LUIGI BÀCCOLO


CHE COSA HA VERAMENTE DETTO
IL MARCHESE DE SADE


6. II TEATRO O LA VIRTÙ PREMIATA

ANCHE CHI non ha del marchese de Sade che un'idea di seconda mano, ha potuto apprendere alla fortunata rappresentazione di Peter Weiss, Marat-Sade, come il vecchio impenitente riempisse gli ozi del manicomio di Charenton con la sua passione teatrale, dirigendo spettacoli in cui gli alienati fungevano da attori, e lui, qualche volta, da autore. Di quella singolare produzione non è rimasto pressoché nulla, ma alcuni couplets scritti in occasione della visita a Charenton dell'arcivescovo di Parigi nel 1812, ci consolano della perdita. Eccone uno, riportato dal Lely a pagina 651 della sua biografia: "Semblable au fils de l'ternel, / Par une bonté peu commune, / Sous l'apparence d'un mortel / Venant consoler l'infortune, / Votre me pleine de grandeur, / Toujours ferme, toujours égale, / Sons la pourpre pontificale / Ne dédaigne point le maiheur".

E tuttavia era stata, quella teatrale, la grande passione di Sade, il quale, mentre pubblicava anonimi i suoi grandi romanzi, sulla gloria teatrale puntò fino all'ultimo, e di quello scacco non arrivò mai a consolarsi. Già, in una lettera dal carcere di Vincennes, parlando della sua tragedia Jeanne Laisné, Sade arriva a riconoscersi un difetto, cioè che le sue pièces hanno cento versi in più di quanto consenta la regola del genere; ma per il resto invoca a testimoni del suo buon diritto Aristotele, Orazio, Boileau, Molière e Beaumarchajs. Al suo antico maestro, l'abate Amblet, che aveva giudicato con severità i suoi tentativi, Sade

"Simile al figlio dell'Eterno, / Con una bontà poco comune, / Sotto l'apparenza mortale / Venendo a consolar l'infortunio, / La vostra anima piena di grandezza / Sempre ferma ed eguale, / Sotto la porpora pontificale / Non disdegna la sventura".



indirizza l'aprile del 1784 una lettera polemica che pare un trattatello scolastico di arte e versificazione teatrali, iracondia di autore a parte ("voi avete attinto i vostri colori da una tavolozza irrorata di fiele"). Accoglie correzioni stilistiche e formali; ma si impunta sul valore poetico che è convinto di aver realizzato, e dopo aver citato una mezza dozzina di alessandrini, taglia corto col piglio del nobile settecentesco che si rivolge all'abate proletario: "Questi sono e saranno dovunque dei bei versi, e per niente prosastici". Ora, si tratta di versi di ordinaria ordinarissima amministrazione. Come della più vetusta convenzione dell'arsenale letterario è il seguente distico, che a lui pare contenere "uno dei meno scadenti pensieri che gli sia venuto di fare": La mort, en flétrissant une beauté si pure / Aurait craint d'outrager les lois de la nature, pensiero neanche più nuovo in Petrarca quando la applicava alla sua antenata (sua, di Sade) Laura.

Ma ambizioni di successo a parte, Sade travedeva a tal punto sulle sue composizioni teatrali, da far supporre che quel cibo solum sentisse suo, e che i romanzi neri a cui ha legato nome gloria e infamia, siano stati non altro per lui che una sostituzione, un remedium concupiscentiae del successo sulle scene. "Mi è impossibile - scrive ancòra in quella lettera all'Amblet - resistere alla mia inclinazione, che mi trascina mio malgrado per quella strada; e si faccia quel che si vuole, non si riuscirà a distogliermene". Nel vizio teatrale, testardamente intrattabile non meno che nel vizio erotico; e non meno orgogliosamente convinto della propria unicità. Per quest'ultimo, la sua unicità è difficilmente contestabile; ma quanto al teatro, le sue non erano che ingenue vanterie, da vero "uomo di lettere" quale gli piaceva qualche volta firmarsi: come quando proclama di aver scritto più commedie di quante ne abbiano scritte gli autori alla moda, e di aver pronti canovacci per commedie altrettante e più. Non aspetta insomma che un po' di successo per scatenarsi; ed è fra gli aspetti malinconici e tragici di quell'uomo che la tragedia la portava con sé,

che la sua vasta ambizione si sia conclusa risibilmente sul palcoscenico di un asilo per alienati.

Del resto, se appena liberato si caccia deciso nel movimento rivoluzionario, di cui resta convinto solo a metà, si può scommettere che non è tanto nella speranza di veder spalancarsi le braccia della giustizia al popolo di Francia, quanto le porte dei teatri al cittadino Sade. Famelico di successo dopo tanti anni di attesa, scrive a tutti i teatri offrendo commedie a fasci; gliene respingono una, ne offre altre tre o quattro; arriva a chiedere, l'8 brumaio dell'anno viii, che la patriottica tragedia di Jeanne Laisné sia imposta "di autorità", allo scopo di eccitare i nostri bravi soldati che stanno opponendo il petto ai nemici della Rivoluzione. I direttori di teatro rispondono con convenzionali letterine, in cui il rifiuto si indora come suole di qualche generoso complimento a monsieur le marquis; l'attrice Julie Candeile, più femminilmente scaltra, indora il proprio rifiuto con ragioni morali che nulla hanno a vedere con l'innocentissima trama: "La gente radunata in teatro è tanto più severa sui costumi rappresentati quanto meno lo è nei privati". Nel 1813, a un anno dalla morte, il vecchio di Charenton insiste ancòra con i direttori di teatro: raccomanda il suo tesoro, nel quale pateticamente credeva di esser destinato a sopravvivere. Ma Le suborneur, rappresentato il 1 marzo 1792, era stato un'apoteosi di fischi.

Eppure, il teatro Sade lo aveva veramente nel sangue. Il tragico, il comico, il buffonesco lo tentavano, nello scrivere non meno che nella vita. E non è insultare alle sue sventure, affermare che il Marchese fu poi per molti aspetti un personaggio comico, cioè teatrale e istrionico. "Un buon commediante", abbiam visto definirlo dalla implacabile suocera. Sul palcoscenico, intanto: giovane gentiluomo, lo aveva calcato on successo in teatrini privati, lo calcherà ancòra fra attori professionisti nella maturità rivoluzionaria, e infine qui, fra i dementi di Charenton. Apollinaire, non so da quale fonte, assicura che Sade "era un bravo attore che si distingueva soprattutto nelle parti di amo-
roso". E sui palcoscenico della vita. Quando Sade, dopo quattro anni & prigione, si mette a fare il geloso con la moglie; o quando parla con tenerezza paterna dei suoi "petits choux", i figlioletti orbati della protezione del genitore; o quando rievoca, con indiavolata vena di linguaiolo, fasti e nefasti dei piaceri passati con La Jeunesse; o quando fa il galante con mademoiselle de Rousset, fra madrigali e sconcezze; o quando abbandonandosi a deliri dell'immaginazione sogna di scorticar della vecchia pelle peccaminosa la suocera, e poi di buttarla nell'acqua bollente - si tratta, ogni volta, di sentimenti autentici, o non piuttosto di sentimenti mimati? in cui naturalmente finisce col credere lui stesso, come quella volta che nel sonno agitato di Vincennes dice & aver veduta Laura, fresca uscita dal Canzoniere petrarchesco per invitarlo ai celesti riposi.

Altrettante interrogazioni a cui se si rispondesse categoricamente, si distruggerebbe insieme la vera personalità del Marchese, che è questo e il suo opposto e molte altre cose ancòra.

***

Ma rimaniamo al Teatro. Il solo pezzo & grande vena

che Sade abbia scritto, gli squisiti dialoghi della Philoso-

phie dans le boudoir (l'iniziazione & una ragazza da parte di due consumati libertini, Dolmancé e Madame de SaintAnge) appartiene al genere "teatro da camera", nonostante un recente tentativo & rappresentazione a Parigi.' Diciassette commedie e tragedie, in versi e in prosa, giacciono per ora manoscritte negli archivi del marchese Xavier de Sade: l'editore Pauvert ne ha promesso la pubblicazione in volume, ma chi conosce Il sedicente filosofo, un atto

E una recentissima parodia - Phil et Zophie dana le boudoir

- rappresentata l'estate del 1970 al rhéâtre du Lucernaire di Parigi: spettacolo, dice Jacques Lemarchand, "di una estrema indem

cenza", ma anche "estremamente spiritoso e divertente".

JflUi7&fl+bL SL

unico fatto conoscere dal Lely nel 1966, non ha gran curiosità di conoscere il resto.

Se mai il discorso dovrebbe estendersi dal Teatro come genere letterario alla costruzione intimamente teatrale di tutta intera l'opera sadiana, e in particolare della Nouvelle Justine, di Juliette e delle 120 giornate di Sodoma. Concepite e condotte secondo la tecnica narrativa, queste opere sono poi, almeno nelle parti erotiche e filosofiche, vere e proprie azioni drammatiche: c'è la Compagnia che recita o mima l'azione, composta da un numero variabile di "comici" generalmente divisi in vittime e carnefici (ma tutti impegnati a seguire rigorosamente un immaginario copione), c'è il primo attore e la prima attrice e le comparse, c'è la rappresentazione suddivisa in scene disposte in calcolato crescendo, c'è il regista, il grande libertino di turno. La messinscena è studiata con cura in ogni particolare, come del resto è regola di ogni rappresentazione erotica. C'è perfino il numero di strip-tease, con quelle due ragazze che si spogliano "par gradation" durante una fastosa cena a Villa Albani in Roma (Juliette, iv 151). E c'è perfino la nuda scenografia astratta e surrealistica, magia senza attori basata interamente su di una "mécanique" che esclude parole, volti e contatti umani, e del corpo stesso tutto ciò che non serva alla lussuria: un gran velo nero, da cui emergono in un assoluto silenzio parti di corpi, innominabili (Juliette, v 307). A voler appena generalizzare la varietà di quelle azioni teatrali, si può senza forzare i testi arrivare a vederci addirittura una suddivisione delle parti secondo la convenzione del melodramma: le scene liriche (che sarebbero gli episodi erotici), i recitativi (la preparazione narrativa di quegli episodi, la creazione di una atmosfera di attesa), le grandi romanze e i Cori (confessione déi personaggi, disquisizioni filosofiche). Ed è ad ogni momento proclamata la funzione ineliminabile degli spettatori, senza la presenza dei quali lo stesso erotismo, che per Sade è sempre esibizionistico, smarrisce la sua carica scandalistica, il suo senso di propaganda o apologia
di un modo di pensare e di agire, di sistema che ha bisogno del palcoscenico e della platea per incarnarsi in figure: "Bisogna che il mondo frema apprendendo il crimine che abbiamo commesso"; "bisogna costringere il mòndo ad arrossire di appartenere alla nostra medesima specie" (Juliette, v 165).

Del resto, la natura teatrale dell'erotismo a tal punto è legata alla rappresentazione in Sade, da far capolino perfino nei romanzi "onesti". Valga un esempio: nei Crimini dell'amore (iii 166), la giovane Eugénie de Franval viene presentata agli occhi cupidi di Valmont su una specie di palcoscenico girevole che ne offre lentamente tutte le bellezze.

Abbiamo lasciato per ultimo Oxtiern, un po' per tradizionale ossequio al "dulcis in fundo", un po' perché è la sola pièce in cui Sade tenti di portare alla luce il suo mondo sotterraneo, sia pur rinnegandone la coerenza dal timido inizio al vile lieto fine. Veniamo dunque alla piccola cronaca di Oxtiern ou Les m"1hears du Libertinage, "dramma del più vivo interesse e profondamente patetico", in cui "regnano sovrani il terrore e le scene a fosche tinte", come avverte Sade con voce da imbonitore offrendo il lavoro al Théâtre Français.

Verso la fine dell'ottobre 1791, ii Marchese scriveva al notaio Gaufridy col tono gongolante dell'autore neorappresentato: "Finalmente sono apparso in pubblico, caro avvocato (... ) E' stato rappresentato un mio dramma, il cui successo è stato incerto a causa delle cabale, dei disturbi e delle donne di cui ha sparlato (... ) Si replicherà il 29: pregate per me". Le preghiere chieste dal Principe degli Atei al discretamente onesto notaio di Apt furono evidentemente ascoltate, se Oxtiern, presentato dunque la sera del 22 ottobre al teatro Molière di Parigi con il risultato che si è detto, ebbe successo schietto alla ripresa, il

4 novembre dello stesso 1791; riferisce infatti Apollinaire il seguente passo del Moniteur del 6 novembre: Oxtiern è stato rappresentato con successo. Si tratta di un dramma che non manca di interesse né di energia; ma il personaggio di Oxtiern è di una atrocità rivoltante, più scellerato di Lovelace e più vile, non certo più amabile". Sade dovette accontentarsi di quel mezzo successo, che fu il primo e anche l'ultimo della sua malinconica carriera teatrale: Oxtiern fu rappresentato ancòra una volta a Versailles il 13 dicembre del 1799 - l'autore vi interpretava la inconsistente figura di Fabrizio - e quel medesimo anno appariva in volume, a Versailles "chez Blaizot", insieme ai quattro torni dei Crimini dell'amore. E fu tutto.

Storia breve per una lunga ambizione e un grande amore. Né se avesse potuto lanciare uno sguardo sui posteri, Sade avrebbe trovato di che rallegrarsi: non ci consta che il dramma sia più stato portato sulle scene; ' né che un qualsiasi critico abbia mai osato, nemmeno il fedelissimo Lely, alzare un dito per difenderlo. Anche Gian Piero Brega, che con Guido Piovene, Giovanni Macchia e pochissimi altri italiani merita un posto di rilievo nella critica

Tuttavia il mese di aprile di questo 1970, l'ENAL di Milano ha chiesto di poter rappresentare, nella traduzione da me fattane, il dramma di Sade. Del quale ecco brevemente la trama. Il conte Oxtiern, senatore svedese, vuole piegare alle proprie nefande voglie Ernestine, figlia del colonnello Falkenheim, e si serve a tale scopo della collaborazione del suo amico e confidente Derbac. Ma l'onesto Fabrice, proprietario della locanda in cui il falco ha portato la colomba, avverte il vecchio padre di Ernestine e il di lei fidanzato Herman, delle trame del Conte. Costoro giuran vendetta. Herman è imprigionato da Oxtiern, ma il vecchio sfida a duello il seduttore. Senonché Ernestine, vestitasi da uomo, vorrebbe affrontare lei il Conte; e viene attaccata, nelle tenebre della notte, dal padre che la crede Oxtiern. A evitar la tragedia interviene all'ultimo momento Herman, liberato da Fabrice, che uccide con un colpo di pistola Oxtiern, e finirà con lo sposare la colomba uscita illibata dagli artigli del falco. "Ho fatto del mio denaro il migliore uso..." conclude l'onesto Fabrice; "punire il delitto e ricompensare la virtù... mi dica qualcuno se è possibile collocare il proprio denaro a un più alto interesse!".
sadiana, si sbriga di Oxtiern con due righe di legittima severità. "Drammi scialbi e innocui", scrive Vito Pandoffi delle pièces sadiane in generale nella sua Storia universale del Teatro drammatico.

Eppure, i personaggi c'erano: Ernestine e il Conte, almeno, non svaniscono nel nulla come gli altri. La fierezza della donna, l'atrocità cerebrale e vile dell'uomo hanno un risalto che non pare inferiore a consimili figure di Sade; e certe battute ci paiono efficaci anche se rievocano, come una lontana reminiscenza, accenti shakespeariani: "Il sole cesserebbe di rischiararci, se un tal misfatto avesse insidiato il suo animo", "Possa il tuo sangue spargendosi non bagnare la terra, ché ne farebbe germinar delitti", "Il sole è meno puro da quando illumina la tua esistenza"... Debole è la tecnica teatrale, il dialogo. E fin che i due protagonisti si puntellano l'un l'altro, si procede alla meno peggio; il guaio è quando si fa il vuoto attorno ad essi, e si trovan costretti a dialogare col nulla, cioè con i puri nomi che son Fabrice, il Colonnello, Amelia cameriera di Ernestine. E' un problema di strutturazione dialogica che Sade non ha saputo risolvere, nonostante l'appoggio di "Ernestine", il precedente racconto da cui il dramma è derivato. Vero è che altrove aveva scritto: "Calibano non è fatto per le nostre scene", e che per conquistarsi la Comédie Francaise era ben deciso a voltar le spalle agli eroi del Male e al Male stesso, fino a proclamare in Jeanne Laisné: "Ah! la prosperità non è mai nel delitto"; ma lui stesso poi, nei migliori racconti dei Crimes, aveva dimostrato come scelleratezza lussuria e crimine fossero perfettamente narrabili e anche teatrabili, suscettibili dunque di avere un pubblico non clandestino. Varrà, chi abbia curiosità di farlo, un parallelo di Oxtiern con Ernestine": ora, tutto quel che c'è nel racconto -e lo fa tanto più completo e potente: il personaggio voglioso e lascivamente crudele della Scholtz, innamorata di Herman e tramante col Conte la rovina dei due innamorati; la fine tragica di Ernestine, disonorata mentre il suo amante è giustiziato,

e uccisa poi in combattimento col padre ignaro; la condanna di Oxtiern ai lavori forzati nelle miniere, la sua redenzione finale - tutto si dimostra rappresentabile, e con quei personaggi e quelle situazioni le battute consistono e si fan sentimento vitale.

La debolezza di Sade uomo di teatro non fu dunque di fronte al timore dello scandalo, ma dell'insuccesso o più semplicemente del rifiuto da parte dei direttori di teatro: la conseguenza fu il fallimento artistico di colui che edulcorava se stesso pensando agli applausi del pubblico: i quali, come avviene, gli furono poi negati per sovrammercato.

Alla crudeltà, all'incesto, all'amore antifisico" Sade non poteva vietarsi di mirare; ma si illudeva di poterli raggiungere per interposta persona, ossia attraverso personaggi che moraleggiassero nel momento di agire, con la speranza forse che i pochi spettatori profondi capovolgessero quei discorsi e penetrassero "intus et in cute", per le commessure del dialogo, nell'universo nero dell'autore. L'universo nero, e il solo vero, di Sade, occorre ripeterlo, aveva bisogno per esprimersi della solitudine. Per sopportare Oxtiern, bisogna spremerne gli ammiccamenti del Marchese; conoscere, attraverso le altre opere, il meccanismo delle passioni, che fanno di Ernestine una vittima, ma vittima a un certo momento complice e quasi victime beureuse alla maniera di Justine, simbolo del sado-masochismo sadiano - e fanno del Conte il malvagio-filosofo che collabora con la natura alla distruzione della vita; e fanno degli evanescenti Fabrice eccetera i sub-uomini troppo abbrutiti dalla virtù per servire anche solamente da vittime.

Più un uomo è sprofondato in un universo grave, più sente la necessità di essere, a momenti, un dilettante: addirittura qualche volta si convince in buona fede che la vera vita è altrove, appunto in quel suo essere dilettante. Ora, nessun personaggio della Storia è stato mai più profondamente grave, di Sade; donde le sue debolezze per quel suo povero hobby che gli fu il Teatro.