IL CARTEGGIO TRA BUSONI
E IL MARCHESE DI CASANOVA


IL CARTEGGIO BOCCIONI-BUSONI

 

Relazione letta nell’ambito dell’XI Convito dei Verbanisti intitolato "Villa S. Remigio centro di cultura europea" tenutosi a Verbania Pallanza, nel "Musikzimmer" di Villa S. Remigio il 30 maggio 1999.

Silvio di Casanova e Busoni si incontrarono a Zurigo all’inizio di dicembre del 1915, in un momento cruciale della vita del musicista che si trovava da poco più di due mesi in esilio non del tutto volontario in terra elvetica. È quindi necessaria una breve introduzione per meglio comprendere il contesto storico, culturale e umano in cui avvenne quell’incontro.

Com’è noto, Busoni amava definirsi cittadino del mondo. Il suo cosmopolitismo era però un concetto più culturale che politico, poiché egli non poteva non tener conto del contesto storico in cui viveva, soprattutto dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. L’idea di "patria" non gli era quindi estranea e nel 1915, in tempi in cui era inevitabile una "scelta di campo", quella d’elezione (la Germania) aveva per lui una rilevanza maggiore rispetto a quella istituzionale (l’Italia). Ciò non significa ovviamente riproporre la consunta storia di una sua germanofilia: significa soltanto affermare che egli, in quel periodo storico, sebbene dichiarasse, senza esitazioni e con orgoglio, di sentirsi latino nell’animo, aveva maggiore familiarità con la forma mentis germanica e non avrebbe potuto vivere stabilmente in Italia, per molti motivi, tra cui l’arretratezza culturale del suo paese e il modo poco razionale col quale venivano gestite le istituzioni musicali. Un trasferimento in Italia avrebbe inoltre compromesso irreparabilmente i suoi rapporti futuri con la Germania, con Berlino in particolare, la sua città, alla quale era intimamente legato e nella quale viveva dal 1894.

Questa consapevolezza, unita all’intima convinzione che l’esilio non è penoso come vivere soli in patria, lo indusse e forse lo costrinse a stabilirsi, tristemente, in un paese non belligerante, simbolicamente equidistante dalle due nazioni che ormai lo consideravano con ostilità e dalle quali era contemporaneamente respinto, se non ufficialmente, almeno implicitamente, come persona non grata. Se è esagerato definire coatto il suo esilio, non mi sembra d’altra parte plausibile considerarlo del tutto volontario: nel caso di Busoni, queste due componenti, benché antitetiche, paradossalmente coesistono. Dipendente dalla sua volontà fu semmai la scelta del luogo in cui trascorrere gli anni della guerra. Ed egli scelse la Svizzera non certo per la natura e il paesaggio, aspetti che non gli interessavano affatto, ma perché essa, fedele alla sua tradizione secolare, aveva notificato ai Paesi belligeranti la ferma decisione di rimanere neutrale.

Busoni lasciò Berlino, nel gennaio del ’15 per trasferirsi temporaneamente in America. Ai primi di settembre dello stesso anno ritornò in Europa, in preda a ciò che il suo biografo Edward Dent definì "nausea intellettuale e morale"; soggiornò forzatamente a Milano per due settimane, si recò poi a Losanna, infine, all’inizio di ottobre, si trasferì a Zurigo, attratto da una parte dall’aspetto insolitamente internazionale della città, considerata a quel tempo la capitale culturale dell’Europa, dall’altra dalla presenza di un dinamico, lungimirante e generoso musicista svizzero, Volkmar Andreae, che gli propose attività concertistiche e direttoriali piuttosto allettanti, artisticamente e finanziariamente, in tempo di guerra. Così Andreae ricordò, due anni dopo la morte del musicista, l’arrivo di Busoni in Svizzera:

"Quando ripenso a Ferruccio Busoni mi ricordo soprattutto la sua visita […] nell’anno 1915, quando [...] pregò noi Svizzeri di concedergli asilo. Prima avevo conosciuto Busoni soltanto come artista e come uomo di cultura. Ora invece vedevo dinanzi a me un uomo perseguitato dalle follie della guerra, che mi chiedeva aiuto con le lacrime agli occhi. Raramente un evento mi ha lasciato così commosso e, nello stesso tempo, mi ha così tanto rallegrato: ero commosso dalla prostrazione di questo grand’uomo, ed ero rallegrato dal fatto che, ormai, lo potevo considerare uno dei nostri."

Per tutto l’autunno fu occupatissimo a pianificare con incrollabile determinazione, da solo, senza segretaria e impresario, l’attività concertistica della primavera successiva in Svizzera e in Italia; nel contempo si dedicò indefessamente ad altre attività: la composizione (soprattutto dell’opera Arlecchino), l’edizione delle opere di Bach, il rifacimento della sua estetica musicale, le ricerche sul mito di Faust, lo studio e l’insegnamento del pianoforte, l’esibizione in pubblico ecc. I primi mesi dell’esilio, durissimi sul piano psicologico, si snodarono inoltre nello sforzo di abbattere la parete di solitudine e di isolamento che la nuova situazione aveva innalzato. Nonostante il dolore per la lontananza dalla "sua" Berlino, da lui definita "luogo insostituibile", dal suo Freundeskreis, dalla sua raffinata biblioteca, strumento di lavoro importante quanto il pianoforte, Busoni era infatti proteso verso il futuro e aperto al mondo circostante: egli si sforzò di ricreare una nuova rete di relazioni, fondamentale per il suo equilibrio psichico, approfondendo da una parte la conoscenza con persone che prima della guerra non appartenevano al suo Freundeskreis (come per esempio i musicisti svizzeri Volkmar Andreae, Hans Huber e il pianista portoghese Josè Vianna Da Motta che abitava allora a Ginevra), dall’altra instaurando nuovi legami di amicizia, in particolare con il musicista franco-spagnolo Philipp Jarnach, che divenne subito suo assistente e fu una delle figure centrali dell’esilio, e con il banchiere Albert Biolley che con rara generosità lo aiutò finanziariamente in molte circostanze. L’abitazione di Busoni in Scheuchzerstrasse 36 divenne sin dai primi mesi del soggiorno zurighese il punto di riferimento di insigni uomini di cultura, tra cui gli scrittori Stefan Zweig, Rainer Maria Rilke, Jakob Wassermann, Franz Werfel, Leonhard Frank, Ludwig Rubiner e René Schickele, i compositori Ermanno Wolf Ferrari e Marcel Sulzberger, i pittori Hans richter e Max Oppenheimer, i direttori d’orchestra Otto Klemperer e Oskar Fried, l’editore Paul Cassirer e il filosofo Ernst Bloch.

Fu in questo complesso contesto storico, culturale ed esistenziale che si inserirono l’incontro con il Marchese di Casanova e la ripresa, qualche mese dopo, dei contatti con Umberto Boccioni, interrotti nella primavera del 1913, per motivi che ho esposto nel citato volumetto sui due artisti, al quale rinvio anche per maggiori dettagli sull’incontro con il Marchese [Cfr. il mio saggio "Caro e terrribile amico, pubblicato anche in questo sito]. Mi limito a ricordare che Silvio di Casanova possedeva numerosi manoscritti lisztiani che interessavano molto a Busoni, appassionato studioso ed editore delle opere del compositore ungherese. Il grande pianista era inoltre affascinato dalla figura del Marchese, musicista, pianista allievo di Liszt a Weimar, poeta, filosofo, mecenate, e come lui, italiano ma di formazione germanica. Vorrei invece evidenziare alcuni aspetti del loro interessante carteggio, senza alcuna pretesa di completezza essendo l’argomento troppo vasto e complesso.