MUSEO CANTONALE D'ARTE

LUGANO

DA KANDINSKY A POLLOCK
LA VERTIGINE DELLA NON-FORMA




Laureto Rodoni

«Un baratro spaventoso mi si apriva davanti»

Riflessioni sulla mostra a cura di
Lorenza Trucchi e Marco Franciolli

Alberto Burri, Sacco nero e rosso [cfr. infra]

La mostra annovera un centinaio di opere di una trentina di pittori, la maggior parte delle quali (oltre ottanta) sono state dipinte durante o dopo il secondo conflitto mondiale in Europa (una sezione è dedicata anche ad alcuni pittori svizzeri: Massimo Cavalli, Rolf Iseli [II] Lenz Klotz, Charles Rollier [cat. p. 246], Marcel Schaffner) e in America. È quindi evidente che il discorso proposto dai curatori è incentrato soprattutto sulla cosiddetta arte informale, termine a dire il vero troppo generico che non designa un movimento vero e proprio, anche perché non esiste alcuna base teorica comune, ma piuttosto una direzione di ricerca sulla possibilità di esprimere forme libere da schemi e da strutture dotate di significato; o meglio indica un insieme di esperienze artistiche (come l'action painting, l'informale materico e astratto, lo spazialismo la pittura segnica) che include, in apparenza paradossalmente, anche anche opere in cui compaiono ancora figure, pur con significati del tutto nuovi e spesso provocatori.
Le altre opere, dipinte tra il '12 e il '39, appartengono a tre precursori della non-forma (Kandinsky, Klee e Prampolini) e a tre pittori (Jean Fautrier, Lucio Fontana e Hans Hartung) che hanno dipinto negli anni Venti e Trenta delle opere non-formali, sorprendenti anticipazioni delle esperienze artistiche post-belliche.


I PRECURSORI

La mostra luganese non ha lo scopo di delineare sommariamente il percorso artistico di singoli pittori con l'esposizione di un florilegio esiguo delle loro opere e neppure quello di definire le peculiarità di alcuni tra i più importanti movimenti artistici del Novecento a cui questi pittori appartenevano o si ispiravano. Essa propone invece un'indagine per così dire trasversale sui tentativi di superare il concetto di forma classica, attuati da pittori che, pur agendo in solitudine, indipendenti cioè l'uno dall'altro, pervennero a una sorprendente e prodigiosa consonanza di esiti artistici. Tentativi spesso sofferti, «vertiginosi» appunto, poiché si trattava di rompere con un passato millenario che si fondava sulla figurazione, sull'oggetto, sull'imitazione-rappresentazione della natura, sulla narrazione; un passato soverchiante, greve, sempre incombente, profondamente radicato sia nel background culturale dei pittori, sia in quello dei fruitori.
Ben nota è l'angosciosa domanda che si pose Vasily Kandinsky

(esponente di primo piano del movimento artistico Der Blaue Reiter) quando intuì la possibilità di fare a meno di riferimenti alla realtà: «Un baratro spaventoso mi si apriva davanti [...]: Che cosa deve rimpiazzare l'oggetto? [...] Quel giorno mi fu perfettamente chiaro che l'oggetto non aveva posto, anzi era dannoso ai miei quadri.»
La musica ebbe nei primi anni del Novecento un influsso profondo sull'attività immaginativa dei pittori e fu determinante per la nascita di un'arte, quella astratta, in cui il soggetto non appartiene ormai più alla nostra esperienza visiva. I tentativi di visualizzare forme sonore o strutture musicali contribuirono quindi a scardinare la rappresentazione naturalistica imperante fino all'inizio del secolo scorso.
Prima che Kandinsky e Arnold Schönberg si conoscessero e instaurassero un rapporto di amicizia (dal 1911) fecondo per l'arte di entrambi, Ferruccio Busoni, musicista di vastissima cultura umanistica, aveva già scritto e pubblicato (nel 1907) un trattatello estetico [Abbozzo di una nuova estetica della musica] destinato a divenire una pietra miliare nella storia della cultura novecentesca. In esso il grande pianista, con la sconcertante, lucida preveggenza del visionario (come Kandinsky, Busoni era attratto dalle scienze occulte), intuì gli sviluppi futuri dell'arte, «persino quello che sarebbe capitato nel secondo dopoguerra, con l'informale, col suono-massa, con la musica elettronica» (Luigi Rognoni). «Colui che sarà nato per creare» - scrisse Busoni nel testo citato - «avrà prima di tutto un compito negativo e di grande responsabilità, quello di liberarsi da tutto ciò che ha appreso e udito per potere, sgomberato il terreno, evocare in sé un raccoglimento intenso e ascetico che lo renda capace di elevarsi di un gradino, di percepire il mondo sonoro interiore e di comunicarlo all'umanità...»
Schönberg, che nel suo Diario berlinese (1912) definì Busoni l'uomo più geniale che avesse mai conosciuto, lesse e annotò con acribia questo testo** e, pur manifestando riserve su alcuni punti, ne fu profondamente influenzato, se, dopo averne suggerito a Kandinsky la lettura con le parole: «Busoni è molto vicino a noi», ebbe a scrivere: «L'arte non è soltanto imitazione della natura esteriore... Al suo livello più alto essa si occupa solo di riprodurre la natura interiore». Dopo il folgorante incontro con la musica di Schönberg, il pittore russo cominciò a intitolare le sue opere con termini desunti dal linguaggio musicale (Composizione - Impressione [nº III, Konzert] - Improvvisazione;altre opere: I - II - III - IV - V - VI): «Il suono musicale ha diretto accesso all'anima, dove trova subito una risonanza poiché l'uomo ha musica in se stesso... L'anima è un pianoforte con molte corde. L'artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, la fa vibrare... La musica di Schönberg ci introduce in un nuovo regno, dove le esperienze musicali non sono acustiche bensì puramente psichiche: qui ha inizio la musica del futuro.»
Kandinsky è uno dei precursori della non-forma degli anni Quaranta e Cinquanta. L'Acquerello astratto [*]del 1910 è infatti considerato la prima pittura astratta dell'arte moderna. Il suo linguaggio pittorico si manifesterà da questo momento con segni fluttuanti, punti, forme pure, ritmi di linee e con macchie di colore, posti in relazione tra loro come il ritmo, il contrappunto e il timbro in ambito musicale (cfr. catalogo pp. 42-43). Il distacco della pittura dalla sua funzione mimetica era ormai compiuto e fu teorizzato nel fondamentale saggio Sullo spirituale nell'arte, [cfr. Antologia di scritti] pure redatto nel 1910, dove per l'appunto Kandinsky attribuiva un valore assoluto al «suono interiore» dei colori e delle forme (evidente anche l'influsso del pensiero teosofico di Rudolf Steiner), che riteneva essenziali per raggiungere le fonti più riposte e segrete dell'emozione e della spiritualità.
Altro precursore fu Paul Klee, ottimo musicista (suonava il violino), in contatto con Busoni e legato a Kandinsky da profonda amicizia. Anche per Klee il principio della «necessità interiore» era predominante, sebbene la sua ricerca si differenziasse da quella dell'amico russo: egli infatti era convinto di poter afferrare il senso della natura, esprimendolo attraverso simboli, allegorie, analogie: «L'oggetto della pittura è il mondo, anche se non questo mondo visibile». Compito dell'artista non è quindi di imitare la natura ma di penetrarne la realtà fenomenica per scoprire «l'immagine essenziale della creazione». La sua pittura non raggiunse mai l'astrazione assoluta e Klee ne era ben consapevole se, con lucidità folgorante, ebbe a dichiarare: «Io sono astratto con qualche ricordo». Riflettendo sulle potenzialità espressive autonome del colore (cfr. Hommage à Picasso, cat. p. 45),

pervenne a uno stile personalissimo che esercitò ed esercita tuttora un influsso potente sull'arte pittorica: «Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno: sono pittore» - scrisse nel 1914.
Infine l'ardita sperimentazione di Enrico Prampolini [II]ha senza alcun dubbio influito sull'informale italiano: a esempio, il suo polimaterismo (cfr. p. 49), è secondo Calvesi una componente importante del materismo e della spazialità di Alberto Burri (cfr. pp. 102, 104 e 108 e infra).


PITTORI DELLA NON-FORMA

Jean Fautrier -Arbre vert -1942

Un sentimento di solitudine e di disperazione, una profonda sfiducia nei valori tradizionali della razionalità e della conoscenza, un vuoto di certezze, un esistenzialismo pessimistico e angoscioso furono le drammatiche conseguenze degli orrori del secondo conflitto mondiale. In tale contesto, la pittura abbandona ogni tentativo di rappresentazione della realtà, ogni fine comunicativo o narrativo. I tradizionali elementi di espressione (colori, linee, figure...) perdono il loro significato originario e il rifiuto della ragione porta inevitabilmente al rifiuto della forma intesa appunto come organizzazione razionale.
La tela può divenire allora una sorta di magma denso di emozioni, turbamenti, angosce in cui la materia (che può essere di qualsiasi genere, corruttibile o incorruttibile: carta, vetro, legno, stoffa, plastica, sabbia, catrame, juta...) diventa linguaggio e si identifica con l'opera

Emilio Vedova - Sedia elettrica - 1950

stessa: «L'arte deve nascere dal materiale» - scrisse Jean Dubuffet, uno degli artisti della non-forma più perspicaci - «e deve mantenere la traccia dello strumento... Ogni materiale ha il proprio linguaggio».
Alla disarmonia esistenziale corrisponde la disarmonia della materia informe, in cui il pittore trova rifugio e di cui esplora tutte le possibilità espressive. A questo proposito, di straordinario impatto emotivo il capolavoro di Alberto Burri Sacco nero e rosso, («Nel sacco» - annotò il pittore - «trovo quella perfetta aderenza tra tono, materia e idea che nel colore sarebbe impossibile»). L’agghiacciante inserimento di un rosso acceso nella materia lacerata sembra una ferita aperta e sanguinante, un simbolo di decadimento e di morte. [SU]
Nelle due tele di Emilio Vedova esposte a Lugano, materia e segno sembrano avvinghiati in una violenza ritmica e gestuale, resa drammatica da scelte cromatiche cupe e luttuose. Anche Ohne Titel di Wols esprime una intensa drammaticità, un dolore lacerante che

sembrano ancora rievocare emozionalmente (si noti la macchia rossa lievemente scentrata sulla sinistra) la terribile esperienza dell'internamento dell'artista in un capo di concentramento nazista nel '39. Opere, queste e altre esposte a Lugano, di «personalità dilaniate e scomposte», addirittura «disintegrate e schizoidi», come ebbe a scrivere Gillo Dorfles, «succubi di un'angoscia esistenziale e cosmica».
Nei due dipinti di Mark Rothko il colore esprime per contro serenità: con l'impiego di nude superfici cromatiche dalla luminosità eterea, Rothko riesce a trasmettere una tale suggestione emotiva da attirare lo spettatore quasi con effetto ipnotico. Il colore rosso, predominante in Blue on Red e fondamentale nella sua opera pittorica, sprigiona una intensa forza spirituale, assurgendo a simbolo della vita stessa, come ebbe a dichiarare il pittore. Una pregnante, veemente antitesi rispetto al dipinto citato di Burri.

Alberto Burri - Bianco - 1952

Ma la tela può contenere anche un intrico di segni, spesso di elementare semplicità come a esempio nelle opere di Giuseppe Capogrossi (pp. 110-113), che sembra ispirarsi a Klee, di Charles Rollier (pp. 172-173), Lenz Klotz (pp. 174-175), di Hans Hartung (p. 136) oppure elementi figurativi volutamente naïf (Jean Dubuffet, (pp. 70-71), Arshile Gorky (p. 76), Jean Fautrier (p. 62), Wols (72).


Arshile Gorky - Garden in Sochi

DIFFIDENZA E LIBERTÀ DEL FRUITORE

Dubuffet era ben consapevole del fatto che le persone interessate all'arte potessero allarmarsi di fronte a opere in cui è difficile distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è, in cui lo spettatore non può più «aggrapparsi» all'oggetto, alla figura o seguire una narrazione. Paradossalmente proprio in questo genere di opere che non di rado rendono perplessi i fruitori non specialisti è l'artista stesso che lascia loro la più ampia libertà di «esecuzione», per usare un termine che, secondo Umberto Eco, può riassumere quelli di «visione-lettura-interpretazione». Dubuffet dichiarava spesso che il quadro deve essere «rifatto dal pensiero dello spettatore»: l'esecuzione può essere quindi libera e del tutto soggettiva: essendo l'opera d'arte «un infinito raccolto in una definitezza» (questo lapidario ossimoro è del filosofo Luigi Pareyson), essa è aperta a infinite esecuzioni e ogni esecuzione, che può anche permanere tacita, privata, senza sbocchi nel discorso o nella scrittura, la fa rivivere secondo una prospettiva e un gusto personali.


MORTE DELLA FORMA?

Se nelle Texturologies di Jean Dubuffet [bio - articolo] (p. 130) o nei Sacchi di Burri (pp. 104-108) è la materia stessa ad essere rappresentata con la forza vitale che da essa scaturisce, è però il quadro che, scrive Umberto Eco nel fondamentale trattato «Opera aperta», «organizza questa materia bruta» e la «delimita come campo di suggestioni possibili»; i segni che risultano sulla tela «per liberi e casuali che fossero, sono tuttavia frutto di una intenzione, e quindi un'opera», in cui il fruitore, coinvolto come mai prima di allora, assume come detto un ruolo importante.
Anche quando Jackson Pollock si affidava al caso, facendo uso della tecnica del dripping (muovendosi sulla tela distesa sul pavimento lasciava gocciolare smalto opaco o vernici industriali all'alluminio [cfr. Black and Silver II, p. 98]), non decretava affatto la morte della forma ma ne allargava il significato. E questo perché il segno sulla tela, anche se si è formato casualmente, è comunque «guidato» dal gesto del pittore; un gesto inteso come impeto di vitalità interiore che si comunica per mezzo delle vibrazioni della mano che rovescia la «materia». Si tratta di una pittura, conclude Eco, «che ha la libertà della natura, ma una natura nei cui segni possiamo riconoscere la mano del creatore.»
Questo tipo di approccio alla pittura era una decisa ribellione alle rigorose forme astratte e geometriche degli anni Venti e Trenta.
Lo stesso discorso vale per i fori (e i tagli!) praticati nella tela da
Lucio Fontana [in ¡nternet] (cat. pp. 101 e 148), gesto informale che secondo

Lucio Fontana -Concetto spatziale - 1952

il pittore, conduce a «una dimensione al di là del quadro», alla «libertà di concepire l'arte attraverso qualunque mezzo, attraverso qualunque forma».
«Al di là del quadro...» Come non ricordare in conclusione le profetiche parole che Umberto Boccioni scrisse attorno al 1911: «Usciamo dalla pittura? [...] Non lo so. Non vi sarà mai abbastanza audacia per uscire dalla ferrea legge dell'arte, che ognuno esercita. Verrà un tempo forse in cui il quadro non basterà più. La sua immobilità, i suoi mezzi infantili saranno un anacronismo nel movimento vertiginoso della vita umana! Altri valori sorgeranno, altre valutazioni, altre sensibilità di cui noi non concepiamo l'audacia... L'occhio umano percepirà il colore come emozione in sé. I colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi e le forme vivranno per se stesse al di fuori degli oggetti che le esprimono. Le opere pittoriche saranno forse vorticose architetture sonore e odorose di enormi gas colorati, che sulla scena di un libero orizzonte elettrizzeranno l'anima complessa di esseri nuovi che non possiamo oggi concepire. Usciamo forse dai concetti tradizionali di pittura e scultura che imperano da quando il mondo ha una storia? Giungiamo alla distruzione dell'arte come è stata intesa fino ad oggi? Forse! Non lo so! Non importa saperlo! L'essenziale è marciare in avanti!...»


NOTE - VARIA

** BUSONI, Ferruccio. «Entwurf einer neuen Ästhetik der Tonkunst», with annotations by Arnold Schoenberg and a epilogue by H. H. Stuckenschmidt. Frankfurt: Suhrkamp Verlag, 1974.
SU
Il pensiero e la sensibilità producono vibrazioni che quando sono abbastanza forti, possono staccarsi dal soggetto che le emana,  assumere vita autonoma e una forma che non assomiglia a nessun oggetto conosciuto, una forma appunto astratta. Rudolf Steiner si dilungò su queste forme e sul significato dei colori e sistematizzò questi pensieri quasi a formare una sorta di guida per chi volesse fare esperienze superiori e ampliare la coscienza attraverso l'esercizio di facoltà come immaginazione, ispirazione, intuizione. E di Steiner Kandinskij studia minuziosamente gli scritti, ordinando in tabelle i significati che quell'autore attribuisce ai colori. E' dunque soprattutto nei testi teosofici e nell'antroposofia di Steiner che Kandinskij incontra quelle suggestioni che tendono a scardinare i limiti della rappresentazione tradizionale. E perfino nel tracimare del colore oltre i contorni può essere individuato un parallelismo con l'affermazione steineriana secondo la quale nel mondo dell'immaginazione colori, suoni, e qualità si liberano della loro appartenenza all'oggetto e fluttuano liberamente nello spazio. Nuovo Sigfrido, il cavaliere azzurro diventa ora il simbolo dell'anima nuova in lotta contro la macchia nera del materialismo. E per Kandinskij il colore nero resterà sempre un nemico da sconfiggere.   [cfr. testo completo] SU
François Dagognet
au Lycée Europe R. Schuman de Cholet
Conférence inédite du 10 mai 1996

[...] L'un des artistes qui vient de mourir, il n'y a pas longtemps évidemment, et qui est l'un des plus grands, Dubuffet. Voici par exemple la description d'une de ses oeuvres, vous la lirez facilement dans l'un de ses livres l'un des plus capiteux, des plus enthousiasmants qui est "L'homme du commun à l'ouvrage". Or voici en quoi elle consiste cette oeuvre, écoutez moi bien elle est assez cocasse. Dubuffet nous raconte qu'il va à Rungis très tôt le matin le plus tôt possible, muni d'un petit seau et d'une balayette et une pelle, drôle d'attirail. C'est ainsi alors qu'à Rungis, il se met à balayer les détritus végétaux et animaux ainsi que minéraux, la poussière, le sable, la terre que l'on a piétinée. Il ramasse la boue, ce qu'il y a par terre. Vous vous rendez compte ! Il rentre chez lui. Il mêle à ses détritus dans un contenant ce qu'il y a chez lui : la poussière, les brindilles de fil de sa femme qui a cousu... Il met tout ça dans un contenant, puis il le broie de manière qu'il obtienne un véritable résidu. Après, il l'étale sur un plateau résistant, il le dit lui même, soit en verre, soit en matière plastique mais particulièrement solide parce qu'il faut appliquer cette espèce encore un peu pâteuse. Il faut absolument l'étirer, faire un film. Après quoi, il prend les feuilles de papier, un beau papier blanc qu'il a légèrement humecté d'un peu de colle et il l'applique tout doucement sur ce broyage étalé. Il en tirera une expérience de lithographie, environ une vingtaine de feuilles. A la fin, il appuiera un peu plus fort, c'est ce qu'il appelle les texturologies et les empreintes. Qu'est-ce qu'il va voir ? Je sais que ça vous choque, mais c'est ainsi. C'est un ensemble apparemment grisâtre. Mais quand on regarde d'un peu plus près la matière la plus brisée, elle contient une espèce de liturgie, une espèce de résurrection des choses, elle contient des merveilles. Effectivement si on regarde mieux, on pourrait voir des papillons, des fleurs inconnues, une végétation, une vitalité, une exubérance, l'inimaginable texturologie des heures. L'empreinte, voilà un très bon échantillon de l'art contemporain .

Je le répète, les matières, la matière parce que il faut bien le reconnaître dans l'antiquité et même à l'âge classique en général on n'a eu recours qu'à des matériaux nobles et naturellement solides comme l'or, le marbre, le stuc. La pierre, que sais-je encore ! Des couleurs ? Il n'y en aura plus. Dans Dubuffet tout est en noir et en gris. Les matériaux nobles ? Il n'y en a plus. J'ai été prendre de la boue. J'ai été prendre, je répète, les matériaux les plus avilis, les plus inexistants, ceux qui étaient ramenés à l'amorphie, et j'essaie de tirer d'eux, de ces matériaux, une texturologie, je répète, de lever la vie, la vie sourde mais infinie qu'elle contient et que je suis entrain de vous mettre en évidence. "L'homme du commun à l'ouvrage" voilà un échantillon de l'art contemporain. L'Hégélianisme avait une explication de l'art typiquement idéaliste. Vous vous rappelez, l'art symbolique, l'art classique, l'art romantique, où l'idée s'affrontait, elle essayait de pénétrer dans la réalité et d'ailleurs moins elle pénétrait plus elle s'exhibait seule, plus on était en présence de l'oeuvre d'art. Là, il n'y a plus d'idée, le matériau, par lui seul, il contient, encore une fois, le pathétique. Dubuffet a été multiple, or vous, vous connaissez de lui la partie que je trouve la moins importante c'est-à-dire celle qui s'intéresse à l'art brut. Alors l'art brut on sait de quoi il s'agit en un mot, ça fait partie d'un même ensemble. Ce sont les artisans les plus frustres, les enfants et surtout les psychotiques parce que ce qui nous brouille tous c'est la rationalité, c'est l'esprit qui manipule les choses, tandis que ces hommes qui sont perdus au monde, ils sont capables d'échapper à nos canons, à nos normes, à nos règles, à nos préceptes, alors ils sont sur la voie de l'art. Mais il n'est pas nécessaire d'être un psychotique pour être un artiste. Vous voyez, moi, (Dubuffet), je viens d'utiliser une procédure, une procédure étonnante, c'est d'amener le monde dans ce qui ne paraît ne plus rien contenir, l'amener à révéler la richesse qu'il enferme en lui-même. Voilà un premier échantillon que j'emprunte à Dubuffet. Evidemment il a intitulé ses grands livres matériologie, je le répète matériologie, texturologie, empreinte, vous verrez toute une foule d'ouvrages il y en a environ une vingtaine. [...]
Madeleine Bruch
Licenciée ès Lettres. Critique d'Art
Arts plastiques et communication
dans le monde contemporain

[...] Aux antipodes de technologies sophistiquées se situe l’art brut dont l’inventeur est le peintre Jean Dubuffet qui s’est intéressé à l’art des marginaux et des malades mentaux, ou de personnes "indemnes de culture artistique", car leurs auteurs "tirent tout : sujets, choix des matériaux mis en œuvre, moyens de transposition, rythmes, façon d’écriture… de leur propre fonds, et non plus de l’art classique ou de l’art à la mode". Dubuffet a constitué une importante collection de telles œuvres où se manifeste selon lui "la seule fonction de l’invention et non celles constantes dans l’art culturel du caméléon et du singe".

Animé par le désir de subversion et de négation de la culture comme principe de cohérence de sa démarche artistique, Dubuffet, lorsqu’il se remet à peindre après une longue période d’interruption, se tourne vers les matériaux insolites : "de la boue, seule suffit, rien qu’une seule boue monochrome". Il a recours à des pratiques telles que graffiti, incisions, grattages, empreintes ; il peint des "Corps de Dames", des portraits, puis des Texturologies et des "Matériologies". Son intention est que le tableau puisse être "refait par la pensée du spectateur" ; les portraits qu’il réalise sont non ressemblants, mais révèlent la personnalité intime de ceux qu’ils représentent.

À partir des années 1960, avec "l’Hourloupe", la démarche phénoménologique cède le pas à un nouveau langage. Ce n’est plus la matière qui joue le rôle principal, mais la transposition d’un nouvel espace "d’essence purement mentale", au moyen de peintures, de dessins ou de sculptures-architectures monumentales, où les couleurs rouge et bleue délimitent des structures s’emboîtant ou plutôt se développant comme les cellules d’un tissu organique. Une œuvre qui témoigne, comme le dit Raymonde Moulin, "d’une révolution permanente et d’une continuelle fuite en avant vers des terrains inexplorés".

Dubuffet a poursuivi avec acharnement "sa mission de désorienteur " jusqu’à ses dernières œuvres nommées" Théâtres de mémoire", "Non lieux", "Psycho-sites".

Soutenu au départ par Jean Paulhan, et ses amis de la NRF, ce peintre a été lui-même son meilleur communicateur, grâce à ses nombreux écrits. Son langage plastique use tour à tour de communication représentative et expressive et constitue une sorte de retour aux sources de la créativité.

S’il a refusé, non sans agressivité les autorités extérieures de légitimation, "c’est en définitive parce qu’il est lui-même sa propre légitimité… Ce comportement charismatique n’est autre que celui de prophète. Mais par une invincible fatalité… l’art brut que Dubuffet a aimé parce-qu’il n’avait pas le moindre retentissement dans la culture, en a acquis un par lui, et Dubuffet, lui-même artiste anti-art…, est présent au musée où il fait d’ores et déjà partie de notre patrimoine culturel". [...]
KANDINSKIJ: Senza titolo (primo acquerello astratto), 1910 Questo acquerello, che apre il ciclo storico dell’arte non- figurativa, è intenzionalmente uno scarabocchio. La fase dello scarabocchio è, notoriamente, la prima fase del disegno infantile. Kandinskij si è proposto di riprodurre sperimentalmente il primo contatto dell’essere umano con un mondo di cui non sa nulla,  nemmeno se sia abitabile. È soltanto qualcosa d’altro: un’estensione illimitata, non  ancora organizzata in spazio, gremita di cose che non hanno ancora un posto, una forma, un nome. Kandinskij non si propone di dimostrare che così il bambino vede il mondo e così lo rappresenta, sarebbe insensato; si propone di analizzare, nel comportamento del bambino, l’origine, la struttura primaria dell’operazione estetica. Per Kandinskij, sperimentatore rigoroso, il punto e la linea sono quello che si può fare con una punta dura e tracciante; la macchia colorata è quello che si può fare con un pennello intrisi di materia colorante èpiù o meno diluita; la carta è, per convenzione, un’estensione illimitata che viene interrotta qua e là dai segni e che diventa così, anch’essa, segno significante. È stato Kandinskij a sostituire (procedendo così parallelamente alla scienza fisica) la nozione di campo alla nozione di spazio: campo è precisamente un’estensione, una porzione d’infinito determinata dall’interazione di forze agenti simultaneamente, ed il suo insieme forma un sistema dinamico. [su]
Charles Rollier
1912-1969


Biografia

1912 Nasce il 27 settembrea Milano
1923-24 Risale a questo periodo il suo interesse nei la pittura
1930 Si iscriveali Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano
1933 Lascia l'Accademia per lavorare nell'ateiier di Esodo Pratelli, pittore del movimento Novecento.
1934 Prima personale alla Galieria delle 3 Arti, Milano. Lascia l'Italia fascista e si stabilisce a Basilea, dove stringerà amicizia con il pittore Ernst Coghuf. S'interessa all'espressionismo tedesco (Emil Nolde, Errist Ludwig Kirchner in particolare) e di Klimt e Schiele. Recupera la cittadinanza svizzera grazie alta sua origine vodese.
1936 Con Coghuf si stabilisce e lavora nel Giura bernese
1938 Si trasfenscea Parigi.
1941 Rientra in Svizzera e si stabilisce a Ginevra. Incontra Roger Montandon e Alberto Giacometti.
1946 Incontra Pierre Courthion. Riparte per Parigi, dove conosce
Nicolas de Staël, al quale sarà molto vicino
1947 Il suo lavoro si concentra attorno a una sola tematica: gli interni e le nature morte
1948 S orienta verso una figurazione sempre più allusiva e un'astrazione più grafica.
1949-52 Vive tra Parigi e Ginevra. Studia attentamente la filosofla di Karl Jaspers in particolare la nozione di trascendenza.
1949 Si dedica al l'analisi dei la natura e del paesaggio.
1952 Decide di lasciare definitivamente la Francia e si stabilisce a Ginevra. Si appassiona alla cultura bizantina.
1953 Viaggio in Italia durante il quale cogliere l'occasione per studiare l'arte prerinascimentale e rinascimentale.
1954 S'interessa alle diverse forme di pensiero e di religione asiatiche e orientali
1954 Conosce i critici Freddy Buache e Georges Paillex.
1958 Soggiorna In Sardegna, dove installa un piccolo atelier e realizza alcune tele e numerosi studi. È uno dei rappresentanti della Svizzera alla Biennale di Venezia (nuovamente nel 1964).
1959 Si dedica al lo studio dell'India.
1966 La figura femminile acquisisce una posizione quasi esclusiva nel l'opera di Rollier,
1967 Viene progettata una retrospettiva (la prima) al Musée Rath di Ginevra per il 1968, ma verrà realizzata solo dopo la morte dell'artista nel 1969
1969 Muore di un attaco cardiaco il 15maggio a Ginevra. SU