Cfr. lettera a Barbantini del 12 febbraio 1912: «Carissimo Barbantini, la sua lettera mi ha trovato in preda ad una specie di ebbrezza per l’enorme successo ottenuto dalla mia esposizione e da quella dei miei amici! Il successo è consacrato dalla critica di tutti i giornali che pur facendo molte riserve, proclama il nostro trionfo sui cubisti francesi e l’apparizione di una nuova tendenza!... I francesi sono sbalorditi che da una piccola città di provincia come Milano sia venuta fuori una parola che li fa rimanere attoniti, loro così abituati a tutte le originalità più assurde...»
(BOCCIONI, Scritti, p. 346)
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Agnese, pp. 253-254.
Per Boccioni, come per gli altri, le occasioni di colloquio e di conoscenza sono innumerevoli. Marinetti sin dal vernissage gli ha presentato parecchi degli amici, e delle amiche, che conta a Parigi da anni. Anzitutto gli ha fatto conoscere il critico e poeta Gustave Kahn, che è uno dei primi teorici del verso libero; quindi la signora Jane Mendès, sua vecchia fiamma e vedova, s'è detto, del prestigioso letterato Catalle Mendès; poi la scrittrice Valentine de Saint-Point, spregiudicata, avvenente e anch'ella un tempo sua intermittente amante.
Visitano la mostra quasi tutti gli artisti modernisti di Parigi. Carlo Carrà, una volta, crede di scorgere un'intenzione di plagio nell'attenta osservazione che Léger dedica ai suoi quadri, e s'inquieta. Dufy appare invece distaccato, mentre Gleizes e Metzinger, per dire ancora della 'bande à Picasso' fraternizzano con i futuristi. Visitano la mostra, tra tanti altri, anche i fratelli Duchamp e gli scultori Constantin Brancusi e Aleksandr Archipenko; il quale Archipenko presenta a Boccioni una pittrice che, come lui è nata a Kiev e che vive a sua volta a Parigi: Alexandra Exter.
Boccioni è elegantissimo, in abito scuro. Più che un artista sembra un funzionario di banca. Un pittore italo-americano, Josegh Stella, gli si confessa futurista e insiste: «Al più presto, signor Boccioni, bisogna portare il Futurismo a New York». Spesso, tra gli altri, s'intrattengono a parlare con lui due pittori entrambi ventitreenni, entrambi conquistati dalle sue idee: un francese, Félix Delmarle, e un portoghese che ha un nome lungo come un convoglio ferroviario, Guilherme Augusto Cau da Costa Santa-Rita, che per amor di sintesi si fa chiamare Santa-Rita Pintor.
E poi? Poi gli italiens de Paris, che in gruppetto o alla spicciolata varcano numerose volte la soglia della Bernheim-Jenne. Inevitabilmente si parla di pittura; e così, inevitabilmente, cadono nel discorso aggettivi pesanti come macigni. «Invece, lui, Modigliani» racconta Giuseppe Cominetti, che del solitario artista livornese è amico almeno quanto Severini, «di pittura non parla mai. Né di scultura». «E di che cosa, allora?» «Oh, delle cose più svariate. E di poesia. Modigliani, caro Boccioni, conosce a memoria molto di Leopardi, di Carducci, di Shelley e di D'Annunzio, le Laudi in particolare. Lo sapevi?»