LUIGI BÀCCOLO


CHE COSA HA VERAMENTE DETTO
IL MARCHESE DE SADE


4. JUSTINE UNA E TRE

Vita e morte dell'eufemismo

Libertà, per Sade, è anche optare, da parte di chi scrive e di chi legge, fra Justine e Juliette, fra la virtù oppressa e il vizio trionfante. Sono questi, Justine e Juliette, i due nomi più famosi dell'universo sadiano, su cui bisognerà fermarsi un momento. Sade ci si fermò per dieci anni, dal 1787 al 1797, abbozzando, scrivendo, riscrivendo a perdita di fiato la storia esemplare delle due sorelle. Perché tanto accanimento e tanta predilezione, dato che infine la prima versione non uscirà che postuma, e la seconda e la terza le rinnegherà disperatamente, certo sperando di non essere creduto dai posteri? Perché, diciamo, Justine era lui, e lui era Juliette, lui la perseguitata e la trionfante: il grande romanzo è l'autobiografia fantastica e demente di Sade, e il sugo di quella vita.
Esaminiamo un po' da vicino le tre redazioni dell'opera, che designeremo per brevità la 1ª la 2ª e la 3ª Justine.
La 1ª, propriamente Les infortunes de la vertu, fu stesa in poco più di due settimane alla Bastiglia, nel 1787: un breve "conte" filosofico di poco più che cento pagine. Ma già l'anno seguente lo riprendeva ampliandolo sotto il titolo di Justine ou les malheurs de la vertu: due volumi dell'edizione Pauvert. E finalmente, nel 1797, usciva la redazione definitiva e ingigantita, La nouvelle Justine ou Les malheurs de la vertu suivie de L'histoire de Juliette sa soeur, dieci volumi dell'edizione Pauvert. Del resto, la trama della storia, estremamente aperta secondo la tradizione del romanzo settecentesco di viaggi e di avventure, accompagnate passo passo dalle considerazioni dell'autore, poteva prolungarsi all'infinito come la vita stessa, non di un uomo ma dell'uomo.
Siamo, all'inizio di quelle vicende, nel 1775. Justine ha quattordici anni quando, a causa della rovina economica della sua famiglia, deve lasciare il convento e vivere a Parigi una vita di miseria, esposta agli attacchi di ogni sorta di libertini e di mezzane. Ha bisogno di tutti, e fin dai suoi primi passi nel mondo le è cantato a chiare lettere che nessuno dà niente per niente. La prima "benefattrice" incontrata la colloca presso un vecchio usuraio, Du Harpin, presso cui la sua virtù è continuamente in pericolo; fugge, e cade tra le grinfie del conte di Bressac, un invertito criminale. Fugge ancòra, il suo successivo protettore è il chirurgo Rodin, un pazzo che la vorrebbe complice dei suoi disegni incestuosi sulla propria figlia. Sempre in fuga, càpita al convento di Sainte-Marie-des-Bois, dove la lussuria dei monaci la tiene sei mesi prigioniera. Devotamente attaccata alla propria virtù nonostante tutto, se la vede oltraggiata successivamente da un conte di Gernand, un maniaco dei salassi, da un capobanda di falsari, Roland, da un vescovo e da un giudice. E quando un colpo di fortuna la fa incontrare con la sorella Juliette, ricca e felice per non aver seguito la strada della virtù, e ne viene accolta amorosamente; ecco che il Cielo interviene per mettere a posto filosoficamente gli eventi, e durante un tremendo temporale la povera virtuosa Justine, colpita dal fulmine, lascia alla felicità di questa terra la dissoluta Juliette con le sue mal acquistate ricchezze.
Così, per sommi capi, la 1ª e la 2ª Justine. La 3ª parte anch'essa da questo schema ma servendosene soltanto come di un canovaccio: sarebbe inutile qui cercare di seguire l'eroina attraverso avventure sempre più improbabili e diffuse (4 tomi), più da romanzo di appendice che da romanzo filosofico. Incontrandola allo stremo delle sue forze, la sorella Juliette la porterà nel proprio castello non spinta da pietà, ma dal desiderio di umiliarla col racconto (6 tomi) dei propri vizi e del premio che ne ha ottenuto in ricchezze e amori. Alla fine, la sorella malvagia infierisce con i suoi compagni di dissolutezze sul cadavere della sorella buona fulminata dal Cielo che, come nel Bruto Minore di Leopardi, "né giusti e pii la sacra fiamma stringe".
"È morta! - gridano al colmo della gioia gli scellerati - Accorrete, accorrete, signora! venite a contemplare l'opera del Cielo, venite a vedere com'egli ricompensa la virtù." E Juliette accorsa conclude: "In verità, eccomi più che mai confermata nella carriera che ho seguito tutta la vita, O Natura! - grida nel suo entusiasmo - è dunque necessario ai tuoi disegni, questo delitto che gli sciocchi perseguitano! Tu lo desideri dunque, dal momento che la tua mano punisce in tal modo coloro che lo temono o non vi si abbandonano..."
Per chiarir le idee sui diversi procedimenti di Sade nel progressivo accostarsi alla sua "libertà" (di concepire, di scrivere e di predicare), esaminiamo ora un po' da vicino, con una esemplificazione sommaria, l'inizio delle tre redazioni. Si tratterà quasi sempre di un processo di eliminazione o di sostituzione dell'espressione eufemistica, intrecciato tuttavia non di rado con un tentativo di maggior cura sintattica e stilistica disinteressata.
La 1ª, Justine è il trionfo dell'eufemismo: circonlocuzione, preterizione, metafora, metonimia, eufemismo "zero" [Eufemismo zero: "a questo livello di discorso l'educazione, cioè il rispetto reciproco ed il ritegno interiore, impongono che non si parli di una data cosa, comunque la si possa indicare (...) Qui come per il tabu primitivo magico-religioso l'imperativo è quello del silenzio" (NORA GALLI DÈ PARATE5I, Le brutte parole, Mondadori, Milano 1969)]: tutte le malizie suggerite dai retori per celare concetti o vocaboli colpiti dall'interdetto del pudore, sostengono qui una realtà ideologica e morale che non può essere comunicata che per allusioni; abbondano i puntini di sospensione, si fa grande uso di preterizioni: "Oh signora, come rendervi il senso di questa esecrabile proposta? (...) Troppo vergognosa per ripetervi (le parole), la vostra bontà vorrà ben immaginarle" (1ª, pag. 30):
"Consentitemi, signora, di nascondervi una parte dei dettagli osceni che si verificarono in quella prima cerimonia: che la vostra immaginazione si rappresenti tutto ciò che il vizio può in simili circostanze dettare a dei libertini" (1ª, pag. 119).
Nella 2ª, salvo restando il rispetto (coatto) per il lettore, e cioè in sostanza il timore della censura, la pagina si arricchisce di particolari che dicono sempre più chiaramente il genere degli oltraggi cui Justine è fatta segno: dall'eufemismo zero, si passa in genere all'eufemismo per circonlocuzione.
Nella 3ª, l'eufemismo è riportato alla parola violenta; o, se sopravvive, non è più con valore funzionale ma stilistico, giro di frase piuttosto che sostituzione di vocabolo, il suo scopo è di dilettare variando o di farsi gioco della virtù con dichiarazioni buffonescamente virtuose (raccontati con ogni particolare i trascorsi erotici del giovane Bressac, quando sta per arrivare alla scena capitale, la progettata uccisione della madre, Sade esclama: "Qui l'esattezza che ci è legge pesa oribilmente sui nostro cuore virtuoso. Ma abbiamo promesso di essere veri, eccetera" (3a, I, pag. 197), e di accentuare, non che velare, l'indecenza di una situazione; di tendere non a salvare il pudore ma a creare una immagine.
Scendiamo, per quel che ci è concesso, un po' più ai particolari. Esaminiamo il primo periodo delle tre Justine. Nella 2ª, si tratta essenzialmente di eliminazioni di ridondanze e di incisi, al fine di rendere la frase più snella e per ciò anche più persuasiva. Nella 3ª, la correzione è più significativa: la provvidenza (1ª e 2ª) diventa fortuna. È il preannuncio di una lotta che durerà dieci volumi a ogni forma di interdizione linguistica, tutt'uno con la prudenza ideologica. Ma dall'analisi del primo periodo si deduce anche che Sade oramai sente lo spazio illimitato di fronte a sé, con tutto il vocabolario a disposizione, e tempo e carta: perciò accanto alla prima e seconda redazione, lo stile è più abbondante quando si tratti di illuminare e convincere (abbondanza apologetica), e per esempio alla semplice fatalità (1ª e 2ª) si sostituisce "fortuna che si è chiamata di volta in volta Destino, Dio, Caso, Provvidenza, Fatalità...".
Le correzioni e aggiunte hanno dunque, come le cancellazioni, una doppia portata: di esattezza formale, e di precisione concettuale. Per esempio nella 1ª si nota che gli uomini non hanno ancora saputo "definire" la fatalità; nella 2ª, "conoscere né definire", che è un andare a fondo del concetto (gli uomini non sanno esprimere idee chiare su cose metafisiche perché non ne hanno né ne possono avere, come di concetti inesistenti); nella 3ª, più esplicitamente, non possono conoscere né definire la fatalità, tutti i discorsi sulla provvidenza di Dio non servendo che a confondere le facoltà intellettuali ("non apportano alla mente che idee vaghe e puramente soggettive").
Questa, del chiarimento generale del linguaggio e dei concetti, è la sola constatazione evidente e irreversibile che si può fare confrontando le tre versioni periodo per periodo; il resto è discutibile, anzi si può dire che il testo dal punto di vista della resa artistica, alle volte è migliorato alle volte peggiorato.
Proseguiamo con l'analisi del secondo capoverso. Nella 2ª, solito procedimento di snellimento della 1ª. Nella 32, il testo resta sostanzialmente identico, e se il discorso qua e là si snoda più ampio, è per le ragioni anzidette, che Sade, oramai libero, non tanto racconta - cosa che non gli sta veramente a cuore - quanto spiega e persuade: così il "pieno di rispetto per le nostre convenzioni sociali" della 2ª si arricchisce in 3ª di aggettivi non certo esornativi, ma di presa di possesso iniziale dei nuovi mezzi di cui lo scrittore è conscio di poter disporre, e dei nuovi fini della sua opera: "pieno di un rispetto vano, ridicolo e superstizioso per le nostre assurde convenzioni sociali".
Allo stesso modo in 2ª: "i lettori da tali esempi potranno esser spinti al male", si allunga in 3ª di un "finché vorranno", come un preannuncio degli eccessi che seguiranno nei quattro tomi dell'opera.
Nel terzo capoverso della 3ª Justine, Sade pare aver preso abbastanza slancio da scoprire i suoi fini apertamente, e dove nelle due redazioni precedenti si era picchiato il petto sui triste còmpito di descrivere il vizio premiato e la virtù offesa, e sia pure a fin di bene, qui proclama di voler "appoggiare il sistema" dei pessimisti, il successo costante dell'inganno e della soperchieria da parte dei furbi a danno degli schiocchi: il vizio paga, la virtù no. Sade proclama con solennità la sua nuova filosofia, o meglio l'uscir allo scoperto della sua filosofia antica: "Noi non la nascondiamo più" (la portata del male nel mondo). Il che non significa che Sade si rallegri della realtà: semplicemente che ne prende atto, e crede maturi i tempi per "dire la verità".
La conclusione delle relative Prefazioni, caratterizza perfettamente le tre redazioni: la 1ª, asciutta, obbedisce a esigenze strettamente narrative: "con tali sentimenti chiediamo al lettore di prestare attenzione alle peripezie di Justine": Sade scrive per sé, il mondo dei lettori è appena intravisto attraverso le sbarre della prigione - la 2ª, ipocrita: "chiediamo venia al lettore dei sistemi errati e delle situazioni un po' forti", eccetera: Sade affronta per la prima volta il pubblico e si sforza alla prudenza la 3ª, trionfante e ruggente, tono di ‘tutta tua vision fa manifesta’: parla ancòra di "linguaggio cinico", di "idee empie e immorali", ma non per chiedere venia, anzi per annunciare la "coraggiosa audacia" nel rappresentare la verità effettuale, il delitto trionfante e la virtù sventurata.
Alla nuova libertà di linguaggio giova anche, come più volte è stato osservato, il passaggio dalla prima alla terza persona: Justine non si racconta più, è raccontata. In quanto personaggio conta sempre meno, contano sempre più le idee che è chiamata ad esprimere; fin che, coscientemente, Sade arriva alle emblematiche figure di Juliette che si infischiano di psicologia e di verisimiglianza, e si pompeggiano nella loro assurdità di mostri nati da idee. Più niente eufemismi, salvo quelli ‘au contraire’ con funzione esaltatrice non attenuatrice, più niente ipocrisie, di quelle presenti perfino nella 3ª Justine ("Il mostro ha la crudeltà di oltraggiare quella interessante fanciulla", "Gli dèi furono sordi", eccetera): Sade canta a gola spiegata il male e le sue lodi, e questa ebbrezza di libertà gli consente addirittura di ridere qualche volta, di parodiare Sade e il sadismo.
E si avvia piano piano al sistemismo del male, alla esasperazione della sua mania burocratica e se così si può dire classista del vizio: 18 sono i ragazzi, 30 le ragazze destinati ai piaceri dei monaci di Sainte-Marie-des-Bois; i ragazzi sono divisi in tre classi, le ragazze in cinque, secondo l'età, le attitudini, l'impiego. E l'eccesso pedantesco nella descrizione delle orge, fastidioso come sempre in Sade, fa rimpiangere i limiti che si era dovuto imporre nelle due prime redazioni, dove le ragioni narrative avevano ancòra la meglio su quelle "scientifiche" alla Krafft-Ebing.
E infine, per concludere questa sommaria analisi, di certe variazioni diremo solo che sono difficilmente comprensibili. Per esempio, Saint-Florent, il giovane negoziante lionese catturato dai banditi della Dubois, ha 36 anni nella 2ª Justine, 35 nella 3ª; così il bottino dei banditi è di mezzo milione nella 2ª, di 400.000 lire nella 3ª. Non essendo pensabile che Sade riscrivesse a memoria, perché intere frasi sono testuali, come spiegare quelle gratuite correzioni? Forse semplicemente come un alleviamento della noia della ricopiatura, un bisogno di variare non tanto a beneficio del lettore quanto dello scrittore. In tali e simili casi, Sade di solito non fa che peggiorare il testo: per rimanere all'episodio di Saint-Florent, nella 2ª la scena di Justine che decide di fuggire con lui si svolge svelta secondo un ritmo narrativo che asseconda l'avventura; mentre nella 3ª la stessa scena perde ogni efficacia appesantendosi di discussioni col lettore, che sfiorano la goffaggine e il ridicolo: se Justine avesse il diritto di fuggire o no ("lei decise da devota; noi avremmo deciso da moralisti"), come sia concepibile che Saint-Florent non che sentire gratitudine per la povera ragazza che lo ha salvato, mediti anzi di approfittarne, e così via. È il danno, per scrittori come Sade, del troppo tempo e spazio a disposizione, l'invito a seguire capricciosamente il gusto del momento, la rinuncia, che a Sade non costa nulla, al freno dell'arte.
Parrebbe imporsi, a questo punto, un giudizio o almeno una elencazione di giudizi sulla diversa portata delle tre Justine. Ma secondo quali valori, un giudizio? Estetico, o filosofico, o scientifico, o di "mito"? Si sa che per molti Sade è un grande scrittore, per altri un grafomane mediocre; per molti, filosofo profetico (di Freud, Nietzsche, Stirner), per altri un confusionario stiracchiato fra un Illuminismo mal digesto e un romanticismo di bassa lega; imbevuto di concetti scientifici già vecchi al suo tempo, o precursore geniale; mentre il solo discorso più o meno pacifico si può portare avanti sul suo "mito".
È in vista di quel mito, per esempio, che Henri Coulet - nella già citata silloge La Marquis de Sade, edita da Armand Colin - sostiene l'eccellenza della 3ª Justine ("Il mito inventato da Sade non raggiunge tutta la sua grandezza che nella terza versione. Il sadismo è qui alla misura del globo, e lascia indovinare ciò che sarà nella Histoire de Juliette"). Al polo opposto, e nel medesimo volume, Jean Fabre giura sull'eccellenza della 2ª Justine, in cui lo scrittore si sottomette (ma la sottomissione implica una liberazione estetica) alle regole del limite, dello stile, della misura, talvolta con "una eloquenza, un rilievo stilistico che fanno pensare a Pascal".
Il lettore deve scegliere, perché non esiste un "Sade per tutti"; o piuttosto deve " composer" anche lui il risultato poetico con quello "mitico", i quali del resto non sempre e non necessariamente si escludono. Per quel che può contare, noi diremo che il nostro "préjugé favorable" va alla 3ª Justine e, per conseguenza, alla Histoire de Juliette che ne è l'esasperazione: non foss'altro perché la novità di Sade, quella che lo fa "altro" dai pornografi di tutte le epoche, consiste proprio nella mostruosità del suo concepimento e del suo linguaggio, e se è così la 1ª e anche la 2ª Justine non possono non apparire libri monchi e soffocati; senza i torrenti di oscenità e i gridi dementi dei personaggi, Sade è insomma come un Balzac a cui fossero vietate le "esagerazioni" psicologiche del bonhomme Grandet o del barone Hulot, o come un Hugo costretto a contare sulla punta delle dita le sparate delle antitesi e lo sciame degli alessandrini.
Ma poi, come si diceva più sù, una paziente lettura parallela convince che più di una volta Sade è passato dal peggio al meglio, e più di una volta dal meglio al peggio. Quel che non varia, se non nella fiammella che si fa incendio e nel piglio di chi la brandisce, è la sua fiaccola della Filosofia.


LA FIACCOLA DELLA FILOSOFIA: I VIZI E LE VIRTÙ

L'universo sadiano - o la sadità, secondo una bella espressione di J. F. Revel - incomincia come qualsiasi universo da una matrice: di qui la repulsione, complicata forse da un complesso edipico alla rovescia, di Sade per la donna-madre, di qui l'odio per ciò che è, e perciò in definitiva per Dio stesso, il solo che può dire: "Io sono colui che è".
In principio è la natura, che dei quattro elementi forma, scagliandoli nella vita, "l'asino il carciofo e l'uomo"; con identica cura per la loro funzione, con identica indifferenza per il loro fine. "Il principio della vita, in ogni essere, non è altro che quello della morte": vita che si organizza nella matrice femminile, muore, e rinasce "nelle viscere della terra" (Juliette, IV 288). "Triste composizione di elementi materiali", ogni essere vivente è restituito alla materia, spoglia non più nobile degli escrementi "che deponiamo appié dell'albero" (Juliette, v 282). Fra questi due momenti, entrambi apparenti, del nascere e del morire, esistono le passioni, di cui due generano le altre: il desiderio di generano le altre: il desiderio di accoppiarsi e il desiderio di distruggere [La libido e la mortido, approssimativamente]. Sono i cosiddetti ‘vizi’, superiori alle ‘virtù’ (l'abnegazione, la gratitudine, la carità) perché risiedono in un piacere fisico, comune a tutte le creature e incontestabile, mentre alla base delle virtù non è che un diletto morale o "di opinione": perciò al "tribunale della Ragione", dovremo rispondere di tutti i piaceri non consumati (Juliette, IV, 71 e 204). La vita dunque, sinonimo di passione, risiede nel fluido elettrico scorrente nella cavità dei nervi: determinati "sali" esalati dall'oggetto voluttuoso vengono a solleticarlo, e generano l'aspirazione al piacere (120 giornate di Sodoma, II 36): ora, il piacere sessuale tendendo alla propagazione della vita, tende alla morte; ed essendo dunque esso stesso un delitto, si compiace del delitto, secondo le istruzioni e l'esempio della natura: "Distruggi assolutamente tutto ciò che esiste" (Juliette, IV 308). Dalla morte, rinasce la vita, ossia ricomincia il ciclo del contrario che genera il contrario, o del se stesso che genera se stesso. "Tormentate dunque, annientate, distruggete, massacrate, bruciate, polverizzate, fondete, variate infine sotto centomila forme tutte le produzioni dei tre regni; non avrete fatto che servirli" (Juliette, IV 216). Il perfettibile utopico è alla fine ciò che, assurdamente, potrà un giorno entrare nel non-essere. Così Dio, se lo pensiamo come perfezione, non può essere che "colui che non è". Al polo opposto è la donna, colei che è e afferma l'essere.

***

La sadità è un vasto oscuro reame che le donne non amano frequentare. La spiegazione di quell'antipatia o repugnanza, può essere elementarmente evidente: le donne non trovano alcun interesse nel leggere le scritte o i disegni osceni tracciati sui gabinetti pubblici, e l'oscenità di Sade qualche volta è proprio e solamente questo. Inoltre, la condizione della donna nell'opera sadiana è anteriore alla civiltà, o addirittura alla preistoria umana: "Il destino della donna è di essere come la cagna o la lupa: ella deve appartenere a tutti quelli che la vogliono" (Philosophie dans le boudoir, 65); e nello stesso libretto il libertino Dolmancé dice a Eugénie, la giovinetta da corrompere: "È per essere posseduta che voi siete nata". E si tratta di una delle opere più raffinate, quasi salottiere, di Sade. Con assai minor gentilezza, l'eremita Minski in Juliette ammonisce che la donna non è che un animale domestico fatto per essere trattato, dopo il piacere dato, alla stregua di un asino o di un bue non più redditizio; l'amore, insiste monsignor Chigi nel tomo IV di Juliette, è un sentimento "gigantesco" meno atto del disgusto o dell'odio a procurar piacere.
Sono questi i principi elementari del sadismo: complicati in Sade dalla presenza di una mentalità che definiremmo medievale (il corpo femminile "vaso di impurità") che gli fa dire che "gli spiriti maligni nascosti nel corpo di una donna sono mille volte più pericolosi degli spiriti che i preti e i poeti rappresentano nell'inferno" (Juliette, V 268).
Sono le ragioni elementari, e ce n'è d'avanzo, che giustificano la repugnanza delle donne ad accostarsi al Marchese. Ma la ragione più profonda e più grave, è nella coscienza femminile di rappresentare nel disegno della natura l'istanza della vita, mentre all'uomo spetta di rappresentare, anche, quella della morte. Ora, il reame di Sade è retto dall'istinto della morte (solo in parte identificabile con l’ "istinto collettivo della morte", di cui parla Freud). La sodomia del Marchese, s'intende di lui in quanto scrittore, è, prima che deviazione erotica, affermazione filosofica; se è vero che per il "filosofo" settecentesco l'Imitazione della Natura prende il posto della Imitazione di Cristo, e che desiderio della natura è che la specie umana non sia propagata, al fine di poter lei, sola creatrice, "ricreare le prime specie", cioè i primi esemplari viventi (Juliette, IV 136). A tal patto, e per eccezione, anche una donna può essere philosophe, quando concede le vie "antifisiche" per il piacere sterile.
Non c'è dunque vizio, o è vizio anche teleologico, nel dispregio che Sade manifesta spiegatamente per le parti genitali della donna: "queste parti infette che la natura formò sragionando" (120 giornate, I 129), l'antro odioso, "l'atelier del genere umano", un tel local... La ragione di quell'odio e di quel disgusto è meno fisica che metafisica: in quel local, in quella indegna parte nasce la vita. "Combattere valorosamente sotto gli stendardi di Sodoma" (120 giornate, I, 60), significa dunque preparare l'avvento del nulla, e con ciò realizzare il fine ultimo di ogni creazione rivelatasi imperfetta, insieme accondiscendendo alle vie della natura ansiosa di riprendere la sua cieca opera creativa.
Tutta la gran macchina spettacolare dell'erotismo sadiano pretende di operare in questa duplice direzione: non versare nuovo flusso vitale nell' "antro odioso", e distruggere l'esistente. Al primo scopo, provvede l'amore "antifisico"; per il secondo è necessario il delitto. Una lezione cattedratica di Juliette (IV 58) spiegando che il delitto non deve essere concepito nel caldo della passione ma organizzato nella calma, distingue fra i "crimes d'amusement" e i "crimes de necessité": fatti per la plebe i secondi, per i grandi i primi; ma i veri delitti, i soli degni del libertino e del filosofo sono i " crimes gratuits", che sono già il delitto gratuito del Lafcadio di Gide, il male per il male; ma con in più l'intento ultimo - e perciò non del tutto gratuito delitto - di onorare l'idea astratta di distruzione.
E siccome non è possibile distruggere l'intera specie umana e lasciar terra e astri alla loro splendida solitudine (che è ancor vita), occorre dar valore di simbolo a ogni atto criminoso: uccidere la vita nel grembo stesso che la concepisce. È nell'atelier del genere umano che principalmente si accaniscono i libertini - gli uomini liberi, e come tali anche liberatori dallo scandalo dell'esistenza -; per questo quando suppliziano una donna incinta, mettono nell'operazione tutta la gravità di un impegno filosofico e morale insieme, consci di obbedire a una legge fondamentale della natura, e di anticipare il motto anarchico: Abbasso l'esistente!
La sadiana oscenità dell'orrendo si riscatta, nei momenti buoni, in questa cupa e insieme quasi religiosa predicazione del nulla. "Operazione anti-vita", potremmo definire quella a cui si consacrano certi suoi personaggi, uomini e donne: qualcuno, come Leopoldo di Toscana, limitandosi all'aborto e all'infanticidio (Juliette, iv 36 sgg.); altri con maggior consapevolezza della portata simbolica di ogni delitto, sforzandosi di rifare in senso inverso il procedimento stesso della natura. È il caso del brigante Carle-Son che squarcia il ventre della moglie e "a forza d'arte" comprime talmente il corpo della figlia tredicenne da riuscire a farlo rientrare nel grembo che un giorno lo espulse: "È necessario - grida - che tu rientri nella matrice donde uscisti" (Juliette, v 214).
Il ciclo si conclude con il ritorno del contrario al contrario, e andare oltre non è possibile. Resterebbe, a rigore, il suicidio: la coerenza consiglierebbe che, distrutto tutto ciò che è, resta da distruggere se stessi; ed è invece singolare che di suicidi ce ne siano così pochi nella narrativa sadiana, e non si tratti mai di suicidi filosofici da parte della classe dominante (i libertini) ma ogni volta di suicidi-fuga da parte del gran gregge delle vittime. "L'odio universale, scrive Henri Coulet, si arresta alla propria persona del libertino; quando si tratta di lui, egli fa tacere la sua facoltà di odio, si impone una impassibilità che Sade designa col nome di apatia". Ma forse bisognerebbe osservare qui una superiore coerenza, nella coscienza che il libertino ha dell'importanza della propria esistenza ai fini della distruzione del maggior numero o addirittura della estinzione del genere.
Ogni vita distrutta, per il libertino, è una delle teste della mitica Idra: restano le altre, innumerevoli, che non dànno respiro e scoraggiano di fronte all'opera impossibile di tagliarle tutte. La vita finisce col trionfare. Qui è la vera disperazione di Sade (non certo del Sade uomo, che si sforza di salvare teste dal Terrore, oltre la sua propria...): nell'impotenza a distruggere oltre un certo limite, dove la natura si dimostra intoccabile. Quando, nel testamento, chiede che la sua tomba sia ricoperta di terra erbosa affinché anche il suo nome scompaia dalla memoria degli uomini, Sade non fa delle retorica: applica a se stesso il programma di annientamento integrale, che può estendersi fino a quella parvenza di vita che è il ricordo, ma non oltre. Anche se fosse possibile farvi scomparire ogni traccia del passaggio degli uomini, resta il mondo in quanto terra piante minerali. Non si può distruggere tutto questo. Resta l'universo con le sue stelle e i suoi pianeti. Polverizzare la terra, era il sogno della Durand, una complice di Juliette: "Potessi avvolgere il mondo intero nei miei intrighi, lo polverizzerei senza rimorso" (Juliette, VI 76); bruciarla, era il sogno della Clairwil: "Anche se mi fosse concesso di dar fuoco all'universo, ancòra maledirei la natura di non offrirmene che uno solo!" (Juliette, v 280); e Juliette: "Vorrei che l'universo intero cessasse di esistere quando io sono in amore" (Juliette, vi 179).
Che se anche quei sogni si potessero realizzare, altri mondi altri universi rimarrebbero intatti: solo la natura potrebbe autodistruggersi, ma la natura, non che essere libera, è schiava del meccanismo delle proprie leggi. Distruggere il mondo degli uomini! Su quel mediocre sogno si solleva lo smisurato delirio di Pio VI, che discreditando ante litteram la bomba atomica, capace tutt'al più di spopolare questo basso mondo, evoca la visione di "cento milioni di terre come la nostra", fatte intangibili, "messe al sicuro dalla Natura"; si lecca le labbra, papa Braschi, pensando alle grandi imprese che si potrebbero operare lassù: "Sforziamoci di distruggere i raggi dell'astro che ci illumina, sforziamoci di mutare la marcia periodica degli astri… dei globi che vagano nello spazio: ecco i delitti che veramente la offenderebbero, la Natura; ma voi vedete come ha saputo metterli al riparo da noi" (Juliette, iv 297). Ma la immortale sgualdrina ammonisce dall'alto: "Distruggete o create, per me è la stessa cosa", al che il libertino replica dal basso: "Forza cieca e imbecille, so di non essere libero perché tutto quello che faccio torna a tuo vantaggio; ma, mentre a mio dispetto ti giovo, posso bestemmiarti dal fondo del cuore".
La quintessenza della filosofia di Sade è dunque inseparabile dai suoi orrori e dalle sue turpidini erotiche. E addirittura la "strada fiorita della lubricità" non potrebbe essere stata adornata appunto con intento parenetico o propagandistico?

"Così all'egro fanciul porgiamo aspersi
Di soave licor gli orli del vaso:
Succhi amari ingannato intanto ei beve
E dall'inganno suo vita riceve".

I succhi amari di Sade sono quelli della sua filosofia, più quelli del suo delirio erotico. E la verità è che oggi Sade in tanto dura in quanto il soave licore delle sconcezze (perché di sconcezze crudeli e gratuite non di rado si tratta) gli ha permesso di intrattenere filosoficamente lo spettabile uditorio, anzi di allargarlo smisuratamente: un uditorio vario e subdolo e qualche po' sospetto, ma vivo di secolo in secolo. Se la filosofia della Natura possiede ancòra il suo altarino in qualche spirito, fuori dei libri, è per merito di Sade: più che di Holbach, di Helvétius, di Lamettrie, perfino più che di Voltaire e di Leopardi. E d'altra parte: chi ricorda ancòra, oltre gli specialisti e i gelosi custodi dell'enfer delle biblioteche, la pornografia sans conséquence, la pornografia-divertimento dei Dom B. e compagni?
In ogni modo, il problema principale di Sade ci par contenuto in questo dilemma: se e quali scene pornografiche siano da considerarsi alla stregua di esempi a illustrazione della Verità, o al contrario se la Verità sia abbassata a pretesto della pornografia. Se insomma il motto finale di Sade abbia a essere: "Penso, dunque faccio l'amore", oppure: "Faccio l'amore, dunque penso".

***

A questo punto il lettore che non si è lasciato distrarre dalla disparità di tono, sempre evidente nei libri di Sade, dei temi e del linguaggio, non si lascerà scandalizzare se alla sua mente tornano, sbigottiti di trovarsi fra scene e filosofemi tanto orribili, certi versi familiari di Leopardi.
Sade e Leopardi avevano molte idee in comune, molto gusto del filosofare "come una vita"; che è, superfluo dirlo, gusto comune al secolo XVIII. Certe idee-madri, o idee-generatrici, erano nell'aria: riscontri in tal senso sono praticamente infiniti, e dunque stringon poco e concludon poco. Il culto e l'odio per la Natura, il posto del piccolo uomo nell'immenso universo, il viver civile e il viver primitivo, la rottura con l'antropocentrismo medievale, sono luoghi comuni della filosofia dell'epoca. Ma Sade e Leopardi li assumono con un sentimento simile, diverso da quello dei tanti filosofi naturali; li assumono, quei luoghi comuni, con ira e dolore. Cosicché è possibile trovare nei loro scritti immagini e perfino vocaboli identici, tanto più singolari in quanto Leopardi non conobbe mai Sade.
Sottoponendo a esame il fenomeno della vita, Sade e Leopardi procedono fino a un dato momento del discorso con apparentemente identica freddezza, per poi separarsi quando Leopardi, messo di fronte al problema della natura matrigna o di Arimane, chiama in aiuto gli ameni inganni e i possenti errori o la fraternità umana, mentre Sade proprio allora fa la sua scoperta più importante e cioè la necessità del male sia in quanto assecondamento della volontà della natura (‘marâtre’ come in Leopardi, ma in più ‘garce’ e ‘grande putain’) sia in quanto affermazione della libertà dell'uomo (e qui è anche la più appariscente contraddizione della filosofia sadiana).
Leopardi, si sa, ama nutrirsi di interrogazioni e in un certo senso placarcisi; Sade non le ignora, ma le accetta solo a patto di oltrepassarle rispondendo: rifiutando cioè il mistero sia fisico che metafisico. Parla ben anche lui di "questa inesplicabile natura"; ma, da un punto di vista morale, la spiega. In tale spiegazione è del resto il solo momento dinamico di un pensiero rigidamente statico: nelle prime opere la natura è amica dell'uomo (Dialogue entre un prêtre et un moribond, e Justine, I 28: "Ascoltiamo la natura che non ci inganna"), ma a poco a poco si trasforma in una forza "stupida e fatale" che inganna l'uomo (Juliette, iv 241). II suo scopo è la morte che le procura nuovo materiale per il suo gioco (" La natura crudel, fanciullo invitto"...). Le mal la divertit donc? esclama Justine; e Bruto minore:

"Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose? ".

La natura, Dio, il cielo: si tratta di una sinonimia consueta che vuol essere accusa di correità, sinonimia comune in Sade non meno che in Leopardi: come provano, fra l'altro, l'inno ad Arimane del secondo, e del primo il poemetto ‘La Vérité’ scoperto e pubblicato dal Lely nel 1961.
La morte, obiettivo supremo della natura, non è per sé il Male, ma è la prova più spettacolare della volontà di male della natura, e la pietra di paragone dell'uomo: così la morte dell'ateo è uno dei luoghi topici di Sade, come del resto di tutta la letteratura materialistica del Settecento, e la morte bellissima fanciulla è uno dei luoghi topici di Leopardi. L' "uomo al punto" incontra la natura invece di Dio, e cerca di sminuire dignitosamente la propria sconfitta proclamandosi vincitore: Morte, dov'è la tua vittoria? I cadaveri canori di Federico Ruysch, affermando che la morte è "piuttosto piacere che altro", concordano con Juliette, che la morte è "une volupté" in quanto soddisfazione di un bisogno o istinto posto in noi dalla natura stessa. E tuttavia, in Leopardi è piuttosto lo scandalo della morte ("Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre"...); in Sade, assai più conseguentemente, predomina lo scandalo della vita e della sua continuazione: i delitti dei personaggi sadiani sono tutti riducibili a uno schema unico, il rifiuto di tollerare un'esistenza già condannata dalla natura, ammirabile ma non amabile forza. "Natura illaudabil meraviglia", responsabile di questo arcano universo "il qual di lode / Colmano i saggi, io d'ammirar son pago": ‘Sa marche périodique me plait sans m'étonner’.
Lo stupore, i due filosofi lo riservano all'uomo, che sia così vuoto di ragione da considerarsi centro dell'universo e oggetto di sentimenti da parte della matrigna che lo ha creato: anche Voltaire dice suppergiù le medesime cose, ma il tono, che conta, è simile solo in Sade e Leopardi, tra ammirazione e rancore. In Juliette, c'è una prosopopea della Natura che ricorda abbastanza da vicino i dialoghi Della Natura e di un'anima e Di un Islandese; dice infatti la Natura all'uomo: "Ti ho scagliato nell'universo come scaglio il bue l'asino la pulce e il carciofo" (IV 307). Con simile spirito, benché addolcito dall'amor di vita che non lo abbandonò mai, Restif de la Bretonne diceva in quegli anni che la nostra reverenza per la natura, quasi che lei si curasse della nostra presenza, è così buffa come se vedessimo i nostri pidocchi e le nostre pulci cimici eccetera, "turibolo in mano", prosternarsi davanti a noi cantando inni e salmi. E Voltaire: "Il comandante della nave del Re si preoccupa forse della sorte dei topi nella stiva?". Solo che Sade e Leopardi assumono la situazione tragicamente, e cioè polemicamente: come si diceva, con ira e dolore. Il forsennato orgoglio della "Ginestra" è quasi letteralmente le ‘sot orgueil’ dell'uomo, "che rimarrebbe ben stupito se vedesse, dopo la distruzione totale della specie umana, nulla mutare nella natura, e il corso degli astri neppur ritardato". Lo gnomo del dialogo leopardiano dà già il fatto per avvenuto, la terra senza vita, mentre "le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare e non ban preso le gramaglie". "Forma e distruggi a tuo talento" - dice la natura in Juliette: - "in ogni modo si leverà il sole, e tutti i globi che ho sospeso e dirigo nello spazio conserveranno il loro corso".
Certi accostamenti suonano anche più precisi. "Né scolorò le stelle umana cura", esclama Bruto minore; e Sade: "La specie intera potrebbe annientarsi, che né l'aria ne sarebbe meno pura, né l'astro meno brillante, né la marcia dell'universo meno esatta". E il tono di lamentazione interiore, e di scandalo, par quasi identico quando Bruto vede la luna sorgere sull'Italia in rovina, placida come allorché illuminava i memorandi allori di Roma; e quando, su un'orgia immonda di cadaveri di sperma e di sterco, Juliette vede spuntare l'alba: "L'astro del giorno, lungi dallo stupire dei nostri eccessi, mai si era, credo, levato più bello dal giorno che rischiarava il mondo" (Juliette, V 217).
E per restare al carme leopardiano di più aperta protesta, ci pare che il grido di Bruto contro la stolta virtù sia abbastanza vicino (intendendo sempre quanto al tono, che in definitiva solo conta in simili accostamenti) al lamento di Léonore, la sfortunata eroina di Aline et Valcour, una più allegra e meno perseguitata Justine: "Douce vertu, est-ce la peine d'encenser tes autels?"; e addirittura, il fulmine che incenerisce Justine nelle tre redazioni del romanzo, ci pare intriso dell'amarezza leopardiana:

"Quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi? "

E c'è poi io strano fascino dei vulcani, creature di violenza cieca e spettacolare: il vulcano della Ginestra e, certo meno significante, dei Paralipomeni; e il vulcano di Sade, quello del ‘Voyage d'Italie’, quello presso cui e in cui Juliette e Lady Clairwil compiono gli atti più osceni e uno dei più cerebrali delitti, eccitate dalla vicinanza del fuoco sterminatore; e c'è poi l'amore per le tempeste (anche Juliette, come Saffo, avverte più di una volta l'eccitamento del mondo sconvolto), in cui solo una semplificazione professorale potrebbe veder nient'altro che una generica aura preromantica.
Leopardi ignorava forse anche il nome di Sade. Ma, oltre le coincidenze che abbiamo sottolineato, avevano in comune un pessimismo che investiva i rapporti con la natura e con gli altri uomini, un pessimismo che nel secolo dell'Enciclopedia dà un suono a parte, come di un filosofare largamente contaminato con l'esperienza dolorosa del vivere; e per esempio c'è un pensiero del Leopardi, famosissimo, che potrebbe servir da epigrafe all'intera opera di Sade: "Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi", pensiero che prosegue con il trionfo dei birbanti e l'avvilimento dei buoni: la prosperità del vizio e le sventure della virtù.


"UNA POSTILLA: SADE SALVATO"

Senza paradosso. È da stupire che Sade non abbia trovato più benevola indulgenza da parte della Chiesa, o diciamo delle Chiese, che non ne sia stato accolto quasi come un figlio, certo pericoloso quanto ai costumi, ma sostanzialmente salvabile quanto al pensiero, per ateo e blasfemo che possa essere. E non intendiamo alludere alla ipotesi di un salvamento in extremis (l'abate Geoffroy, aumônier di Charenton, uscendo da una visita al morente parve al dottor Ramon "se non edificato, quantomeno soddisfatto della visita"): intendiamo proprio la sostanza dell'opera. Lasciamo da parte gli "orrori" che toccano piuttosto i costumi che la fede; lasciamo da parte ii pittoresco delle bestemmie contro Dio o la chimère déifique che a rigore possono anche interpretarsi come manifestazione di un appassionato e doloroso amore - è la tesi del Klossowski, definita dalla de Beauvoir "un sofisma", e del resto rinnegata più tardi dallo stesso Klossowski -; ma la sostanza del pensiero sadiano sulla natura, sul "mondo" per servirsi del linguaggio ecclesiastico, non sembra forse tutta ortodossa, addirittura medievalmente ortodossa?
Lasciamo per questo parlare i testi. Dalla ‘Marchesa di Gange’, dove la ferocia dei malvagi, per essere rappresentata con accenti più casti, non è meno mostruosa che nei romanzi neri, vien fuori intatta una tesi non nuova a Sade: che il vizio è perennemente premiato, la virtù perennemente punita. Ciò che prova, dice l'autore, l'esistenza di "un mondo eterno dove finalmente Dio ricompenserà la virtù". "Non esiste una morale senza religione", sentenzia madame de Chàteaublanc, la madre della Marchesa. E la rappresentazione del male in letteratura, è esplicitamente detto, ha lo scopo preciso di dimostrare che se tale, così orrendo, è il mondo senza Dio, costituisce esso stesso la prova che quel Dio esiste: che anzi deve esistere. La possibilità di una morale che da sé in sé riceva ogni giustificazione, in altre parole di una morale autonoma o laica, Sade la scarta rigorosamente, e con convinzione genuina, preferendo affidarsi alla ragione, in cui ha fede con il suo secolo: e la ragione lo ammonisce che, se Dio non esiste, l'uomo non può ragionevolmente essere che malvagio. Donde il mito del "cattivo selvaggio", a cui abbiamo già accennato.

Dall'assenza di Dio, discendono ragionevolmente tutti i déréglements dei sensi, le passioni elementari e le mostruose: nessuno anzi più di Sade ha picchiato ostinatamente sul chiodo che ateismo e virtù non sono conciliabili (se non nei deboli e negli imbecilli). Dice per esempio lo scellerato Noirceuil a Juliette per indurla a un'azione nefanda (Juliette, VI 271): "Quando si ha trent'anni e dello spirito, e si è privi di pregiudizi, di religione e di Dio... mi sembra ben strano che si possa domandare se una cosa è lecita o no".
Non si poteva impostare in modo più intransigente il contrasto fra la Natura e Dio, fra il male reale e il bene ipotetico; e l'odio che tutti i critici hanno sottolineato nell'opera di Sade, a partire da un certo momento, contro la natura, dovrebbe indurre a concludere che Sade finisce per prendere le parti di Dio, e che la Nouvelle Justine e la Histoire de Juliette sono in definitiva una sorta di Apologeticum.
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Non si dovrà arrivare fin là. Ma arrivare almeno a sottolineare che il compiacimento del male in Sade è assai meno persuasivo che lo scandalo del male: lo scandalo del giusto perseguitato e dello scellerato premiato, dell'infame Juliette che finisce i suoi giorni ricca rispettata e felice, e della virtuosa Justine vituperata e polluta da tutti gli uomini, e infine folgorata dalla natura in collera. Lo sdegno per tutto questo, Sade lo ha senza dubbio sentito. E non significa edulcorarlo, cercar nei testi le tracce di quello sdegno. Nell'ira soffocata con cui il cardinal de Berths (Juliette, iv 128) parla di Dio, tenero padre la cui famiglia è fatta di infelici, sovrano giusto sotto cui regna il male allo stato puro. In certi discorsi con cui Juliette commenta di quando in quando le proprie imprese criminali: "Ed ecco come il delitto si diverte dell'innocenza, avendo dalla sua credito e ricchezza, e non restandogli più da lottare che contro la sventura e la miseria" (Juliette, iv 240). 0 nell'invettiva, il cui fondo è amaro, di Noirceuil contro Dio: "Infame jean-butTe di Dio! Non limitare così la mia potenza, quando io voglio imitarti commettendo il male" (Juliette, vi 324).

Quello sdegno è certamente una delle chiavi per aprire l'universo di Sade. Non si dice la sola, ché allora Sade non sarebbe più Sade, non ci offrirebbe cioè quell'equivoco ininterrotto con cui, per larga parte, ci prende e tiene stretti, e pare far posto di pagina in pagina al compiacimento puro e semplice dell'episodio libidinoso, alla denuncia delle conseguenze di un mondo abbandonato agli uomini, al culto degli eroi del male, e del bene, all'ammiccamento furbesco verso il lettore che ha preso troppo sul serio quella filosofia, a un senso .acre e cupo del "peccato".
Nel senso del peccato, poi, Sade vive a tal punto immerso, che ne ha bisogno quantomeno come stimolo erotico: ha bisogno cioè della costante coscienza di infrangere una legge, e di ricordarsela nel momento in cui la infrange. Non si può essere meno serenamente atei di così, e se ne ricorderà il La Lande che escluderà senza remissione Sade dalla setta degli atei diciamo benpensanti [Nel Second supplément au Dictionnaire des athées, del 1805. V. la citazione nel Dialogue etc., pag. 9 dell'ed. Pauvert]. Render testimoniananza cosciente di quell'Essere che offendono, è uso dei grandi scellerati sadiani: Olympia Borghese, nel momento dell'estasi erotica, prega la compagna delle sue perversioni così: "Vorrei che tu mi parlassi di Dio"... Non sembra la parodia del verso manzoniano: "Parlatemi di Dio, sento ch'ei giunge"?
Insomma, Sade è lontano dall'essere quel monolito quale fa comodo pensare, e con lui è opportuno non mai lasciarsi impigrire il cervello. Con lui, il paradosso e il divertimento del lettore non cessano mai, purché sempre si appoggino su cose vere. Eccone un esempio. Perseguitato dalla sventura tutta la vita, anzi "il più sventurato degli uomini" come protesta il suo epitaffio, Sade si considerava dunque un "virtuoso", stando al suo schema classico della virtù punita e del vizio premiato? Donde si potrebbe inferire che la sua filosofia non fu tanto l'inno al vizio trionfante, quanto il lamento funebre sulla virtù umiliata e offesa, e in definitiva sulla miserabile esistenza del povero Sade.


LA QUARTA JUSTINE

Dopo quel 1797, l'anno della Nouvelle Justine e di Juliette, molte altre fanciulle sono venute al mondo (letterario) con il sangue dell'una e dell'altra sorella nelle vene, cercando attraverso il sesso umiliato o trionfante lo scandalo. La produzione libresca o di film oggi ne è piena fino al delirio, e alla barba: lettori e spettatori non tardano a sentirci odore di una artificiosa scaltrezza, così lontana dall'aura libera e demente che circola fra le avventure genuine delle due sorelle famose. La sola eccezione, forse, a questa volgare volgarizzazione, è nei 4 volumi del Quartetto di Alessandria di L. Durrel (1957-1960).
Una più seria progenie - e per ciò meno facilmente riconoscibile - era venuta al mondo nel corso del secolo scorso che, ignorando o fingendo di ignorare l'infame Sade, non aveva però mancato di riproporre il suo universo sotto apparenze più accettabili, tacendone l'origine. Così Jean Paulhan nel suo famosissimo saggio La douteuse Justine, può affermare che è abitudine, da centocinquant'anni a questa parte, di frequentare Sade "attraverso interposti autori": Nietzsche, Kafka, d'Aurevilly, Mirabeau, Chateaubriand. André Breton, nella sua testimonianza al processo intentato a Pauvert editore di Sade (1956), aggiunge, tra i discepoli occulti, Lamartine, Baudelaire, Swinburne, Lautréamont, Apollinaire...
Ma esiste una sorellastra dimenticata, sorellastra nemica del resto, e quasi coetanea di quei due personaggi del 1797, che merita un cenno qui: si tratta di Conquette-Ingénue, l'eroina dell'Anti-Justine di Restif de la Bretonne, venuta al mondo letterario un anno dopo soltanto, il 1798. Se a un determinato livello l'oscenità ha delle gradazioni, questo è ben il più osceno scritto che mai sia stato pubblicato: tale era del resto l'intento morale dell'autore. Abbiamo detto bene: morale; perché Restif, che non era andato molto al fondo dell'universo sadiano, leggeva il Marchese come un disadorno apostolo della crudeltà erotica, e superandolo in oscenità (se è possibile), ma oscenità di buona compagnia, intendeva porgere ai lettori un antidoto al veleno di Justine. Sono stato in dubbio, dice Restif, se questo romanzo "non possa fare altrettanto male quanto l'Opera infernale alla quale si vuol farla servire come contravveleno. Non sono abbastanza privo di buon senso da non sentire che l'Anti-Justine è un veleno: ma sarà anche il contravveleno della fatale Justine? (... ) L'Autore ha inteso allontanare dalla crudeltà, dalla sete di sangue e della morte della donna posseduta: ci è riuscito?
Il suo scopo è di rianimare i mariti stanchi per farli godere delle loro mogli con gusto, aiutandosi con un mezzo capitolo della presente Opera"...
Restif racconta dunque la storia, abbastanza scucita, di un Monsieur Cupidonnet, alias Restif stesso, e delle sue prodezze amatorie: tre volte padre a quattordici anni, seduttore felice della figlia Ingénue e di innumerevoli altre ragazze, a cui fa provare non la tortura ma le delizie dell'amore. Sade è sempre presente, vituperato e denigrato ("esecrabile figuro!" - è detto di un vecchiaccio crudele - "vero de Sades"... e: "Gli orrori alla Sade sono facili a presentare; è nella pittura della dolce voluttà, che consiste il capolavoro del Genio"), ma anche imitato o meglio parodiato nella figura di un mostruoso monaco che violenta e uccide tutte le donne che incontra. Ma a parte la solenne proposizione morale ("la pubblicazione della concorrente antidotale [di Justine] è urgente, e io mi disonoro volentieri agli occhi degli Sciocchi dei Puritani e degli Irriflessivi per far cosa utile ai miei Concittadini"), letterariamente l'antidoto è in genere troppo più debole del veleno: Restif il plebeo, il contadino inurbato e andato a scuola dai Giansenisti, in certi argomenti non sa andare oltre l'oscenità grezza; il dominio della filosofia e dell'erotismo resta privilegio dell'aristocratico Sade, che osserva dall'alto dei suoi tempia serena gli accoppiamenti e le follie, con libidine mai scevra da disprezzo; Restif sta nel bel mezzo del suo mondo sordido, anzi lo osserva dal buco della serratura, o nascosto sotto il divano, sbavando ogni volta sentimenti e stile.
Quel che incanta, nei suoi personaggi femminili, è il contrario della dura consapevolezza del male di Juliette e di Justine: è la loro sfrontatezza infantile, col piacere legato continuamente al fattore economico. Dice Ingénue al padre che l'ha posseduta: se voi foste ricco, rinuncerei al matrimonio per consacrarmi tutta al vostro piacere; invece devo sposarmi per non esservi a carico (pag. 30). E quel che incanta in Restif (qui, come nel Monsieur Nicolas e nelle altre opere maggiori) è la sua indecifrabilità, la mescolanza, fino a che punto ingenua?, del tono serioso e sinceramente edificante nel bel mezzo di situazioni oggettivamente libidinose o comiche: il tono inconfondibile di Restif, scrittore tanto sentimentale quanto Sade è restio all'ignominia dei sentimenti in amore. In tal senso, l'AntiJustine è veramente l'antidoto di Justine. Un solo esempio, fra i mille che non si possono citare. Cupidonnet e Montencon si congedano da Ingénue, seduta sui bidet dopo l'orgia: "Noi la salutammo così rispettosamente come avremmo salutato una Dea benefica, e uscimmo" (pag. 79). II rispetto è sincero, sincero è il tono "religioso" di fronte alla femminilità; l'amalgama di quella Dea e di quel bidet, è la cosa inimitabile che si chiama Restif. Restif è l'anti-Sade, e Sade sarà stato felice di sopravvivergli per quasi dieci anni, e sia pure in prigione.
Tanto più povera e monotona, c'è però neIl'Anti-Justine una trovata che avrebbe fatto gola al Marchese: l' "uomo con la coda", nato da un incrocio della specie umana con le scimmie intelligenti dell'istmo di Panama e di Borneo, un amatore abnorme che sogna di ripopolare il mondo [La trovata però non è nuova, anzi doveva essere una situazione tipica della letteratura e dell'anedottica licenziosa, se la troviamo anche in quel mediocre libretto che è l'Erotika Biblion di Mirabeau].
E qui si inserisce, nel romanzo osceno, un contrasto profondo e serio, tra Sade che sogna l'estinzione della vita e Restii che teorizza, nell'Anti-Justine e altrove, della santità dell'amore in quanto datore di vita. Il maschio-padre di Restii è un lato - l'altro è il maschio-distruttore di Sade - in cui si riflette la così ricca e contraddittoria società filosofica del Settecento. Juliette, qui Restif lo ha ben capito, non viola la legge morale tanto per i suoi eccessi, quanto per il suo odio dell'esistente: l'antidoto sono dunque le 27 donne, tutte incinte, dell'harem dell'uomo con la coda; l'antidoto, è lo stesso Restif vecchio che sotto il Terrore raduna quanto più può delle sue innumerevoli figlie sparpagliate per Parigi, e le spedisce in massa a Caienna invitandole a ripopolarla generosamente; è ancòra Restif che, nel Monsieur Nicolas, farà le sue due ragionevoli proposte: 1) per rimediare allo spopolamento provocato dalla guerra, si diano a ogni uomo due spose, e poiché la Marina consuma più uomini della media, sia permesso a ogni moglie di marinaio imbarcato di fare un paio di figli "con un bravo giovane designato a ciò dal marito" (M.N., iii 50); 2) i direttori spirituali delle monache, invece di imporre loro una castità che offende la Natura, le aiutino a procreare altri piccoli direttori spirituali, e non privino ces jeunes nonnettes "di una deliziosa prolificazione che addolcirebbe il tedio della loro solitudine" (M.N., iv 206).
Perfino l'incesto, che in Sade ha sempre il senso provocatorio di una violazione di tabù e di una azione blasfema, in Restif è, se così si può dire, atto di fede nelle possibilità illimitate del procreare. A pag. 34 dell"Anti-JustinÈ, Ingénue prega Dio, con devozione non finta, perché benedica l'incesto. L'incesto è del resto un'ombra inquietante che si distende su molta parte della letteratura e delle vicende dei secoli xvii e xviii in Francia: si pensi ai rapporti di Chateaubriand con la sorella Lucile; a Monsieur de Récantier che sarebbe stato in realtà il padre della moglie Juliette (qual nome!); a Molière, di cui si è lungamente sostenuto che avesse sposato Armande Béjart sapendola sua figlia. "Non dimentichiamo", commenta J. Rives Childs nel suo eccellente Casanova, "che siamo nel secolo xviii, una delle epoche più frivole e corrotte della Storia, un'epoca in cui uno dei più alti dignitari della Francia e della Chiesa romana, il cardinale de Tencin, commetteva incesto con la sorella".
Lasciamo dunque Sade in buona compagnia, non molto peggiore del suo secolo, se non nella fama che lo ha imposto come il "mostro" per eccellenza - e oramai per antonomasia.