FERRUCCIO BUSONI

IN RICORDO DEL DOTT. W. MAYER

Nachruf für Dr. W. Mayer. B.41, H.191. In «Allgemeine MusikZeitung», Berlino, XXV, n. 8, 25 febbraio 1898 (col titolo Dr. Wilhelm Mayer).



Il 23 gennaio è spirato, all’età di 67 anni, il compositore e didatta di musica dott. Wilhelm Mayer, conosciuto sotto lo pseudonimo di W.A. Remy. Nato in Boemia e allievo del conservatorio di Praga, si trasferì, ormai musicista compiuto, a Graz, dove trovò la sua seconda e ultima patria. All’inizio vi diresse il Musikverein, ma presto abbandonò questa posizione per dedicarsi completamente all’educazione di giovani studenti di musica riuscendo a riunire intorno a sé una cerchia di talenti di grandi aspirazioni sempre maggiore.
Sono usciti dalla sua scuola, tra l’altro, Weingartner, Kienzl, Heuberger, Rezniček, Sahla e molti altri musicisti in patria assai stimati. Chi scrive, che pure fu suo allievo, ricorda il delizioso godimento che gli offrivano le lezioni di Mayer con gratitudine e malinconia. Egli sapeva avvicinare i suoi discepoli con un’esposizione piena di spirito e di forma perfetta, la sua cultura universale gli permetteva di spiegare, ornare e vivificare gli esempi musicali e di storia della musica con riferimenti alla storia della cultura, con appropriate caratterizzazioni degli autori e infine con le sue proprie e originali osservazioni marginali, in parte oggettive, in parte scherzose e in parte poetiche. Sebbene data la sua età e la sfera d’azione esternamente ristretta cui apparteneva non fosse in grado di accettare tutto ciò che i tempi nuovi proclamavano, sebbene, quale pacifico cittadino del suo proprio mondo artistico ideale, non volesse più prender parte alle battaglie che si combattevano fuori un grande amore, una venerazione sconfinata, una fede incrollabile lo animavano, da deporre per sempre, come sua eredità nello spirito e nel cuore dei suoi scolari: l’ammirazione per il genio di Wolfgang Amadeus Mozart. Quando pronunciava questo nome, la sua fisionomia geniale prendeva l’espressione di una confidenza e di una gioia quasi paterne, mentre l’occhio tradiva un estremo stupore interno. L’aver egli saputo imprimere in noi con tratti così profondi l’immagine di quest’uomo, è forse da considerare l’opera più grande di Remy, per i suoi allievi, ad ogni modo, la più fruttuosa.
Come nell’esposizione, così pure in quanto compositore dominava la forma e l’espressione in modo sicuro e intelligente. Per la sua tendenza andrebbe certo annoverato tra i romantici, ma il suo modo di sentire non rinnegava del tutto le sue origini slave.
Scrisse cinque sinfonie, un lavoro di considerevoli proporzioni per canto e orchestra, Waldfräulein, il ciclo di liriche Oestliche Rosen (con accompagnamento di due pianoforti), uno Slavisches Liederspiel e molte altre opere di pregio, in parte singolari, le quali data la sua straordinaria modestia per la maggior parte non sono state pubblicate né eseguite.
È anche da attribuire alla sua modestia il fatto che Remy, sebbene diverse persone abbiano ripetutamente tentato di convincerlo a farlo, non si sia mai deciso a mettere nero su bianco un suo trattato di composizione, e così a produrre un libro teorico d’argomento musicale dei più stimolanti.
Accanto a Mozart, Bach occupava nel suo cuore il posto più alto; e nell’analisi, nella spiegazione e nell’interpretazione poetica dei preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato egli era inesauribile.
Per esempio designava i quattro primi preludi come i «quattro elementi», acqua, fuoco, terra, aria; chiamava il tema della fuga in do diesis maggiore la farfalla che si posa sul fiore, e sazia se ne vola via a zigzag. La grande fuga in si bemolle minore del secondo volume era per lui «il duomo di Colonia», a causa dell’architettura che tende verso l’alto e della «lavorazione a traforo» che egli paragonava alla ornamentazione dello stile gotico.
Il quadro che egli tracciava del tema della fuga in mi minore è di un bonario umorismo: diceva che parte fulmineamente verso l’alto, «come un razzo», cade lentamente a terra e (negli intervalli di settima diminuita alla fine) lascia dietro a sé uno strascico maleodorante. Interpretava l’inizio frammentario del Finale della Sinfonia Eroica come «le pietre che vengono ammucchiate per costruire il monumento dell’eroe»; monumento che poi veniva «scoperto» nel largo adagio che precede la coda.
A chi scrive manca lo spazio e sopra tutto la capacità letteraria per delineare un ritratto completo, particolareggiato e tangibile del suo maestro. Quel che gli importava era di far rivivere il ricordo dello scomparso, di accompagnarne la dipartita con una parola affettuosa di gratitudine e di venerazione e di deporre sulla sua tomba un ramoscello di alloro.