brocca di brocca.

TUTTI I DOTTORI (in coro, dopo aver aperta l'altra carta suggellata)
Ottimamente: è l'anno, è l'anno, è l'anno.

ALTOUM (lieto)
Quanta allegrezza! O numi, al fin pervenga.

ZELIMA a parte
(Fosse l'ultimo questo).

ADELMA
smaniosa a parte
(Oimè. Lo perdo).
basso a Turandot
Signora, ogni trionfo in un sol punto
perdete nel divan. Costui vi supera.

TURANDOT (sdegnosa basso)
Taci. Pria cada il mondo, e l'uman genere,
tutto perisca. (alto) Sappi, audace, stolto,
ch'io t'abborrisco più, quanto più speri
di superarmi. Dal divan te n'esci;
fuggi l'ultimo enigma; il capo salva.

CALAF
L'odio vostro, adorata principessa,
sol mi rincresce. Il capo mio sia tronco,
se della pietà vostra non è degno.

ALTOUM
Desisti, caro figlio, o tu, mia figlia,
desisti di propor novelli enigmi.
Sia tuo sposo costui, che tutto merta.

TURANDOT (collerica)
Mio sposo! Ch'io desista! Quella legge
si de' eseguir.

CALAF
Signor, non v'affannate.
Morte pretendo, o Turandotte in sposa.

TURANDOT (sdegnosissima)
Sposa tua fia la morte. Or lo vedrai.
(si leva in piedi, e segue in tuono accademico)
Dimmi, qual sia quella terribil fera
quadrupede, ed alata, che pietosa
ama chi l'ama, e co' nimici è altera,
che tremar fece il mondo, e che orgogliosa
vive, e trionfa ancor. Le robuste anche
sopra l'istabil mar ferme riposa;
indi col petto, e le feroci branche
preme immenso terren. D'esser felice
ombra in terra, ed in mar mai non son stanche
l'ali di questa nuova altra fenice.
(recitato l'enigma, Turandotte furiosa si lacera dal viso i velo per sorprender Calaf)
Guardami 'n volto, e non tremar. Se puoi,
spiega, chi sia la fera, o a morte corri.

CALAF (sbalordito)
Oh bellezza! Oh splendor!
(resta sospeso colle mani agl'occhi)

ALTOUM (agitato)
Oimè, si perde! Figlio,
non sbigottirti; in te ritorna.

ZELIMA a parte affannosa
Io mi sento mancar.

ADELMA a parte
(Stranier, sei mio.
Mi sarà guida amor per involarti).

PANTALONE (smanioso)
Memo, anemo, fio. Oh se podesse aiutarlo! Me trema le tavernelle, che el se perda.

TARTAGLIA
Se non fosse per il decoro del posto, anderei a prendere il vaso dell'aceto in cucina.

TURANDOT
Misero, morto sei. Della tua sorte
te medesmo condanna.

CALAF (rientrando in se stesso)
Turandotte,
fu la bellezza vostra, che mi colse
improvviso, e confuse. Io non sono vinto.
(volgendosi all'uditorio)
Tu, quadrupe fera, e in uno alata,
terror dell'universo, che trionfi,
e vivi in terra, e in mare, ombra facendo
colle immense ali tue grata, e felice
all'elemento istabile, e alla terra,
agl'illustri tuoi figli, e cari sudditi,
nuova Fenice, è ver, fera beata;
sei dell'Adria il Leon' feroce, e giusto.

PANTALONE (con trasporto) Oh siestu benedetto. No me posso più tegnir. (corre ad abbracciarlo)

TARTAGLIA (ad Altoum)
Maestà, consolatevi.

I DOTTORI (aprono il terzo foglio sigillato, indi in coro)

E dell'Adria il Leone: è vero, è vero.
(odonsi degli evviva allegri del popolo, e uno strepito grande di strumenti. Turandot cade in isfinimento sul trono. Zelima, e Adelma l'assistono)

ZELIMA
Datevi pace, principessa. Ha vinto.

ADELMA a parte
(Ahi perduto amor mio... No, non sei perso).

(Altoum allegro discende dal trono, assistito da Pantalone e da Tartaglia. I dottori si ritirano in fila nelfondo del teatro)

ALTOUM
Finisci, figlia, d'essermi tiranna
colle tue stravaganze. Amato prence,
vieni al mio sen.
(abbraccia Calaf. Turandot rinvenuta precipita furente dal trono)

TURANDOT (invasata)
Fermatevi. Non speri
costui d'esser mio sposo. Io nuovamente
pretendo di propor tre nuovi enigmi
al nuovo giorno. Troppo breve tempo
mi fu dato al cimento. Io non potei
quanto dovea riflettere. Fermate...

ALTOUM (interrompendola)
Indiscreta, crudel! Non è più tempo;
più facil non m'avrai. La dura legge
è già eseguita, ed a' ministri miei
la sentenza rimetto.

PANTALONE La perdoni. No gh'è bisogno de altre indovinelle, né de tagiar altre teste, come se le fosse zucche baruche. Sto putto ha indovini, la legge xe esequida, e avemo da magnar sti confetti. (a Tartaglia) Cossa diseu vu, cancellier?

TARTAGLIA Esequitissima. Non v'è bisogno d'interpretazioni. Che dicono gli eccellentissimi signori dottori?

TUTTI I DOTTORI
È consumata, è consumata, è sciolta.

ALTOUM
Dunque al tempio si vada. Quest'ignoto
riconoscersi faccia, e i sacerdoti...

TURANDOT (disperata)
Ah, padre mio, deh per pietà sospendasi...

ALTOUM (sdegnoso)
Non si sospenda; io risoluto sono.

TURANDOT (precipitando ginocchioni)
Padre, per quanto amor, per quanto cara
v'è questa vita, al nuovo dì concedasi
nuovo cimento ancora. Io non potrei
sofferir tal vergogna. Io morrò, prima
d'assoggettarmi a quest'uomo superbo,
pria d'esser moglie. Ahi questo nome solo
d'esser consorte ad uom, solo il pensiero
d'esser soggetta ad uom, lassa m'uccide.
(piange)

ALTOUM (collerico)
Ostinata, fanatica, brutale;
più non t'ascolto. Olà, ministri, andate.

CALAF
Sorgi, di questo cor bella tiranna.
Signor, deh per pietade sospendete
gli ordini vostri. Io non sarò felice,
s'ella m'abborre, ed odia. L'amor mio
non potria sofferir d'esser cagione
del suo tormento. Che mi vai l'affetto,
se d'odio solo la mia fiamma è degna?
Barbara tigre, s'io non ammollisco
quell'anima crudel, sta lieta, e godi;
io non sarò tuo sposo. Ali, se vedessi
questo cor lacerato, io ceno sono,
che n'avresti pietà. Della mia morte
ingorda sei? Signor, le si condeda
nuovo cimento; io questa vita ho a sdegno.

ALTOUM
No; risoluto son. Vadasi al tempio:
non si conceda altro cimento... incauto...

TURANDOT (impetuosa)
Vadasi al tempio pur; ma sopra l'ara
spirerà vostra figlia.

CALAF
Spirerà! Mio signor... principessa, d'una grazia
ambi fatemi degno. Al nuovo giorno
qui nel divano io proporrò un enigma
all'indomito spirto, e questo fia:
di chi figlio è quel principe, e qual nome
porta lo stesso principe, ridotto
a mendicar il pane, a portar pesi
a prezzo vil, per sostener la vita;
che giunto al colmo di felicitade
è sventurato ancor più, che mai fosse?
Doman qui nel divano, alma crudele,
del padre il nome, e 'l nome del dolente
indovinate. Se non v'è possibile,
traete fuor d'angoscia un infelice;
non mi negate quell'amata destra;
s'ammollisca quel cor. Se indovinate,
sazia della mia morte, e del mio sangue
sia quell'alma feroce insuperabile.

TURANDOT
Straniero, il patto accetto, e mi contento.

ZELIMA a parte
(Nuovo periglio ancor).

ADELMA a parte 
(Nuova speranza).

ALTOUM
Contento non sono io. Nulla concedo.
S'eseguisca la legge.

CALAF (inginocchiandosi)
Alto signore,
s'io nulla merto, se pietà in voi regna,
appagate la figlia, e me appagate.
Deh non manchi da me, ch'ella sia sazia.
Quello spirto si sfoghi. S'ella ha acume,
quanto ho proposto nel divan dispieghi.

TURANDOT a parte
(Io m'affogo di sdegno. Ei mi dileggia).

ALTOUM
Imprudente, che chiedi! Tu non sai,
quanto ingegno è in costei... Ben: vi concedo
questo cimento nuovo. Sciolta sia
d'esser tua sposa, s'ella i nomi espone,
ma non concedo già nuove tragedie.
Salvo te n'anderai, s'ella indovina.
Più non pianga Altoum le altrui miserie.
(basso a Calaf)
Seguimi... incauto, che facesti mai!
(Ripigliasi un suono di marcia. Altoum con le guardie, i dottori; Pantalone e Tartaglia con gravità entrerà per il portone, dal quale è uscito. Turandotte, Adelma, Zelima, Truffaldino, eunuchi e schiave con tamburelli entreranno per l'altro portone).


ATTO TERZO

Camera del serraglio

SCENA PRIMA
Adelma, e una schiava tartara sua confidente.

ADELMA (con fierezza)

Ti proibisco il favellarmi ancora.
Già capace non son de' tuoi consigli:
altro mi parla al cor. Possente amore,
che dell'ignoto principe m'abbrucia,
odio, che a questa empia superba io porto,
dolor di schiavitù. Troppo ho sofferto.
Scorsi cinqu'anni or son, che dentro al seno
chiudo il velen, rassegnazion dimostro,
e amor per questa ambiziosa donna,
della miseria mia prima cagione.
In queste vene real sangue scorre,
tu 'l sai, né Turandot m'è superiore.
In vergognosi lacci schiava umile
e sino a quando una mia pari deve,
come ancella, servir? Gli sforzi estremi
per simular m'hanno già resa inferma;
di giorno in giorno io mi distruggo, come
neve al sol, cera al foco. Dì, conosci
in me più Adelma? Io risoluta sono
oggi d'usar quant'arte' posso. Io voglio,
per la strada d'amor, di schiavitude,
o di vita fuggir.

SCHIAVA
No, mia signora...
No, non è tempo ancor...

ADELMA (con impeto)
Va, non tentarmi,
ch'io soffra più. D'un solo accento, un solo
non molestarmi ancora. Io tel comando.
(la schiava, fatto un inchino con una mano alla fronte, timorosa partirà)
Ecco la mia nimica, accesa l'alma
di rabbia, di vergogna, forsennata,
fuor di se stessa. È questo il vero punto
di tentar tutto, o di morir. S'ascolti.
(si nasconde)

 

SCENA SECONDA
Turandot, Zelima, indi Adelma.

TURANDOT
Zelima, più non posso. Sol pensando
alla vergogna mia, sento, che un foco
l'alma mi strugge.

ZELIMA
Come mai, signora,
un sì amabile oggetto, un sì bell'uomo,
sì generoso, tanto innamorato
può destarvi nel seno odio, e puntiglio?

TURANDOT
Non tormentarmi... sappi... ah mi vergogno
a palesarlo... ei mi destò nel petto
commozioni a me ignote... un caldo... un gelo...
No, non è vet Zelima, io l'odio a morte
Ei della mia vergogna nel divano
fu la cagion. Per tutto il regno, e fuori
si saprà, ch'io fui vinta, e riderassi
dell'ignoranza mia. Dimmi, se 'l sai,
soccorrimi, Zelima. Il padre mio
diman vuoi, che nell'alba si raduni
l'assemblea de' dottori, e, s'io mal sciolgo
l'oscurissimo enigma, ch'è proposto,
vuol, che seguan le nozze in quel momento.
«Di chi figlio è.quel principe, e qual nome
porta lo stesso principe, ridotto
a mendicar il pane, a portar pesi
a prezzo vii per sostener la vita;
che giunto al colmo di felicitade
è sventurato ancor più, che mai
fosse?» Lo scorgo ben, che questo sconosciuto
è 'l principe proposto; ma chi puote,
del padre il nome indovinar, e 'l suo?
S'è sconosciuto? Se l'imperatore
grazia gli die di star occulto insino
alla fin del cimento? Io l'accettai
per non ceder la destra.' Ah ch'è impossibile
ch'io l'indovini. Dì, che far potrei?

ZELIMA
Quivi in Pechin v'è ben, chi l'arte magica
perfettamente sa. V'è, chi la cabala
sa trar divinamente; ad un di questi
voi ricorrer potreste.

TURANDOT
Io non son folle,
come tu sei, Zelima. Per il volgo
sono questi impostori, e l'ignoranza
è fruttifero campo a tali astuti.
Altro non suggerisci?

ZELIMA
Io vi ricordo
le parole, i sospiri, il duolo intenso
di quell'eroe: come prostrato a' piedi
del padre vostro con sì bella grazia
per voi chiese favor.

TURANDOT
Non dir più oltre.
Sappi, che questo core... Ah non è vero...
Io l'odio a morte. Io so, che tutti perfidi
gli uomini son: che non han cor sincero,
né capace d'amor. Fingono amore
per ingannar fanciulle, e appena giunti
a possederle, non più sol non le amano,
ma 'l sacro nodo marital sprezzando
passan di donna in donna, né vergogna
gli prende a dar il core alle più vili
femminette del volgo, alle più lorde
schiave, alle meretrici. No, Zelima,
non parlar di colui. Se diman vince,
più che morte l'abborro. Figurandomi
moglie soggetta ad uomo, immaginando,
ch'ei m'abbia vinta, sento, che 'l furore
mi trae fuor di me stessa.

ZELIMA
Eh, mia signora,
è l'età vostra fresca, che alterigia
vi desta in cor. Verrà l'età infelice,
che i concorrenti mancheranno, e allora
vi pentirete invan. Che mai perdete?
Qual fanatica gloria, e qual'onore?...

ADELMA (che a poco a poco si sarà fatta innanzi ascoltando) (interrompendola con gravità)
Chi bassamente è nata non ha idee
da quelle di Zelima differenti.
Scusa, Zelima. D'una principessa,
che in un divan con pubblico rossore,
dopo un corso di gloria, e di trofei,
da un ignoto sia vinta, mal conosci
la necessaria doglia, e la vergogna.
Io con questi occhi vidi l'esultanza
di cento maschi, e un beffeggiar maligno
sugli enigmi proposti, quasi fossero
sciocchi enigmi volgari, e n'ebbi sdegno,
perch'io l'amo da vet Che mi dirai
della sua circostanza?' Ella è ridotta
contro l'istinto suo, contro sua voglia,
sforzatamente a divenir consorte.

TURANDOT (impetuosa)
Non m'accender di più.

ZELIMA
Ma qual sventura
è divenir consorte?

ADELMA
Eh taci, taci.
Obbligo non hai tu d'intender, come
un magnanimo cor de' risentirsi.
Non sono adulatrice. E ti par poco,
ch'ella impegnata siasi con franchezza
d'indovinar que' nomi; e d'apparire
dimani nel divano in faccia al volgo?
Che rimarrà, se in pubblico apparita
scioccamente risponde, o là confessa,
che fu stolto il suo assunto! Ah che mi sembra
mille scherzi di beffe, e aperte risa
del popolo sentir, quasi ella fosse
un'infelice comica, che caggia
in error sulla scena.

TURANDOT (furiosa)
Sappi, Adelma,
se i nomi non iscopro, in mezzo al tempio,
già risoluta sono, in questo seno
m'immergerò un pugnal.

ADELMA
No, principessa.
Per scienza, od inganno si de' sciorre
quell'enigma proposto.

ZELIMA
Ben; se tanto
Adelma l'ama, e più di me capisce,
più di me la soccorra.

TURANDOT
Cara Adelma,
soccorrimi. Del padre il nome, e 'l suo
come deggio saper, se noi conosco,
né so, d'onde sia giunto?

ADELMA
Ei nel divano
so che disse aver gente qui in Pechino,
che lo conosce. Si de' por sozzopra
la città tutta, ed oro, e gemme spendere.
Tutto si de' poter.

TURANDOT
D'oro, e di gemme
disponi a voglia tua. Pur ch'io lo sappia,
non si curi un tesoro.

ZELIMA
E dove spenderlo?
Di chi cercar? Con qual cautela, e come,
quand'anche si sapesse, un tradimento
tener occulto, e far che non si sappia,
che per inganno, e non per sua virtude
ell'ha carpiti i nomi?

ADELMA
Sarà forse
Zelima traditrice a discoprirlo?

ZELIMA (con ira)
Ah troppo offesa son. Mia principessa,
risparmiate il tesoro. Io mi credea
di placar l'alma vostra, e persuadervi.
Sperava a dar la destra ad un ben degno
tenero amante, che a pietà mi mosse.
Trionfi in me parzialità, ch'io deggio
a chi deggio ubbidir. Fu qui Schirina
la madre mia. Fu a visitarmi allegra
per gli enigmi disciolti, e non sapendo
del novello cimento di dimani
mi palesò, che 'l prence forestiere
alloggio nel suo albergo, indi che Assan,
mio patrigno, il conosce, e che l'adora.
Chiesi del nome suo, ma protestommi,
ch'Assan non glielo disse, e ch'anzi nega
di volerglielo dire. Ella promise
di far quanto potrà. Dell'amor mio
la mia regina or dubiti, se 'l merto.
(entra dispettosa)

TURANDOT
Vien, Zelima, al mio sen, perché ten vai?...

ADELMA
Turandotte, Zelima v'ha scoperta
qualche util traccia, ma è imbecil' di mente.
Stoltezza è lo sperar, che volontario,
non usando l'ingegno, il suo patrigno
palesi i nomi or che saprà 'l cimento.
Non si perda più tempo. In più celata
parte un consiglio mio vo', ch'eseguiate,
se credete al mio amor.

TURANDOT
Sì, amica, andiamo.
Pur che 'l stranier non vinca, io farò tutto.
(entra)

ADELMA
Amor, tu mi soccorri, e tu seconda
i miei desideri, onde di schiavitude
possa uscir lieta. M'apra la superbia
di questa mia nimica e strada, e campo.
(entra)

 

SCENA TERZA
Sala della reggia. Calaf e Barach.

CALAF
Ma se 'l mio nome, e quello di mio padre
noti in Pechino solamente sono
alla tua fedeltà. Se 'l regno nostr
da questa regione è sì lontano,
ed è perduto ben ott'anni or sono.
Occulti siam vissuti, e fama è scorsa,
che la morte ci colse. Eh che si perde
di chi cade in miseria la memoria
facilmente, Barach.

BARACH
No, fu imprudenza;
scusatemi, signor. Gli sventurati
anche degl'impossibili temere
devono sempre. Le muraglie, i tronchi,
le inanimate cose acquistan voce
contro gli sfortunati, e tutto han contro.
Io non mi so dar pace. Avete in sorte
vinta una donna sì famosa, e bella,
vinto un sì vasto regno al grave rischio
di quella vita, e poi tutto ad un tratto,
per fralezza di cor, tutto è perduto.

CALAF
Non misurar Barach coll'interesse
il mio tenero amor. Di Turandot,
sola mia vita, non vedesti, amico
l'ira, il furor, né la disperazione
contro a me nel divan.

BARACH
Doveva un figlio,
più che al furor di Turandot, già vinta,
pensar alla miseria, in cui lasciati
ha i genitor meschini un giorno a Berlas.

CALAF
Non mi rimproverar. Volli appagarla.
Tento ammollir quel cor. L'azion, ch'io feci,
forse non le dispiacque. Una scintilla
forse di gratitudine ora sente.

BARACH
Chi! Turandotte! Ah, mal vi lusingate.

CALAF
Perderla già non posso. Dì, Barach,
tu non mi palesasti, è ver? Avresti
alla tua sposa detto, chi io mi sia?

BARACH

No, signor, non gliel dissi. A' cenni vostri
sa Barach obbedir. Pur non so quale
presentimento mi spaventa, e tremo.

 

SCENA QUARTA
Pantalone, Tartaglia, Brighella, soldati, e sopraddetti.

PANTALONE (uscendo affaccendato)
Oh velo qua, velo qua perdiana.

TARTAGLIA (a Calaf)
Altezza, chi è costui?

PANTALONE
Mo dove se fichelo? Con chi parlela?

BARACH a parte
(Misero me, che fia!)

CALAF
Questo è a me ignoto.
Qui lo trovai per accidente. A lui
chiedea della città, de' riti, d'altro.

TARTAGLIA
Perdonatemi, voi siete un ragazzo col cervello sopra al turbante, e avete un animo troppo cortese. Me ne sono accorto nel divano. Perché diavolo avete fatta quella balordaggine?

PANTALONE
Oh basta, quel che xe fatto, xe fatto. Altezza, ella no sa in quanti pie de acqua che la sia, e se no averemo i occhi nù sulla so condotta, ella se lasserà far zo, come un parpagnacco. (a Barach) Sier mustacchi caro, questo no xe logo per vu. Ella, Altezza, la se contenta de ritirarse in tel so appartamento. Brighella, za xe da' l'ordene, che se metta sull'arme domile soldai de guardia, e vu custodire coi vostri paggi sin domattina le pone della so abitazion, perché no ghe entra nissun. Tolelo in mezzo alle arme, e fe'el vostro debito. Questo xe ordene dell'imperator, sala? El s'ha innamorà de ella, no gh'è caso, el trema, che nassa qualche accidente. Se no la deventa so zenero domattina, mi credo, che quel povero vecchio mora certo dalla passion. Ma la me scusa, la xe stada una gran puttellada quella d'ancuo! (basso a Calaf) Per carità no ghe sbrissasse mai de bocca el so nome; se però la ghelo disesse a sto vecchietto onorato pian pianin, el lo receveria per una gran finezza. Ghe fala sto regalo?

CALAF
Vecchio, mal ubbidire al signor vostro.

PANTALONE
Ah bravo! O, a vù, sier Brighella.

BRIGHELLA
La finissa pur ella le chiaccole, che mi farò i fatti.

TARTAGLIA
Signor Brighella, guardate bene, che ci va la testa.

BRIGHELLA
Conosso el merito della mia testa, e no go bisogno de recordi.

TARTAGLIA (basso a Calaf)
Sono curioso, che crepo, di sapere il vostro nome. Uh, se mi faceste la grazia di dirmelo, lo saprei tenere rinchiuso nelle budella io.

CALAF
Invan mi tenti; al nuovo dì 'l saprai.

TARTAGLIA
Bravissimo, cospetto di bacco.

PANTALONE
Altezza, ghe son servitor.
(a Barach)
E vu, sier mustacchi caro, farè megio a andar a fumar una pipa in piazza, che a star qua in sto palazzo. Ve consegio a andar per i fatti vostri, che farè megio.
(entra)

TARTAGLIA
Oh meglio assai. M'hai un certo ceffo da birbante, che non mi piace nulla.
(entra)

BRIGHELLA
La me permetta, che obbedissa a chi pol comandar. La fazza grazia de restar servida subito in tel so appartamento.

CALAF

Sì, teco sono. (a Barach) Amico, a rivederci.
Ci rivedremo in miglior punto. Addio.

BARACH
Signore, vi son schiavo.

BRIGHELLA Allon, allon, finimo le ceremonie. (ordina ai soldati di prender nel mezzo all'armi Calaf ed entrano)

 

SCENA QUINTA
Barach, indi Timur. Timur sarà un vecchio tremante con un vestito, che dinoti un'estrema miseria.

BARACH
(verso Calaf che parte nel mezzo all'armi)
Il ciel t'assista,
principe incauto. Dal mio canto certo
custodirò la lingua.

TIMUR
(vedendo partire il figliuolo nel mezzo all'armi agitato da se')
Oimè! Mio figlio
in mezzo all'armi! Ah che 'I soldan tiranno
di Carizmo, crudele usurpatore
del regno mio, sino in Pechin l'ha giunto!
Io seco morirò. (disperato, e in atto di seguirlo) Calaf, Calaf...

BARACH
(sorpreso sguainando la scimitarra, e pigliandolo per un braccio)
Vecchio ti ferma, taci, o ch'io ti uccido.
Chi sei tu! Donde vieni? E come sai
di quel giovane il nome?

TIMUR (guardandolo)
Oh Dio!... Barach...!
Tu qui in Pechin! Tu ribellato ancora!
Col ferro in pugno contro al tuo monarca
in miseria ridotto, e contro al figlio?

BARACH
(con somma sorpresa)
Tu sei, Timur!

TIMUR
Sì, traditor... ferisci...
Tronca pur i miei giorni. Io son già stanco
di viver più; né sopravviver voglio
se i più fidi ministri ingrati or miro
per interesse vil; se 'l figlio mio
sacrificato al barbaro furore
del sultan di Carizmo io veggio alfine.
(piange)

BARACH
Signor... Misero me!... Questo è 'l mio prence!
Sì, purtroppo 'l ravviso. (s'inginocchia) Ah mio sovrano,
io vi chiedo perdono... Il furor mio
fu per amor di voi... Per quanto caro
v'è 'l vostro figlio, mai di bocca v'esca
né 'l nome di Timur, né quel del figlio.
Io qui mi chiamo Assan, non più Barach.
(sorgendo, e guardando intorno agitato)
Ahi, che forse fu inteso. Dite... dite...
Elmaze, vostra sposa, è qui in Pechino?

TIMUR (sempre piangendo)
Non mi rammemorar la cara sposa.
Barach, in meschinello asilo in Berlas
tra le passate angosce, e le presenti,
cedendo al rio destin, col nome in bocca
dell'amato suo figlio, ed appoggiando
a questo afflitto sen la cara fronte,
tra queste braccia sfortunate, e stanche,
me confortando, spirò l'alma, e giacque.

BARACH (piangendo)
Misera principessa!

TIMUR
Io disperato
in traccia dell'amato figlio mio,
e in traccia della morte in Pechin giunsi,
e appena giunto il misero mio figlio
veggo tra l'armi al suo destin condotto.

BARACH
Partiam, signor. Del figlio non v'incresca.
Diman fors'è felice; in un' felice
diverrete anche voi, pur che non v'esca
dalle labbra il suo nome, e 'l nome vostro.
Io qui Barach non son, ma Assan mi chiamo.

TIMUR
Qual arcano mi di'...

BARACH
Farò palese
lungi da queste mura ogni secreto.
Partiam tosto, signor.
(guarda intorno con sospetto)
Ma che mai vedo!
Schirina dal serraglio! Oimè! Meschino!
D'onde vieni? A che andasti?

 

SCENA SESTA
Schirina, e detti.

SCHIRINA L'allegrezza,
che l'ignoto gentile ospite nostro
vittorioso sia; curiositade
di saper, come quella tigre ircana
s'assoggettasse a divenir consorte,
nel serraglio mi spinse, e con Zelima,
figlia mia, m'allegrai.

BARACH (sdegnoso)
Femmina incauta...
Tu non sai tutto, e garrula ghiandaia
ten corresti al serraglio. Io ti cercai
per proibirti ciò, che tu facesti.
Ma stolta debolezza femminile
più sollecita è sempre d'ogni saggio
pensier dell'uom, che rare volte è a tempo.
Quai discorsi tenesti? Udirti parmi
nella folle allegrezza a dir: «L'ignoto,
Zelima, ospite è nostro, e mio consorte
lo conosce, e l'adora». Ciò dicesti?

SCHIRINA (mortificata)
Che! Saria mal, se ciò le avessi detto?

BARACH
No, confessalo pur: dì, gliel dicesti?

SCHIRINA
Gliel dissi: ella volea dopo, che 'l nome
le palesassi; e a dirti 'l ver, promisi...

BARACH (impetuoso)
Misero me! Perduto sono... Ahi stolta!...
Fuggiam di qua.

TIMUR
Deh dì; che arcano è questo?

BARACH (agitato)
Fuggiam da queste soglie, e di Pechino
fuggiamo tosto. (guarda dentro) Oimè! Non è più tempo...
Gli eunuchi della cruda Turandot...
(a Schirina)
Ingrata... ingrata, folle... Io più non deggio
fuggir. Tu fuggi, e questo miserabile
salva teco, e nascondi.

TIMUR
Ma mi narra...

BARACH (basso a Timur)
Chiudete il labbro. Il nome vostro mai
dalla bocca non v'esca. Tu, mia sposa,
(con fretta)
se de' tuoi benefizi, ch'io sia grato...
se del mal, che facesti, alcun rimedio
desideri di oppor, non nel tuo albergo,
ma in altro asilo celati, e quel vecchio
teco celato tien, sin che passata
sia la metà del nuovo giorno.

SCHIRINA 
Sposo...

TIMUR
Con noi vieni. Perché?...

BARACH
Non replicate.
Di me si cerca, io fui scoperto. Andate.
Io devo rimaner... Tu non tardare.
(guarda dentro)
Ite a celarvi tosto... m'ubbidite.

TIMUR
Ma perché mai non puoi?...

BARACH (inquieto)
Oh Dio! Che pena!
(guarda dentro)

SCHIRINA
Dimmi, in che feci error!

BARACH
Oimè, infelice!...
(respingendoli)
Ite... tacete il nome vostro.
(guarda dentro)
Ah invano
getto il tempo, e i consigli... Ingrata sposa!...
Misero vecchio!... Sfortunato vecchio!...
Tutti fuggiamo adunque... Ah tardi è ormai.
(tutti in atto di fuggire)

 

SCENA SETTIMA
Truffaldino, eunuchi armati e detti. Truffaldino li fermerà presentando loro l'arme al petto; farà chiudere tutti i passi.

BARACH
So, che d'Assan si cerca, io teco sono.

 

TRUFFALDINO
Che non faccia romore; ch'egli è venuto per fargli una grazia grande.

BARACH
Sì, nel serraglio vuoi condurmi. Andiamo.

TRUFFALDINO
Esagera sulla gran fortuna di Assan. Che, se una mosca entra nel serraglio, si esamina, s'è maschio, o femmina, e s'è maschio, s'impala, ecc.: chiede, chi sia quel vecchio.

BARAC
Quegli è un meschin, ch'io non conosco. Andiamo.

TRUFFALDINO
Che ha fatto conto di voler fare la fortuna anche di quel vecchio meschino. Chi sia quella donna.

BARACH
So che la tua signora' di me cerca.
Lascia quel miserabile. La donna
io non vidi giammai, né so, chi sia.

TRUFFALDINO
Collerico rimprovera Barach della bugia detta. Ch'egli la conosce per sua moglie, e per madre di Zelima: che l'ha veduta al serraglio. Ordina con maestà a' suoi eunuchi di coprire quelle tre persone, e che col favore del buio della notte le conducano nel serraglio.

TIMUR
Dimmi, che fia di me?

 

SCHIRINA 
Io nulla intendo.

BARACH
Vecchio, che fia di te? Dime che fia?
Io tutto soffrirò: tu soffri ancora!
Non scordarti i miei detti. Or sarai paga,
femmina stolta.

SCHIRINA 
Io son fuor di me stessa.

TRUFFALDINO
Minacciante li fa tutti coprire, ed entrano.