EDGAR ALLAN POE

RACCONTI DEL MISTERO E DEL TERRORE


MORELLA


Sé stesso, per sé stesso solamente, UNO in eterno, e solo.
Platone, Il convito

Profondo eppure singolarissimo consideravo l'affetto che mi legava alla mia amica Morella. Il caso, molti anni or sono, mi avvicinò a lei, e la mia anima, sin dal primo incontro, arse di fuochi che mai, prima d'allora, aveva conosciuto; ma i fuochi non erano di Eros, e amara e tormentosa per il mio spirito era la crescente convinzione di non poterne mai definire l'inconsueto significato o governarne la vaga intensità. Eppure ci incontrammo; e il fato ci unì all'altare; e mai io parlai di passione, ne pensai all'amore. Ella però rifuggiva da ogni presenza estranea, e legata a me solo, mi rendeva felice. Una felicità da stupire, una felicità da sognare.
L'erudizione di Morella era profonda. Come è vero che spero di vivere, il suo talento era fuor del comune, le sue capacità intellettuali gigantesche. Ne ero consapevole, e in molte discipline divenni suo alunno. Presto, comunque, notai che forse a causa dei corsi di studi da lei seguiti a Presburgo, mi proponeva molti di quegli scritti mistici che vengono solitamente considerati una mera scoria della letteratura tedesca primitiva. Essi, per quale ragione non sapevo immaginare, erano il suo studio favorito e costante, e che con l'andar del tempo divenissero anche il mio va attribuito al semplice ma efficace influsso dell'abitudine e dell'esempio.
In tutto questo, se non vado errato, la mia ragione c'entrava ben poco. Le mie convinzioni, sempre che io non abbia smarrito la giusta valutazione di me stesso, non furono in alcun modo condizionate dall'ideale e, sempre che io non m'inganni del tutto, le mie letture mistiche non lasciarono impronta alcuna sul miei atti o pensieri. Persuaso di ciò, mi abbandonai implicitamente alla guida di mia moglie, e mi addentrai con cuore intrepido negli intrichi dei suoi studi. E allora - allora, quando, meditando su pagine proibite, sentivo accendersi dentro di me uno spirito proibito, Morella posava la sua fredda mano sulla mia, e dalle ceneri di una filosofia morta riesumava sommesse, singolari parole, il cui strano significato si stampava a fuoco nella mia memoria. E allora, ora dopo ora, indugiavo al suo fianco, intento alla musica della sua voce, sinché alla fine la sua melodia non si incrinava di terrore e un'ombra mi cadeva sull'anima, ed io impallidivo, rabbrividendo dentro di me a quei toni troppo ultraterreni. E così, all'improvviso, la gioia si estingueva nell'orrore, e ciò che era più bello diveniva il più laido, e, Hinnon diventava la Gehenna.
Non è necessario specificare il carattere di quelle disquisizioni che, prendendo lo spunto dai volumi menzionati, costituirono per così lungo tempo fra Morella e me il quasi unico argomento di conversazione. I dotti di quella che si potrebbe chiamare teologia morale li individueranno prontamente, e i profani, comunque, non ne capirebbero gran che. L'esaltato panteismo di Fichte; la versione pitagorica della Paliggenesia; e soprattutto le dottrine dell'Identità sostenute da Schelling erano in genere gli argomenti che più attraevano per la loro bellezza la fervida immaginazione di Morella. Quell'identità che chiamiamo personale il signor Locke, credo, la definisce a ragione come essenza costante dell'essere razionale. E siccome per persona intendiamo un essere intelligente dotato di ragione, siccome c'è sempre una tale coscienza che accompagna il pensiero, è questo che fa di noi ciò che chiamiamo «noi stessi», così distinguendoci da altri esseri pensanti, e conferendoci la nostra identità personale. Ma il principium individuationis - la nozione di quella identità che con la morte si perde o non si perde per sempre - era stato per me, in ogni momento, una considerazione di intenso interesse; non solo per la natura sconcertante ed esaltante delle sue conseguenze, ma anche, e ancor di più, per l'enfasi febbrile con cui ne parlava Morella.
Ma in verità era ormai giunto il tempo in cui il mistero dei modi di mia moglie mi opprimeva come un maleficio. Non potevo più sopportare il tocco delle sue dita diafane, né il tono sommesso della sua musicale parlata, né la lucentezza dei suoi occhi malinconici. Ed essa sapeva tutto questo, ma non mi rimproverava; pareva consapevole della mia debolezza o follia, e sorridendo la chiamava Fato. Pareva anche consapevole di una causa, a me ignota, della mia progressiva disaffezione; e tuttavia non mi dava cenno o segno alcuno sulla sua natura. Ma era pur sempre donna, e giorno dopo giorno languiva. Col tempo, la rossa chiazza si fissò sulla guancia, e sulla pallida fronte sporsero le vene azzurre; e ora il mio essere si scioglieva in pietà, ma subito dopo incontravo lo sguardo dei suoi occhi espressivi, e allora la mia anima si rivoltava ed era presa dalle vertigini come chi guardi giù in un abisso insondabile e tetro.
Dovrò dunque dire che con desiderio intenso e struggente anelavo al momento della morte di Morella? Sì, era così; ma per molti giorni il fragile spirito si aggrappò alla sua dimora d'argilla - per molte settimane e molti mesi tormentosi - finché i miei nervi torturati presero il sopravvento sulla ragione e quell'indugiare mi rese furibondo, e con cuore di demonio maledissi i giorni e le ore e gli attimi amari che parevano allungarsi sempre più via via che declinava la sua vita gentile, come ombre allo smorire del giorno.
Ma una sera d'autunno, quando la quiete dei venti era nel cielo, Morella mi chiamò al suo capezzale. Sulla terra posava una nebbia leggera, e una calda luminosità si irradiava sulle acque, e certo un arcobaleno era caduto giù dal cielo tra le corrusche foglie d'ottobre della foresta.
«È un giorno unico, questo», disse, quando mi avvicinai, «il giorno fra tutti i giorni per vivere o per morire. P un bel giorno per i figli della terra e della vita... ah, più bello ancora per le figlie del cielo e della morte!».
La baciai in fronte, ed ella continuò:
«Io muoio, ma vivrò».
«Morella!».
«I giorni sono finiti in cui potevi amarmi - ma colei che in vita aborristi adorerai nella morte».
«Morella!».
«Te lo ripeto, io muoio. Ma dentro di me v'è un pegno di quell'affetto - oh, quanto povero! - che tu nutristi per me, Morella. E quando il mio spirito si dipartirà, vivrà la creatura tua e mia, di Morella. Ma i tuoi giorni saranno giorni di dolore, quel dolore che è la più duratura delle impressioni, come il cipresso è il più duraturo degli alberi. Perché i giorni della tua felicità son finiti, e la gioia non si raccoglie due volte in una vita, come le rose di Pesto che si colgono due volte in un anno. Tu dunque non giocherai più col tempo come il poeta di Teo, ma ignaro del mirto e della vite, porterai con te il tuo sudario, come i Musulmani alla Mecca».
«Morella!», gridai, «Morella! come lo sai?», ma ella girò il viso sul guanciale e, le membra scosse da un lieve tremore, morì così, e non udii più la sua voce.
Tuttavia, come aveva predetto, la sua creatura, a cui morendo aveva dato la vita e che non respirò finché la madre non ebbe cessato di respirare, la sua creatura, una figlia, visse. E crebbe stranamente di statura e intelletto, ed era l'immagine perfetta della scomparsa, ed io l'amavo di un amore più intenso di quel che avessi creduto possibile sentire per una creatura terrena.
Ma ben presto il cielo di quel puro affetto si oscurò, e lo invasero nembi tenebra, orrore e dolore. Ho detto che la bimba crebbe stranamente di statura e d'intelletto. Strana davvero fu la sua rapida crescita fisica, ma tremendi, oh, tremendi erano i pensieri tumultuosi che m'assillavano in folla nell'osservare il suo sviluppo mentale. E poteva essere altrimenti, quando ogni giorno scoprivo nelle concezioni della bambina i poteri, le facoltà adulte della donna? quando le lezioni dell'esperienza uscivano dalle labbra dell'infanzia, e quando di ora in ora vedevo splendere da quegli occhi pieni e indagatori la saggezza o le passioni di anni ben più maturi? Quando, dico, tutto ciò divenne chiaro ai miei sensi sgomenti - quando non potei più nasconderlo alla mia anima, ne respingerlo a forza da quel sensi che tremavano al riceverlo - c'è da stupirsi che allora sospetti di natura paurosa ed eccitante si insinuassero dentro il mio spirito, o che i miei pensieri rievocassero atterriti gli assurdi racconti e le sensazionali teorie della sepolta Morella?
Sottrassi alla curiosità del mondo un essere che il destino mi costringeva ad adorare, e nel rigoroso isolamento della mia casa vigilai con trepida angoscia su tutto ciò che riguardava la mia diletta.
E, mentre trascorrevano gli anni, mentre giorno dopo giorno fissavo lo sguardo sul suo viso santo, mite ed eloquente, e meditavo sul maturare della sua persona, giorno dopo giorno scoprivo nella figlia nuovi punti di somiglianza con la madre, la malinconica, la morta. E di ora in ora s'addensavano più cupe queste ombre di somiglianza, e più piene, più definite, più conturbanti, più orride a vedersi. Perché, che il suo sorriso fosse come quello della madre, potevo sopportarlo, ma poi rabbrividivo alla sua troppo perfetta identità; che gli occhi fossero come quelli di Morella, anche questo potevo tollerarlo; ma poi troppo spesso mi scrutavano in fondo all'anima con l'espressione intenta, sconvolgente di Morella. E nella forma dell'alta fronte, nei riccioli delle sue seriche chiome e nelle dita diafane che vi si affondavano, e nel tristi toni musicali delle sue parole, e soprattutto - oh, soprattutto - nelle frasi e nelle espressioni della morta pronunciate dalle labbra dell'amata e viva, trovavo alimento per i pensieri che mi divoravano, per il mio sgomento, per il verme che non voleva morire.
Così passarono due lustri della sua vita, e ancora mia figlia restava senza nome su questa terra. «Figlia mia» e «amor mio» erano gli appellativi solitamente suggeriti dall'affetto paterno, e il rigido isolamento delle sue giornate precludeva ogni altro contatto. Il nome di Morella mori con la sua morte. Della madre non avevo mai parlato alla figlia: era impossibile parlarne, Anzi, durante tutta la sua breve esistenza, ella non aveva ricevuto impressione alcuna dal mondo esterno, tranne quelle consentite dagli angusti limiti della sua vita appartata. Ma infine la cerimonia del battesimo forni alla mia mente, nel suo stato di tensione snervante e di agitazione, un'immediata liberazione dai terrori del mio destino. E al fonte battesimale esitai, cercando un nome. E molti nomi di donne sagge e belle, nomi dei tempi antichi e recenti, della mia terra e di terre straniere, si affollarono alle mie labbra, insieme a molti, molti nomi leggiadri di donne gentili, e felici, e buone. Che cosa dunque mi mosse a disturbare la memoria della morta, di lei sepolta? Quale demone mi spinse a dar voce a quel suono che al solo ricordo faceva rifluire a torrenti il purpureo sangue dalle tempie al cuore? Quale spirito maligno parlò dai recessi della mia anima, quando fra quelle cupe navate, e nel silenzio della notte, sussurrai all'orecchio del sacerdote quelle sillabe - Morella? Quale demone o demonio stravolse i lineamenti della mia bambina e li soffuse di un colore di morte, quando trasalendo a quel suono appena udibile, levò gli occhi vitrei dalla terra al cielo, e cadendo prostrata sui neri lastroni della nostra cappella avita, rispose: «Sono qui!»?
Distinti, freddamente e quietamente distinti, quei pochi semplici suoni penetrarono nel mio orecchio, e di lì, come piombo fuso, sibilando mi si riversarono nel cervello. Gli anni, gli anni potranno passare, ma la memoria di quell'epoca, mai! Né invero ignorai i fiori e la vite, ma cicuta e cipressi stesero su di me la loro ombra, giorno e notte. E non tenni più conto di tempo e di luogo, e le stelle del mio destino si spensero nel cielo, e quindi la terra si abbuiò, e le sue figure mi passarono accanto come ombre fuggevoli, e fra tutte vedevo soltanto - Morella. I venti del firmamento non spiravano al mio orecchio che un unico suono e sul mare, increspandosi, le onde lievi sempre mormoravano - Morella. Ma ella morì; e con le mie mani la portai alla tomba; e risi d'un riso lungo e amaro quando non trovai traccia della prima, nel sepolcro ove deposi la seconda - Morella.


LIGEIA


Quivi ha sede la volontà che non muore. Chi può dire di conoscere i misteri della volontà e della sua forza? Dal momento che Dio è solo una grande volontà che riempie ogni cosa secondo le sue intenzioni. L'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte, se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà.
Joseph Glanvill

Non sono capace, sull'anima mia, di rammentare come, quando e finanche dove io ho incontrata, per la prima volta, Lady Ligeia. Molti anni son trascorsi da allora e le molte mie sofferenze m'hanno fiaccata la memoria. Ovvero è soltanto ora che io non posso rievocare alla mente quegli istanti da che, per la verità, l'indole della mia amata, la sua eccezionale dottrina, il carattere singolarmente calmo della sua bellezza, la profonda eloquenza - studiosa dei segreti centri dell'emozione - del suo linguaggio sottilmente musicale, conquistarono il mio cuore così furtivamente e insieme così tenacemente ch'io non potevo accorgermene, e difatto non me ne accorsi, che molto tempo dopo. Io credo, tuttavia, d'aver fatta la sua prima conoscenza e d'averla rivista spesso, di poi, in una grande e antica città che cadeva in rovina sulle sponde del Reno. Non c'è dubbio che io l'abbia udita parlare dei suoi antenati, così come anche è indubitabile che essi risalissero a un'epoca alquanto remota.
Ligeia! Ligeia! Seppellito com'io sono nello studio di discipline atte quant'altre mai ad attenuare e svisare le impressioni provenienti dal mondo esterno, m'è sufficiente appena pronunciar quella dolce parola - Ligeia - perch'io rappresenti improvvisa, agli occhi della fantasia, l'immagine di lei che non è più. Ed ora, nel mentre che io vergo queste parole, ora soltanto m'avvedo che non ho mai saputo il nome della famiglia di lei, di lei che fu mia amica e promessa, di lei che divenne compagna dei miei studi e sposa, infine, del mio cuore. Forse solo un capriccio bizzarro, ovvero il desiderio di mettere alla prova l'amor mio, suggerì a Ligeia di proibirmi qualsiasi indagine su questo punto. 0 piuttosto il capriccio fu mio, fu una offerta romanticamente disperata sull'altare della più appassionata devozione. A questo proposito non posseggo altro che ricordi confusi, ne, quindi, è da meravigliare ch'io abbia dimenticate le circostanze che determinarono prima e accompagnarono poi questi avvenimenti. Così ch'io sono indotto a credere che, se mai lo spirito romantico, il pallido Ashtophet dall'ali nebbiose venerato nell'Egitto idolatra, presiedette - com'è costume credere - ai matrimoni nati sotto l'influenza d'una stella maligna, egli ha presieduto, non v'è dubbio, al mio.
E nondimeno v'ha un caro soggetto sul quale la mia memoria non può fallire. Ed è la persona di Ligeia. Essa era alta, snella, e negli ultimi giorni anche un po' emaciata. Invano io tenterei di ritrarre la maestà, la tranquilla naturalezza dei suoi modi, la misteriosa elasticità e leggerezza del suo incedere. Andava e veniva come un'ombra. Io non mi accorgevo del suo ingresso nel mio studio altro che dalla musica intima e dolce della sua voce, e dal contatto, sulla mia spalla, della sua marmorea mano. Io non ho mai visto un volto di giovine donna che l'eguagliasse in bellezza. Essa sembrava irraggiare da un sogno oppiaceo, come un'aerea visione altamente spirituale, una visione assai più stranamente celestiale che non quelle dei sogni che volteggiano nelle anime sopite delle fanciulle di Delos. E nondimeno i suoi lineamenti non erano plasmati secondo quel modello regolare che ci è stato ipocritamente appreso a venerare nelle classiche opere dei pagani. «Non può esistere una bellezza squisita», dice Bacon, Lord Verulam, discorrendo con molta acutezza di tutte le forme e di tutti i tipi di belle donne, «che sia sprovveduta d'una cotale stravaganza nelle proporzioni». Quantunque io non mi nascondessi che i lineamenti di Ligeia non erano propriamente di una classica regolarità - sebbene io avvertissi che la sua bellezza era veramente squisita e che la stravaganza vi aveva non poca parte - ho poi sempre pensato a ritracciare quella irregolarità e ad individuare le mie stesse capacità di percepire lo stravagante. Io esaminavo, così, il contorno della fronte alta e pallida: esso era veramente perfetto. Ma quanto è fredda tale espressione ove si riferisca a tanta divina maestà! Io esaminavo il suo incarnato rivale dell'avorio più puro, e la imponente ampiezza e la calma, la leggiadra prominenza delle parti al di sopra delle tempie, e poi la capellatura d'un nero corvino, lustra, abbondante, naturalmente ondulata, la quale testimoniava tutta la forza e la grandezza dell'espressione omerica jacintèe chiome. Io riguardavo il delicato profilo del naso e non riuscivo a rammentare un simile esempio di perfezione altro che nel garbo dei medaglioni ebrei. Era la medesima squisita tenerezza della superficie, la medesima impercettibile tendenza all'aquilino, la medesima curva armoniosa delle narici che denota la libertà dello spirito. Io riguardavo la sua dolce bocca, là dove era il reale trionfo di tutte le cose celestiali. L'armonioso incurvarsi del labbro superiore, piccoletto, il soffice e voluttuoso riposo di quello inferiore, il giuoco, ai lati, delle fossette e lo spirante colore, i denti che rimandavano ogni raggio della luce benedetta che incontravano, nei loro sorrisi tranquilli e sereni ma pur sempre trionfalmente radiosi. Io osservavo la conformazione del mento ed ancor lì trovavo la grazia e la leggiadria, la dolcezza e la maestà, la pienezza e la spiritualità degli antichi modelli greci, quel contorno che il divo Apollo rivelò a Cleomene sognante, a Cleomene figlio dell'Ateniese. E poi io mi perdevo nei grandi occhi di Ligeia.
Per quegli occhi non v'ha modello alcuno che basti a darne l'immagine pur nelle più remote età. Ed è probabile che proprio negli occhi della mia adorata si celasse il mistero di cui dice Lord Verulam. Essi erano - conviene ch'io creda - assai più grandi che non gli occhi comuni alla nostra razza. Ed essi erano anche più pieni dei più leggiadri occhi di gazzella che abiti la tribù nella vallata di Nurjahad. E tuttavia soltanto in alcuni istanti, quand'essa sembrava animarsi più intensamente, tale particolarità si poteva notare in Ligeia. La sua bellezza in tali momenti era - ovvero appariva alla mia accesa immaginazione - la bellezza d'un essere superiore o comunque superumano, la fiabesca bellezza delle Urì turche. Il nero più fondo e lucido le brillava nelle pupille difese da lunghissime ciglia ricurve, nere ancor esse. Le sopracciglia - nere - erano caratterizzate da un disegno lievemente irregolare. E tuttavia la stravaganza ch'io riconoscevo a quegli occhi non dipendeva in nulla dalla loro forma o dal loro colore, ovvero dalla loro vivacità: essa era piuttosto da attribuirsi alla loro espressione. Ah! Parole, ahimè, senza significato, dietro cui si difende - dietro la loro ampiezza di mero e vacuo suono - la nostra ignoranza delle cose dello spirito. L'espressione degli occhi di Ligeia! Quanto non mi ha fatto meditare! Quante volte, durante intere notti estive, io non mi sono invano sforzato di penetrarne il senso! Che cosa dunque poteva essere questo alcunché - assai più fondo che non il pozzo di Democrito - vivido, giacente in fondo alle pupille della mia adorata? Che cosa era? Io ero posseduto dalla passione di scoprirlo. Quegli occhi! Quelle larghe, quelle lustre, quelle divine pupille! Esse eran divenute, per me, le stelle gemelle di Leda ed io il loro fervente astrologo.
Non v'è certo alcuna fra le innumerevoli anomalie - e incomprensibili - della psicologia, la quale offra un interesse maggiore allo scienziato se non quella - che io non credo tuttavia sia mai stata notata nelle scuole - per la quale, nonostante gli sforzi che noi operiamo per richiamare alla mente un oggetto da lungo tempo obliato, perveniamo sovente al limite del ricordo senza tuttavia riuscire a ricordare. E così, infinite volte, nella mia estenuante analisi degli occhi di Ligeia, io mi sono trovato sul punto d'avere disvelato, per intero, il segreto della loro espressione e ho avuto sentore d'essere prossimo alla sua conoscenza - non ancor mia - per poi soltanto vederla di nuovo lontanare. E ancora - e questo, invero, sorpassa in stravaganza tutti gli altri segreti impenetrati - io ho trovata negli oggetti più comuni di questo mondo una serie di analogie con quella espressione. Voglio dire che, posteriormente al periodo nel quale la bellezza di Ligeia fu trasfusa nel mio spirito e v'ebbe dimora come in un reliquiario, io attinsi presso numerosi esseri del mondo materiale un sentimento in tutto simile a quello ch'io nutrivo in me, vicino alle grandi e lustre pupille. Epperò non mi sento meno incapace di definire quel sentimento, d'analizzarlo, ovvero anche di afferrarlo per intero. M'accadeva talvolta di riconoscerlo alla vista d'un rampicante rigoglioso, a quella d'una falena o d'una farfalla o d'una crisalide, ovvero a quella d'un corso d'acqua corrente. Io l'ho sentito alla vista dell'oceano e a quella d'una meteora precipite. L'ho avvertito nello sguardo di persone insolitamente longeve. E vi sono ancora nel firmamento due o tre astri e più particolarmente uno, di sesta grandezza, duplice e mutevole, che si trova accosto alla grande stella della Lira - i quali, contemplati attraverso il telescopio, m'hanno ispirato quel sentimento -. E ne fui anche invaso dal suono di taluni strumenti a corda e frequentemente da taluni passaggi dei poeti e dei prosatori da me preferiti. Ricordo, tra gli altri innumeri esempi, alcune frasi d'un volume di Joseph Glanvill le quali - forse solo a motivo della loro bizzarria, chi può dirlo? - non han mai mancato d'ispirarmelo: «Quivi ha sede la volontà che non muore. Chi può dire di conoscere i misteri della volontà e della sua forza? Dal momento che Dio è solo una grande volontà che riempie ogni cosa secondo le sue intenzioni. L'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte, se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà».
La riflessione, nondimeno, e gli anni m'hanno avviato a rintracciare un nesso, per quanto escogitato, fra quel passaggio del filosofo inglese e una zona del carattere di Ligeia. Una singolare intensità dei pensieri, delle azioni e delle parole era il risultato, in lei, o almeno l'indizio di quella potentissima volontà la quale, durante le nostre prolungate relazioni, non forni, tuttavia, altre e più positive attestazioni della sua esistenza. Fra tutte le donne da me conosciute, Ligeia, sempre serena e apparentemente calma, fu la più tormentata dai violenti e tumultuanti avvoltoi della crudele passione. E quella passione io non potevo misurarla altro che alla miracolosa espressione di quegli occhi che mi smagavano e, a un tempo, m'atterrivano, alla melodia incantatrice, alla modulazione, alla limpidità, alla serenità della sua voce profonda, e alla energica fierezza - cui il contrasto che metteva nel porgerle raddoppiava l'effetto - delle stranissime parole di cui conosceva il segreto.
Ho detto della sapienza di Ligeia: essa era immensa, tale che io non ne ho mai riconosciuta la simile in una donna. Delle lingue morte ella aveva una conoscenza profonda e scaltrita e per ciò che riguarda le lingue vive d'Europa, delle quali io pure avevo una vasta conoscenza, dirò che non m'è mai accaduto di poterla cogliere in fallo. Ma infine, ho forse io mai colta in fallo Ligeia a proposito d'uno qualsiasi degli argomenti di quell'accademica e vanagloriosa erudizione tanto esaltata perché ritenuta la più astrusa? E non parrà inoltre singolare che tale caratteristica dell'indole della mia donna attraesse la mia attenzione soltanto nell'ultimo periodo della mia vita con lei? Ho detto che la sua sapienza era tale ch'io non ne ho riconosciuta l'eguale in nessun'altra donna; ma dove respira quell'uomo che abbia percorso con successo totale i campi interminati delle scienze morali, fisiche e matematiche? In quel tempo io non mi rendevo conto di quel ch'io vedo, ora, chiaramente e cioè che il campo delle conoscenze di Ligeia era vastissimo, al disopra d'ogni immaginazione. Io così, a parte della sua infinita superiorità, rassegnavo, nelle sue mani, la mia fiducia di bimbo e mi lasciavo condurre da lei traverso il caos delle metafisiche investigazioni e attorno ad esse ho attivamente spesi i primi anni del nostro matrimonio. E con quale trionfo, con quale viva delizia e perpetua speranza, avvertivo, mentr'ella reclinava su me ch'ero immerso in studi tanto eccezionali, ingrandirsi ed espandersi e moltiplicarsi la seducente prospettiva sulle cui interminabili, meravigliose e vergini strade, io sarei infine pervenuto alla meta d'una conoscenza preziosa e divina troppo per non esser proibita!
E quale e quanto non fu il mio dolore, allorché vidi, soltanto qualche anno appresso, tutte quelle mie fondate speranze prendere il volo e fuggirsene! Tolta che mi fu Ligeia, io rimasi un bimbo cieco, che tenta l'oscurità. La sua presenza soltanto e il suo ammaestramento potevan rischiarare di vivido lume i trascendenti misteri nei quali eravamo sommersi. Orbata dall'irraggiante luce del suo occhio, la scienza, un tempo librata a volo, ricadde pesante come il piombo di Saturno. Il suo sguardo rischiarò sempre più rade le pagine su cui mi chinavo, poiché Ligeia cadde malata. I suoi occhi folgorarono una troppo abbagliante luce - invero troppo abbagliante - le pallide dita presero la trasparenza cerca della tomba, e le vene azzurre della sua fronte solenne palpitarono impetuose, rapite di dolcezza e d'apprensione. M'avvidi così ch'essa doveva morire e lottai disperato, nell'animo mio, contro il cupo Asrael. Ed i suoi sforzi d'appassionata sposa furono, con mia meraviglia, anche più disperati dei miei. Per la gravità della sua indole, io pensavo che la morte l'avrebbe colta senza il suo corteggio di terrori: eppure non fu così. Le parole sono impotenti a descrivere la fierezza della resistenza ch'ella dispiegò nella sua lotta con l'Ombra. Io gemevo, angosciato, al pietoso spettacolo. Avrei voluto calmarla e ragionare secolei, ma nell'intensità del suo sfrenato anelito alla vita, a null'altro che alla vita, ogni raziocinante intervento per consolarla appariva al culmine della follia. E tuttavia, pur framezzo alle torture e alle convulsioni del suo spirito altero, la tranquillità esteriore dei suoi modi non l'abbandonò mai. La sua voce man mano cresceva di dolcezza e di risonanza, ed io, nondimeno, non potevo intrattenermi sul senso di quelle sue orribili e calme parole. Nel mentre che io ascoltavo mi cresceva una bruma nel cervello, frutto quasi dell'estasi per quella sovrumana melodia, per quelle ambizioni e aspirazioni che il mondo doveva, fino allora, ignorare.
Non potevo dubitare ch'ella m'amasse e ancora che, in un seno come quello di lei, l'amore non potesse regnare come sentimento comune. Eppure acquistai conoscenza dell'impetuosa forza di quello soltanto nella circostanza della sua morte. Ella sfogava durante lunghe ore, colle mani nelle mie mani, la piena d'un cuore la cui devota passione suggeriva l'idolatria. Che cosa m'aveva meritate le beatitudini di tali confessioni? E che cosa ancora la maledizione ch'io vedessi la mia adorata scomparire al momento stesso in cui me le porgeva? Ma non tollero di indugiare su questo punto. Dirò soltanto che nell'abbandono più che femmineo di Ligeia a un amore - che io, forse, non meritavo - senza motivo prodigato, riconobbi infine l'intima essenza del suo ardente, del suo selvaggio rimpianto della vita che la fuggiva, ormai, con tanta rapidità. È, tale ardore selvaggio, tale veemente struggimento di vita - e soltanto di vita - che io non so esprimere. Le parole si dibattono incapaci nel mio cervello.
A mezzo della notte nella quale ella porse l'ultimo respiro, mi richiamò imperiosamente al suo capezzale e volle ch'io ripetessi alcune strofe da lei composte qualche giorno innanzi. Obbedii. Eran queste:

È una notte di festa. Gli intristiti
E desolati ultimi anni! Alato,
Uno stuolo di angeli piangenti
Da veli avvolto, in un teatro assiste
A un dramma di speranze e di timori,
Nel mentre che l'orchestra ne sospira
La musica incantata delle sfere.

Nel sembiante di Dio nei Cieli, i mimi
Qua e là trasvolan, brontolando rochi,
E vanno e vengon come burattini
Al comando di tremoli fantasmi
Che vari d'attorno per cangiar la scena,
Versando, dalle loro immense ali
Di Condor, l'invisibile Dolore.

Quel variopinto dramma - siate certi! -
Scordato non sarà, col suo Fantasma
Inseguito per sempre da una folla
Che non l'aggiunge mai, movendo in cerchio,
E sempre torna nello stesso luogo,
Colla molta Follia, con il Peccato
Ed il Terror, ch'è il fulcro dell'intreccio.

Ed ora attenti, ché tra i mimi in calca
Una strisciante forma, ecco, s'intrude.
È rossa come il sangue e si contorce
Mentr'esce sulla scena desolata.
Si torce, si contorce! in una angoscia
Mortale! I mimi cadono in sua preda!
Piangono i serafini, ché le zanne
Attossicate del serpente han viste
D'umano sangue rosse e scintillanti!

Spente sono le luci! tutte spente!
E sopra quelle abbrividenti forme
Ecco! il velario, funebre lenzuolo,
Precipita un rombo di tempesta.
Gli angeli, tutti, pallidi e allibiti
Si levano, svelandosi, e affermando
Che la tragedia è intitolata «L'Uomo»
E che il suo eroe è il Serpente Vittorioso.

«Oh Dio!», urlò quasi Ligeia balzando dal letto e levando le braccia al cielo in un movimento di spasimo, non appena ebbi terminato di recitare quelle strofe. «Oh Dio! O Padre celeste! Ciò si deve compiere senza remissione? Il Serpente Vittorioso, non sarà mai dunque vinto a sua volta? Non formiamo, noi, forse, una parte integrante di Te? Chi è, chi è che sa i segreti e la potenza della volontà? L'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà».
E allora, spossata da quella nuova eccitazione, ella abbandonò le bianche braccia e solennemente fece ritorno al suo letto di morte. E nel mentre gli ultimi spiriti le passavano il labbro, io udii mescolarsi loro un rumore indistinto. Tesi allora, sottilmente intento, l'orecchio, e udii ancora una volta, le parole di Glanvill: «... l'uomo non cede agli angeli, né interamente alla morte, se non a causa della fiacchezza della sua minuscola volontà ...».
Essa era morta. Ed io, devastato dal dolore, non potei più a lungo sopportare l'abbandono e la desolazione della mia dimora in quell'antica città che cadeva in rovina sulle sponde del Reno. Io non avevo bisogno di ciò che al mondo ha nome di, ricchezza. E Ligeia me ne aveva apportata molta maggiore che non solitamente il Destino accorda ai mortali. In tal modo, dopo che fu scorso alcun mese di noiati vagabondaggi e peregrinazioni senza meta, entrai in possesso e restaurai un'antica abbazia - della quale, nondimeno, tacerò il nome e il sito - che sorgeva in una delle più incolte e abbandonate t regioni della bella Albione. La cupa e malinconica vastità dell'edificio, il selvaggio aspetto del suo fondo all'intorno, le venerabili e tristi memorie ch'erano legate al luogo, tutto, insomma, parve accordarsi al sentimento di completo abbandono che m'aveva condotto in quella remota e disabitata regione. E nondimeno, pur serbando, al di fuori dell'abbazia, il suo primitivo carattere e il cupo e desolato verde che l'attorniava, io mi studiai, con una perversione quasi fanciullesca, e fors'anche col proposito di alleviare la mia pena, di spiegare, all'interno, una magnificenza più che regale. Avevo alimentato, per la verità, il gusto di simili pazzie fin dall'infanzia, ma soltanto ora esse rinascevano in me, sorpreso nell'innocente meraviglia del Dolore. Io sento troppo bene, ahimè, che sarebbe stato possibile discoprire, infatti, un principio di follia, nello splendore di quei fantasiosi cortinaggi, nella maestà delle sculture egizie, nelle cornici e nei mobili, invero assai stravaganti, e soprattutto negli arabeschi dei tappeti trapunti d'oro. Ero divenuto schiavo dell'oppio che mi teneva incatenato ai suoi ordini, e tutti i miei lavori e le mie commissioni assumevano il colore dei miei sogni. Ma non indugerò a descrivere nei minimi particolari tali assurdità. Mi fermerò soltanto su quella camera, maledetta nell'eternità, nella quale, in un istante di smarrimento della ragione, dopo l'indimenticabile e indimenticata Ligeia, io condussi sposa Lady Rowena Trevanion of Tremaine, dalla bionda chioma e dagli occhi azzurri.
Non v'è particolare architettonico o decorativo di quella camera nuziale ch'io non abbia presente agli occhi della memoria. Che cosa poteva aver mai, al posto del cuore, l'altera famiglia della sposa allorché, spinta dalla sete dell'oro, accettò che una fanciulla - tanto teneramente amata - oltrepassasse la soglia d'una stanza tanto stranamente costrutta e adorna? Ho già detto che ne rammentavo i particolari più minuti - sebbene io perda spesso la memoria anche a proposito d'argomenti della massima importanza - e nondimeno in quella fantasiosa ricchezza non v'era alcun ordine prestabilito, ovvero alcun sisterna che guidasse e potesse imporsi alle facoltà della memoria. La stanza era molto grande ed era tagliata secondo la forma di un pentagono. Essa era relegata nell'alta torre d'una estrema ala dell'abbazia e fortificata come uno spalto. Tutto il lato meridionale del pentagono era occupato da un'unica finestra, un immenso cristallo veneziano fuso in un'unico pezzo e d'un color grigio simile a quello del piombo, il quale filtrava i raggi del sole e della luna in modo tale che inondassero gli oggetti della stanza di lugubri riflessi. Al di sopra dell'enorme finestra, una vecchia vite fuorusciva in un intricato viluppo, dall'esterno delle mura della torre per finire d'arrampicarsi all'interno. Il soffitto di quercia era d'un lugubre color nero ed altissimo, costruito a volta e bizzarramente rabescato in stile gotico per metà e druidico per l'altra. Dal centro della volta pendeva, a mezzo di un'aurea catena di larghi anelli, un enorme incensiere, aureo anch'esso e capricciosamente traforato secondo un disegno di stile saraceno, entro il quale s'attorcigliava il vivo serpe d'una perpetua fiamma iridata.
Divani e candelabri d'oro, di foggia orientale, erano sparsi qua e là, ed al centro, il letto. Un letto nuziale in stile indiano, basso, d'ebano massiccio, ornato di sculture e sormontato da un baldacchino simile a un pallio funebre. Sarcofaghi di granito nero si levavano giganteschi agli angoli della stanza: essi provenivano dalle tombe dei re di Luxor e i loro antichi coperchi erano istoriati d'immemorabili leggende. E nondimeno, la maggior libertà di fantasia era spiegata, ahimè, nel cortinaggi che pendevano torno torno alle pareti. Queste, oltre ogni proporzione alte, erano rivestite, dall'alto in basso, dalle ampie pieghe d'una pesante tappezzeria - del disegno medesimo di quella che fungeva sul pavimento da tappeto, e sui divani e sul letto da coperta e ancora da baldacchino e si torceva nelle tende alla finestra - ricchissimamente tessuta in oro e, secondo regolari intervalli, pezzata d'arabeschi d'un piede dall'incirca di diametro ognuno, i quali, tracciati in nero, spiccavano sinistramente sull'aureo sfondo. E quelle figure, nondimeno, si riconoscevano per arabeschi solo se guardati da un angolo particolare. A mezzo d'un processo divenuto ormai del tutto banale e di cui si trovano le tracce nelle antichità più remote, quegli arabeschi erano in guisa tracciati che mutassero a vista l'aspetto. Essi così, a chi entrava nella camera, parevano semplici figure di mostri, ma avanzando, quella caratteristica si trasformava man mano e, cambiando posizione nella stanza, si poteva vedere attorno una ininterrotta processione di quelle terrificanti immagini la cui invenzione risale alle superstizioni dei Normanni, ovvero ai sogni irriverenti delle comunità monastiche. Cotesto effetto era notevolmente accresciuto da una forte corrente di aria, introdotta per artificio dietro alla stoffa, la quale conferiva a quel popolo di forme stravaganti una paurosa e inquieta animazione.
Tale la dimora e tale la camera nuziale dove io trascorsi le lunghe ore del primo mese di matrimonio colla signora di Tremaine. Ed invero esse non furono senza una cotale serenità. Non ch'io nascondessi a me stesso come mia moglie avesse in soggezione il mio terribile umore, ovvero come essa studiasse onde evitare di scontrarsi meco e, insomma, non m'amasse; ciò m'era causa, anzi, d'un segreto piacere, giacché io la odiavo e d'un odio degno dell'inferno più che di questo basso mondo. E con quanta, insieme, intensità di dolore! Io tornavo di continuo colla mia mente a Ligeia, l'idolatrata, l'augusta, la bella, la sepolta. E m'esaltavo al ricordo della sua purezza, della sua scienza, della sua eterea natura, del suo appassionato amore. Ed ora, nell'animo mio, ardeva una fiamma più libera e intensa di quanto non fosse stata la sua. Durante i miei sogni eccitati - ero abitualmente sotto l'impero dell'oppio - io mi chiamavo attraverso i desolati silenzi notturni, il suo nome ad alta voce. E nella luce diurna, negli oscuri recessi della regione d'ombra che attorniava il castello, la invocavo ancora, quasi che la potessi resuscitare ai sentieri ch'ella aveva relitti, col mio sfrenato desiderio, colla mia riverente passione, colla divorante fiamma della mia infinita nostalgia.
Appena al principio del nostro secondo mese di matrimonio, Lady Rowena fu posseduta da un improvviso male del quale non poté riaversi che assai gradatamente. La febbre assediava le sue notti e, nel turbamento del dormiveglia, essa discorreva di echi e di movimenti che avvenivano in questo e in quel luogo della stanza, i quali io conclusi che ad altro non erano da attribuirsi se non all'eccitamento della sua fantasia o fors'anche ai fantasmi che pendevano dalle pareti. Essa entrò quindi in convalescenza e guarì del tutto. E nondimeno, dopo breve tempo, un secondo e ancor più violento attacco la inchiodò nuovamente al suo letto di dolore. E da quel letto, per la sua costituzione, ch'era sempre stata fragile, non poté più rialzarsi completamente. Le sue malattie, da quell'epoca, furono allarmanti, e così le sue ricadute che sfidavano la dottrina e ogni sforzo dei medici. E come il male, che s'era andato apparentemente impadronendo della sua persona, s'aggravava man mano, fino al punto che i mezzi degli uomini dovettero riconoscersi insufficienti a combatterlo, io osservai che s'accresceva anche l'irritazione nervosa e l'eccitabilità del suo temperamento. Ella così riprese a parlare e sempre più frequentemente, di taluni rumori - echi leggeri - e degli insoliti movimenti dei cortinaggi cui aveva gia alluso durante il suo primo attacco.
Una notte degli ultimi giorni di settembre ella attirò con maggiore energia che l'usato la mia attenzione su questo soggetto. S'era desta, proprio allora, da un sonno inquieto nel mentre che io, a metà diviso tra l'ansia e un vago terrore, spiavo i movimenti del suo volto scavato. Io sedevo su uno dei divani indiani accanto al letto d'ebano. Ella s'alzò di sul letto a mezzo il busto e, con un ansimante balbettio, parlò di alcuni suoni che aveva uditi ma che io non potevo udire e di alcuni movimenti che aveva veduti ma che io non potevo vedere. La sua voce era bassa e grave. E il vento correva rapido dietro ai cortinaggi, ed io - quantunque, posso ben confessarlo, non lo credessi compiutamente - mi adoperai a dimostrarle che quei sospiri appena articolati, quei molli e lenti mutamenti delle figure alle pareti non eran che l'effetto naturale della consueta corrente d'aria. E tuttavia il pallore mortale ch'io vidi in quel punto sbiancarle il viso bastò a farmi comprendere che ogni tentativo per rassicurarla sarebbe stato vano. Essa era per venir meno. Ma nessun domestico era nelle immediate vicinanze. Ricordai allora che in un luogo della stanza era stata riposta una bottiglia di vinello ordinata dai medici, e mi vi precipitai per prenderla. Ma nel mentre che passavo sotto alla luce dell'incensiere, la mia attenzione fu distratta da due circostanze straordinarie. Avevo sentito che un qualche cosa di palpabile, anche se invisibile, era trascorso leggermente accosto alla mia persona. E vidi sul tappeto d'oro, in mezzo al riflesso proiettato dall'incensiere, un'ombra, una debole e indefinita ombra d'angelico aspetto, la quale avrebbe potuto più propriamente dirsi un'ombra di un'ombra. E nondimeno, poiché mi conoscevo preda, in quel punto, d'una dose affatto esagerata d'oppio, non diedi eccessiva importanza a quell'incidente, e non ne accennai a Rowena. Trovato che ebbi il vinello e traversata che ebbi nuovamente la stanza, ne accostai un bicchiere alle labbra esangui di mia moglie. Ella, che s'era nel frattempo riavuta, aveva preso il bicchiere con le mani per modo che io potei lasciarmi cadere sul divano, senza pertanto stornare gli occhi da lei. Fu in quell'istante ch'io udii, ben distinto, un leggero struscio di passi, sul tappeto vicino al letto, e un attimo dopo vidi - seppure non ho soltanto sognato di vederlo - nel bicchiere che Rowena accostava alle labbra, come da una invisibile sorgiva sospesa a mezz'aria nella stanza, cadere tre o quattro gocciole d'un liquido brillante color del rubino. Ma se io le vidi, Rowena non le vide. Essa bevve senza esitare ed io badai a non accennarle a una circostanza la quale doveva essere, dopo tutto, soltanto l'effetto d'una troppo accesa fantasia, morbosamente riscaldata dai terrori di mia moglie, dall'oppio e dall'ora tarda.
Non posso, tuttavia, nascondere a me stesso che, immediatamente dopo la caduta di quelle goccioline di rubino nel bicchiere, mia moglie subì un rapido peggioramento, al punto che non oltre la terza notte che seguì, le mani dei servi preparavano il suo corpo per il sepolcro, e la quarta io vegliavo, solo, nella fantastica stanza che l'aveva accolta sposa, la sua salma ravvolta nel sudario. Strane immagini, nate dal sonno oppiaceo, danzavano come ombre innanzi alla mia mente. Io posavo l'occhio inquieto negli angoli della stanza dove vegliavano i sarcofaghi, sulle forme in moto del cortinaggio e sulla viva serpe della fiamma iridata nella lampada. Ed in seguito, com'io richiamai alla memoria le circostanze di un'altra notte, il mio occhio cadde nel luogo, al disotto del riflesso dell'incensiere, dove avevo visto le tracce sbiadite dell'ombra. Ma l'ombra non c'era più. Ed io levai gli occhi, quasi respirando con maggiore libertà, sulla bianca, immota figura del letto. E allora mille memorie di Lady Ligeia m'affollarono la mente e, col violento tumulto d'una cateratta squarciata, affluì al mio cuore la piena dell'ineffabile dolore con il quale avevo contemplata lei, ravvolta per sempre nel suo lenzuolo di morte. E intanto la notte avanzava e, mentre il mio cuore traboccava dei più struggenti e amari pensieri dei quali ella - il mio unico e supremo amore - era l'oggetto, io restavo con lo sguardo affissato al cadavere di Lady Rowena.
Era forse scoccata la mezzanotte. Un po' prima, forse. O un po' dopo. Non avevo posto orecchio al battere dell'ora. Un singhiozzo, in quella, basso e lieve, ma pur chiaro, mi tolse improvviso ai miei fantasmi. Io sentii ch'esso veniva dal letto d'ebano dove abitava la morte, e tesi l'orecchio in preda a un'agonia di superstizioso terrore. E nondimeno quel suono non si ripeté. Forzai gli occhi a discoprire un moto qualsiasi nel cadavere, ma non riuscii a veder nulla. E tuttavia non era possibile ch'io fossi caduto in inganno. Avevo udito il suono, per quanto esso fosse flebile, e in quel mentre l'animo mio era ben desto. E così affissai il corpo e vi tenni appuntato l'occhio con risolutezza e perseveranza. Innanzi che si potesse produrre alcuna circostanza che illuminasse quel mistero, trascorsero lunghi minuti. E infine apparve evidente che una lieve colorazione era salita alle gote e fluiva, appena appena sensibile, traverso alle venuzze svuotate delle palpebre. Preda d'uno spavento indicibile, il quale non potrebbe essere per certo rappresentato da alcuna parola conosciuta nell'umano linguaggio, sentii che le pulsazioni del mio cuore s'erano arrestate e che le mie membra s'erano improvvisamente irrigidite. E tuttavia il sentimento del dovere mi restituì un po' di sangue freddo. Non potevo dubitare, più a lungo, ormai, che i nostri preparativi per la tomba erano stati prematuri. Lady Rowena era ancora viva. Compresi come fosse necessario tentare subito qualcosa, e nondimeno la torre era talmente isolata da quella parte dell'abbazia che era abitata dal servi, che nessuno fra di essi poteva udire il suono della mia voce, ed io non potevo chiamarli senza abbandonare, per un certo tempo, la stanza. Né a questo sapevo risolvermi. E così tentai, da solo, di richiamare alla vita quell'anima ancora spirante. Fu evidente, tuttavia, dopo brevi istanti, una nuova recrudescenza. Il colore disparve dalle gote e dalle palpebre lasciandovi un biancore più freddo del marmo. Le labbra si serrarono di nuovo e di nuovo le mascelle si strinsero nella morsa spettrale della morte. Rapido si propagò il gelo, viscido e ripugnante, su tutta la superficie di quel corpo, e subentrò la rigidità cadaverica. Io mi lasciai cadere, rabbrividendo, sul divano dal quale ero stato si stranamente rimosso e m'abbandonai ancora a fantasticare appassionatamente di Ligeia.
Trascorse un'ora. E allo scoccar di quella - e come poteva tuttavia essere possibile? - io ebbi per la seconda volta la percezione che un rumore indistinto venisse dalla parte del letto. Ascoltai, atterrito, fintantoché il suono non si ripeté ancora una volta: era un sospiro. Io m'avventai sul cadavere e vidi - oh, vidi ben chiaramente! - un tremore alle labbra. E un attimo appresso esse si dischiusero e scopersero la chiostra brillante dei denti. E così la meraviglia prese a lottare col terrore che aveva fino allora albergato nell'animo mio, ed io mi sentii annebbiare in un punto la vista e la ragione, e soltanto con uno sforzo feroce pervenni a rimettermi all'opera che il dovere imponeva. Un incarnato debole e limitato ad alcune parti del volto, come la fronte, le gote e la gola, era apparso assieme a un lieve ma pur sensibile tepore, a ravvivare quella spoglia. Ed io intesi anche una leggera pulsazione del cuore. Mia moglie era viva! Io soffregai ed umettai le tempie e le mani e subito misi in atto quel che potevano suggerirmi, oltre l'esperienza, le mie non poche letture di scienza medica. Ma tutto fu invano. Il colore sparve improvviso, tacquero le pulsazioni, l'espressione di morte salì di nuovo al labbro e per tutto il corpo tornò, subito appresso, il gelido color livido, la ferma rigidità, l'aspetto rilassato e come appiattito, e tutte, insomma, l'altre caratteristiche d'un corpo che abita già da vario tempo il sepolcro.
E io ripiombai in tal modo a fantasticare di Ligeia e di nuovo - né potrà stupirsi alcuno che io rabbrividisca nello scriverlo - di nuovo un singhiozzo soffocato venne a colpirmi l'orecchio dalla parte del letto. A che scopo, tuttavia, riferire, uno per uno, e così minuziosamente, gli inconcepibili orrori di quella notte? A che indugiare nel racconto particolareggiato di tutte le volte che, sin quasi al momento in cui l'alba grigia s'annunziò dietro i poggi lontani, non ebbe a ripetersi la spaventosa tragedia di quell'effimera resurrezione? A che riferire come ciascuna terrificante ricaduta serbava l'aspetto d'un trapasso più rigido e irrevocabile? A che dilungarsi su quelle successive agonie? Su quelle impari ed angosciate competizioni con un invisibile nemico? E come la fine di ognuna di esse fosse seguita da una cotale bizzarra alterazione della fisionomia? Io m'affretto a concludere, invece.
La maggior parte di quella terribile notte era trascorsa allorché colei - che era stata morta - si mosse nuovamente, e questa volta animata d'una maggiore vivacità, sebbene fosse desta da un disfacimento più orrendo e irreparabile. Avevo tralasciato ormai, da qualche tempo, di compiere qualsiasi tentativo e fino qualsiasi movimento. Restavo, così inchiodato al divano, preda d'un mulinello di feroci emozioni, tra le quali credo che la meno terribile, quella che meno delle altre cospirava a consumarmi, fosse quella, appunto, d'un supremo terrore. Il cadavere - lo ripeto - si mosse con molta più energia che l'usato. I colori le risalirono al viso con insolita vivacità. Le membra si lasciarono andare. E ove non fossero state le palpebre pesantemente ed ostinatamente abbassate, e il sudario che conferiva ancora, alla figura, un aspetto sepolcrale, io avrei sognato che Rowena si fosse liberata del tutto dai ceppi della morte. E se tuttavia neppure allora io accolsi quell'idea come veritiera, non potei più dubitarne al momento ch'ella si levò dal letto e, vacillando, a piccoli passi, cogli occhi ben chiusi e il portamento di chi sia tuttavia preso in un sogno prese ad avanzare, ravvolta nel suo drappo funebre, fino al centro della stanza.
Io non tremai - non feci il minimo movimento - nel mentre che una folla di immagini soverchianti l'umano potere dell'espressione ed intimamente legate all'aspetto, alla statura, al portamento di quella figura, traversandomi in furia il cervello, mi avevano paralizzato, mi avevano agghiacciato, mi avevano ridotto una pietra. Io non tremai, non feci il minimo movimento. Contemplavo l'apparizione. Un pazzo disordine abitava i miei pensieri. Un implacabile tumulto ne devastava l'intrico. Era proprio Rowena, viva, che mi stava ritta dinanzi? Proprio Rowena, Lady Rowena Trevanion of Tremaine, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri? E perché, perché io ne dubitavo? La funerea benda le serrava ben strette la mascelle: e come poteva quella bocca non essere la bocca della signora di Tremaine rediviva? E le gote? Oh! Esse serbavano proprio le rose che solevano avere nel tempo che la sua vita era in fiore. Esse erano difatto le rosee gote della Signora di Tremaine rediviva! Ed il mento? E la sua piccola fossetta? Perché non poteva essere il suo, di quand'essa era viva? Ma era dunque diventata più alta nel corso della sua malattia? E quale follia ch'io non riesco a esprimere non s'impadronì di me a quell'idea? Io ero già ai suoi piedi! Come ritraendoli dal mio contatto, essa lasciò che il lugubre lenzuolo che l'avvolgeva le cadesse dal capo. Ed ecco nell'aria convulsa della camera io vidi sciogliersi una grande massa di capelli in vivo disordine, madidi. Ed essi eran più neri delle ali di mezzanotte. E allora, lentamente, si aprirono gli occhi della figura che mi stava ritta dinanzi. «Eccoli dunque, infine!», io urlai. «Come posso sbagliarmi? Questi sono gli occhi, gli occhi pieni, neri, selvaggi... gli occhi del mio perduto amore... di Lady... di LADY LIGEIA!».


BERENICE


Dicebant mihi sodales, si sepulcrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas.
Ebn Zaiat

La miseria è molteplice. E la sventura sulla terra è multiforme. Essa difatti domina il largo orizzonte, simile all'arcobaleno e, come quello, è di vario colore, e consente alle diverse tinte, pur essendo tra loro fuse, d'essere l'una dall'altra distinta. Come l'arcobaleno, essa domina il largo orizzonte! E così, da una immagine di bellezza, io avrei tratto il paragone con una tale bruttura? Dal simbolo della pace io avrei tratta una similitudine col dolore? Eppure, allo stesso modo che nell'etica, il male è considerato come una conseguenza del bene, nella realtà delle cose è soltanto dalla gioia che nasce il dolore. O è la memoria della felicità trascorsa a formare l'angoscia del presente, ovvero sono le attuali agonie a essere originate da estasi, le quali avrebbero potuto essere.
Il mio nome di battesimo è Egaeus; quello di famiglia lasciate ch'io non lo scriva. Non esiste un castello più ricco di anni e di gloria della malinconica e antica dimora dei miei antenati. Essi sono sempre passati per una razza di visionari ed è indubitabile che in non pochi e rilevanti particolari, come ad esempio nel carattere della casa, negli affreschi del salone principale, nei parati delle camere da letto, nei lavori di cesello di taluni sostegni della sala d'armi, ma sopra tutto nella galleria dei quadri antichi e nella biblioteca e da ultimo nella natura degli specialissimi oggetti contenuti in questa, vi sia molto più di quanto occorra a giustificare una simile reputazione.
Le memorie dei miei primi anni d'infanzia sono intimamente collegate a quella sala e a quei libri dei quali, peraltro, non avverrà ch'io dica più nulla. È là che morì mia madre, è là che sono nato io. E nondimeno è del tutto ozioso affermare ch'io non abbia già vissuta un'altra vita, che l'anima mia non abbia avuta alcuna esistenza anteriore! Credete che non sia così? Ma non è luogo questo di discussioni per una simile materia: a me basta che sia convinto io; non tento affatto di convincere gli altri. Vi sono tuttavia talune memorie d'aeree forme, di occhi che dicono la loro spiritualità e melodiosi e mesti suoni ancora... memorie che non si lasciano cancellare, ombre vaghe, mutevoli, sfumate e non mai ferme un solo istante, come quell'ombra della quale non sarà concesso ch'io mi liberi fintanto che nel mio cervello sarà luce.
Io sono nato in quella camera. Nell'atto di ridestarmi dalla lunga notte di quel che sembrava - ma non era - la non esistenza, e nel trovarmi, d'un subito, in un magico paese, in un fantastico maniero, negli stravaganti dominii del pensiero e dell'erudizione monastica, non dovrebbe meravigliare ch'io mi sia guardato all'intorno con occhio vivido e impaurito... e che poi abbia logorata sui libri la mia infanzia e nei sogni la mia giovinezza... ma è singolare, invece, ch'io mi trovassi ancora nella dimora dei miei padri negli anni della virilità... ed è singolare ancora e, anzi, straordinario, come man mano le sorgenti della mia vita furono arrestate e spente dall'inazione, come una completa inversione nei miei più ordinati pensieri intervenne a confonderli... le realtà del mondo esterno m'impressionavano, infatti, soltanto come visioni e nulla più che visioni, nel mentre che le pazze fantasie che abitavano, invece, la regione dei sogni, eran divenute per me molto più che non la materia della mia esistenza quotidiana, esse eran divenute la mia esistenza di per se medesima, in assoluto.

Berenice ed io eravamo cugini, ed eravamo cresciuti assieme nelle sale del mio castello avito. Tuttavia crescemmo l'uno dall'altro assai diversi. Io ero di salute cagionevole e d'umore sempre melanconico, e lei invece, agile, aggraziata e nel pieno rigoglio della salute. A lei le corse pazze giù per la collina, a me gli studi severi, nel chiostro. Io non vivevo che nell'intimo del mio cuore, consacrando l'anima mia ed il mio corpo alla più estenuante meditazione, e lei, per contro, errava spensierata per la vita, senza preoccuparsi se mai calasse qualche ombra sul suo cammino, ovvero se volassero via silenziose le ore dalle negre ali di corvo. Berenice! Io invoco il suo nome. Berenice! E dalle grige rovine della memoria ecco destarmisi, a quel suono, mille tumultuanti immagini! Oh, come vivida è ancora dinanzi a me la sua figura qual era nei giorni della sua gioia e della sua fedeltà! O mirifica e pur fantasiosa bellezza! O silfide gentile fra i roveti d'Arnheim! O najade tra le sue acque! Ed oltre... oltre non c'è che orrore e mistero e, insomma, una storia che è meglio non raccontare. Un morbo, un fatale morbo s'abbatté su di lei come il vento infocato del deserto, e mentre io la stavo ancor riguardando, scorreva su di lei il sinistro spirito della sua trasformazione e invadeva l'essere suo e le sue abitudini, il suo carattere, e perfino alterava, nel più sottile e orribile dei modi, l'identità della sua persona. Venne, ahimè, il Distruttore! Venne e tornò via! E la vittima? Dov'era la vittima? Io non la conobbi più, voglio dire non la conobbi più come Berenice.
Tra i numerosi mali che seguirono quel primo e fatale, il quale tanto operò e così radicalmente a mutare il fisico e lo spirito di mia cugina, io ricordo che il più penoso ed ostinato fu una sorta di epilessia che terminava sovente in uno stato di trance, in tutto simile a una morte apparente, e dal quale accadeva, talvolta, ch'essa si riavesse d'un subito, con uno spasmodico sussulto.
Nello stesso tempo il mio male - quel male di cui, secondo ho già detto, non specificherò il nome e la natura - cresceva rapidamente e fini con l'assumere il carattere d'una monomania di nuova e straordinaria forma, la quale, d'ora in ora e di minuto in minuto, acquistava novello impulso, rinvigorendo, in me, la più misteriosa delle influenze. Tale monomania, s'io debbo definirla con questa espressione, consisteva in una morbosa irritabilità di quelle facoltà psichiche che la scienza ha convenuto di definire facoltà d'attenzione. Non sono sicuro d'esser compreso, a questo punto, ma temo davvero di essere nella più assoluta impossibilità di fornire al lettore medio un'idea esatta di questa sorta di nervoso acuirsi dell'interesse in virtù del quale, la mia facoltà di riflettere - per non usare un linguaggio tecnico - si fissava e si sprofondava nella contemplazione dei più volgari oggetti materiali.
Meditavo, in tal modo, senza stancarmi, per ore intere, avendo tutta la mia attenzione concentrata su una qualche puerile notazione sul margine ovvero nella pagina d'un qualsivoglia volume... restavo interamente assorto, durante una lunghissima parte del giorno, in un'ombra bizzarra che il sole moribondo disegnava obliquamente sui damaschi polverosi e sul tappeto tarlato... e mi perdevo, inoltre, intere notti, con l'occhio fisso al palpito della fiammella d'un lume, ovvero alle braci rosseggianti del camino... e ancora, per giorni e giorni, fantasticavo sul profumo dei fiori... o ripetevo con esasperante monotonia, una parola tutt'affatto banale... e la ripetevo tanto e poi tanto che essa finiva per ispogliarsi totalmente d'ogni larva di umano significato... e così perdevo ogni senso del movimento, come pure dell'esistenza fisica, prolungando ostinatamente un ozio assoluto...
Tali furono le più ordinarie e le meno dannose fra le aberrazioni cui s'abbandonò la mia mente ed il mio spirito: non del tutto, al certo, eccezionali, e nulladimeno al di fuori d'ogni spiegazione o analisi. Ma io non voglio essere frainteso. L'attenzione avida, morbosa e del tutto anormale che era in tal modo eccitata in me dai più comuni e futili oggetti, non va in alcun modo scambiata con quella disposizione dell'animo d'andar ruminando tra sé le proprie doglie, la quale è comune a tutto l'uman genere ed in special modo alle persone afflitte da una vivace immaginazione. La mia non era, quindi, una condizione puramente esterna o una esagerazione di quella tendenza: essa, al contrario, si distingueva dall'altra così per l'origine come per l'intima essenza, le quali erano del tutto opposte. In quel primo caso, il sognatore - ovvero l'esaltato, se così si vuol definire - il quale ha l'interesse risvegliato, solitamente, da oggetti di non futile natura, perde di vista, appunto, cotesto interesse, col mezzo d'innumeri deduzioni o supposizioni che a quello si riferiscono, fintantoché, al termine d'una giornata trascorsa a sognare, la quale è spesso piena di piacere discopre che l'incitamento - e cioè la causa prima e origine di tutte le sue divagazioni - è del tutto svanito e come straniato dalla mente. Nel caso mio, al contrario, il punto di partenza era costantemente frivolo anche se, alterato dalla mia fantasia sovreccitata, finiva coll'assumere, per riflesso, un'irreale consistenza. Seppur mi accadeva di farne, io ero pochissimo propenso alle deduzioni, e quelle poche in cui m'imbrogliavo tornavano con ostinazione, sempre e sempre, sull'oggetto di partenza come su di un centro magico d'attrazione. Tali meditazioni non erano mai piacevoli e, al dileguarsi di quelle chimeriche fantasie, anziché disperdersi ancor essa, la causa principale ed originatrice di esse raggiungeva quell'interesse soprannaturale ed esagerato che era la prima caratteristica del mio male. Le facoltà, in breve, che venivano più facilmente eccitate in me, erano quelle dell'attenzione al contrario di quelle che sono eccitate nel sognatore comune, le quali sono puramente speculative.
Seppure non erano causa diretta nello stuzzicare quel mio male segreto, è fatale che i libri, per la loro stessa fantastica ed inconseguente natura, partecipassero, nella maniera più ampia, a svilupparne le peculiari caratteristiche. Io rammento bene, tra gli altri, il trattato De amplitude beati regni Dei del nobile italiano Coelius Secundus Curio, come pure il capolavoro di Sant'Agostino, La città di Dio, e quello di Tertulliano De carne Christi, il cui paradossale pensiero, Mortuus est Dei filius; credibile est quia ineptum est; et sepultus resur rexit; certum est quia impossibile est, assorbì per più settimane, in laboriose e sterili investigazioni, il mio povero tempo.
Appare, in tal modo, evidente come la mia ragione, messa a repentaglio dai più futili motivi, potesse paragonarsi a quella rupe di cui dice Tolomeo Efestione, la quale resisteva ad ogni umana violenza e al più orribile infuriare delle acque e dei venti, come una torre saldamente radicata nel terreno, epperò, non appena tocca dal fiore che vien detto asfodelo, vacillava fin dalle scaturigini.
Potrà sembrare ovvio, ad un superficiale pensatore, che la terribile alterazione prodotta dalla malattia sulle condizioni spirituali di Berenice, fornisse, a me, non poco incremento per una intensa meditazione, quella medesima della quale ho potuto testé definire la natura soltanto in modo eccessivamente complicato e confuso. Non era così, invece. Negli intervalli che la mia malattia consentiva alla lucidità, quella sventura mi colmava di pena e come io prendevo a cuore, nel più partecipe dei modi, la compiuta rovina della bella e dolce Berenice, non mancavo, sovente, di riflettere con amarezza, al modo misterioso per il quale era avvenuto in lei un sì strano rivolgimento. Queste riflessioni non partecipavano, però, dell'idiosincrasia del mio male ed eran le medesime, anzi, che sarebbe avvenuto di fare alla media degli uomini, in circostanze analoghe. La mia infermità, fedele alla propria natura, faceva presa sui meno importanti - epperò più repentini - mutamenti che avvenivano nel fisico di Berenice e cioè sulla singolare e paurosa alterazione che subiva la sua personale identità.
Io ero sicurissimo, nei più radiosi giorni della sua bellezza, la quale era al di fuori d'ogni paragone, che non mi era mai accaduto d'amarla. Sono, infatti, in grado di affermare, con tutta certezza, che per le strane anomalie della mia natura, i miei sentimenti non furono mai originati dal cuore e le mie passioni ebbero sempre ad accendersi soltanto nel mio cervello. Nel grigio annuncio dell'alba, nel meriggio, traverso ai foschi tralicci d'ombre della selva, e ancora, la sera, nel silenzio della mia biblioteca, Berenice m'era balenata dinanzi agli occhi ed io l'avevo veduta non già quale era da viva e col respiro sulle labbra, ma come una Berenice di sogno; non una creatura terrestre fatta di carne, l'astrazione, bensì, d'una tale creatura. E non una creatura da contemplare ed ammirare: da studiare, invece. Non tema d'amore, infine, ma di astrusa e strampalata speculazione. Ed eccomi dinanzi a lei, in preda a un tremore violento e convulso, Pallido al suo accostarsi, epperò dolente della sua condizione e sventura. Poiché essa mi aveva lungamente amato, com'io potei, infine, rammentarmi e, in un maligno istante, io le avevo anche parlato di sposarla.
S'avvicinava l'epoca fissata per le nostre nozze ed ecco, in una sera d'inverno, ma calda per la nebbia stagnante delle giornate care ad Alcione, io sedevo - credendo d'essere solo - nella mia biblioteca. E come sollevai gli occhi da un volume nel quale ero immerso, vidi Berenice, ritta innanzi a me.
Era la mia immaginazione sovreccitata, ovvero soltanto un effetto dell'atmosfera nebbiosa dei paraggi, o l'incerta Penombra che regnava nella stanza, o ancora i drappi grigi dei quali ella s'era avviluppata la persona che rendevano tanto sfumato il suo profilo? Non posso affermarlo con certezza. Ella non disse parola ed io non avevo parimenti l'animo di rivolgerle in quel punto alcuna domanda. Un brivido ghiacciato mi corse giù per la schiena e, nel mentre che ero oppresso da una sensazione d'insoffribile ansietà, mi sentii penetrar l'animo d'una curiosità divorante. Mi abbattei su una sedia e rimasi per qualche istante immobile, con gli occhi sbarrati, fissi su di lei. La sua magrezza, ahimè, era estrema e non le appariva indosso alcun segno di ciò che essa era stata un tempo, neppure in uno solo dei suoi lineamenti. Il mio sguardo allucinato si posò infine sul suo volto. La fronte era alta, pallidissima e stranamente calma; i capelli che le ricoprivano, un tempo, ombreggiandole, le scarne tempie d'innumerevoli anella nere come l'ebano s'andavan trasformando, ora, in un biondo rossiccio la cui apparenza fantastica formava uno stridente contrasto con la mestizia cui era ispirata tutta la sua fisionomia. Senza più vita e splendore, i suoi occhi sembravano non avessero più le pupille, per modo ch'io distolsi il mio sguardo di su quella vitrea immobilità e lo posai sulle sue labbra sottili che apparivano, in quel punto, contratte. Ed esse s'aprirono e, con un riso il quale apparve subito carico di mille significati, i denti della nuova Berenice furono lentamente rivelati alla mia vista. Così volesse il Cielo che io non li avessi mai veduti!... O che almeno, una volta veduti, io non fossi d'un subito morto!

Il rumore d'una porta richiusa mi scosse da una sorta di torpore e, buttato uno sguardo in giro per la biblioteca, mi accorsi che mia cugina l'aveva abbandonata. Ma il mio cervello, eccitato e sconvolto, non sarebbe mai stato abbandonato dal bianco e sinistro spettro di quei denti. La loro superficie non presentava alcuna screpolatura, non alcuna ombra il loro purissimo smalto, sul loro filo non era il minimo intacco! Era stato sufficiente quel suo breve riso a fissarmene per sempre l'immagine nella memoria. Ed io potevo vederli, ora che essa non era più dinanzi a me, assai più distintamente di quanto non li avessi già visti nella realtà... quei denti, oh! quei denti... erano da per tutto, visibili davanti a me, ed io potevo perfino toccarli... lunghi erano e stretti, e terribilmente bianchi, nel mentre che le pallide labbra si contraevano sopra di essi, come nell'istante in cui mi si rivelarono per la prima volta. Fui nuovamente posseduto, così, dalla furia della mia monomanìa e fu invano che lottai per sottrarmi al suo strano ed irresistibile influsso. Ed arrivai a non esser capace di nutrire alcun altro pensiero che fosse estraneo a quei terribili denti. Provavo, per essi, un frenetico desiderio e, come se fosse assorbita da quella particolare contemplazione, sparve ogni altra materia d'interesse. Essi ed essi soli furono ognisempre, d'allora, presenti all'animo mio e in quella loro singolare individualità divennero come l'intima essenza della mia vita spirituale. Io, per l'intanto, li andavo considerando in ogni loro aspetto, studiavo le loro caratteristiche e indugiavo a riflettere sulla loro conformazione, meditavo sulle alterazioni della loro pàtina e rabbrividivo al pensiero che potessero esser dotati di sensibilità e come d'una facoltà di sentire ed ancora, sebbene fossero privi delle labbra, d'una capacità di espressione morale. Furori dette molte cose a proposito di Mademoiselle Sallé, «que tous ses pas étaient des sentiments», e, di Berenice, io credetti sul serio que tous ses dents étaient des idées. Des idées!... Ecco lo sciocco pensiero che mi annientava! Des idées!... Era forse solo per questo che io ero portato fino a idolatrarli! Io sentivo che soltanto se li avessi posseduti avrei ritrovata la mia pace, sarei tornato sullo smarrito sentiero della ragione.
E la sera si chiuse in tal modo su me e vennero le tenebre, soggiornarono e poi se ne andarono e spuntò un altro giorno e nuovamente le notturne ombre si raccolsero e ancora s'addensarono, ma io restavo seduto, senza muovermi, solo, nella mia stanza, ed ero assorto completamente a meditare, nel mentre che il terribile fantasma dei denti di Berenice manteneva su me la sua sinistra influenza e volteggiava attorno a me, variando in una con l'alternarsi della luce e dell'ombra.
Ma tra quei sogni avvenne, a un tratto, che irrompesse un grido, simile a quello di un'anima sopraffatta dal terrore e, dopo una pausa, avvenne che gli tenesse dietro un suono d'afflitte e meste voci e di sordi, dolorosi e affannosi lamenti. Mi drizzai, d'un subito, in piedi, e spalancata una delle porte della biblioteca, vidi nell'anticamera una fante che, sciogliendosi in pianto dirotto, mi narrò come Berenice non fosse più.
Essa era stata colpita, all'alba, da un attacco di epilessia. Giunta la sera, il sepolcro attendeva l'ospite sua. Ed ogni cosa era preparata per la funebre cerimonia.

Ero nuovamente seduto nella mia biblioteca ed ero solo. E ancora credevo d'essermi desto da un sogno angoscioso e non bene chiaro. Sapevo che la notte era, in quel punto, al suo mezzo, e che Berenice era stata inumata al calar del sole. E nondimeno, dei paurosi istanti ch'eran seguiti, non riuscivo a ricordar nulla. La mia memoria era piena soltanto del terrore, il quale era tanto più orribile in quanto era vago e in quanto, del pari, esso era ambiguo. Una paurosa pagina della mia vita era stata scritta con oscure e indecifrabili memorie di raccapriccio. Tutti i miei sforzi intesi a decifrarla furono invano, epperò, di tanto in tanto, come lo spirito d'un suono svanito, il grido penetrante d'una voce femminile sembrava risonare alle mie orecchie. Avevo fatto qualcosa. Ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce e sempre l'eco della stanza bisbigliava, in risposta, che cosa?
Sul tavolo accanto a me, ardeva un lume e vicino ad esso era una piccola scatola. La sua foggia non presentava nulla di notevole ed io l'avevo già veduta altre volte, prima d'allora, poiché essa apparteneva al medico della mia famiglia. Ma quale poteva essere la ragione per cui essa era là, sul mio tavolo? E sopra tutto, perché rabbrividivo, nel guardarla? Eran cose, per certo, a cui non metteva conto di far caso e i miei occhi caddero, così, sulla pagina aperta d'un libro, su una frase che in essa era stata sottolineata. Erano alcune semplici e pur tuttavia singolari parole del poeta Ebn Zaiat: «Dicebant mihi sodales, si sepulchrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas». Ma perché, nel mentre che io scorrevo, i capelli mi si drizzavano sul capo ed il sangue mi si agghiacciò nelle vene?

Ed in quel punto s'udì un picchio lieve alla porta della biblioteca e un famiglio si fece innanzi, in punta dei piedi, ed era più pallido che l'ospite d'una tomba. Il suo occhio era stravolto dal terrore e la sua voce era tremante, rauca, bassissima. Che cosa disse? Udii solo delle frasi rotte. Egli raccontò d'un urlo selvaggio che aveva incrinata la silenziosa pace della notte e come l'intera servitù si fosse adoperata a ricercare nella direzione da cui il grido sembrava scaturito e la sua voce, a questo punto, si fece più chiara e penetrante e mi sussurrò all'orecchio d'una tomba violata e d'una spoglia sfigurata cui era stato tolto il sudarlo... e d'essa che ancor respirava, che ancor palpitava... che era ancor viva!
Puntò un dito sul miei abiti. Essi erano lordi di fango e di sangue. E mi prese dolcemente una mano, come per mostrarmela, ed io vidi che su di essa erano impressi i segni di unghie umane. E poi richiamò la mia attenzione su di un oggetto poggiato al muro. Mi volsi a guardarlo: era una vanga.
Scattai, allora, in piedi e mi diressi urlando verso la tavola: e afferrai la scatola che era vicina al lume. Ma non riuscii ad aprirla e poiché tremavo in tutte le giunture, essa mi scivolò di tra mano e cadde in terra, pesantemente, e si ruppe in pezzi e da essa, con uno strepito che risonò per tutta la casa, rotolaron fuori degli strumenti di chirurgia dentaria e ancora, mescolati a quelli, trentadue piccole bianche cose simili all'avorio, ed esse si sparpagliarono qua e là, per terra.


IL CROLLO DELLA CASA USHER


Son coeur est un luth suspendu;
Sitôt qu'on le touche, il résonne.
De Béranger

Lungo un'intera fastidiosa giornata d'autunno, buia e senza suono, come quando le nubi pesano basse in cielo, io avevo cavalcato, solitario, attraverso una regione campestre singolarmente lugubre fino a che mi ritrovai, al calar dell'ombra serale, in vista della malinconica casa degli Usher. Non rammento bene il perché e il come, ma non appena l'ebbi guardata, l'animo mio fu subito posseduto da un sentimento insoffribile di tristezza. Insoffribile, dico, da che non le si univa alcun sentimento poetico, il quale rende quasi piacevoli, allorché le accompagna, anche le immagini naturali più sinistre per la desolazione e l'orrore. Rimiravo la scena che m'era dinanzi: e lo spettacolo di quella casa e di quel paesaggio che le era attorno, le mura fredde, le finestre riguardanti come orbite vuote, gli sparsi càrici selvaggi, i tronchi candidi e fatiscenti di alcuni alberi, mi comunicarono un tale estremo avvilimento che solo potrei paragonare alle sensazioni terrene del fumatore d'oppio allorché ritorna amaramente alla realtà quotidiana e assapora l'orribile momento del velo che dilegua. Era come un gelo al cuore, un'oppressione, un malessere. E un insidioso e invincibile orrore che abitava il pensiero e lo rendeva sterile e impedito a secondare qualsiasi sforzo dell'immaginazione. Ed io ristetti per chiedermi allora che cosa mai rendesse tanto sconsolata la vista della casa Usher. E tuttavia non sapevo rispondermi, né pervenivo a rendermi ragione delle nebbiose fantasie che m'affollavano la mente. Per modo che fui costretto a fermarmi alla poco soddisfacente conclusione che vi sono combinazioni d'oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere d'avvilirci a tal segno, sebbene l'analisi d'un simile potere si fondi su un sistema di ragionamenti cui la nostra penetrazione si rifiuta. E ripensavo, tra me, ancora, che forse qualche mutamento della scena, ovvero dei suoi particolari, sarebbe stato bastevole a correggere o fors'anche a cancellare del tutto il potente richiamo di quella penosa impressione. Seguendo un tale ordine di pensieri, condussi il mio cavallo sulla riva scoscesa d'un lugubre stagno le cui acque morte specchiavano, nel loro negro lucore, l'edificio e il paesaggio attorno. Mi sporsi a guardare ma ne ritenni un ancor più profondo sentimento di desolazione, da che vidi, capovolte, le immagini cineree dei càrici, dei tronchi, rinsecchiti e spogli, delle occhiaie vuote di quelle mute finestre.
Era in quella malinconica dimora che mi disponevo, tuttavia, a trascorrere alcun tempo. Il suo padrone, Roderick Usher, era tra i miei più cari compagni dell'infanzia, quantunque molti anni fossero passati dal nostro ultimo incontro. Una sua lettera, nondimeno, m'aveva raggiunto in una lontana parte del paese e l'intonazione disperata di quella non comportava risposta diversa dalla mia presenza effettiva. Con una calligrafia che tradiva una nervosa agitazione, Usher m'informava d'una sua acuta malattia fisica, d'uno squilibrio della mente che lo devastava e d'un desiderio feroce di rivedermi, mentre mi chiamava il suo migliore, il suo unico amico. Egli contava trovare un qualche sollievo dal suo male nella felicità che gli avrebbe arrecata, appunto, la mia presenza. Fu il tono di quelle e d'altre molte parole ancora, e l'impressione che provenissero dal profondo del cuore che loro s'univa, a troncare ogni mia esitazione. Per modo che io ubbidii senz'altro, ancorché preda di una stupita sorpresa, a quel bizzarro richiamo.
Quantunque, da ragazzi, fossimo stati uniti da una certa intimità, io conoscevo assai poco del mio amico dal momento che egli aveva sempre tenuta l'abitudine a un gremito riserbo. Non m'era ignoto, tuttavia, che la sua antica famiglia s'era distinta, da tempo immemorabile, per una peculiare sensibilità del temperamento, messo a prova, attraverso i secoli, in numerose opere di superiore arte e manifestato, di recente, in ripetute caritatevoli azioni, munificenti quanto discrete, come pure in una appassionata devozione agli intrichi, più, forse, che alle ortodosse e facilmente riconoscibili bellezze della scienza musicale. Non ignoravo, ancora, il fatto piuttosto rimarchevole che la schiatta gloriosa degli Usher non aveva mai prodotti, al suo albero genealogico, rami durevoli e che l'intera famiglia, in altre parole, salvo rare ed effimere eccezioni, s'era svolta totalmente nella sua discendenza diretta. Era questa deficienza, pensavo tra me, considerando l'identità del carattere dell'edificio e quello ben noto della loro schiatta e fantasticando sull'influenza che l'uno, in così lungo trascorrere di anni, aveva potuto esercitare sull'altro, era questa deficienza, forse, di rami collaterali e la conseguente rigida trasmissione, di padre in figlio, del patrimonio col nome, che aveva, infine, identificati i due, fino a trasformare l'originario titolo della proprietà nello strano ed equivoco nome di «Casa Usher», un nome che sembrava includere, nella mente dei contadini dei dintorni, entrambe: la famiglia e la magione sua.
Io ho già detto che l'unico risultato del mio esperimento, abbastanza infantile del resto - di guardar giù nello stagno - era stato di accrescere la prima singolare impressione. Né può sussistere alcun dubbio che la coscienza del rapido intensificarsi di quella mia superstizione - perché chiamarla altrimenti? - aveva servito principalmente, esso stesso, ad accelerarla e approfondirla. Cotesta, secondo io sono avvertito da tempo, è la legge paradossale di tutti i sentimenti che hanno il terrore alla propria base. E può essere soltanto per questa ragione che, quand'io levai soltanto gli occhi all'edificio, dal riflesso che avevo contemplato fin lì, nello stagno, mi crebbe nella fantasia un'immagine strana, un'immagine talmente ridicola perfino, che la registro soltanto per dar l'idea della viva potenza delle sensazioni che m'opprimevano. Il lavorio eccitato della mia immaginazione mi rappresentò, dunque, che attorno all'edificio e alla proprietà fosse sospesa un'atmosfera particolare, propria appunto all'edificio e alle sue vicinanze, un'atmosfera che non aveva nessuna affinità coll'aria celeste, ma che esalava dagli alberi spogli e rinsecchiti, dalle mura grigiastre e umide, dallo stagno silenzioso, un vapore, insomma, misterioso e pestilenziale, fosco, fermo, plumbeo e appena visibile.
Respingendo dall'animo mio ciò che doveva essere soltanto un sogno, m'industriai di meglio esaminare l'aspetto della costruzione. Il suo carattere principale sembrava consistere in una estrema decrepitezza. Lo scolorimento prodotto dagli anni era rimarchevole. Fungosità minute rivestivano la faccia esteriore e la tappezzavano, a partir dal tetto, come una stoffa finemente trapunta. Tutto ciò non aveva provocato alcun deterioramento straordinario. Nessuna parte della costruzione era diroccata e sembrava che vi fosse una strana contraddizione tra la consistenza generale dell'insieme e il deterioramento delle singole i pietre, la quale mi rammentava, al tutto, l'integrità speciosa d'un qualche vecchio tavolo lasciato a imputridire in una cantina dimenticata, lungi dal soffio dell'aria esterna. A parte l'indizio di questa corrosione, l'edificio non dava alcuna sensazione di fragilità: soltanto l'occhio, forse, d'un minuzioso osservatore avrebbe scoperto una fessura, appena visibile, la quale, partendo dal tetto, correva a zig-zag il muro della facciata e andava a perdersi nelle lugubri acque dello stagno.
Avevo cavalcato, così, osservando tali fenomeni, lungo un breve rialzo del terreno che menava all'entrata. Un guardiano che aspettava mi prese in quel punto il cavallo ed io passai sotto l'arco gotico dell'atrio. Un domestico dal passo furtivo mi condusse, senza dir parola, attraverso un labirinto di passaggi oscuri e intricati verso lo studio del suo padrone. Gran parte di ciò ch'io incontravo avanzando, serviva, non so bene in che modo, a confermare le vaghe impressioni di prima, quantunque gli oggetti framezzo a cui dirigevo il passo, - i cupi arazzi che pendevano dalle pareti, i pavimenti d'ebano, i soffitti intarsiati, i fantasmagorici trofei le cui armature cigolavano al mio passaggio - fossero quelli, ovvero del tutto simili a quelli, cui avevo l'abitudine fin dall'infanzia. Quantunque io non esitassi a riconoscere tutto ciò che vedevo per familiare, esso, per contro, destava in me delle immagini che non lo erano affatto ed erano anzi, per me, causa continua di stupore. Incontrai lungo una scala il medico di casa. Ebbi l'impressione che la sua fisionomia esprimesse una maligna furberia, bassa e trepida insieme, e al momento di passarmi dinanzi, prima di scomparire, che esitasse incerto. Il domestico, in quell'istante, aprì una porta e m'introdusse alla presenza del suo padrone.
La stanza in cui mi trovai era assai ampia, e il soffitto molto distante. Le lunghe sottili finestre gotiche erano così rialzate dal nero pavimento di quercia ch'era assolutamente impossibile accedervi. Deboli bagliori d'una luce vermiglia si facevano strada attraverso i graticci delle impannate e lasciavano a malapena distinguere gli oggetti all'intorno. L'occhio frugava, invano, per quella tenebra, a ricercare gli angoli remoti della stanza o i recessi della vòlta intagliata. Oscuri arazzi pendevano anche qui dalle pareti. Il mobilio era profuso ma freddo, antico, ingombrante e logoro. Libri e strumenti musicali erano sparsi numerosi da per tutto e pur non riuscivano a ravvivare in nulla l'ambiente. M'accorsi allora ch'io respiravo un'aria addolorata. Un'aria di profonda, cupa, irrimediabile tristezza che sovrastava e invadeva tutto.
Al mio entrare, Usher si levò di su un divano sul quale era sdraiato e mi accolse con una vivace effusione che lì per lì mi seppe di cordialità esagerata, dello sforzo penoso dell'uomo di mondo ennuyé. E bastò, nondimeno, ch'io lo guardassi in volto per convincermi ch'era sincero. Sedemmo, e per un certo tratto, poich'egli taceva, lo contemplai con un misto di paura e di commiserazione. In così poco tempo, non c'è dubbio, a nessun uomo è mai accaduto di operare un tal mutamento nell'aspetto come quello, orribile, ch'era occorso a Roderick Usher! Ed io potevo persuadermi a stento che l'immagine spettrale che stava dinanzi a me e il compagno della mia infanzia eran tutt'uno. Il carattere della sua faccia era stato peraltro, fin d'allora, singolare. Il pallore cadaverico, l'occhio largo, liquido e luminoso al di là d'ogni paragone, le labbra sottili e smorte, eppur meravigliosamente incurvate, il naso di stampo ebraico, ma assai delicato e dalle narici ampie che s'accordano raramente con quella forma, il mento modellato con eleganza, ma che, per essere un tantino sfuggente, tradiva una mancanza d'energia morale, i capelli d'una morbidezza e d'una sottigliezza da sembrare fili di ragno; tutti questi tratti, insomma, ai quali bisogna aggiungere uno sviluppo frontale eccessivo, gli conferivano una fisionomia che non era più possibile dimenticare. E tuttavia il cambiamento intervenuto, ora, in quelle caratteristiche già di per se stesse esagerate, era così intenso ch'io dubitavo persino di parlare proprio a lui. Il pallore, ora, del suo volto, simile a quello d'una parvenza di fantasma e il sorprendente splendore dello sguardo, mi colpirono e mi intimorirono sopra tutto il resto. Egli aveva lasciato, inoltre, che i suoi capelli, morbidi e setosi, crescessero a piacer loro, in una sorta di spuma filacciosa e selvaggia che gli aleggiava attorno al capo, così che io non ero capace di riferire quella immagine d'arabesco, per quanti sforzi facessi, a una qualsiasi idea di semplice umanità.
Così, nel comportamento del mio amico, ravvisai subito alcunché d'incoerente ovvero di inconsistente, e ben presto mi accorsi d'onde proveniva e cioè da un tentativo continuato, ma debole ormai e senza speranza, di dominare e ammansire un'abituale tremore, una angosciata agitazione nervosa. A questo mi aveva preparato, del resto, non solo la sua lettera: alcun ricordo, bensì, della sua infanzia, oltre a tutto ciò che si poteva dedurre dalla sua particolare conformazione fisica e dal suo temperamento. Vivacità e fiacchezza s'erano sempre alternate nei modi di Usher. La sua voce, che si perdeva, spesso, come in un tremito d'incertezza - allorché sembrava che l'avessero abbandonato persino gli spiriti vitali - saliva e si consolidava in tono energico e stringato e la sua pronuncia diveniva dura e tagliente, compatta e insieme sorda, e l'articolazione dei suoni riusciva perfettamente modulata, simile a quella che si osserva nei più disperati bevitori, negli oppiomani più incorreggibili, all'epoca dei loro più intensi eccitamenti.
Egli m'intrattenne, allora, attorno alle ragioni della mia visita e al desiderio prepotente che l'aveva preso di rivedermi e al conforto che confidava di trovare in me. E discorse anche, a lungo, di ciò che costituiva, secondo lui, la natura del suo male. Egli riteneva che fosse un'atavica irrimediabile malattia. Poi soggiunse, immediatamente, che era una semplice affezione nervosa e che sarebbe ben presto guarita. Si manifestava in una quantità di sensazioni anormali. Mentre egli me le elencava, io ne rimanevo interessato e insieme turbato: ma forse solo per il tono della sua voce, e il modo di narrarle. Egli soffriva d'una iperacutezza dei sensi addirittura morbosa: riusciva a tollerare soltanto taluni cibi quasi privi di sapore, a vestirsi soltanto di certe determinate stoffe; il profumo dei fiori lo soffocava, la più debole luce gli torturava gli occhi e qualsiasi suono - salvo, forse, certuni di strumenti a corda - lo agghiacciava di spavento.
Compresi che era lo schiavo impotente d'una strana forma di terrore.
«Io morirò», disse, «io devo morire di questa pazzia maledetta. Così, così e non altrimenti io sarò perduto. Se ho paura di ciò che è per venire, è solo per i suoi risultati. Mi dà i brividi pensare che un accidente qualsiasi, anche il più banale, può avere incalcolabili conseguenze su questa anima mia agitata e tremebonda. Io non provo timore del pericolo ma solo per la sua conseguenza naturale e sicura: il terrore. In questo mio triste stato, impotente come sono, io sento d'andare incontro, presto o tardi, a quell'istante in cui la vita e la ragione m'abbandoneranno a un tempo dibattendosi entrambe contro il lugubre fantasma PAURA».
Attraverso confidenze balbettate ed ambigue, seppi, a poco a poco, anche d'un altro strano aspetto della sua condizione mentale. Egli si sentiva legato a superstiziose impressioni circa la sua dimora, dalla quale non aveva più osato uscire da anni ormai, circa un influsso della cui potenza egli mi disse con parole troppo oscure perché io le possa riferire, ma del quale compresi che era come emanato da talune caratteristiche della forma e della materia stessa della casa avita, un influsso che, tormentandolo a poco a poco, con lunghe, snervanti agonie, pioveva nel suo spirito, dal fisico delle grige mura, dalle torri e dal livido stagno in cui si riflettevano.
Egli ammetteva, nondimeno, esitando, che una gran parte della sua stravagante melanconia gli proveniva da una causa assai più semplice e naturale, dalla malattia cioè, lenta e feroce, dall'evidente avvicinarsi della morte d'una sua sorella adorata, unica compagna per molti anni, unica parente rimasta in terra. «La sua morte», egli proseguì, con tale accento amaro che non m'avverrà mai di scordarlo, «mi lascerà ultimo e solitario della razza degli Usher: io solo, fragile e disperato». Mentr'egli parlava, Lady Madeline - questo era il nome della sorella - passò lentamente nel fondo della stanza e scomparve poco appresso come se non m'avesse neppur visto. Fui preso insieme da gran meraviglia e timore: né riuscii a rendermi conto esatto di queste sensazioni. Un senso di stupore s'impadroniva di me, intanto, mentre io seguivo i passi di lei che s'allontanava ed allorché, alle sue spalle, una porta fu chiusa, i miei occhi ricercarono, con istintiva ansia, quelli del fratello; ma egli aveva seppellito il volto tra le mani e solo potei accorgermi d'una anormale bianchezza che gli s'era appresa alle dita affilate e bagnate di pianto.
La malattia di Lady Madeline si burlava, da tempo ormai, della scienza medica. Le sue caratteristiche più strane consistevano in una ostinata apatia, in un progressivo deperimento e sfinimento dello spirito, interrotti da rapide e frequenti crisi d'una sorta di catalessi parziale. Ella aveva portato con fermezza il suo peso fino a quel momento e non s'era rassegnata a porsi in letto. E tuttavia, alla fine della mia prima serata nella casa - come suo fratello mi disse, la notte, con immensa agitazione - le bisognò cedere alla potenza del male. Ed io seppi, così, che non sarebbe, probabilmente, mai più comparsa alla mia vista e che almeno, da viva, non l'avrei più riveduta.
Durante alcuni giorni, né Usher né io pronunciammo il suo nome. Non mi risparmiai, in questo frattempo, per tentare di confortare l'amico mio e così leggevamo, ovvero dipingevamo ed io ho ascoltate, più d'una volta, come perduto in sogno, le selvagge e sfrenate improvvisazioni della sua eloquente chitarra. E più la nostra crescente intimità mi permetteva di conoscere l'animo di lui, più mi rendevo conto di quanto amaramente inutili fossero gli sforzi per restituire la salute a un'anima dalla quale il buio, come una sua peculiare e positiva caratteristica, si riversava all'intorno, in una irradiazione luttuosa e incessante, sopra tutti gli oggetti del mondo fisico e morale.
Il ricordo delle lunghe ore ch'io ho passate, a faccia a faccia, col padrone della casa Usher, non m'abbandona più. Eppure invano tenterei di riferire esattamente la natura degli studi e delle occupazioni nelle quali egli mi trascinava. Una morbosa spiritualità illuminava gli oggetti come d'una luce sulfurea, mentre Usher improvvisava delle lunghe nenie che risoneranno eternamente alle mie orecchie. Rammento, in modo del tutto particolare, tra queste, una singolare perversione e amplificazione del selvaggio tema nell'ultimo valzer di Weber. Quanto, poi, alla pittura che nasceva dall'ardore e dal tormento della sua immaginazione e che io scorgevo, man mano, concretarsi in tocchi e pennellate successive, in forme bizzarre che più non riuscivo a comprendere e più mi mettevano i brividi, quanto alla sua pittura, quantunque io ne ritenga tuttavia l'immagine viva nella rètina, non sarei capace di ridurne che una parte, nel giro di compasso della parola scritta. Quel pittore afferrava e teneva avvinta l'attenzione con una estrema semplicità e addirittura nudità di mezzi. Se mai un mortale riuscì a dipingere un'idea, quel mortale fu Roderick Usher. È indubitato, comunque, che per me - in quelle particolari circostanze - dalle astrazioni che il mio triste amico si accaniva a dipingere si sprigionava una irresistibile impressione di terrore, tale che io non ho nemmeno provata nel contemplare le pur incandescenti ma troppo concrete fantasticherie di Fuseli.
Una soltanto, forse, tra queste rappresentazioni fantastiche di Usher, perché meno rigorosamente astratta, può venire, in certo modo, adombrata nelle parole. Era una piccola tela che figurava un interno di cantina, ovvero d'un sotterraneo rettangolare, lunghissimo, dalle pareti basse, bianco, liscio, senza interruzioni né veruno ornamento. Alcuni particolari servivano a far capire che esso era situato a una enorme profondità sotto la superficie della terra: non c'erano uscite, lungo quell'interminabile canale, né torce, né altre sorgenti di luce ma un fiume d'imcomprensibili raggi lo riempiva tutto d'uno splendore spaventevole e assurdo.
Ho già detto come il nervo auditivo dell'infelice mio compagno non tollerasse altra musica che quella di certi strumenti a corda. Io credo, così, che i limiti appunto cui questa affezione lo costringeva gli avevano imposto la chitarra che, a sua volta, provocava la bizzarria delle sue composizioni. Eppure ciò non spiegava la fervida felicità dei suoi impromptus. Così la musica, come le parole, delle sue selvagge fantasie - giacché egli usava spesso accompagnarsi alla chitarra con dei versi - dovevano essere, ed erano infatti, il risultato d'una intensa concentrazione delle forze dello spirito la quale, come ho detto sopra, si ottiene in alcuni particolarissimi istanti della acuta eccitazione artificiale. Nella mia memoria, ho potuto facilmente ricostruire le parole d'una di coteste rapsodie. Esse, al momento che furono udite da me la prima volta, mi impressionarono oltre misura poiché, nel loro profondo o, per così dire, mistico significato credetti sentire per la prima volta, una piena coscienza, da parte di Usher, che la sua ragione si stava oscurando. Quella composizione era intitolata Il palazzo stregato e i suoi versi, se non proprio alla lettera, sonavano press'a poco così:

I

Nella più verde delle nostre valli
Che da angeli benigni era abitata
Un maestoso castello ergea la fronte
Bella e splendente un dì. Di Re Pensiero
Nei domini s'ergea. Mai serafino.
Sopra il compagno dispiegò le piume
Che, a mezzo sol, di lui fosse più bello.

II

Fulvi, splendenti, gli stendardi d'oro
Sul tetto palpitavan fluttuando -
Ma tutto questo era nel tempo andato! -
Ogni aura gentile che alitava
Nella dolce stagione, sui bastioni
Impennacchiati e pallidi, lasciava
Un alato profumo in quella landa.

III

E chi passava nell'amena valle,
Per entro a due finestre illuminate,
Vedea trascorrer spiriti che a danza
Lieti moveano, al ritmo d'un liuto
Ben accordato, attorno a un trono, dove,
In pompa alla sua gloria bene accetta,
Sedea - Porfirogenito! - il monarca.

IV

Fiammeggiante di perle e di rubini
Era l'ingresso del castello, ed entro
Quello movea continuo, scintillante,
D'Echi uno stuolo che, del loro Sire,
Cantavano l'ingegno e la saggezza.

V

Ma creature sinistre, in negre vesti
Di dolore, il Dominio hanno ora invaso.
- Ah! ci attristiamo! Su di lui un domani
Più non arriderà con l'alba nuova -
E la gloria all'intorno che in passato
Fioriva, imporporata di confuse
Memorie, or'è una favola sepolta.

VI

Oggi il viandante per quella contrada
Traverso alle finestre, rischiarate
Da un baleno rossigno, vede innumeri
Fantasmi che si torcon, spasimando,
Al ritmo d'una musica discorde.
E come orrenda e rabida riviera
Fuor dell'entrata pallida, si versa
All'infinito, orripilante calca
Che non può più sorridere, ma ghigna.

Io rammento, con molta chiarezza, che la suggestione sprigionata da una simile leggenda ci condusse traverso un labirinto di pensieri tra i quali voglio riferire una certa opinione di Usher non tanto per la sua originalità (dal momento che, prima di lui, la condivisero altri uomini) quanto per l'ostinazione con cui egli vi si mantenne. Tale opinione rivendicava le qualità sensoriali dell'intera specie vegetale. Ma nella sua disordinata fantasia, quell'idea aveva assunto un carattere addirittura temerario ed egli era passato, così, ad applicarla anche, sotto certi aspetti al regno inorganico. Mi mancano le parole per esprimere la piena estensione ovvero l'assoluto abbandono della sua persuasione. Quella credenza, tuttavia, doveva essere connessa (come ho suggerito di sopra) alle grigie pietre della sua dimora ancestrale. Le condizioni per quella sensibilità, secondo egli immaginava, erano state tenute presenti nella disposizione d'ogni pietra, nell'ordine della loro sovrastruttura come pure nel rampicamento delle fungosità che le ricoprivano e degli alberi dispogliati che le attorniavano e, soprattutto, nella durevole e indisturbata immobilità d'una tale disposizione e nel suo raddoppiarsi a specchio, nelle acque stagnanti del padule. «La sua evidenza della sensibilità, cioè, era da vedersi», diceva Usher (e le sue parole, a questo punto, mi fecero trasalire), «in una graduale ma pur certa condensazione dell'atmosfera emanata dagli stessi oggetti su dall'acque e attorno alle pareti. La prova era evidente», egli aggiungeva, «in quella muta e pur terribilmente ostinata influenza che aveva come foggiati, attraverso i secoli, i destini della sua famiglia e che aveva fatto di lui ciò che io ora vedevo, ciò che egli, in effetti, era». Consimili opinioni non abbisognano d'alcun commento e così io non ne appresterò veruno.
I nostri libri - i medesimi che avevan formata, per lunghi anni, non piccola parte dell'esistenza spirituale del malato - erano, com'è facile prevedere, in stretta relazione col suo carattere di visionario. Meditammo, così, assieme, opere come Ververt e La chartreuse del Gresset; il Belfagor di Machiavelli; Le meraviglie del cielo e dell'inferno di Swedenborg; Il viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg; la Chiromanzia di Robert Flud, come pure quella di Jean D'Indaginé e di De la Chambre, Il viaggio nella prospettiva azzurra di Tieck e La città del sole di Campanella. Tra le letture favorite era una edizione del Directorium Inquisitorum del domenicano Eymeric de Gironne, come pure i passaggi, in Pomponio Mela, attorno agli antichi Satiri Africani e agli Egipani, sui quali Usher restava a sognare per ore ed ore. Suo principale diletto era, tuttavia, nel ripassarsi una rarità eccezionale, l'in-quarto gotico - manuale d'una chiesa abbandonata - Vigiliae mortuorum secundum chorum ecclesiae maguntinae.
Non potei far di meno che richiamare alla mente i riti crudeli descritti in quel libro e trarre qualche congettura attorno alla probabile influenza che essi avevano dovuto esercitare sull'ipocondriaco, allorché, una sera, dopo avermi bruscamente informato che Lady Madeline non era più, mi mise a parte della sua intenzione di conservare il corpo di lei per alquanti giorni - innanzi il seppellimento definitivo - in uno dei numerosi sotterranei scavati nelle mura maestre dell'edificio. La ragione addotta per un tanto singolare procedimento era, peraltro, così commovente ch'io non credetti nemmeno di discuterne. Il fratello era stato consigliato a quella misura - così fui informato - dopo aver considerato il carattere insolito della malattia della morta e la insistente curiosità scientifica dei medici che l'avevano curata, i quali, da quella sospinti, avrebbero potuto anche approfittare della collocazione remota e indifesa della tomba di famiglia. E non negherò che, richiamandomi alla mente l'aspetto sinistro della persona che avevo incontrata salendo le scale della Casa Usher la prima volta, mi guardai dall'oppormi o dallo sconsigliare ciò che mi sembrava una precauzione innocua e affatto naturale.
Alla richiesta di Usher, mi adoperai per aiutarlo personalmente a preparare quel temporaneo seppellimento. Deposto che avemmo e chiuso il corpo nella bara, lo portammo - noi soli - al luogo del suo riposo. Il sotterraneo dove lo collocammo - il quale era rimasto chiuso da tanto tempo che le nostre torce, mezzo soffocate in quell'opprimente atmosfera, rimandavano scarsa luce, aumentando le nostre difficoltà - era piccolo, umido e senza possibilità che vi arrivasse il lume del giorno. Esso era situato, infatti, assai in profondità, proprio al di sotto dell'ala dell'edificio dove si trovava il mio appartamento. Appariva già usato, in tempi remoti di feudalesimo, al fini peggiori d'una segreta e, in tempi più recenti, come deposito di polveri o d'altri potenti esplosivi, dal momento che su una parte del pavimento così come lungo tutto un arco che dovemmo attraversare per raggiungerlo, vedemmo una accurata fodera di rame. Anche la porta, di ferro massiccio, era stata similmente protetta e, allorché la facemmo girare sui cardini, essa rimandò, a causa del suo peso enorme, uno stridore acuto e singolare.
Deposto che avemmo il nostro macabro fardello, in quel luogo d'antichi orrori, su alcuni cavalletti, rialzammo leggermente il coperchio della bara che non era stato ancora inchiodato, e guardammo un istante il cadavere in volto. Io fui subito colpito dall'intensa rassomiglianza che essa aveva col fratello, ed Usher, il quale probabilmente aveva indovinato i miei pensieri di quell'istante, mormorò alcune parole dalle quali appresi che lui e la sorella erano gemelli e che talune e continue affinità di natura difficilmente analizzabile erano sempre esistite fra loro. E tuttavia non sostammo troppo a guardarla, da che ciò era impossibile senza rimanerne come atterriti. Il male che aveva sepolto quella giovinezza aveva lasciato, come appunto sogliono le malattie a carattere catalettico, la beffa d'un lieve rosato sul seno e sulle gote di Lady Madeline e quel sospetto e tardevole sorriso nella piega delle labbra che è così terribile a vedersi in volto alla morte. Rimettemmo il coperchio al suo luogo, lo avvitammo e, dopo avere sprangata la porta di ferro, ci incamminammo agli appartamenti superiori.
Dopo che egli ebbe trascorsi alcuni giorni nel più amaro cordoglio, il disordine mentale del mio amico pervenne a un visibile mutamento. I suoi modi ordinari non erano più quelli di prima. Le sue consuete occupazioni erano neglette o addirittura dimenticate. Egli vagava di stanza in stanza con passo vario, ora precipitato, ora stanco e soprattutto senza alcuna direzione o obbiettivo. Il pallore del suo volto aveva assunto - se possibile - una parvenza ancor più spettrale, ma anche il lustro dei suoi occhi era offuscato. Più non s'udiva il suo tono di voce rauco e insieme incisivo, ma solo un tremolo, come d'uno che sia posseduto da un estremo terrore. V'erano taluni momenti ch'io fui costretto a sospettare l'angoscia d'un laborioso segreto ch'egli studiava invano di profferire, abbandonato da ogni impulso coraggioso, ed altri ancora in cui lo sorprendevo in contemplazione, per delle ore, d'un punto morto, come di qualcuno che sia intento ad ascoltare, con sofferente attenzione, un immaginarlo rumore, così ch'io non esitavo a riconoscere, in quello strano comportamento, i segni dell'incipiente follia. Che c'è di straordinario, quindi, che il suo contegno avesse il risultato d'opprimer me, a mia volta, e malignamente crescere e addirittura d'arrivare quasi a contagiarmi? Io sentivo in me, per lenti ma pur sicuri stadi, l'influenza sregolata di quelle sue fantastiche superstizioni.
E fu in specie verso la settima e l'ottava notte che seguì il trasporto della bara di Lady Madeline nella segreta, che io esperimentai, in tutta la loro potenza, quelle sensazioni. Il sonno si rifiutava al mio guanciale, mentre le ore colavano lente. Ed io lottavo per rendermi ragione dei nervi scossi che mi dominavano. Volli, così, indurmi a credere che molto, se non tutto, ciò che io sentivo, era dovuto alla sconcertante influenza della fosca mobilia nella mia stanza, agli oscuri e logori cortinaggi tormentati dal soffio d'una veniente tempesta, che frusciavano lungo e giù per le mura e assediavano le decorazioni del mio letto col loro inquietante sussurro. Ma i miei sforzi, in quel senso, rimasero vani. Ed io, intanto, non sapevo dominare il terrore che m'invadeva man mano, fino a possedermi totalmente in un incubo angoscioso che mi schiantava il cuore. Pervenni, con uno sforzo più energico, a drizzarmi sul cuscino e, attraversando, con gli occhi spalancati, la fitta e densa oscurità della stanza, mi posi in ascolto - e non so davvero come e perché, certo soltanto per l'impulso istintivo d'un avvertimento soprannaturale - di certi rumori bassi e indefiniti che salivano, a lunghi intervalli, pur frammezzo il fragore dell'uragano, d'un luogo che non riuscivo a identificare. Posseduto da un intenso sentimento d'orrore, addirittura intollerabile, afferrai, in tutta fretta, i miei abiti e - dal momento che non potevo più sperare d'addormentarmi per quella notte - me ne vestii. E per sollevarmi dallo stato pietoso nel quale mi trovavo, cominciai a misurare in su e in giù il mio appartamento.
Avevo fatti soltanto pochi giri a questo modo, allorché un passo lieve su per la scala vicina impegnò di nuovo il mio ascolto. Riconobbi il passo di Usher. Un attimo appresso intesi il suo picchio leggero alla porta. Entrò, con una lampada in mano. La sua fisionomia non aveva in nulla cangiato il suo pallore di spettro, pur se una sorta d'ilarità del tutto irragionevole gli vacillava negli occhi già spenti. Del resto ogni suo gesto, ogni sua espressione, denunciava ch'egli era preda d'un orgasmo compresso e faticosamente dissimulato. Nonostante il suo aspetto fosse oppressivo a guardarsi, pure la solitudine, che tanto m'era pesata fino allora, fu causa ch'io accogliessi il suo ingresso con una specie di sollievo.
«E tu non l'hai veduto?», mi disse bruscamente, dopo qualche minuto di silenzio: «tu non l'hai veduto? Aspetta, allora, aspetta, lo vedrai».
E, così dicendo, riparò con cura la lampada e corse a una delle finestre con passo precipitato e la spalancò sull'uragano.
L'impeto furibondo d'una folata di vento ci svelse quasi dal pavimento. Era una terribile notte di tempesta, ma solennemente bella, nel selvaggio orrore della sua singolare magnificenza. Un risucchio di turbine mulinava, evidentemente, poco discosto dal castello, poiché la direzione del vento era del tutto instabile, e l'eccezionale densità delle nubi - tanto basse che sembrava premessero gli spalti - non impediva di riconoscere la rapidità colla quale, come animate da una misteriosa vita, accorrevano l'una addosso all'altra, schiacciandosi, da ogni angolo dell'orizzonte. Ho detto che la loro densità non impediva, tuttavia, di riconoscere questo fenomeno. Ma la luna non v'era, non v'erano stelle, non riflesso alcuno di lume all'intorno e la parte bassa di quelle immense e irrequiete nubi riluceva - similmente a tutto il resto degli oggetti nelle immediate vicinanze - d'una sorta di soprannaturale chiarità che scaturiva come da una esalazione gassosa, la quale pareva illanguidirsi a ogni istante, eppure teneva ostinatamente avvolto l'edificio come un viscido sudario.
«Non devi... Non puoi continuare a guardare!», dissi ad Usher con voce alterata, e gli feci violenza per allontanarlo dalla finestra e lo costrinsi a sedere. «Le visioni cui vai eccitandoti», proseguii, «non sono altro che fenomeni di elettricità e del tutto comuni. Ovvero hanno origine dai miasmi pestilenziali delle lame. Chiudiamo la finestra. L'aria gelata di questa notte non può che esserti letale. Io scorgo qui uno dei tuoi romanzi prediletti. Lo leggerò ad alta voce e tu nel frattempo ascolterai. Così passeremo la notte assieme...».
Il libro che avevo preso era una vecchia edizione del Mad Trist di Sir Launcelot Canning ed io gli avevo attribuito la qualità di libro preferito da Usher soltanto per dare spicco alla frase: nelle sue scialbe e ridicole lungaggini non vedevo, al momento d'imprenderne la lettura, che cos'avrebbe potuto interessare l'elevata spiritualità del mio amico. Ma dal momento che esso era il solo ch'io avessi a portata di mano, immaginai e sperai che l'agitazione da cui Usher continuava ad esser posseduto fosse per risentir qualche sollievo proprio nella suprema assurdità di ciò che stavo per leggere, e, d'altra parte, la storia delle malattie mentali, tanto piena di consimili anomalie, giustificava in pieno il tentativo. E di fatto fui subito ascoltato con attenzione profonda e tesa, così che avrei potuto ben rallegrarmi d'essere ricorso a quell'espediente.
Venni così a quel luogo notissimo nel quale l'eroe del racconto, Ethelred, dopo i vani tentativi per entrare pacificamente nell'abituro dell'eremita, s'appresta a usare la forza. Le parole del libro, com'è noto, sono le seguenti: «Ed Ethelred, che era sempre stato valoroso ed ora, grazie al vino bevuto, s'era sentito crescere la forza addosso, non volle rassegnarsi a continuare le trattative con l'eremita - il quale non v'è dubbio che avesse testa caparbia e maligna - che sentendo cader la pioggia sulle sue spalle e paventando non avesse a mutarsi presto in uragano, levò alta la mazza e, con tre o quattro colpi fortemente assestati, si aprì un passaggio framezzo alle tavole della porta, tanto che vi potesse passar la mano inguantata di ferro: traendo a sé, poi, con gran forza, essa porta, schiantò tutto in pezzi così che il fracasso del legno secco risuonò, gettando l'allarme, per tutta la foresta».
Avevo appena finito di leggere tale periodo che dovetti arrestarmi e trasalire. M'era parso infatti - e nondimeno l'attribuii subito a uno scherzo dell'immaginazione - d'udire in alcuna remota parte dell'edificio una sorta d'eco - ancorché soffocata e sorda - affatto rispondente al rumore del legno schiantato e fatto a pezzi così com'era stato descritto, con tanta esattezza, da Sir Launcelot. Io ero stato impressionato - senza dubbio - da una pura coincidenza, dacché, frammezzo ai lamenti dei telai alle finestre e a tutti gli altri altissimi suoni della tempesta sempre più infuriata, quella mia sensazione non aveva, per se stessa, nulla che sollecitasse così il mio interesse come il mio fastidio. Continuai, quindi, la mia lettura.
«Ma il buon campione Ethelred, entrato che fu per quella porta, si meravigliò e s'infuriò grandemente di non trovare veruna traccia del maligno eremita. Al suo luogo era, invece, un drago immane, orribile per il turbinoso scintillio delle squame e linguacciuto d'una sottile e svelta fiammella, il quale sorvegliava un grande palazzo tutto d'oro, coll'impiantito d'argento. Dalle mura del palazzo pendeva uno scudo di lucente bronzo, il quale recava la seguente scrittura:

Chi entra qui è un conquistatore:
Chi ucciderà il Drago, vincerà lo scudo.

Ed Ethelred levò nuovamente alta la mazza e la calò di poi con incredibile forza sulla testa del drago. Il quale stramazzò ai suoi piedi e assieme con l'anima appestata rese un urlo così orribile ed aspro ma anche così penetrante, che Ethelred dovette turar l'orecchie coll'intere mani per non esser atterrito da quel suono, il quale era il più agghiacciante che mai udisse».
E qui, di nuovo, dovetti interrompermi. E mi smarrii anche. Poiché non c'era dubbio, adesso, che non avessi udito - e tuttavia non avrei saputo dire donde esso mi venisse - un suono basso e apparentemente da lungi, ma insistente e aspro, simile a un prolungato stridore, in rispondenza perfetta, peraltro, con quello che avevo immaginato del soprannaturale urlo del drago.
Turbato, come certamente ero, per la seconda e ancor più straordinaria coincidenza, da una folla di contrastanti sensazioni, nelle quali predominavano tuttavia la meraviglia e il terrore, ritenni sufficiente presenza di spirito da consentirmi di non eccitare, con alcun rilievo attorno alla bizzarria del fenomeno, la mente stravolta del mio sensibilissimo compagno. Non ero ben sicuro che avesse udito quei suoni: e tuttavia egli aveva, da qualche minuto, assunto una posizione diversa e aveva spostato, man mano, la poltrona dove sedeva, dal luogo dov'era, di fronte a me, in altro che gli consentisse d'appuntare gli sguardi alla porta della stanza. Il tremore delle sue labbra, che mormoravano parole inafferrabili, era tutto ciò che potevo vedere di lui. Il capo gli pendeva sul petto, eppure, per quei suoi occhi spalancati e immobili ch'io gli vedevo di profilo, era evidente che non dormiva. E ancora escludeva ch'egli dormisse una sorta di leggero dondolio che aveva come impresso al suo corpo. Notato le ebbi tutto questo, ripresi la lettura.
«Ed ora il campione, scampato alla ferocia del drago, tornando colla mente allo scudo bronzeo e avvedutosi che l'incantesimo era infranto, sgomberò la carcassa del mostro, pose piede sull'impiantito d'argento del castello e mosse verso lo scudo appeso. E questo non attese propriamente d'esser raggiunto, e da sé medesimo si spiccò e precipitò ai piedi del cavaliere suscitando, col terribile fragore del metallo, gli echi vasti e potenti del palazzo».
Non appena tali parole, nelle loro sillabe precipitate, m'ebbero attraversate le labbra, io intesi distintamente un rumore metallico, profondo, risonante, eppure soffocato, simile a quello che avrebbe prodotto uno scudo di bronzo che fosse caduto pesantemente su una lastra d'argento. Mi levai dritto, preda d'un acceso nervosismo. Usher continuava ininterrottamente a dondolare sulla poltrona. Mi buttai su di lui. I suoi occhi fissavano spalancati la porta: tutto il suo viso aveva l'immobilità del marmo. Eppure bastò ch'io gli sfiorassi la spalla con una mano, perché egli si scotesse da capo a piedi con un tremito improvviso. Un sorriso malato vacillò sul suo labbro. Ma riguardando con maggiore attenzione m'avvidi ch'egli bisbigliava alcune parole precipitate, disarticolate, come se non fosse propriamente avvertito della mia presenza. Mi piegai, accanto a quelle sue labbra, in ascolto e pervenni infine a dare un senso alle sue frasi.
«Non odi? Io sì... io odo... io ho già udito ... a lungo... a lungo... per minuti... per ore... per intere giornate ... ho udito eppure non osavo... oh! pietà di me... miserabile ch'io sono... non osavo... non osavo parlare! Noi l'abbiamo chiusa ancor viva nella tomba! Non ti ho forse detto, più volte, che i miei sensi sono estremamente acutizzati? Ed ora io ti dico che ho avvertiti i suoi primi deboli movimenti nella bara! Da molti... da molti giorni io li avevo avvertiti ... ma non osavo... non osavo parlare! E adesso, stanotte, Ethelred ... ah!... ah!... La porta dell'Eremita che si schianta in mille pezzi! Il terribile rantolo del drago! Il fragore dello scudo! Dirai piuttosto lo squarciarsi della cassa e lo stridore dei cardini di ferro e la marcia disperata per il corridoio foderato di rame! Oh! Dove sarà scampo alla mia fuga? Non è certo, ormai, ch'ella sarà qui tra qualche istante? Non accorrerà a rimproverare la mia fretta? Non ho già forse uditi i suoi passi trascinarsi su per la scala? Non odo, forse, ora il battito orribile e pesante del suo cuore? Insensato!». Ed egli si levò, a questo punto, con uno scatto, e urlò, scandendo le sillabe con tale sforzo che l'anima sembrava esalarsi nelle parole: «Insensato! Io ti dico che essa è là, là, essa sta ritta là, dietro la porta!».
E quasi che la sovrumana carica d'energia dovuta alla sua esaltazione potesse come opera d'incantesimo parlare, i grandi battenti d'ebano antico che Usher indicava, schiusero lentamente le loro pesanti mascelle. Entrò una folata di vento infuriato. Ma dietro la porta, ravvolta nel sudario, stava l'alta figura di Lady Madeline Usher. Le sue vesti bianche erano lorde di sangue e per ogni punto della sua persona si scorgevano le tracce d'un combattimento atroce. Ella rimase un attimo, vacillando, anelante, sulla soglia. Poi emise un profondo lamento e nel contempo cadde pesantemente in avanti addosso alla persona del fratello, trascinando, nell'agonia suprema, il corpo di quella vittima del terrore che rotolò fulminato al suolo.
Fuggii al colmo dell'orrore da quella stanza, da quella casa. La tempesta disfogava ancor tutta la sua ira allorché mi trovai sul terrapieno. Una livida luce inondò all'improvviso la mia via ed io mi volsi a veder donde venisse, incuriosito dal suo stravagante splendore, dal momento che, alle mie spalle, io sospettavo soltanto l'immane ombra del castello. Era la luna nel suo pieno, che splendeva, insanguinata, attraverso la fessura - appena visibile una volta - che correva a zig-zag lungo la facciata, dal tetto alle fondamenta. Nel mentre che io riguardavo, quella spaccatura s'allargava rapidamente. Un turbine di vento discopriva in quel punto l'intero disco della luna ed io vidi - mentre sentivo mancarmi - crollar le possenti muraglie del castello. Uno strepito grandioso e tumultuante rispose, con la voce di mille cateratte, e la buia palude al miei piedi si richiuse in un tetro silenzio, sulle rovine della CASA USHER.


WILLIAM WILSON


Che dir di ciò? che dir della COSCIENZA austera,
Spettro sulla mia strada?
Chamberlaine, Pharronida

Lasciate che io mi chiami, pel momento, William Wilson. La pagina che mi s'apre bianca dinanzi non dev'essere insudiciata dal mio vero nome il quale è stato troppo spesso oggetto di spregio, d'orrore e d'abbominio per la mia famiglia. Non ne hanno forse divulgata l'incomparabile infamia i venti sdegnati, fin nelle più remote contrade del mondo? Ahimè, il più abbandonato fra tutti i proscritti! Non sei tu dunque morto per sempre a questo mondo? Ai suoi onori, ai suoi fiori, alle sue aurate ambizioni? E non s'è forse frapposta per l'eternità, tra le tue speranze e il cielo, una sinistra e spessa nube della quale non è consentito scorgere dove finisca?
Non vorrei, quand'anche fosse in mio potere, affidare a queste pagine le memorie dei miei ultimi anni di innominabile miseria, di imperdonabili delitti. Quest'ultimo periodo della mia vita m'ha condotto a un'altezza di turpitudine della quale non voglio che determinare l'origine. Questo e nessun altro è, nella presente occasione, il mio scopo. Gli uomini, di solito, diventano vili poco alla volta: quanto a me, ho perduta tutt'intera la mia virtù, in uno stesso istante, d'un sol colpo, al modo stesso che si perde un mantello. Da una perversità relativamente comune, sono pervenuto, con un solo passo da gigante, a tali enormità che nemmeno Ellogabalo ne sarebbe stato degno. Consentite così che vi narri minuziosamente qual caso, quale unico accidente m'abbia addotto a tanta maledizione. Si sta avvicinando la Morte e l'ombra che la precede ha reso più mite il mio cuore. Così, passando per la triste valle, io ricerco la compassione e la pietà - stavo per dire - dei miei simili, elevando un fiotto di sospiri. Vorrei che si persuadessero com'io non sono stato se non lo strumento di circostanze indipendenti da ogni umano controllo. Vorrei che discoprissero, fra mezzo al Sahara di errori che si contempla in ciò che imprendo a narrare, una qualche oasi di fatalità. E che riconoscessero, infine, quanto non potranno rifiutarsi di riconoscere e che cioè non esistette mai uomo - quantunque questo mondo conosca le più grandi tentazioni - che ne subisse di tal sorta né, tanto meno, che per quelle dovesse tanto abbassarsi. Sarebbe forse proprio a causa di questo che nessuno ebbe a soffrire ciò che io invece soffersi? Ovvero io avrei abitato, finora, dentro a un sogno e mi trovo, ora, a morir vittima dell'orrore e del mistero della più stravagante fra tutte le visioni sublunari?
Io discendo da una stirpe che s'è distinta, nei tempi, per l'indole fantasiosa e proclive all'eccitazione. I miei primi anni provarono che avevo ereditato, dai miei avi, quel carattere in pieno. Col passar del tempo, nondimeno, questo carattere si fece in me più spiccato e per numerosi motivi fu causa d'inquietudine tra i miei amici e un fornite di positivo pregiudizio per me. Mi abbandonai, così, ai più selvaggi capricci, alle più irrefrenabili passioni. I miei genitori, deboli nello spirito, e anch'essi torturati dai miei stessi difetti, poco fecero - come poco avrebbero potuto fare - per reprimere le mie riprovevoli tendenze. Tentarono - è vero - qualcosa, ma assai fiaccamente e del tutto fuor di proposito. Così che non approdarono a nulla, mentre io trionfavo assoluto. Da quel tempo la mia parola fu legge in famiglia, per modo che, a un'età in cui la maggior parte dei fanciulli vengono riguardati, io venni affidato al mio più assoluto arbitrio e mi trovai padrone, eccetto che nel nome, di tutte le mie azioni.
Le mie prime impressioni di scolaro fan tutt'uno col ricordo d'una vasta e bizzarra costruzione in stile elisabettiano in un lugubre villaggio inglese, pieno di alberi giganteschi e nodosi, e dove tutti gli edifici erano contraddistinti da una secolare antichità. Quella veneranda cittadina era, per la verità, un luogo di sogno, fatto apposta per affascinare lo spirito. E persino, al ripensarvi ora, mi sovviene della fresca sensazione delle fonde ombre dei suoi viali, mi par di respirare l'odore dei suoi mille tigli e trasalisco, compreso d'infinito piacere, al momento in cui mi par d'udire il rintocco sordo e grave della campana che rompeva sinistramente, d'ora in ora, l'atmosfera quieta e oscura nella quale era immerso, addormentato in tutti i suoi pinnacoli, il campanile gotico.
Questi minuti ricordi della scuola e, comunque, delle fantasticherie che accompagnarono quel tempo, son tutto quello che resta a testimoniare e a convogliarmi seco, talvolta, di quei piaceri andati. Preda qual io mi sono, ahimè, della sciagura - la quale è soltanto anche troppo reale - mi si perdoni s'io cerco un lieve ed effimero conforto nel riandare quei teneri svaghi infantili. Minimi e ridevoli di per se stessi, essi acquistano, d'altro canto, una loro importanza nella mia fantasia per l'intima connessione che hanno coi luoghi e con l'epoca nei quali sono costretto a rinvenire le prime ambigue avvisaglie del Destino che proiettò, sul mio cammino, la sua ombra intensa e devastatrice fin da quel tempo beato. Consentite, dunque, che io ricordi.
La casa, secondo ho già detto, era antica e di costruzione irregolare. Le terre attorno erano ampie e un alto e saldo muraglione di mattoni, incoronato da uno strato di malta con suvvi incastrati frammenti di bottiglie e di altri oggetti di vetro, lo recingeva d'ogni banda. Tale cinta - la quale era invero degna d'un carcere - segnava i confini del nostro dominio. Noi non portavamo il nostro sguardo oltre di essa se non tre volte per settimana. Una volta, al pomeriggio del sabato, allorché ci era consentito di fare delle brevi passeggiate collettive per la campagna circostante, in custodia dei prefetti, e due volte alla domenica, allorché venivamo condotti, incolonnati come soldati, ad assistere agli uffizi della mattina e della sera nell'unica chiesa del villaggio. Il direttore della nostra scuola era, nel contempo, pastore di quella chiesa. Con quali profondi sensi di timore e di reverenza io non lo contemplavo dai nostri banchi relegati su in alto, nelle tribune, quando egli saliva sul pulpito a passi lenti e solenni! Mi chiedevo come quel personaggio venerabile, dall'aspetto tanto umile e benevolo, dall'abito così ben spazzolato e ondeggiante alla maniera degli ecclesiastici e dalla parrucca tanto finemente intrecciata e incipriata, potesse essere il medesimo uomo il quale, con espressione acida, e tutta sudicia la persona di tabacco, faceva dianzi eseguire, ferula alla mano, le draconiane leggi della scuola. Bizzarro e smisurato paradosso la cui mostruosità impediva qualsiasi soluzione.
Da un angolo della murata che recingeva la scuola, guardava una porta ancor più massiccia dello stesso muro, la quale era saldamente sbarrata, fornita d'un chiavistello e sormontata da una corona di punte acuminate di ferro. Essa ci ispirava i più profondi terrori. Non accadeva giammai che si aprisse se non per le tre sortite, con le relative rientrate, di ogni settimana e nello stridere che allora faceva sui cardini, noi ci trovammo sopraffatti da una profondità di mistero che schiudeva, alle nostre vergini menti, un intero mondo di solenni meditazioni.
Il lungo recingimento era irregolare, per la forma, e diviso in più parti delle quali le tre o quattro più vaste fungevano da corte di ricreazione. Quest'ultima era spianata e coperta d'uno strato di ghiaia fine e scricchiolante. Rammento bene che essa era nuda al tutto, senza che vi si potessero scorgere né alberi, né panche, né altro oggetto simile. Si apriva, naturalmente, sul retro dell'edificio mentre davanti alla facciata vegetava una sorta di piccolo giardino coltivato a bossi od altra sorta di arbusti, il quale costituiva una sacra e vergine oasi che ci era dato di attraversare assai raramente, e soltanto, cioè, in occasioni come quella del nostro arrivo a scuola e della nostra definitiva partenza da essa, ovvero in quell'altra nella quale, affidati a un amico o a un parente che era venuto a prenderne, ci avviavamo, pieni di gioia, alla volta della casa paterna, durante le vacanze natalizie o in quelle estive.
Ma la casa! Qual vecchio e bizzarro edificio non era la casa! E qual, per me, palazzo di magia! Dove potesse aver fine l'inestricabile labirinto dei suoi anditi, e delle sue suddivisioni, era impossibile comprendere, ed in qualsivoglia momento era difficile stabilire con sicurezza dove ci si trovasse, se al primo, ovvero al secondo piano, dal momento che si era sempre sicuri di trovare due, tre e finanche quattro gradini da salire o da scendere in ciascun passaggio da una stanza all'altra. Gli scompartimenti laterali, poi, erano innumerevoli: giravano e rigiravano e finivano poi così bene con l'incontrarsi l'uno nell'altro che le idee che potevamo avere, relativamente all'edificio nel suo insieme, non erano molto diverse da quelle altre in virtù delle quali studiamo di farci informati dell'infinito. Per tutti i cinque anni che vi passai dentro, non fui mai buono a determinare, infatti, in quale punto fosse precisamente l'angusto dormitorio che mi era stato assegnato assieme a una ventina di altri scolari.
L'aula destinata allo studio era la più vasta di tutto l'edificio e di tutto il mondo: tale, almeno, mi sembrava. Più lunga che larga e sinistramente bassa, riceveva luce da finestre ogivali e possedeva un soffitto di quercia. In un suo remoto cantuccio - oggetto di terrore, per noi - era riservato un recinto quadro, largo da otto a dieci piedi, il quale rappresentava il sanctum del direttore, reverendo dottor Bransby, nelle ore in cui eravamo riuniti a studiare. Era una solida costruzione, dalla porta massiccia, ma noi, pur quando il maestro di scuola era assente, avremmo preferito morire della peine forte et dure anziché arrischiarci ad aprirla. In altri due angoli della sala sorgevano altre due tribune eguali che, seppure incutevano una venerazione men profonda, era pur tuttavia enorme il terrore che ne emanava: la cattedra, l'una, del professore di discipline classiche, del professore di quelle matematiche e d'inglese, l'altra. Sparsi dappertutto per la sala erano innumeri banchi e leggii gravi per il peso di antichissimi libri sudici di ditate; essi erano disposti con tale disordine ed erano così logorati dal tempo e tatuati d'iniziali, di nomi, d'immagini grottesche e d'altre consimili mirifiche invenzioni del temperino, che avevano del tutto smessa la forma d'origine conferita ad essi, un tempo, dall'immemorabile passato. Una enorme secchia colma d'acqua era, inoltre, a un capo dell'aula e all'altro s'ergeva un orologio d'incredibili proporzioni.
Fra le massicce pareti di questo venerando istituto, io passai, senza che potessi, nondimeno, provare alcuna noia e alcun disagio, gli anni che occuparono il terzo lustro della mia vita. La mente dei fanciulli, feconda d'immaginazione, non ha bisogno degli incidenti esteriori per occuparsi e divertirsi, e la sinistra monotonia della scuola fu popolata, per me, di più intensi eccitamenti che non quelli richiesti, in seguito, dalla mia giovinezza alla voluttà, e dalla mia virilità al delitto. E tuttavia sono portato a credere che la mia intelligenza si sviluppò, in principio, in modo tutt'affatto anormale e sregolato. Una volta ch'egli è pervenuto alla maturità, gli avvenimenti dell'infanzia non lasciano solitamente, nell'uomo, un'impressione ben conformata. Ogni cosa s'ingrigia simile a un'ombra e gli intrighi confusi di tenui piaceri e fantasiose angosce s'annebulano in un vago e irregolare ricordo. Occorre che io abbia inteso, nella mia infanzia, con l'energia dell'uomo adulto, tutto quel che trovo ancora segnato nella mia memoria a tinte vive, profonde e durature, com'è l'esergo delle monete cartaginesi.
E nondimeno, per quel che era il fatto in sé e per sé - dal punto di vista, almeno, dal quale la gente giudica d'usato simili accidenti - v'era assai poco da serbarne memoria. La sveglia al mattino, l'ordine d'andare a coricarsi la sera, le lezioni, le rappresentazioni, i brevi periodi di vacanza, le passeggiate, le contese durante la ricreazione nella corte, i giuochi, gli intrighi e i complotti, tutte queste cose, insomma, per lo smagamento dell'anima, disperso di poi, portavano seco una folla di sensazioni, un universo ricco e variegato d'avventure e delle più svariate emozioni, come pure degli eccitamenti più ebbri e passionati. «Oh, le bon temps, que ce siècle de fer!».
La mia focosa, altera, entusiasta natura non tardò, per la verità, a farmi eccellere tra i miei compagni, e mi diede, man mano, un notevole ascendente su coloro almeno che non erano più grandi di me: su tutti, tranne uno. Era costui un allievo che, senz'essermi tuttavia legato da alcuna parentela più o meno lontana, portava oltre il mio nome di battesimo, anche il mio stesso nome di famiglia. Tale circostanza, per la verità, non deve meravigliare troppo, dal momento che il mio, nonostante la nobile origine, era uno di quel nomi del tutto comuni che, per una sorta di prescrizione, sembrano essere stati, fin dai tempi dei tempi, di dominio pubblico. Ho così assunto, nell'odierno racconto, il nome di William Wilson, il quale è nome fittizio ma non per questo troppo discosto dal vero. Tra coloro i quali, per usare un'espressione della scuola, facevano parte della nostra classe, il mio omonimo soltanto osava gareggiar meco negli studi come anche nei giuochi e nelle competizioni delle ore di svago. Egli era il solo che si rifiutasse di credere alle mie asserzioni con quell'assoluta cecità con cui gli altri solevano, che non soffrisse di sottomettersi alla mia volontà, che contrastasse, insomma, in tutti i possibili modi e casi, alla mia dittatura. E notate che non v'è sulla terra dispotismo assoluto quanto quello d'un fanciullo di genio sui suoi compagni di più modeste risorse.
La ribellione di Wilson era fonte, per me, di grave imbarazzo: soprattutto per la ragione che - nonostante la millanteria con la quale lo trattavo in pubblico, a motivo di tutte le sue pretese - sentivo, nel fondo, di temerlo e, d'altra parte, non potevo impedirmi di considerare come una dimostrazione di superiorità - dal momento che ero costretto a uno sforzo continuato per evitarne la supremazia - proprio quello stato di eguaglianza ch'egli si studiava di mantenere nei miei riguardi. Questa superiorità, o comunque emulazione, non era avvertita che da me soltanto, e per una inspiegabile cecità, sembrava che i nostri compagni non ne serbassero il più lontano sospetto. E difatto la sua resistenza, la sua rivalità e il suo malizioso e impertinente attraversarmi ogni disegno, non andavano oltre i limiti d'una intenzione strettamente personale. Egli sembrava del tutto esente dall'ambizione che mi spingeva a dominare, come anche dalla passione vivificatrice che me ne dava la forza: nell'esercizio di tale rivalità, si sarebbe potuto dire che egli agisse da null'altro sospinto che da un energico sprone a contraddirmi, a sbalordirmi e a mortificarmi, quantunque io non potessi far di meno che accorgermi, alle volte - non senza stupirmene e adirarmene insieme - ch'egli accompagnava i suoi oltraggi, le sue impertinenze, le sue contraddizioni con una cert'aria di affettuosità affatto inopportuna.
È probabile che tale ultimo tratto del comportamento di Wilson, come pure la nostra omonimia e l'essere entrati nel collegio lo stesso giorno, contribuissero a far credere, al nostri condiscepoli delle classi superiori, che noi fossimo fratelli. Costoro, infatti, non erano usi d'informarsi, con esattezza, di ciò che riguardava i più giovani. Ho già detto che Wilson non era in alcun modo imparentato con la mia famiglia. Pure, non v'è dubbio che, ove fossimo stati fratelli, saremmo stati gemelli dal momento che, secondo appresi casualmente quando lasciai l'istituto del dottor Bransby, il mio omonimo era nato anch'egli - né questa coincidenza mancherà d'impressionare! - il 19 gennaio 1813, e cioè nel medesimo giorno in cui ero nato io.
Potrà sembrare curioso che, nonostante la continua apprensione nella quale vivevo a causa della sua rivalità e del suo insoffribile spirito di contraddizione, io non fossi portato, in definitiva, a detestarlo del tutto. Una nuova contesa sorgeva tra noi due ogni giorno, ed egli pur accordandomene, in pubblico, la palma, si studiava, in privato, di farmi in qualche modo edotto che il merito doveva attribuirsene a lui soltanto. E nondimeno, l'orgoglio dalla mia parte e la dignità dalla sua impedivano che varcassimo i limiti d'una stretta convenienza, quantunque i nostri caratteri fossero talmente simili in talune particolarità da risvegliare, in me, un sentimento che soltanto i nostri rapporti di tensione impedivano di maturare in amicizia. Tentare una definizione o una descrizione soltanto del mio verace atteggiamento verso di lui m'è del tutto difficile: esso costituiva, difatti, un eterogeneo amalgama e multicolore in cui avevano parte una ostinata animosità non ancora pervenuta a trasformarsi in odio, la stima, e, più ancora che la stima, il rispetto, alquanto timore, e una grandissima, impaziente curiosità. Per il moralista non sarà mestiere aggiungere - egli l'ha già compreso! - che, fra tutti i nostri camerati, Wilson ed io eravamo, di gran lunga, i più inseparabili.
La stravaganza e l'ambiguità dei nostri rapporti fu essa soltanto - non può esservi dubbio! - a fare in modo che tutti i miei assalti contro di lui, i quali, nascosti o dichiarati che fossero, erano ben numerosi, si disfogassero nell'ironia e nella caricatura anziché in una seria e determinata ostilità. Non è forse il sarcasmo a produrre le ferite più profonde? Ciò nondimeno, per quanto ingegno impiegassi nell'ordire i miei piani, i miei sforzi, anche con quel mezzo, non erano sempre vittoriosi, giacché il mio omonimo possedeva un'indole austera e contegnosa, la quale, pur pervenendo a godere gli effetti delle proprie punture, riusciva, tuttavia, a non esporre il tallone d'Achille e a sottrarsi a ogni specie di ridicolo. Io non ero capace di sorprendere in lui alcuna zona vulnerabile se non una, la quale consisteva in una imperfezione fisica derivata da una infermità costituzionale: qualunque antagonista, meno accanito di quanto io non fossi, l'avrebbe risparmiata. Il mio rivale era afflitto da una imperfezione della laringe che non gli consentiva di elevare la voce più alto d'un sommesso mormorio. Da tale imperfezione non mi facevo scrupolo di trarre ogni possibile vantaggio.
Per contro, le rappresaglie di Wilson erano della specie più svariata, e una, sopra tutte, riusciva a turbarmi fuor di misura. In qual modo egli abbia avuto, fin dal principio, la sagacia d'indovinare che una tale inezia potesse tanto inquietarmi, è questione che ancora non ho saputo risolvere. È indubitato, comunque, che non appena egli se ne rese conto, praticò quella tortura con sistematica ostinazione. Io avevo sempre provata dell'avversione per il mio sciagurato nome di famiglia, tanto inelegante, come anche per il mio nome di battesimo ch'io consideravo del tutto ordinario, se non addirittura plebeo. Il suono delle sue sillabe era veleno al mio orecchio, e come il medesimo giorno del mio arrivo udii un altro William Wilson rispondere all'appello, non dubitai di volergli male per quella sola ragione, e fui doppiamente disgustato del mio nome, e perché era portato da un estraneo, e perché sarei stato obbligato a sentirlo pronunciare, in ogni occasione, una volta di più. L'irritazione che stimolò in me un tale avvenimento diveniva più viva man mano che le circostanze mettevano in luce, ogni giorno di più, la somiglianza fisica tra me e il mio rivale. A quell'epoca io non avevo ancora fatta la scoperta che eravamo nati lo stesso giorno, eppure non potevo fare a meno di vedere che avevamo la medesima statura, e che anche i nostri lineamenti erano contraddistinti da una totale sorprendente rassomiglianza. Ero inoltre esasperato dalle voci che correvano attorno alla nostra parentela e che erano credute nelle classi superiori. Non v'era nulla, in altre parole, ch'io non soffrissi - sebbene tentassi ogni maniera per non darlo a vedere - quanto le allusioni a una qualsiasi nostra somiglianza, così morale che fisica e, soprattutto, a causa della nascita. E tuttavia non avevo alcuna ragione di ritenere che tale rassomiglianza - tranne che per la parentela e per tutto ciò che riusciva a notare il medesimo Wilson - fosse stata mai l'oggetto di commenti e d'osservazioni dei nostri condiscepoli. Che lui studiasse quella relazione sotto ogni aspetto di essa, e che non vi mettesse meno attenzione di me, era del tutto indubitabile, ma che egli poi avesse saputo discoprire, in essa, un'occasione per i numerosi e perfidi dispetti che architettava, non ho da attribuirlo a nulla che non fosse la sua straordinaria sagacia.
Egli era uso, coi gesti e con le parole, mediante un eccezionale potere d'imitazione, a contraffare ogni mio modo d'agire. Copiò così la foggia dei miei abiti, la mia andatura, il mio generale portamento e, nonostante la difficoltà di quella sua minorazione costituzionale, persino la voce. È chiaro, tuttavia, che, quanto alla voce, egli non tentava i toni elevati ma ne aveva afferrato, comunque, quale che fosse, il segreto e, a patto di parlar basso, egli riusciva ad ottenere che il suo bisbiglio fosse l'eco perfetto della mia voce.
Quale alto grado di tormentosa angoscia non provocasse in me questo ritratto singolare ch'egli mi era uso porgere - e che io non potrei chiamare, onestamente, una caricatura - non arrivo a esprimere. Non avevo che una consolazione soltanto: e cioè che quella contraffazione, per quanto almeno mi riuscì di sapere, ero io soltanto ad avvertirla, per modo che non ne dovevo sopportare nulla all'infuori dei misteriosi sorrisi del mio omonimo, i quali non erano mai disgiunti da alcun sarcasmo. Pago d'aver prodotto l'effetto da lui voluto sul mio cuore, egli pareva soddisfatto di gioire segretamente della tortura medesima che m'infliggeva e sdegnava gli applausi che pure il successo per la sua bravura gli avrebbe procurato. Perché mai i nostri condiscepoli non indovinassero i suoi piani e non ne osservassero l'esecuzione, come pure non dividessero, assieme a lui, il piacere di quella turlupinatura, io non riuscii mai a discoprire, nonostante quel lunghi mesi d'inquietudine. È probabile che rendesse problematica l'osservazione dei suoi modi, l'estrema e graduale lentezza onde egli era uso portare innanzi la sua contraffazione. Ovvero io ero debitore della mia salvezza soltanto all'abilità del copista, il quale scartava ciò che suol dirsi la lettera - e questa è, pure, tutto ciò che le menti ottuse san riconoscere - badando a rendere solo lo spirito dell'originale, combinando assieme, così, la mia smisurata ammirazione e il mio cocente dispetto?
Ho già ripetutamente accennato all'aria - tanto fastidiosa per me - di protezione che egli aveva assunta nel miei riguardi, come pure al suo frequente e ufficioso interferire coi miei propositi. Tale interferenza assumeva sovente lo sgradito carattere d'un ammonimento, il quale, seppur non era apertamente dichiarato, nondimeno era sottilmente suggerito, perfidamente insinuato. Ed io dovevo ridurmi ad accoglierlo con una ripugnanza la quale si faceva sempre più gremita col proceder del tempo. E tuttavia, ora che quell'epoca è del tutto trascorsa, desidero rendergli la doverosa giustizia di riconoscere che non m'è possibile rammentare soltanto un caso in cui quei suoi ammonimenti si rivelassero partecipi dell'errore e della stravaganza che pure sarebbe stata del tutto giustificabile alla sua età, immatura, per solito, ed inesperta; e ancora che il suo senso morale, come la sua avvedutezza e il suo talento erano molto più esercitati dei miei e, infine, che io sarei adesso un uomo assai migliore, e per conseguenza più felice, ove meno avessi sdegnati i suggerimenti di quel suo mormorio così pieno di significato, che pure allora m'ispirava un odio tanto tenace, un tanto amaro dispregio.
Così ch'io, col tempo, divenni del tutto insofferente della sua ostinata e odiosa sorveglianza, e cominciai a detestare apertamente ciò che consideravo un'insoffribile soperchieria. Ho detto che durante i primi tempi della nostra vita in comune, i miei sentimenti a suo riguardo avrebbero potuto anche volgere in amicizia; ma negli ultimi mesi del mio soggiorno nella scuola, sebbene il fastidio di quella sua persecuzione fosse - e non dico poco - diminuito, i miei sentimenti, per contro, avevan preso, quasi con la stessa progressione, l'avvio ad un odio aperto e pronto a incrudelire. Ho la presunzione, infatti, ch'egli dovette accorgersene, in una certa circostanza, e ne è la riprova il suo venir meno alle assiduità della mia persona o, se non altro, l'atteggiarvisi.
Attorno a quel tempo, se la memoria mi soccorre, durante un violento alterco nel quale egli sembrò smarrire il suo abituale ritegno con parole ed atti contrari alla sua natura, io discoprii - ovvero mi parve - nel suo accento, nella sua espressione, in tutto l'insieme, insomma, della sua fisionomia, un qualche cosa che, dapprima, mi fece trasalire e m'affascinò poi fin nel profondo, col risveglio, nell'animo mio, d'alcune oscure visioni della mia prima infanzia, rimasugli strani e scomposti di memorie andate, al tempo in cui io non ero neppur nato al pensiero e alle persistenti immagini di esso. Non saprei definire quella sensazione in maniera più acconcia se non col dire che m'era difficile liberarmi dall'idea d'aver già conosciuto quegli che m'era dinanzi in un'epoca remotissima, in un passato estremamente lontano e nebuloso. E nondimeno quell'impressione svanì colla rapidità medesima con la quale la mia mente eccitata l'aveva prodotta, ed io qui la ricordo solamente per sottolineare quale fu il carattere dell'ultima disputa che ebbi, per allora, col mio singolarissimo omonimo.
L'antica e vasta costruzione della scuola comprendeva, nelle sue innumerevoli suddivisioni, una infinità di enormi camere comunicanti tra loro, le quali servivano da dormitori alla maggior parte degli allievi. V'erano poi - e non potevan mancare, infatti, in una costruzione così bizzarramente immaginata - angoli e cantucci in gran numero, ritagliati in vario modo, a seconda che il fabbricato suggeriva, e che l'utilitaria ingegnosità del reverendo Bransby aveva trasformati, ancor essi, in altrettanti dormitori, i quali - è evidente - da semplici sgabuzzini che erano, potevano servire, al massimo, a un solo individuo. Wilson occupava uno di cotesti stambugi.
Una notte, allo spirar dell'ultimo anno ch'io trascorsi alla scuola, immediatamente dopo l'alterco che ho già detto, mentre tutti erano immersi nel sonno, mi levai dal mio giaciglio e, con un lume in mano, attraverso un intrico d'angusti passaggi, scivolai fino allo stambugio del mio rivale. Avevo a lungo preparato, contro di lui, un altro di quei tiri maligni nei quali, fino a quel momento, avevo sempre e completamente fallito. Deciso com'ero a porre quella volta il mio piano in atto, intendevo che egli provasse tutta la forza della malvagità che mi traboccava nell'animo. Giunto che fui nel suo stanzino, lasciai il lume sulla soglia, e stornando la luce con una ventola, entrai senza fare il minimo rumore. Avanzai un passo e udii ch'egli respirava tranquillo. Ben persuaso, in tal modo, che fosse addormentato pienamente e profondamente, tornai alla porta, presi su il mio lume e, con esso nella mano, mi avvicinai di nuovo al letto. Le cortine eran chiuse; ed io le discostai lievemente per effettuare il mio piano: ma cadendo il vivo lume, in pieno, sul dormiente, i miei occhi furori portati, un istante, a soffermarsi sulla sua fisionomia. Lo guardai e mi sentii, nel contempo, agghiacciare in tutto l'essere mio. Mi sussultò il cuore, mi vacillarono le ginocchia e un insoffribile e inspiegabile orrore mi possedette l'animo all'istante. Respirando appena, in un convulso tremore, accostai ancor più il lume al suo volto. Erano quelli, erano proprio quelli i lineamenti di William Wilson? Vedevo, sì, ch'erano i suoi, eppure mi lasciavo assalire da un brivido di febbre, immaginando ch'essi non lo erano. Che cosa, in essi, aveva il potere di farmi confondere a tal segno? Non potevo distogliermi dal contemplarlo ed il mio cervello roteava in preda al delirio di mille pensieri in contrasto. Non era così, ah, no! Certamente non era così ch'egli m'appariva nelle ore normali, quando era desto. Lo stesso nome, la stessa figura, lo stesso giorno d'entrata a scuola! E ancora l'inspiegabile dispetto della contraffazione della mia andatura, della mia voce, delle mie abitudini! Rientrava nelle possibilità umane che quel ch'io vedevo, ora, fosse pure soltanto il risultato di quel suo continuo esercizio, dell'ironia crudele della sua imitazione? Al colmo del terrore, rabbrividendo, soffiai sul mio lume, uscii in silenzio dalla cameruccia e abbandonai, una volta per sempre, il recinto della vecchia scuola.
Dopo un lasso di tempo - qualche mese - che spesi, in ozio assoluto, nella casa di mio padre fui mandato a Eton. Tale breve intermezzo era stato sufficiente per annebbiare e quasi disperdere il ricordo degli avvenimenti dell'istituto del dottor Bransby, o almeno a mutare la natura dei sentimenti che quei ricordi mi risvegliavano. La realtà, e, cioè, la parte viva del dramma, non esisteva più, così ch'io credevo perfino di porre in dubbio la testimonianza dei miei sensi. E molto spesso, al ripensar quegli accidenti, meravigliavo del segno cui sa pervenire l'umana credulità e irridevo meco la prodigiosa fantasia della quale, a mezzo d'una trasmissione ereditaria, mi trovavo dotato dai miei genitori. La vita che io conducevo a Eton era tale da confortarmi in questa sorta di scettica professione. Il turbine di sregolate follie al quale, senza por tempo in mezzo, m'abbandonai allora, ebbe il potere di sommergere tutto, all'infuori d'un qualche superficiale ricordo di ciò ch'erano stati i mesi trascorsi e portò via seco ogni radicata impressione, senza permettere che la memoria serbasse null'altro, all'infuori delle più trasparenti immagini d'una bizzarra fanciullezza.
Non ho alcuna intenzione di segnare, in questo luogo, il corso delle mie sciagurate dissolutezze, il quale sfidava ogni norma costituita, ed eludeva altresì ogni vigilanza. Tre anni di folli sregolatezze, spesi senza verun profitto, erano stati causa che il vizio piantasse profonde radici nell'animo mio, ed assieme che il mio sviluppo fisico fosse accresciuto in modo tutt'affatto anormale: un giorno, dopo una settimana di abbrutimento, spesa nell'esercizio delle più ributtanti infamie, convitai meco, nel mio appartamento privato, alcuni tra gli studenti più perversi, a far baldoria. Ci trovammo assieme a tarda sera, dacché la gozzoviglia avrebbe dovuto protrarsi con iscrupolo fino al mattino. Il vino corse a fiumi e non mancarono, com'è naturale, altre e più pericolose fonti di dolce ebrezza, così che, quando furono annunciati i primi deboli chiarori dell'alba, noi avevamo appena toccato il vertice del nostro stravagante delirio. Incendiato come ero dall'alcool e dalla demoniaca febbre del giuoco, mi accanivo a ricominciare un brindisi della più volgare insolenza, allorché la mia attenzione fu distratta dallo spalancarsi improvviso d'una porta e dalle precipitate parole d'un servo: egli mi disse che un personaggio, il quale dava a vedere d'essere divorato dalla fretta, chiedeva di potermi parlare nell'atrio.
Al colmo del delirio alcoolico, quella interruzione inaspettata, lungi dal meravigliarmi, mi arrecò quasi un senso di sollievo, e raggiunsi così, di passo incerto, il vestibolo. In quella bassa stanzetta non v'era altro lume che quello medesimo dell'alba veniente, il quale pioveva stento, attraverso agli oscuri vetri d'una finestra ad arco. Al momento di porre il piede sulla soglia, intravvidi la figura d'un giovane che sembrava della mia stessa statura e portava una veste da camera di cachemire bianco, tagliata secondo la moda più recente, in tutto identica a quella che, in quello stesso istante, avevo indosso lo. A quel fioco lume, non mi fu possibile distinguere la fisionomia del giovane, anche perché questi, non appena entrai, mi si fece all'improvviso da presso e afferrandomi un braccio in un gesto d'impazienza, bisbigliò, al mio orecchio, le due parole: William Wilson.
La mia ubriachezza fu dispersa in quell'attimo.
V'era qualcosa, nel comportamento dello straniero, in quel suo vibrare il dito levato davanti ai miei occhi contro la luce, che mi paralizzò di meraviglia. E nondimeno non poté esser ciò - quel qualcosa, dico - a sconvolgermi l'animo: l'esuberanza, bensì, dell'ammonimento solenne che era in quel nome pronunciato da una voce bassa e come fischiante e, sopra ogni altra cosa, il tono, il carattere, il senso di quelle sillabe, affatto familiari e nondimeno mormorate come da un magico potere, le quali risvegliarono un nugolo di memorie sopite, e mi penetrarono come d'un brivido elettrico. Non mi ero ancora rimesso da quella scossa che il mio visitatore era gia scomparso.
Quantunque vivo e operante, l'effetto che un tale avvenimento produsse su di me ebbe, nondimeno, breve durata. Durante alcune settimane - è vero - m'avvenne di andare attorno a far ricerche, come pure di restare a lungo assorto in profonda riflessione. Non che cercassi di nascondermi l'identità del misterioso personaggio che mestava con tanta irriducibile caparbietà nei miei piaceri privati e m'infastidiva coi suoi ammonimenti! Ma chi era, infine, codesto Wilson? Di dove veniva? E che cosa voleva? Non seppi dare alcuna risposta a queste domande: seppi soltanto che, per un improvviso accidente occorso alla sua famiglia, egli era stato costretto ad abbandonare la scuola del dottor Bransby poche ore dopo che io stesso ne ero fuggito. Ciò nondimeno, di lì a qualche tempo, tutta quella storia fini con l'uscirmi affatto di mente e non mi occupai più che della mia partenza per Oxford - del resto già da tempo disposta - dove, ben equipaggiato com'ero dalle stolte e vanagloriose prodigalità dei miei, potei menare non appena arrivato, la frivola esistenza che tanto amavo, e rivaleggiare nelle spese, e soprattutto negli sprechi, coi più ricchi eredi delle più cospicue contee d'Inghilterra.
Incoraggiato, così, il vizio, mi dedicai affatto e con sfrenato e rinnovato ardore, alle mie naturali inclinazioni e, pazzamente infatuato, infransi, nelle mie orge, i più elementari obblighi della decenza. Indugiare sui particolari della mia stravagante licenza sarebbe assurdo. Basti sapere che superai lo stesso Erode per la dissolutezza, e che, prestando il mio nome a innumeri nuove scellerataggini, m'avvenne d'arricchire non poco il catalogo dei vizi che erano allora di moda nella più dissoluta delle università europee.
Si stenterà a credere che mi fossi abbassato al segno da tentare di familiarizzarmi coi più infami artifici della professione del giocatore, da farmi seguace di quella equivoca scienza e dal praticarla infine, abitudinariamente, come un mezzo per accrescere le mie rendite - già di per se stesse enormi - alle spese dei miei colleghi meno astuti. E fu così invece. L'enormità medesima d'un siffatto attentato ai danni dei miei stessi sentimenti di onore e dignità costituì, senza dubbio, la prima se non la sola ragione della mia impunità. Quale dei miei perversi camerati non avrebbe rifiutato di prestar fede anche alla più lampante testimonianza, piuttosto che sospettare di scorrettezza il gioviale, il leale, il generoso William Wilson, il più nobile e prodigo studente di Oxford, del quale le pazzie, secondo la voce messa in giro dai suoi stessi parassiti, non provenivano da altro se non da una giovinezza e da un'immaginazione sfrenate? Del quale gli errori altro non erano se non inimitabili capricci e i più sordidi vizi non potevano che implicare una sregolata, accesa, appassionante bizzarria?
Menavo una vita di tal sorta, da due anni ormai, allorché giunse all'Università un giovane parvenu, un Glendinning, straricco, si mormorava, come Erode Attico, e come questi pervenuto alla ricchezza senza fatica alcuna. Non misi molto ad accorgermi che la sua intelligenza era torpida e ottusa e, tamburo battente, lo destinai ad essere vittima del mio industre talento. Presi, così, a invitarlo al giuoco e, com'è costume d'un giuocatore che sappia il mestiere, a lasciare ch'egli vincesse delle considerevoli somme per meglio irretirlo. Maturato che ebbi, di poi, il mio piano, mi disposi a coglierne il frutto nell'alloggio d'un nostro comune amico, il signor Preston, il quale - per la verità - non nutriva il minimo sospetto su quelli che erano, realmente, i miei intendimenti. Perché la mia vincita riuscisse più clamorosa, avevo provveduto a far convitare meco altre otto o dieci persone, e che la comparsa delle carte avvenisse in maniera tutt'affatto incidentale, e solo dopo che la vittima stessa l'avesse sollecitata. Non trascurai, insomma, per dirla in breve, alcuna delle astute abbiezioni che si praticano in consimili circostanze e che sono ormai talmente di prammatica da far considerare, per lo meno, molto strano che si trovi sempre della gente pronta ad abboccare.
La nostra riunione s'era prolungata fino a notte alta e ad un dato momento procurai che il Glendinning fosse il mio unico avversario. il giuoco era quello da me preferito: l'écartè. Gli altri, attirati dalle inusitate proporzioni che aveva assunto la nostra posta, s'erano distratti dalle loro partite ed eran venuti a sedersi tutti attorno a noi. Il parvenu, ch'io avevo indotto, fin dall'inizio della serata, ad alzare, come suol dirsi, il gomito, s'era lasciato dominare, a quel punto del giuoco, da un tale nervosismo che nessuna ubriachezza, al certo, avrebbe giustificato. In un lasso di tempo estremamente breve egli m'era divenuto debitore d'una somma ingentissima. Ed al momento che avevo freddamente preveduto, dopo aver tracannato d'un sol sorso, alla barbara, un bicchiere colmo di porto, propose di raddoppiare quella già altissima posta. Io simulai di resistergli, e fu soltanto dopo che il mio ostinato rifiuto lo fece trasmodare a parole quasi ingiuriose - tanto ch'io potevo ben darmi le arie di persona piccata - che accettai quella sua folle proposta. Il risultato fu quale, appunto, avrebbe dovuto essere e fu chiaro, cioè, che la vittima era totalmente irretita. Non era passata per intero un'ora che egli mi doveva una somma quattro volte maggiore. Il suo volto aveva perduto già da qualche tempo la cera fiorente che il vino gli aveva prestata, ma solo in quel punto mi accorsi con grande meraviglia che era sbiancato come per un pallore di morte. E ciò, come ho detto, non fu senza meraviglia dal momento che le accurate indagini da me condotte in precedenza m'avevano appreso come la ricchezza del Glendinning fosse talmente vasta che le somme perdute fino a quel momento, per quanto ingenti potessero essere, non avrebbero dovuto sconvolgerlo né tanto meno deprimerlo a quel modo. Credetti, così, che fosse il vino bevuto. Più per salvarmi, come suol dirsi, la reputazione di fronte ai miei compagni, che per alcun altro interessato motivo, io m'apprestavo, intanto, ad insistere in modo più deciso perché il gioco fosse interrotto, allorché alcune parole, dette al mio fianco tra i presenti e un grido di disperazione sfuggito al Glendinning mi resero noto come io avessi operata la sua totale rovina, e lo avessi ridotto a tanto da essere, per tutti, oggetto di stupita pietà, a tanto che nemmeno il demonio in persona avrebbe ormai potuto più nulla contro di lui.
A quale linea di condotta potei pensare allora d'attenermi è difficile dire. Lo stato, comunque, veramente pietoso In cui sembrava ridotta la vittima aveva suscitato, oltre l'imbarazzo, una sorta di melanconico disagio. Il più assoluto silenzio regno, per alcuni minuti, durante i quali gli sguardi, a metà sdegnati e inquisitori per l'altra metà, che mi venivano dai meno corrotti della compagnia, mi fecero bruciare il rossore sulle guance. Mi sembrò, così, di provare, dapprima, come un senso di liberazione per lo straordinario avvenimento che si diede, improvviso, di lì a poco, a interrompere quell'insoffribile situazione. I battenti della porta, infatti, s'apersero con tale improvvisa violenza che tutte le candele intorno si spensero come se vi alitasse sopra un soffio incantato. Io avevo fatto in tempo, però, ad avvedermi che nella stanza s'era introdotto uno sconosciuto - un individuo che aveva, a un di presso, la mia stessa statura - il quale appariva strettamente avvolto in un mantello. L'oscurità era, per l'intanto, completa ed a noi era concesso soltanto sentire che egli era là, in mezzo a noi. E prima che potessimo riaverci dalla profonda meraviglia in cui ci aveva piombati quella brutale intrusione, si levò la voce dello sconosciuto.
«Signori», egli disse con un leggero ma ben chiaro e indimenticabile mormorio che mi punse il midollo delle ossa; «io non farò le mie scuse per la strana condotta che sono costretto a tenere, dal momento che, portandomi in questo modo, non mi attengo che a uno stretto dovere. Voi non conoscete, al certo, la vera natura della persona che ha vinto, stanotte, un'enorme somma di danaro a Lord Glendinning. Vi propongo, quindi, un modo sicuro e sbrigativo d'apprendere la verità su di lui. Abbiate la bontà di esaminare, se v'aggrada, il risvolto della sua manica sinistra, come pure le tasche, capaci, della sua trapunta vestaglia».
Mentr'egli parlava, il silenzio della stanza era così profondo che si sarebbe udito cadere uno spillo sul tappeto. E com'egli ebbe terminato di parlare, scomparve nella stessa improvvisa maniera con la quale era venuto. In qual modo potrei, ora, descrivere i miei sentimenti di quell'istante? Occorre forse ch'io dica come mi sentii posseduto dai terrori dei dannati? Non ebbi, a ogni modo, alcun tempo per riflettere. Mille mani mi furono addosso nel mentre che i lumi venivano riaccesi. Mi perquisirono. E se nel risvolto della mia manica sinistra si trovarono tutte le principali figure dell'écarté, nelle tasche della mia vestaglia furori rinvenuti numerosi mazzi di carte simili a quelli di cui ci servivamo nelle nostre accolte, salvo che le mie eran di quelle dette arrotondate, secondo che il linguaggio del mestiere definisce una leggera convessione alle estremità degli onori, e ai lati delle altre carte, per cui la vittima, alzando come è l'uso, nella lunghezza del mazzo, era costretta a dare un onore all'avversario, nel mentre che costui, il quale alzava in larghezza, aveva modo di non dare mai alla vittima una carta che gli riuscisse di svantaggio.
Un uragano di sdegno sarebbe stato preferibile al profondo silenzio pieno di significato che seguì quella scoperta.
«Signor Wilson», disse l'ospite mio, nel mentre che si chinava per terra a raccattare un meraviglioso mantello foderato di pelliccia che, per il freddo, m'ero messo sulle spalle uscendo di casa e m'ero tolto non appena raggiunto il teatro del giuoco. «Signor Wilson: questa è roba vostra. Mi sembra superfluo», soggiunse con un amaro sorriso, esaminando le pieghe del mantello, «mi sembra superfluo ricercare, anche qui, nuove prove della vostra industria. Ne abbiamo avute a sufficienza, per la verità. Così che spero comprendiate la necessità di abbandonare Oxford e, in ogni caso, di uscire subito da casa mia!».
Avvilito come ero, e umiliato dalla mia bassezza medesima, avrei avuto la forza, tuttavia, di reagire a quegli insulti con qualche atteggiamento, magari, di violenza, ove la mia attenzione non fosse stata attratta, in quel punto, da un avvenimento eccezionale. Il mantello col quale ero entrato in casa del mio ospite era, secondo ho già rilevato, guarnito e foderato d'una pelliccia rara e preziosa, e tagliato secondo un modello di mia invenzione, dacché in tali frivolezze ero di contentatura difficile e quant'altri mai eccentrico. Nel mentre, dunque, Preston mi porse il mantello che aveva raccolto sulla soglia della stanza, mi sentii gelare per la meraviglia - per non dire dalla paura - nell'accorgermi ch'io avevo già il mio, sul braccio, e che l'altro che m'era porto era, di quello, solo una contraffazione, esattissima nei minimi particolari. Il singolare individuo dal quale ero stato, per mala ventura, smascherato, aveva, secondo ricordavo perfettamente, anch'egli un mantello e, tra gli astanti, io solo ero venuto a giocare con un simile indumento. Come dovevo comportarmi? Cercai di serbare, al massimo, un contegno disinvolto, tolsi in braccio anche il mantello che mi porgeva l'ospite, lo sovrapposi al mio senza farne avveduto alcuno, ed uscii da quel luogo, fulminando in giro un'occhiata di sfida. Era appena l'alba ed io ero già in fuga da Oxford, diretto al continente, in preda a un'agonia d'orrore e di vergogna.
Era invano, però, ch'io fuggivo. Il mio destino di sventura ebbe a perseguitarmi, vittorioso, dando a vedere che in quella tragica notte aveva soltanto cominciato a esercitare su di me il suo misterioso dominio. Non ero ancor giunto a Parigi che già Wilson mi forniva nuove prove del malefico interesse ch'egli aveva preso alla mia sorte. E il tempo passò tuttavia, ed il mio nemico non mi die' tregua. Miserabile! Con quale inopportuna premura e con qual garbo nulladimeno sinistro non ebbe a intromettersi, tra me e il mio orgoglio, a Roma! E a Vienna! A Berlino! A Mosca! In qual luogo mai non colsi un qualche amaro motivo per maledirlo dal profondo di tutto l'essere mio? Io fuggivo, preda del terrore, innanzi alla sua imperscrutabile tirannide come se, a inseguirmi, fosse un'epidemia pestilenziale. In capo al mondo fuggii ma fu sempre invano.
E ancora, chiedevo al segreto dell'animo mio: Chi è? Donde viene? Che vuole? E non avevo risposta. E studiavo le forme, i metodi, i caratteristici tratti della sua arrogante sorveglianza, e nulla potevo trovare che potesse, anche di lontano, schiuderne il mistero. Noterò, inoltre, che in ognuna delle innumeri volte in cui m'attraversò la strada, egli mirò a sconvolgere i miei piani e mutar corso alle mie operazioni, le quali, ove fossero state condotte a buon punto, m'avrebbero pur procurato, sempre, un amaro disinganno. E nondimeno, qual meschina giustificazione non era questa per usurpare quella sua autorità in maniera tanto insolente? Qual gramo compenso per il mio naturale diritto a eleggere la mia volontà, offeso così accanitamente e ingiuriosamente?
Avevo notato, fin dai nostri primi incontri, che egli, pur nella sua scrupolosa e miracolosa destrezza nell'imitare la mia foggia di vestire, ogni volta che veniva a porre un ostacolo alla mia libera volontà, aveva sempre evitato ch'io lo guardassi in volto. Chiunque egli fosse, toccava, in codesto volersi trincerare nel mistero, il colmo dell'affettazione e della stupidità. Maledetto! Poteva egli illudersi che in colui che m'aveva ammonito ad Eton, che aveva distrutto l'onor mio a Oxford, che aveva avversata la mia ambizione a Roma, la mia vendetta a Parigi, la mia passione a Napoli e ciò, infine, ch'egli a torto definì cupidigia in Egitto, poteva egli illudersi che nel mio capitale nemico e malefico genio, io non avessi ravvisato il William Wilson dei miei anni di scuola? Il mio omonimo? Il mio esecrato rivale al convitto del dottor Bransby? Sarebbe stato assurdo. E veniamo, nondimeno, all'ultima scena del dramma.
Avevo, sempre, sino allora, subito passivamente d'essergli soggetto. Il profondo rispetto col quale mi ero abituato a venerare il suo nobile carattere, la maestà del suo sapere, la sua onnipotenza e apparente onnipresenza, in una sorta di paura che m'ispiravano taluni tratti della sua indole, m'avevano persuaso d'esser debole e del tutto indifeso dinanzi a lui e, insieme, m'avevan consigliata una totale sottomissione - per quanta amarezza e disgusto potesse costarmi - alla sua arbitraria dittatura. Negli ultimi mesi mi ero consacrato all'alcool con una assoluta dedizione, con l'effetto ch'io ero reso ogni giorno più insofferente di qualsiasi controllo. Cominciai così, a mormorare, ad esitare, a resistere, infine. Fu forse una follia credere che l'ostinazione di colui che s'era eletto a mio carnefice sarebbe stata attenuata dalla mia fermezza? È probabile che fosse così. E nondimeno io mi sentii, poco alla volta, animato da una nuova speranza e cominciai a nutrir fede, in segreto, che sarei riuscito a liberarmi da quella schiavitù.
Nel carnevale del 18... ero a Roma. Una sera mi recai a un ballo in maschera che aveva luogo nel palazzo del napoletano Duca di Broglio. Essendomi abbandonato, più del consueto, ai piaceri dell'alcool, l'atmosfera soffocante delle sale da ballo, gremite d'una folla variopinta, mi esasperò fino al punto d'essere incapace di sopportarla oltre. Anche la difficoltà d'aprirmi una via tra la calca irritava vieppiù il mio umore. Giacché ansiosamente ricercavo - e ne tacerò l'indegno motivo - la giovane, allegra e bella sposa del vecchio e stravagante Duca di Broglio. Ella m'aveva rivelato - dando prova d'eccessiva leggerezza, a dire il vero - il segreto della mascheratura che avrebbe indossata per quella sera, così che, non appena l'ebbi vista da lungi, già ismaniavo di raggiungerla. Ed ecco una mano posarsi lievemente sulla mia spalla, ed ecco il dannato mormorio - potrò mai dimenticarlo? - penetrare sommesso alle mie orecchie.
Mi volsi, posseduto da un impeto di furia ed afferrai violentemente colui pel suo bavero. Egli aveva indosso, come, del resto, m'attendevo, un costume del tutto identico al mio: un costume spagnuolo in velluto azzurro, con una cintura cremisina stretta attorno alla vita, da cui pendeva una spada. E sul viso una maschera di seta nera.
«Ribaldo!», esclamai con voce arrochita dallo sdegno, che era vieppiù aumentato da ogni sillaba che mi lasciavo sfuggire. «Impostore! Dannato furfante! Quando finirai di seguirmi come un cane? Vien fuori, ch'io ti passi da parte a parte, sul luogo!». E, trascinandomelo dietro, traversai la sala delle danze e lo condussi in un gabinetto attiguo.
Entrando, gli diedi una forte spinta, accecato com'ero dall'ira, ed egli andò a battere contro il muro nello stesso momento in cui, mentre chiudevo, con una bestemmia, la porta, gli comandavo di mettersi in guardia. Sembrò che esitasse. Ma fu l'impressione d'un attimo. Emise un leggero sospiro, trasse la spada fuor della guaina e obbedì all'ingiunzione.
Il duello fu assai breve, per la verità. Sovreccitato com'ero per la sfrenata esasperazione dell'animo mio, serbavo nel braccio il vigore e la potenza di tutt'intera una folla. Lo ridussi contro una parete, in pochi minuti e, una volta a mia discrezione, lo trafissi ripetutamente, nel petto, con ferocia.
In quello stesso istante, qualcuno, di fuori, tentò d'aprire la porta. Per impedire un'invasione, io m'accanii con furia crescente sul mio nemico, per finirlo. E quali parole, tuttavia, potrebbero rappresentar la maraviglia e la paura che in quel punto s'impadronirono di me? L'istante in cui m'ero volto a guardare istintivamente verso la porta, era stato sufficiente perché, nella stanza, si producesse un cotale mutamento nella disposizione dei mobili. Dove un momento innanzi non v'era se non il legno della parete, vedevo, ora, un gigantesco specchio. E come io avanzavo in preda al terrore verso di esso, vedevo venirmi innanzi la mia immagine, pallida nel volto, lorda di sangue, ed il suo incedere era fiacco e malfermo.
Così mi parve che fosse, ma così non era. Era Wilson, era il mio nemico che mi stava ritto davanti, mentre agonizzava. Egli aveva buttato il suo mantello ed ecco, io vidi che non v'era un solo filo nella trama del suo abito, non un sol tratto dei suoi lineamenti tanto caratteristici e originali che non fosse, nel modo più assoluto, mio!
Egli era Wilson. Ma le sue parole non giunsero più al mio orecchio filtrate dal suo agghiacciante mormorio e mentr'egli parlava, io avrei giurato di sentir parlare me stesso.
«Tu hai vinto», egli disse, «ed io cedo. Ma anche tu, fin da questo istante, sei morto ... morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza. Tu esistevi in me ... ed ora... ora che sono morto, guarda in questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso».